Ciro da venerdì è dottore in filosofia. È un detenuto "fine pena mai" Il Mattino di Padova, 16 dicembre 2013 Nella biblioteca "Tommaso Campanella" della Casa di reclusione di Padova si è laureato venerdì in filosofia Ciro Ferrara, relatore il professor Giovanni Catapano, presidente di commissione il professor Antonio Da Re. Ciro ha 53 anni, oltre la metà passati in carcere. Appartiene alla categoria degli F.P.M., "Fine pena mai" (questa è la formula per dire "ergastolo"). Non essendo per lui possibile uscire, per la discussione di laurea è entrata la commissione, così come era accaduto per gli esami. Erano presenti il direttore, il personale dell’area educativa e la polizia penitenziaria, oltre a volontari, insegnanti, sacerdoti e operatori che da anni lo accompagnano nel suo lungo percorso dentro la cultura. Dalla quarta elementare... alla laurea... in carcere Quando Ciro ci ha proposto, non potendo uscire, che la cerimonia e discussione di laurea si svolgessero nella biblioteca, di cui lui è il referente nella sua sezione, non abbiamo esitato: per noi era un piacere e un onore che lui si laureasse proprio in questo luogo, anche per l’idea, e la pratica, che abbiamo, di cosa può/deve essere una biblioteca, in particolare in un mondo complesso come il carcere: un posto dove si respiri aria di cultura e di dialogo, di incontro. Quale posto migliore (intendiamoci... ‘dentro’) per laurearsi, per chi come Ciro dichiara che al mattino gli piace svegliarsi con l’odore non del caffè ma dei libri? La laurea di Ciro è stata per tutte le persone, numerose, presenti, una grandissima emozione, in qualche momento vicina alla commozione: la discussione, la proclamazione e le strette di mano, le foto e la torta, la tensione e la felicità di Ciro, il discorso di speranza per il futuro del direttore Salvatore Pirruccio, il messaggio davvero affettuoso e caldo della squadra della Polizia Penitenziaria in servizio nella sezione, la partecipazione affettuosa di tutti coloro che assistevano al momento simbolico della laurea dopo aver accompagnato Ciro, con ruoli diversi, in anni di impegno, dalla quarta elementare alla laurea. Forte anche l’argomento della tesi, e della discussione: il "tempo", tra Sant’Agostino e Aristotele, l’esistere (o non esistere) di passato, presente, futuro... Un tema straordinariamente intenso per chi ha "fine pena mai". Rossella Favero, Cooperativa AltraCittà "Adesso sono il dottor Ferrara" Di solito, nella vita, si rimane spesso delusi, oppure la si disprezza, si spreca, la si butta al vento, o si vive solo pensando al proprio piacere. Si desidera sempre chissà cosa, ci si aspetta sempre tutto o troppo dagli altri. Si è portati a pensare cosa gli altri possono fare per noi, ma, forse, mai cosa noi possiamo fare per loro. Anche se fossimo le persone più povere, più sole, più sfortunate, più stupide, avremmo, se solo volessimo, tanto da donare ad ognuno, anche alla persona più triste, più sola, se solo donassimo un sorriso, offrissimo comprensione, accoglienza, disponibilità. Per fare ciò non c’è bisogno di nulla, solo alla base di tutto è indispensabile una goccia di amore! Parlo di amore perché so che sto scrivendo perché mi legga chi non conosce il carcere e desidero che le persone del mondo esterno sappiano che in data 11 c.m. ho sostenuto la discussione della tesi di laurea in filosofia e sono stato proclamato dottore, io Ciro Ferrara, col massimo dei voti (110). Descrivere questo indimenticabile evento mi è difficile in quanto ho percepito una letizia e un fervore che non riesco a spiegare, perché ho ravvisato quel brivido, lo dico per te che leggi, che è l’amore. Una forza superiore al dolore e a ogni rancore o rimorso. L’amore solo potrà salvare questo mondo. Ma bisogna credere e affidare a lui i nostri angoli più bui, quegli angoli che ancora tengono in ostaggio la gioia, la solidarietà, così come l’umanità e la fratellanza, tutte inclinazioni che ci portiamo dentro ma che non vediamo. Un brivido fatto di coscienza e responsabilità, verso se stessi ma soprattutto verso chi ti sta intorno. Ogni nuovo giorno è un giorno in più per amare, un giorno in più per sognare e un giorno in più per vivere. Ciro Ferrara Dagli agenti di Polizia Penitenziaria un messaggio "forte" per Ciro nel giorno della laurea Noi coordinatori del 7° blocco, e in rappresentanza degli agenti di Polizia Penitenziaria appartenenti allo stesso, vogliamo spendere due parole per Ciro Ferrara. Oggi, per lui, è sicuramente un giorno importantissimo. Oggi c’è la rivalsa da una vita travagliata, il sogno, concretizzato, di un passato vissuto al limite. Non sta a noi giudicare cosa è stato, ma, sicuramente, abbiamo l’obbligo e la volontà di discutere il presente. Ed il presente è, per Ferrara, il riscatto da tutto ciò. Ma la sua vittoria è la nostra vittoria, la vittoria delle istituzioni. Egli, con il suo risultato, ha posto in essere quello che è uno dei fondamenti della nostra attività lavorativa: il reinserimento. Lo studio è stato l’anello di congiunzione tra ciò che si vive all’interno delle mura e la società "cosiddetta" civile. Nel nostro piccolo abbiamo cercato di dargli il mezzo, Ferrara è stato un ottimo Autista per uscire dal tunnel del passato; sta ad altri, adesso, fare in modo che il sogno di vedere la luce in fondo ad esso, si realizzi. Vorremmo, a tal proposito, dedicargli una frase di Nelson Mandela: "Nessuno è nato schiavo, né signore, né per vivere in miseria, ma tutti siamo nati per essere fratelli". Dagli agenti del 7° blocco va il nostro più sentito augurio e un grande in bocca al lupo al Dott. Ciro Ferrara. Agenti del 7° blocco Ciro Ferrara e la filosofia Le prime volte che, come volontario impegnato nel polo universitario in carcere, incontrai Ciro Ferrara, scherzando sul suo nome che ripeteva quello di un famoso giocatore gli chiesi come mai al calcio preferiva la filosofia. Col passare del tempo mi accorsi che Ferrara studiava sul serio, dedicandosi interamente con tenacia e lucidità in uno sforzo quotidiano davvero sorprendente, e non solo per riscattarsi da un passato di semianalfabeta, ma animato da una vera e propria passione per il sapere per se stesso, come necessità del proprio intimo. Chi frequentava il piano dei detenuti di Alta Sicurezza lo vedeva dallo spioncino di una stanzetta di pochi metri quadrati chino sui propri appunti, dietro una pila di libri, divenuti i compagni abituali. Quella commovente dedizione conquistò gli stessi agenti in servizio, che dirottavano i colloqui dei volontari e degli altri operatori su altri spazi per non costringerlo, come capitava a volte, a lasciare libero quell’angolino tanto bramato. La sua voglia di sapere, di apprendere anche dalla viva voce dei più fortunati di lui gli permise di stabilire un bellissimo rapporto coi volontari e soprattutto coi tutor universitari, che lo incontravano periodicamente passando anche ore per dialogare su questioni di studio, per fornirgli chiarimenti sui libri d’esame che gli portavano. Ferrara non è il primo dei detenuti di Alta Sicurezza che hanno raggiunto la laurea: altri come lui sono impegnati negli studi universitari. È questo un motivo d’orgoglio in primo luogo per la direzione e il personale del carcere, che favorisce lo studio nonostante i condizionamenti e le restrizioni imposte dalle normative, ma anche per la nostra Università e per i docenti e i tutor impegnati nell’assistenza e negli esami, e per quei volontari che credono nella cultura come strumento di crescita civile e di redenzione. Giorgio Ronconi Ci sembra giusto aggiungere questa piccola nota in margine alla laurea di Ciro. È bello pensare che i volontari hanno contribuito a rafforzare quel ponte che lui andava costruendo con il mondo esterno: da anni ormai il Polo Universitario impegna studenti, docenti, tutor, operatori interni e volontari e ognuno dà il meglio di sé, ottenendo spesso risultati superiori a qualsiasi aspettativa. Allora, assieme ad un grande "bravo!" a Ciro, riflettiamo su quante altre persone detenute potrebbero davvero crescere e cambiare, se le forze in campo fossero più numerose e riuscissero ad aumentarne le opportunità. Gruppo Operatori Carcerari Volontari Giustizia: carceri, amnistia e indulto, facciamo il punto sulle novità della settimana www.businessonline.it, 16 dicembre 2013 Polemiche su carceri e amnistia: le posizioni. Matteo Renzi, neo Segretario del Pd, e la Lega sono contro le proposte di amnistia e indulto, ma "Amnistia e indulto sono provvedimenti assolutamente necessari, e per questo sono d’accordo con la Marcia per l’amnistia del 25 dicembre" ha detto il senatore del Nuovo Centrodestra Roberto Formigoni. "La partenza da San Pietro è giusta, perché sappiamo che i Papi si sono sempre pronunciati per dedicare attenzione al mondo delle carceri, carcerati e agenti, che spesso hanno problemi non diversi da quelli dei carcerati. E da Palazzo Chigi, dal governo, e soprattutto dalle forze politiche, ci aspettiamo un atto forte. Non potrò essere presente fisicamente, ma aderisco idealmente". E ha concluso "Il Parlamento assumerà le sue decisioni ma siamo pronti per quello che riguarda il governo, siamo la patria di Cesare Beccaria e lo dobbiamo dimostrare". Le misure su indulto e amnistia sono questioni che stanno suscitando diverse polemiche, da quando il ministro della Giustizia, Anna Maria Cancellieri, ha annunciato misure per una nuova riforma delle carceri che prevedrebbero anche amnistia e indulto per chi ha compiuto reati minori. Questa novità andrebbe a accompagnarsi ad altre misure come le otto ore di aria per i detenuti, con la possibilità di praticare anche attività sportive e musicali; il potenziamento dei contatti con le famiglie; la creazione di ulteriori posti, con 4500 nuovi posti per maggio 2014 e 12 mila posti in piu entro il 2015; e la possibilità di norme che prevedano, soprattutto verso la fine della pena, "la restituzione degli stranieri al loro Paese d’origine perché completino là il percorso". Sulla questione indulto e amnistia è intervenuto anche il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che ha esortato: "Il Parlamento si assuma le sue responsabilità e scelga: vari entro maggio un provvedimento che alleggerisca il sovraffollamento carcerario, primo fra tutti l’indulto, oppure abbia il coraggio di dire chiaramente che non è necessario anche di fronte alla sentenza della Corte di Strasburgo che ha condannato l’Italia per violazione dei diritti umani". Giustizia: in cerca di verità su Federico Perna e Stefano Cucchi, vittime di carcere di Laura Piangiamore Giornale di Siracusa, 16 dicembre 2013 Chiede giustizia Nobila Scarufo, madre di Federico Perna, trentaquattro anni, tossicodipendente affetto da epatite C e cirrosi epatica, morto l’otto novembre scorso nel carcere di Poggioreale a Napoli. Pretende di essere ascoltata la madre di Federico e lotta perché giustizia sia fatta, perché si chiariscano le cause e le circostanze che hanno portato alla morte del figlio. Federico era detenuto da tre anni, durante i quali era stato spostato in diverse carceri, per giungere, infine, presso la struttura penitenziaria di Poggio Reale dove avrebbe dovuto scontare numerose pene. Nobila Scarufo non si da pace, continua a chiedersi perché suo figlio, gravemente malato, sia stato trattenuto in carcere invece di essere trasferito in una struttura ospedaliera nella quale ricevere le cure necessarie. La madre di Federico sostiene che al figlio siano state negate tali cure. Denuncia inoltre la tragica condizione in cui i detenuti delle carceri italiane sono costretti a vivere. Pochi metri quadrati di cella in dieci, dodici persone. Anche i detenuti, in quanto esseri umani, hanno bisogno che vengano rispettati i loro diritti, certamente quello dell’assistenza sanitaria. Nobila Scarufo sostiene che il figlio avrebbe subito numerosi pestaggi durante la sua permanenza nel carcere di Poggioreale. Fu lo stesso Federico a confidarglielo durante uno dei loro colloqui. Questo è quanto dichiara la madre. La donna ha quindi deciso di diffondere le foto del figlio deceduto, sul lettino dell’obitorio, così come avevano scelto di fare i genitori di Stefano Cucchi. La signora Scarufo il 2 dicembre scorso è stata ricevuta da Giovanni Tamburino, capo del Dap, dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Inoltre il ministro della giustizia Annamaria Cancellieri ha disposto un’indagine amministrativa interna per far luce sulla morte del trentaquattrenne, Federico Perna ed assicurare alla giustizia gli eventuali colpevoli. La storia di Federico non può non ricordarci quella di Stefano Cucchi, trentun’ anni. Un destino simile il loro. Stefano viene arrestato la sera del 15 ottobre 2009 perché trovato in possesso di qualche grammo di erba, sembrerebbe nell’atto di spacciarla presso un parco della città di Roma. Viene quindi decisa la custodia cautelare ed il giorno successivo Stefano viene processato per direttissima. Morirà sette giorni dopo, il 22 ottobre, durante un ricovero presso la struttura protetta dell’ospedale Pertini. La famiglia Cucchi deciderà, in seguito alla morte, di rendere pubbliche le foto di Stefano morto. Il volto tumefatto e scarno, la mascella rotta, il corpo scheletrico. La famiglia di Stefano vuole sapere cos’è successo al figlio in quei sette lunghi giorni. Stefano stava bene, sostengono, e non riescono a credere che il loro figlio si sia spento, in sette giorni, all’improvviso. Sette giorni durante i quali i famigliari non hanno potuto vedere il figlio. Sette giorni per morire. Dopo quattro lunghi anni, il 5 giugno scorso la Corte d’Assise ha condannato sei medici dell’ospedale Pertini ed assolto invece altri sei tra infermieri e guardie carcerarie. La Corte ha inoltre stabilito che Stefano Cucchi morì per malnutrizione. Una sentenza che la famiglia Cucchi ha definito ingiusta. Il 22 ottobre sembra sia stato raggiunto un accordo tra i familiari di Stefano e la struttura sanitaria Pertini di Roma, la quale corrisponderà alla famiglia un risarcimento per la morte di Stefano. Lo stesso giorno , in occasione del quarto anniversario della sua morte, è uscito il libro che racconta la storia di Stefano, Mi cercarono l’anima. L’autore è un giovane ragazzo di Lecco, Duccio Facchini. Un destino atroce quello di Federico e di Stefano. Bisogna render loro giustizia e adoperarsi affinché non si dimentichi mai che i detenuti, in quanto esseri umani, hanno diritto ad essere trattati come tali. Giustizia: Amnesty International; sul reato di tortura in Italia non ci siamo di Stefano Pasta Famiglia Cristiana, 16 dicembre 2013 In Parlamento da mesi è in discussione un disegno di legge sul reato di tortura. L’Italia non l’ha mai avuta: una grave lacuna rispetto agli impegni con le Nazioni Unite. Ma la proposta attuale, secondo Amnesty International è ancora "inaccettabile". Il perché lo spiega il presidente dell’associazione, Antonio Marchesi. Durante la campagna elettorale, Amnesty International aveva pubblicato l’Agenda per i diritti umani in Italia, sottoscritta da tutti i leader dei principali schieramenti e da 117 parlamentari. Il primo dei dieci punti era "Garantire la trasparenza delle forze di polizia e introdurre il reato di tortura". A nove mesi di distanza, in Senato è in discussione un disegno di legge sull’introduzione del delitto di tortura nel codice penale, ma, secondo l’associazione, la definizione che propone è "inaccettabile". Ne parliamo con il professor Antonio Marchesi, presidente di Amnesty Italia e docente di Diritto internazionale all’Università di Teramo. Perché è necessario introdurre il reato di tortura? Non è sufficiente l’attuale legislazione? "Vi è prima di tutto una ragione di ordine formale: ratificando la Convenzione contro la tortura del 1984, l’Italia si è impegnata con le Nazioni Unite a "criminalizzare" gli atti di tortura, ma questo reato è presente solo nel codice militare, nei codici ordinari rimane un concetto sconosciuto. In questi anni, infatti, i Governi hanno dato un’interpretazione "minimalista" degli obblighi internazionali: va bene che le cose rimangano così - si è detto - purché i fatti che sarebbero sanzionati dal reato di tortura siano coperti da altri reati generici. Peccato che proprio questo meccanismo abbia portato alla depenalizzazione di fatto, con un’interpretazione funzionale alla sottovalutazione del fenomeno. Occorre invece sottrarre questi fatti all’ordinaria amministrazione, dando risposte giuridiche specifiche ed adeguate. Per altro, la Convenzione Onu prevede non solo l’obbligo di punire, ma anche come punire, con forme di giurisdizione più ampia, anche extraterritoriale, nello spirito della giurisdizione universale sui crimini contro l’umanità. Ebbene, con la mancanza tipizzazione del reato di tortura, anche altri obblighi a cascata non possono essere rispettati". Può fare degli esempi di processi in cui la mancanza del reato di tortura è stato un problema? "In uno dei due processi sul G8 di Genova, quello relativo alle violenze nella caserma di Bolzaneto, sono stati gli stessi pubblici ministeri a dire che i fatti rientravano nella definizione internazionale del reato di tortura, ma, a causa della lacuna della legislazione italiana, dovevano chiedere una condanna per reati minori come l’abuso di ufficio. Di fatto ha voluto dire condonare la tortura: per la lunghezza del processo ed essendo le sanzioni previste per l’abuso d’ufficio decisamente inferiori, le pene sono state prescritte. Un caso analogo ad Asti, dove alcuni agenti erano sotto processo per episodi prolungati di tortura su due detenuti; in primo grado, il giudice ha detto che condannava per altri reati in mancanza del reato specifico". Qual è la situazione attuale in Parlamento? "Dopo il fallito tentativo della legislature precedenti, in Commissione Giustizia del Senato sono stati presentati in modo celere diversi nuovi disegni di legge, confluiti nel testo unificato presentato il 17 settembre dal relatore Nico D’Ascola (allora Pdl). Ma la definizione di tortura proposta è inaccettabile, per esservi tortura sarebbe infatti necessario che vengano commessi "più atti di violenza o di minaccia". Un solo atto del genere potrebbe quindi consentire di evitare una condanna. Per Amnesty, se il testo non cambia, si è sotto la soglia minima di accettabilità, è uno schiaffo. Eppure, non servivano sforzi di fantasia da parte dei legislatori: bastava adottare la definizione dell’articolo 1 della Convenzione delle Nazioni Unite. Inoltre, la definizione è restrittiva anche da un altro punto di vista: non tiene conto che la tortura moderna è diversa da quella medievale, non mira solo a far male fisicamente ma, magari utilizzando tecniche diverse come forme di deprivazione sensoriale o farmaci, è finalizzata a distruggere l’individuo". Perché a suo avviso non si è tenuto conto della definizione dell’Onu? "Si potrebbero ipotizzare due letture. Da un lato, forse si vorrebbe limitare fortemente i casi del reato per difendere una presunta libertà di azione delle forze dell’ordine, difesa di cui molti sindacati di polizia farebbero volentieri a meno. Dall’altro lato, e questa sarebbe l’ipotesi peggiore, proprio perché questo era stato il punto di rottura anche in passato, si potrebbe pensare che si voglia far saltare del tutto l’introduzione del reato". Qual è la situazione negli altri Paesi europei? "La maggior parte ha un reato o un aggravate specifico, come in Belgio, Repubblica Ceca, Croazia, Francia, Finlandia, Germania, Irlanda, Liechtenstein, Macedonia, Moldavia, Montenegro, Norvegia, Olanda, Portogallo, Regno Unito, Russia, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Turchia e Ucraina. Noi italiani non siamo gli unici con questa lacuna, però siamo in minoranza". Nella vostra Agenda, avete collegato il reato di tortura con l’introduzione di misure sulla trasparenza delle forze di polizia; su questo com’è la situazione? "Purtroppo non ci sono sviluppi significativi, nonostante le raccomandazioni del Consiglio d’Europa e casi come le morti di Federico Aldovrandi, Stefano Cucchi e Giuseppe Uva ne abbiano mostrato l’urgenza. Durante le manifestazioni, per esempio, rimane impossibile accertare le responsabilità individuali, un problema che sarebbe facilmente risolvibile con l’introduzione dei codici alfanumerici sui caschi degli agenti in piazza". Giustizia: speriamo che per il carcere e la Polizia Penitenziaria arrivino soluzioni adeguate di Rita Argento www.poliziapenitenziaria.it, 16 dicembre 2013 Spesso, è usanza comune che alla fine di un vecchio anno e l’inizio di uno nuovo, ognuno nel proprio, tende a gettar via quanto di più sbagliato, impegnandosi nello stesso tempo per la realizzazione di nuovi buoni propositi. Quest’anno, il Corpo della Polizia Penitenziaria ha attraversato momenti non del tutto semplici, anzi tutt’altro. Argomento, dibattuto in più occasioni dai mass media è stato e tutt’ora è l’attuale sovraffollamento delle Carceri con la contestuale grave carenza di personale pol pen, che inevitabilmente, non riesce a stare al passo di una popolazione detenuta, che cresce ogni giorno. Altra tematica comune, e purtroppo tutt’ora in aperto dibattito è la difficile condizione economica che l’Italia sta vivendo e che inevitabilmente coinvolge anche la Polizia Penitenziaria e il contesto Carcere. In primis, la riduzione dei fondi economici stanziati, rende più complesso l’adempimento di costanti impegni cui il mondo penitenziario non può certo sottrarsi per lungo tempo. E ben si sa, che le argomentazioni di riferimento sono la manutenzione delle Carceri, la buona efficienza dei mezzi di servizio dell’Amministrazione Penitenziaria, inoltre segue la necessità di provvedere quanto prima al rinnovo contrattuale di poliziotti e poliziotte penitenziarie, che già da tempo attendono e si potrebbe proseguire ad oltranza, ma sarebbe ripetere quanto già si conosce e quanto purtroppo l’intero anno trascorso ogni giorno ha tenuto a ricordare, con cadenza quasi regolare! E adesso cosa accade? Coscienti, che quest’anno a breve si lascerà alle spalle, con l’auspicio che con il nuovo, possano trovar luogo soluzioni e non altri problemi o situazioni difficili sia per la Polizia Penitenziaria che per il contesto Carcere. L’arrivo del 2014, deve portare risposte, soluzioni. I buoni propositi devono diventare fatti. Occorre cambiare, dare un chiaro segno di miglioramento. I poliziotti e le poliziotte penitenziarie devono percepire tutto questo, perché a volte bisogna sfatare il mito che "al peggio non c’è mai fine". E allora che l’auspicio del 2014 sia un’inversione di tendenza verso tutto ciò che ad oggi è irrisolto. Risolvere per facilitare la soluzione degli eventi. Diceva Henry Ford, industriale, imprenditore statunitense: "Prima mettiamo le auto in circolazione, poi vengono anche le strade". Giustizia: e adesso il Cavaliere rischia di dover indossare il "braccialetto elettronico" di Liana Milella La Repubblica, 16 dicembre 2013 Rieccolo. Il braccialetto elettronico. Un fantasma da 10 anni. Mai veramente vivo, mai definitivamente morto. Targato Telecom. Adesso rispunterà nel decreto sulle carceri che il Guardasigilli Cancellieri sta tentando di portare in consiglio dei ministri da settimane, bloccata prima dalle polemiche su di lei per via di Ligresti, poi dalla nuova fiducia sul governo. Non c’è riuscita neppure ieri, a causa degli altri decreti più importanti del suo. Ma il testo è pronto. Andrà la prossima settimana. Lì, proprio all’articolo uno, ecco che il braccialetto fa la sua comparsa. E tutti pensano subito a Berlusconi, in procinto di scontare i 9 mesi di detenzione che gli restano per la condanna Mediaset dopo l’indulto di tre anni. L’ex premier ha chiesto di essere affidato ai servizi sociali, ma nella scelta è sovrano il tribunale di sorveglianza che potrebbe respingere la domanda e spedire l’ex Cavaliere ai domiciliari. A quel punto ecco che pure Berlusconi rischia il braccialetto. Bisogna saper di diritto per scoprire che si parla proprio del nostro braccialetto nel decreto Cancellieri, perché in verità nel testo ci sono solo poche righe. Si interviene su un vecchio decreto e laddove è scritto "se lo ritiene necessario" la frase cambia in "salvo che le ritenga non necessarie". Un assurdo cruciverba? No, significa questo: finora il giudice, quando metteva ai domiciliari un condannato, "se lo riteneva necessario", imponeva al detenuto il braccialetto elettronico. Si trattava, dunque, di una misura opzionale, non di un obbligo. Invece che succede adesso? Esattamente l’opposto, il giudice deve motivare perché "non" ritiene necessario il braccialetto, che da essere una misura di controllo "facoltativa" diventa obbligatoria. Se il giudice stabilisce di non mettere il braccialetto deve spiegare per quali ragioni non lo fa. Nel caso di Berlusconi, qualora andasse ai domiciliari, se il giudice dovesse decidere di non mettergli il braccialetto, che diventa la prassi per tutti, dovrebbe spiegare perché non lo obbliga a portarlo. È ben evidente che si tratta di un’inversione di rilevante importanza, perché se fino a ieri tutti erano scettici sul braccialetto - una sorta di polsiera o cavigliera elettronica che lancia segnali a una centralina della polizia e che consente di localizzare sempre il detenuto - adesso dovranno ricredersi, perché nella strategia di svuotare le carceri e potenziare i domiciliari, il braccialetto diventa un importante strumento di garanzia per evitare evasioni. Il decreto si fa carico anche della notoria labilità di questo strumento, tant’è che toccherà sempre al giudice verificare se il braccialetto è disponibile oppure no. Tanto vale dare per scontata la polemica sulla Cancellieri, che già al Viminale, da ministro dell’Interno, due anni fa aveva firmato il contratto con Telecom per la fornitura dei braccialetti. E i pettegoli, durante il caso Ligresti, avevano subito detto che l’aveva fatto per via del figlio che era un manager della compagnia telefonica. Inevitabile ora il bis. Trieste: relazione sull’attività del Garante dei detenuti, 164 incontri in un anno di Ugo Salvini Il Piccolo, 16 dicembre 2013 Sono stati ben 164 i colloqui coi detenuti della Casa circondariale di Trieste sostenuti, nel primo anno di attività, da Rosanna Palci, garante dei diritti di coloro che sono costretti in carcere, in via Coroneo. Ben 44 hanno riguardato problematiche penitenziarie, una trentina i rapporti con le famiglie e i figli o la situazione economica e altrettanti gli aspetti sanitari. Una ventina sono stati orientati su temi di natura giuridica, una dozzina concernevano il tema della richiesta di asilo politico, altri ancora lo studio, la logistica, il sostegno. "La mia - ha spiegato la Palci - è una figura nuova a Trieste, mentre esempi simili esistono da tempo in altri centri del Friuli Venezia Giulia. Si tratta di un ruolo voluto dal sindaco, Roberto Cosolini, finalizzato al miglioramento dei rapporti coni detenuti in via Coroneo". I risultati sono stati "più che soddisfacenti - ha sottolineato la stessa Palci - perché ho potuto incontrare familiari dei detenuti che così hanno potuto iniziare un dialogo attraverso il quale evidenziare problemi e formulare proposte. Uno dei primi impegni - ha proseguito - è stato quello di aprire le celle, per permettere ai detenuti di muoversi con un minimo di libertà all’interno della sezione di appartenenza". I detenuti della Casa circondariale di Trieste erano 242, al 31 ottobre. Da febbraio, l’assistenza sanitaria dovrebbe passare alla Regione, confermando che anche i detenuti restano cittadini a tutti gli effetti. "Una delle principali difficoltà - ha evidenziato Palci - è rappresentata dal fatto che a Trieste c’è la Casa Circondariale, mentre la Casa di Reclusione più vicina è a Padova dove vanno mandati i condannati a pena definitiva superiore a cinque anni. Ciò significa che abbiamo detenuti triestini, con la famiglia che vive qui, ma costretti a stare lontano dai familiari e questo origina distacchi anche lunghi. Puntiamo perciò ad avere una Casa di reclusione in regione. Spero infine di poter immaginare un percorso non esclusivamente detentivo per le donne che devono scontare una pena di questo tipo ma hanno bambini di età inferiore ai tre anni". All’incontro ha partecipato l’assessore comunale, Laura Famulari: "Il patto di stabilità - ha accusato - ci blocca anche per quanto riguarda l’edilizia penitenziaria". Alghero: il carcere intitolato a Giuseppe Tomasiello, un agente ucciso nel 1960 La Nuova Sardegna, 16 dicembre 2013 Da ieri il carcere di Alghero è intitolato a Giuseppe Tomasiello, l’agente di custodia che il 22 gennaio del 1960 venne ucciso da un detenuto. L’uomo, Edoardo Corsi, incaricato della manutenzione delle linee elettriche e telefoniche della colonia penale di Tramariglio, per fuggire non aveva esitato a colpire Giuseppe Tomasiello con un pesante attrezzo da lavoro. L’agente morì dopo due giorni di agonia. È stato il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) Giovanni Tamburino a leggere le motivazioni dell’intitolazione della casa circondariale algherese alla memoria di Giuseppe Tomasiello. Una cerimonia alla quale hanno preso parte il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Gianfranco De Gesu, i rappresentanti di tutte le forze dell’ordine e delle forze armate, delle associazioni combattentistiche e le autorità civili. Nel suo intervento, Tamburino ha ricordato anche gli altri agenti caduti in servizio proprio ad Alghero, quando nel corso di una sanguinosa evasione furono uccisi quattro agenti di custodia ai quali sono stati intitolati i nuovi istituti penitenziari isolani. E il direttore del Dap non ha dimenticato neppure di sottolineare il grande apporto di agenti sardi al corpo della polizia penitenziaria che "onorano con la loro competenza, la loro dedizione e la loro fedeltà la difficile missione istituzionale loro affidata". Un compito difficile, quello della Polizia penitenziaria proprio per la particolarità degli "utenti" "ed è per questo che rifiuto con forza e con sdegno gli atteggiamenti demagogici, le accuse del tutto prive di prove, i giudizi facili di chi si limita a osservare da fuori e - ha aggiunto Giovanni Tamburino, levandosi un sassolino dalla scarpa -, dalla comodità dei salotti televisivi o di irresponsabili poltrone". Accompagnato dalla direttrice del carcere Elisa Milanesi, Giovanni Tamburino ha poi scoperto la targa che ricorda il sacrificio di Giuseppe Tomasiello, svelatura salutata dall’applauso dei cittadini che si erano ritrovati davanti al carcere. Prima tornare in aeroporto, il direttore e il comandante del reparto di Alghero Antonello Brancati, hanno accompagnato il direttore del Dap in una breve visita all’interno della struttura penitenziaria. Milano: il Cappellano del "Beccaria", all’Ipm ci sono molti "ragazzi d’oratorio" di Sabrina Cottone Il Giornale, 16 dicembre 2013 "Non sono pochi i giovani detenuti del Beccaria che mi dicono: ?io facevo il chierichetto?". Don Claudio Burgio, cappellano del carcere minorile di Milano e fondatore di Kayròs, la comunità di recupero per ragazzi cosiddetti difficili (lui vive con loro), è impegnato in un nuovo progetto a Vimodrone: un centro di accoglienza che sarà anche una comunità aperta, con laboratori professionali e doposcuola. E una serie di incontri con i genitori, "perché tanti padri e madri mi contattano e mi chiedono aiuto". Parlare con lui significa rassegnarsi a mettere da parte gli stereotipi più tranquillizzanti, come quello per cui ad arrivare in carcere sono solo ragazzi stranieri. O figli di famiglie disagiate, disgregate: "Una buona percentuale di ragazzi arriva da famiglie normali, anche cattoliche, legate al mondo delle parrocchie e degli oratori. Alcuni da ricche famiglie del centro. Negli ultimi cinque anni ne ho incontrati almeno venti. E parlo solo dei detenuti. Il numero cresce se pensiamo alla comunità di prima accoglienza del Beccaria o ai centri che accolgono ragazzi che compiono reati minori". Don Claudio è maestro della cappella musicale del Duomo e ha scritto tante canzoni da oratorio. "Mi è capitato di sentirmele cantare dai giovani detenuti, che mi prendono in giro e mi dicono: sono proprio brutte" racconta. È successo anche di peggio a lui che va spesso in tour per le parrocchie a parlare con i ragazzi. "Una volta, alla fine di un ciclo di incontri di lectio divina, lettura e meditazione della parola di Dio, un ragazzo che aveva partecipato è venuto da me e si è confidato: don Claudio, non riesco a smettere di spacciare". Spacciare, non solo fumare spinelli, che comunque è già di per sé uno choc. Non si può non trasalire, pensando a quel che non vediamo negli occhi, nei silenzi, nei gesti, nelle vite dei ragazzi. "Non dobbiamo pensare che l’oratorio sia un luogo protetto o esente da queste cose. Il sabato sera vanno in discoteca e si sballano, poi vanno alle catechesi in oratorio. Gli oratori di oggi hanno gli adolescenti di oggi. In qualche modo è un bene, se si riesce a creare un ambiente in cui un ragazzo possa sentirsi libero di confidare anche queste cose, così da essere aiutato. Molti ragazzi nascondono il loro vero volto in famiglia, perché temono di non essere adeguati alle aspettative dei genitori. Si mostrano solo con i pari, tra gli amici. Un ragazzo della comunità, al Beccaria per quattro rapine, mi ha raccontato che continuava a prendere la paghetta di dieci euro dai genitori e intanto faceva colpi da migliaia di euro. Cannabis e cocaina intercettano anche i ragazzi dell’oratorio. Un dato fino a qualche anno fa impensabile. Oggi ormai è difficile distinguere i ragazzi da oratorio come li intendevamo noi". Vite nascoste che diventano rapine, più spesso di quanto a noi capiti di leggere di baby gang. "A volte sono ignari della legge quando arrivano in carcere. I giovani li chiamano "scavalli", spesso ai danni di coetanei o più piccoli, con minacce e coltelli. In genere capita quando si indebitano per pagare sostanze. Non ne possono parlare in famiglia, si isolano. I reati, anche gli omicidi, sono quasi sempre legati a alcol o cocaina. Il problema alla base è questo". Fin qui la diagnosi. Ma la cura? "Parlare. Quando i genitori sanno ascoltare e sono aperti al dialogo, difficilmente succedono queste cose. E questo vale anche negli oratori: è importante avere bravi educatori, parlare di ciò che è la realtà di moltissimi sabato sera dei giovani. In troppi fanno la comunione e fumano una canna. Senza porsi domande". Ferrara: Futuro e Libertà propone di abolire il Garante dei detenuti, una "spesa inutile" La Nuova Ferrara, 16 dicembre 2013 L’amministrazione comunale sembra ancora legata ai vecchi equilibri tipici della sinistra comunista - così commenta in una risoluzione il consigliere di Fli, Francesco Rendine - e si é "ben guardata dal ridurre inutili spese come, per esempio, quella che sostiene per il Garante dei diritti dei detenuti o quella legata a ridondanti e costose figure di ex politici presenti in organismi a partecipazione comunale come l’Acer, che potrebbero ricorrere esclusivamente ai tecnici interni". Nel mirino della polemica anche i ridondanti consiglieri di amministrazione di Hera, "il cui numero è maggiore di quello dei consiglieri presenti in multinazionali come la Fiat". Ed ecco la proposta: "Ridurre le spese abolendo figure di ex politici riciclati come garante dei diritti dei detenuti o inseriti in aziende a partecipazione comunale". L’Aquila: il Comune di Sante Marie "assume" detenuti per lavori socialmente utili Il Centro, 16 dicembre 2013 Lavoro in Comune per evitare il carcere e assunzioni grazie alle borse di formazione della Comunità montana. Il Comune di Sante Marie ha impiegato in totale quattro lavoratori: tre tramite una iniziativa che trae origine da un programma di interventi finalizzato all’inserimento lavorativo di persone economicamente e socialmente svantaggiate attraverso tirocini formativi, stage e borse di lavoro, e uno grazie a un progetto in collaborazione con il carcere. "Grazie a questo progetto", ha sottolineato il sindaco Lorenzo Berardinetti, "quattro persone potranno trovare un aiuto economico e, allo stesso tempo, aiutare a loro volta il Comune in attività utili a far funzionare ancora meglio la macchina amministrativa". Tali attività, relative al sostegno sul disagio economico e sociale del territorio, rientrano in un quadro di assoluta priorità da parte della Comunità montana "Montagna Marsica" che nel 2012 ha erogato complessivamente assegni di povertà per un importo di oltre 300mila euro. Massa Carrara: "Poesie in ...libera uscita", un volume scritto dai detenuti Il Tirreno, 16 dicembre 2013 Quando la poesia ti libera. La presentazione di un libro è sempre un evento, se poi ad essere presentato è un libro di poesie l’importanza aumenta, se le poesie, però, sono creazione di detenuti l’evento ha qualcosa di inusuale, se non di straordinario. Domani, alle 16, presso le Stanze del Guglielmi, sarà presentato "Poesie in ...libera uscita", alla presenza delle autorità cittadine, delle direttrice del carcere di Massa e di alcuni detenuti poeti. Saranno recitate alcune poesie "a testimonianza diretta e concreta - spiegano i volontari che hanno organizzato e promosso l’iniziativa - di quanto sia possibile ottenere, a vantaggio di tutti, liberando, pur da un ambiente particolare come quello di una casa di detenzione, sensazioni ed emozioni". La raccolta di poesie nasce da un progetto sostenuto dal coordinamento volontari operanti nel carcere. I volontari, infatti, hanno invitato i detenuti a manifestare apertamente, attraverso la poesia, i propri sentimenti, a condividere con gli altri le loro intime e personali emozioni provate - spiegano - durante la propria esperienza di vita, a sottoporsi anche a d un giudizio, vincendo quel senso di vergogna o di imbarazzo che può travolgere quando si devono aprire i cassetti dell’animo. "Il libro - continuano i volontari - raccoglie le poesie presentate negli ultimi anni al concorso dedicato alla memoria della professoressa Emilia Maria Minuto, preside della scuola Don Milani che ha conosciuto il mondo carcerario prima come dirigente scolastica, poi, una volta in pensione, come volontaria". Milano: a Bollate presidio Sindacati Polizia Penitenziaria per visita Cancellieri Adnkronos, 16 dicembre 2013 Presidio dei sindacati della Polizia penitenziaria fuori dal carcere di Bollate in attesa del ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri oggi in visita alla struttura penitenziaria. Le sigle, tra cui il Sappe e l’Osap, aspettano di incontrare il ministro e chiedono l’aggiornamento del contratto "bloccato dal 2009, il pagamento degli straordinari non pagati dal 1 gennaio 2012 e l’applicazione delle normative vigenti sulle strutture carcerarie e sulla carenza di organico delle carceri". Al centro della protesta, spiegano i manifestanti, "i tagli delle risorse e la carenza di organico". Gli agenti, un cinquantina, hanno esposto bandiere e striscioni e usano fischietti. Bologna: "Piazza Grande" compie 20 anni, oggi festa per il giornale dei clochard di Adriana Comaschi L’Unità, 16 dicembre 2013 Vent’anni fa per la prima volta hanno preso la parola, per raccontare la società dal loro punto di vista, quello degli ultimi e degli "invisibili". E non hanno più smesso. Il giornale Piazza Grande, il primo in Italia fondato e scritto da persone senza fissa dimora, festeggia un compleanno importante. Due decenni di attività che hanno permesso a tanti di ritrovare una dignità, iniziare un percorso di riscatto e che insieme hanno fatto crescere una comunità: di redattori, di sostenitori, dell’associazione omonima che ormai conta tante e diverse iniziative. Dal servizio mobile con bevande e coperte nelle notti più fredde si è arrivati all’officina di riparazione di biciclette, all’assistenza legale gratuita, alla sartoria, l’ultima creatura è un’Agenzia per l’affitto che fa da tramite con i proprietari di case per dare un alloggio a chi lascia la strada. Un lungo cammino, percorso a partire da una constatazione semplice: "Tendere un giornale è meglio che tendere una mano", avere qualcosa da offrire ti pone già in una condizione diversa, gli altri ti guardano con più attenzione, le occhiate distratte si trasformano in sguardi curiosi. E le offerte libere permettono di iniziare a guadagnare da sé (produrre il giornale costa 75 centesimi, quanto si dà in più rimane al diffusore). Seimila le copie distribuite in media ogni mese, mai un’uscita persa, 700 i senza casa via via coinvolti: i numeri di questi venti anni parlano da soli. Piazza Grande poi fa scuola: a Milano nasce Scarp dè tenis prima e Terre di Mezzo poi, a Firenze Fuori binario, a Roma Shaker-Pensieri senza dimora. Quanto al giornale bolognese, le pagine su cui all’inizio i senza tetto raccontano in prima persona la propria storia, gli alti e bassi, le speranze negli anni si sono arricchite dei contributi esterni. E gli obiettivi si sono fatti più ambiziosi, con la voglia di dare voce - sempre dal basso - ad altri "marginali", per scelta o perché abbandonati, reclusi, ignorati da una società sempre più complessa, competitiva, feroce: tossicodipendenti, detenuti, malati, anche anziani in difficoltà con la pensione minima, immigrati, oggi i precari. Un vero ponte tra mondi lontani, spesso incapaci di comunicare. Cambiano anche i diffusori, oggi in prevalenza stranieri in arrivo soprattutto dall’Est. Ogni mese un’inchiesta. Una copertina ad esempio è per Ascanio Celestini e il suo monologo sulle condizioni di un carcerato. Una sui negozi sempre più a gestione straniera, un’altra sul mondo delle palestre e della boxe. C’è anche un numero tutto per Lucio Dalla, poco dopo la scomparsa, a testimonianza di una lunga vicinanza e non solo per la canzone con cui già nel 1972 Lucio dava voce ai pensieri di un (vero) senza tetto. Ed è allora davvero una festa collettiva, quella che a partire da oggi Bologna celebra insieme al "suo" giornale, legato com’è al mondo del volontariato, al sindacato, ai portici della città e ai suoi angoli dimenticati e invisibili se non appunto agli ultimi. Come il dormitorio Beltrame, dove nel dicembre 1993 viene composto il numero zero. Ne stampano 3 mila copie, finiscono il primo giorno, pochi altri e si tocca quota 12 mila. Tra i fondatori c’è Tonino Palaia, che del giornale diventa anche direttore fino al 2006, una vita difficile ribaltata da quest’esperienza. È scomparso il 17 novembre, il numero di dicembre gli dedica la copertina. Piazza Grande si può leggere anche fuori da Bologna in Pdf, abbonamento a 15 euro. Ci sono varie forme di sostegno (come quella del "supereroe" a 100 euro), tutte le informazioni per i versamenti su www.piazzagrande.it. Televisione: questa sera "Report" (Rai 3) si occupa di prescrizione e polizia Agi, 16 dicembre 2013 Lunedì 16 dicembre alle 21:05 su Rai3 torna "Report" di Milena Gabanelli con una nuova puntata. In questo numero: "Il delitto perfetto" di Alberto Nerazzini e "Siamo sicuri?" di Claudia Di Pasquale. La grande letteratura noir ci insegna che il delitto non è mai perfetto. In Italia, invece, rischia di diventarlo: ogni anno 130mila processi, circa 400 al giorno, vanno in fumo grazie alla prescrizione. La disciplina dell’istituto di diritto della prescrizione è stata riformata dalla ex Cirielli del 2005, una legge fatta per salvare qualche imputato eccellente dalla sentenza definitiva che da otto anni però si abbatte su tutto il nostro sistema. Il risultato è un diniego di giustizia per decine di migliaia di vittime, il rischio d’impunità per chi commette una lunga serie di reati, anche gravi, e una macchina processuale che spesso gira a vuoto. I costi economici e sociali sono incalcolabili, e il nostro processo è sempre il più lento. Le organizzazioni internazionali, come l’Ocse, da anni ci chiedono di fare qualcosa, eppure una riforma della prescrizione non è all’ordine del giorno. Con l’inchiesta di Alberto Nerazzini ci domandiamo perchè non interveniamo. A chi conviene questo sistema? Come si riflette sull’emergenza delle nostre carceri? Perchè non prendiamo spunto dagli ordinamenti ai quali abbiamo voluto copiare il processo accusatorio? Come funziona all’estero? E poi: ‘Siamo sicuri?’, di Claudia Di Pasquale. In Italia esistono ben cinque forze di polizia. Ma siamo sicuri di essere al sicuro? In questi anni il comparto sicurezza ha subito tagli per quasi 4 miliardi di euro, gli stabili della polizia sono a pezzi, i mezzi da riparare, gli uomini sempre meno. Intanto dal 2002 l’Europa ci chiede di unificare i numeri di emergenza e di adottare come numero unico europeo il 112. In questi stessi anni però sono stati spesi dei soldi e appaltati numerosi progetti per la sicurezza. Vedremo come. Bahrain: Amnesty denuncia; minorenni torturati per aver manifestato contro governo Aki, 16 dicembre 2013 Le autorità del Bahrain torturano ragazzi al di sotto dei 18 anni che hanno partecipato alle manifestazioni organizzate dalla maggioranza sciita del Paese per contestare la dinastia sunnita che lo governo. Questa la denuncia di Amnesty International, secondo cui "in Bahrain i bambini vengono arrestati regolarmente, maltrattati e torturati". Secondo l’organizzazione, "negli ultimi due anni" diversi bambini, tra i quali anche ragazzi di 13 anni, "sono stati bendati, picchiati e torturati in carcere". "Arrestando sospetti minorenni le autorità del Bahrain stanno mostrando un disprezzo terribile per i suoi obblighi internazionali nel campo dei diritti umani", ha detto il vice direttore di Amnesty per il Medioriente e il Nord Africa Said Boumedouha. Secondo il gruppo, almeno 110 ragazzi di età compresa tra i 16 e 18 anni sono detenuti in un carceri per adulti per aver preso parte alle proteste contro la dinastia sunnita al-Khalifa. Ragazzi di 15 anni detenuti in un carcere minorile denunciano invece di essere abusati duranti la notte. "Il governo del Bahrain pretende di rispettare i diritti umani, ma sta sfacciatamente violando gli obblighi internazionali ricorrendo a misure estreme quali dure sentenze carcerarie per i bambini", ha detto Boumedouha. Il Bahrain è uno dei firmatari della Convenzione dell’Onu sui diritti del bambino, intendo con questo termine tutti coloro che hanno meno di 18 anni. La convenzione vieta esplicitamente la tortura o altre punizioni crudeli o disumane. Amnesty chiede quindi al Bahrain di considerare "pene alternative per i bambini che hanno commesso reati riconoscibili a livello internazionale". Iraq: attacco a carcere Bigi, numerosi detenuti in fuga, autorità impongono coprifuoco Aki, 16 dicembre 2013 Le autorità irachene hanno imposto il coprifuoco a Bigi, località dell’Iraq settentrionale, in seguito a un attacco al carcere della città. Lo ha riferito l’emittente "al-Arabiya", precisando che nell’attacco sono evasi numerosi detenuti. Russia: caso Pussy Riot, Nadia Tolokonnikova in ospedale fino al termine della pena Ansa, 16 dicembre 2013 Potrà restare in cura nell'ospedale carcerario di Krasnoiarsk in Siberia, dove si trova da metà novembre, fino alla fine della sua pena, come da lei richiesto, Nadezhda Tolokonnikova detta Nadia, una delle due Pussy Riot condannate a due anni di prigione per una preghiera blasfema nella Cattedrale di Mosca. Lo rende noto una portavoce del servizio penitenziario della regione di Krasnoiarsk: una commissione medica speciale ha soddisfatto la richiesta della ragazza di restare in cura nella struttura, dopo l'indebolimento fisico causatole dal lungo sciopero della fame intrapreso per protesta contro le dure condizioni carcerarie in Mordovia, cui era seguito il trasferimento in Siberia. Secondo la portavoce, inoltre, Nadia "prenderà parte anche al concerto di Capodanno" organizzato dalle detenute, e già si esercita "cantando e ballando" in ospedale. Domani la Duma esaminerà in prima lettura la proposta di amnistia del presidente Vladimir Putin di cui potrebbero beneficiare proprio Nadia e l'altra Pussy Riot in carcere, Maria Aliokhina. L'approvazione definitiva potrebbe arrivare già il 18 di questo mese.