Giustizia: una cella divisa per quattro, il carcere ai confini della realtà di Giovanni Iacomini Il Fatto Quotidiano, 15 dicembre 2013 Una catena irrefrenabile di informazioni circolano tra i detenuti. La chiamano “radio carcere”. Vi si narra che in una delle città più ricche del Nord esista uno dei carceri peggiori d’Italia. In ogni cella concepita per un detenuto si sta in quattro, con letti a castello, un piccolo tavolo e due sgabelli nello stesso spazio. Da una parte è stato ricavato il bagno comune, a poche decine di centimetri dall’angolo cottura dove si cucina per tutti. Si sta chiusi in spazi così angusti per 22 ore al giorno. Domina la televisione, con un volume minimo assordante. Fortuna che a una certa ora della sera l’agente addetto stacca l’interruttore centralizzato e mette tutti a tacere. È facile immaginare come dev’essere difficile la convivenza, considerando quanti problemi dobbiamo affrontare noi nella nostra normale vita di coppia, dove si tratta di spartire lo spazio di un appartamento (più o meno grande) con una persona che abbiamo scelto, preferibilmente per amore. In galera tocca dividere pochi metri con molti individui, che non si scelgono e che normalmente non sono i più educati, puliti e rispettosi che si incontrano per strada. Gli stranieri, numerosissimi, hanno costituito gruppi identitari chiusi, spesso in contrasto gli uni contro gli altri. Risse con sfregi e tagli di lamette sono all’ordine del giorno. Anche i più pacifici o quelli che comunque vogliono stare per conto loro, possono incappare in violenze, ritorsioni, vendette; magari per un semplice equivoco, un involontario malinteso, cose che capitano quando si confrontano culture profondamente diverse. A differenza di quel che ci si aspetterebbe, sono più aggressivi e commettono più prepotenze quelli che hanno commesso reati lievi: avendo pene brevi non hanno molto da perdere subendo rapporti disciplinari; al contrario, chi ha da fare una lunga detenzione, condannato per qualcosa di molto grave, superato un periodo iniziale di assestamento ha tutto l’interesse a non creare problemi che gli intralcino il percorso di reinserimento. Non ci sono scuole, né attività culturali in quel carcere del Nord. Pochissimi volontari, scarsi contatti con l’esterno. Non si può fare sport. Si va a giocare a calcio in un campo solo una volta al mese. Per il resto ci si arrangia nel piccolo cubicolo di cemento adibito alla cosiddetta “aria”, dove schiere di detenuti passeggiano a frotte cercando di non intralciarsi, per non infrangere antichi codici d’onore malavitoso. Quando si mettono ai bordi, si gioca con un pallone prodotto con un metodo alquanto malsano: su di un fuoco fatto con un mucchio di carte di giornali si bruciano e sciolgono i sacchi per l’immondizia, per poi accartocciarli facendogli assumere una forma vagamente sferica. Sono concesse solo due ore a giorno di “aria”, cioè fuori dalle celle, da passare nel cubicolo o nella stanza della “socialità” dove c’è un ping pong e un biliardino. Ma chi vuole trovare un proprio momento di intimità al bagno, desidera lavarsi o telefonare, deve rinunciarci. La doccia si può fare solo nei giorni dispari, nelle stesse due ore d’aria del mattino; così quando arriva il venerdì, giorno dei colloqui con i familiari, si va normalmente sporchi di due intere giornate. Ai detenuti non è data la possibilità di lavarsi i panni con acqua calda, a meno che un agente più comprensivo chiuda un occhio e lasci che dalle docce si riempia un bustone da portare in cella. Non c’è riservatezza né nei colloqui con l’unico medico a disposizione, né per la posta con le lettere che vengono fatte trovare aperte gettate sul letto. Per sopravvivere in un ambiente simile la maggior parte dei reclusi fa larghissimo uso di psicofarmaci, calmanti, sonniferi: la chiamano “terapia” e passa per tutte le sezioni la mattina, su un carrello, subito dopo la colazione. Come tutto ciò che mi viene raccontato dai detenuti, non posso sapere se si tratti di verità o, come vorrei sperare, di fantasie “non attendibili” di chi ha fatto troppi anni di galera. Alla lunga, dopo anni di riscontro incrociato di varie testimonianze, devo dire che purtroppo è tutto verosimile. Anzi, in altri contesti ho sentito di letti a castello a tre ripiani, sì che chi dorme su in alto non ha neanche lo spazio di alzarsi seduto senza sbattere al soffitto. Bagni alla turca comuni, in mezzo a stanze prive di finestre. Docce ancor più razionate e quasi sempre fredde. Celle sovraffollate senza sgabelli, per cui si sta sempre sul letto e per mangiare tocca appoggiarsi per terra. Cose inenarrabili nelle “celle lisce”, cioè le stanze completamente vuote per l’isolamento di chi commette qualche violenza o atti di autolesionismo: ci si avvicina alle pene corporali. Ora, a parte l’afflittività della pena che entro certi tempi e certi limiti deve in qualche modo risarcire le vittime dei reati, qualcuno deve spiegarmi a cosa serve un sistema simile di carcerazione. Cosa possiamo aspettarci da chi viene fuori da un’esperienza del genere? Dov’è la funzione rieducativa, il reinserimento sociale? Si rende arduo anche il compito degli operatori addetti al trattamento: polizia penitenziaria, educatori, strutture sanitarie. Secondo i dati del Ministero della Giustizia, a noi contribuenti ogni detenuto comporta un esborso di 110-120 euro a giorno. Costi molto elevati per poi restituire alla società, a fine pena, persone peggiori di quelle che erano, pronte a commettere nuovi reati. Si è dimostrato che la “zero tolerance”, da sola, non paga: negli Stati Uniti, dove c’è la pena di morte e una percentuale impressionante di detenuti (2 milioni e mezzo su una popolazione di 300 milioni), la sicurezza sociale nelle città non è affatto garantita, anzi c’è più violenza che altrove con un numero altissimo di persone uccise da armi da fuoco. Giustizia: il solito tormentone del "braccialetto elettronico", ora la Cancellieri ci riprova di Silvia D’Onghia Il Fatto Quotidiano, 15 dicembre 2013 Finora sono stati spesi 180 milioni di euro, gli apparecchi sono gestiti da Telecom. Inutilizzato, dispendioso, inopportuno, però immortale. Il braccialetto elettronico per i detenuti ai domiciliari è un tormentone che non muore mai. Soprattutto non lo vuole far morire il ministro della Giustizia, Anna Maria Cancellieri, che ha in animo di renderlo obbligatorio, salvo diversa disposizione del giudice (oggi l’utilizzo è previsto "se necessario"). Il Guardasigilli introdurrà la modifica all’interno del decreto legge sulle carceri che si accinge a portare martedì in Consiglio dei Ministri. Lo ha confermato lei stessa, a margine dell’esibizione del coro Papageno nel carcere della Dozza a Bologna. Il pacchetto riguarderà "i soliti argomenti: tossicodipendenti, stranieri, aumentare le possibilità di lavoro", oltre alla proroga della norma, in scadenza il 31 dicembre, che prevede la detenzione domiciliare per i condannati con pena detentiva (anche residua) non superiore a 18 mesi. Tutto bene, se fossimo in un Paese normale. Inutilizzato. La prima sperimentazione del braccialetto partì con decreto legge il 2 febbraio 2001, con l’intenzione di porre fine al sovraffollamento carcerario (già allora!). Due mesi dopo, un detenuto peruviano con grande semplicità tagliò i fili dell’aggeggio elettronico e fece perdere le proprie tracce. Fu il primo di una serie. Eppure, nel 2003, l’ex ministro Pisanu decise di rilanciare, firmando un contratto con un gestore unico, Telecom, che avrebbe dovuto garantire, oltre all’installazione del Personal Identification Device, anche l’assistenza tecnica. Dei 400 braccialetti previsti, ne sono stati utilizzati 14. Alla fine del 2011 il ministro Cancellieri, dal Viminale, ha rinnovato la convenzione settennale con Telecom, stavolta per 2000 pezzi, solo 200 dei quali dotati di Gps. Dispendioso. Undici milioni di euro l’anno per la prima fase della sperimentazione, altri 80 milioni la spesa prevista nel contratto rinnovato (di questi, ha affermato nel 2011 il ministro, solo 9 vanno a Telecom). È stata "reiterata una spesa antieconomica e inefficace, che avrebbe dovuto essere almeno oggetto, prima della nuova stipula, di un approfondito esame", ha scritto al Corte dei Conti lo scorso anno. Inopportuno. Nove mesi dopo la firma per il rinnovo, Piergiorgio Peluso, figlio della stessa Cancellieri, è stato assunto in Telecom come dirigente del settore Administration, Finance and Control. "Noi siamo pronti, ma bisogna chiedere a magistrati e forze dell’ordine se lo sono", fa sapere una fonte interna al Dap, sempre più scollato da via Arenula. Perché il controllo delle persone sottoposte alla misura del braccialetto spetta a carabinieri e polizia, già molto sotto organico. Giustizia: Cancellieri; i detenuti attendono risposte, spero che il 2014 sia l’anno della svolta Agi, 15 dicembre 2013 "Spero che il 2014 sia l’anno che porti risposte al nostro mondo carcerario in tutti i sensi, quindi che si l’anno nel quale riusciamo a dare quella svolta che il nostro Paese deve dare": lo ha detto il ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri, a Bologna, al termine del concerto del coro Papageno, formato da detenuti e da coristi volontari, che si è tenuto questo pomeriggio nel carcere bolognese della Dozza. La manifestazione, giunta al suo secondo anno e aperta anche al pubblico esterno, partecipa un gruppo strumentale costituito dai musicisti dell’Orchestra Mozart. Sono state eseguite musiche di Bach, Mozart e canti tradizionali multietnici. A margine della manifestazione, il ministro Cancellieri ha fatto il punto sulla questione carceri, ricordando l’appuntamento del prossimo maggio di fronte all’Europa. "Spero che il 2014 segni un’inversione, un momento importante per l’Italia - ha detto ancora Cancellieri - e che l’Italia cominci un nuovo cammino per quanto riguarda i regimi di detenzione, in tutti i loro aspetti". Alla domanda se ci saranno problemi per l’indulto e amnistia, provvedimenti che sembrano non graditi al nuovo segretario Matteo Renzi, Cancellieri ha replicato: "È una questione che appartiene esclusivamente al Parlamento: solo il Parlamento può decidere se darvi corso o meno. Noi facciamo la nostra parte". Braccialetto tra misure in discussione Cdm "Al Consiglio dei ministri di martedì prossimo portiamo una serie di iniziative che riguardano vari aspetti della detenzione": lo ha detto a Bologna, a margine dell’esibizione del coro Papageno al carcere della Dozza, di cui fanno parte detenuti e volontari, il ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri, commentando le misure che verranno discusse nei prossimi giorni. Braccialetto elettronico e libertà anticipata, ha detto ancora il ministro, "fanno parte del pacchetto". Il ministro non ha voluto entrare nel merito sulle varie misure. "È complicato - ha spiegato - facciamo prima il Consiglio dei ministri anche perché attendo con ansia di portarle". In discussione misure per tossicodipendenti, stranieri, per aumentare le possibilità di lavoro, mentre la detenzione domiciliare che scade alla fine dell’anno, ha detto ancora il ministro, "quella sarà sicuramente prorogata". Riguardo all’aumento dei posti annunciati nelle carceri, il ministro ha replicato che "sono tutti lavori cantierati, si tratta soltanto di avere le varie consegne. Quello - ha concluso - è un progetto che va avanti, ma vanno avanti anche tante altre cose nel mondo del carcere". Giustizia: il Sottosegretario Ferri; servono soluzioni urgenti… soprattutto per le carceri Adnkronos, 15 dicembre 2013 "La riforma della Giustizia deve essere condivisa, la politica deve farla nell’interesse dei cittadini, per far ripartire l’economia del Paese, per tutelare i diritti umani dei singoli, per garantire la certezza del diritto. Si deve pensare ad una riforma che consenta di recuperare la fiducia dei cittadini nel servizio giustizia". Lo ha detto il sottosegretario alla Giustizia, Cosimo Ferri, intervenendo al convegno "Esperienze a confronto per una riforma", tenutosi a Milano, organizzato da "Panorama" e "Tempi". Ferri si è poi soffermato sull’emergenza carceri: "Per quanto riguarda il sovraffollamento carcerario occorrono soluzioni urgenti: l’Italia non può iniziare il semestre europeo senza aver prima affrontato seriamente ciò che l’Europa ci chiede con la nota sentenza Torregiani". Ferri ha definito "significativa l’iniziativa del Parlamento sulla custodia cautelare in carcere, perché deve costituire l’extrema ratio, tutte le misure cautelari devono essere applicate dal giudice seguendo il criterio del £minor sacrificio necessario". "In tal senso è corretto prevedere che il giudice, che vuole applicare la custodia in carcere, motivi espressamente sul punto della inidoneità della misura degli arresti domiciliari. È giusto infine - ha concluso il sottosegretario - puntare sulle misure interdittive la cui applicazione spesso è più efficace dell’applicazione delle misure cautelari". Giustizia: Pagano (Dap); bene il "braccialetto elettronico", se garantisce maggior sicurezza Adnkronos, 15 dicembre 2013 "Ben vengano tutte le misure che innalzano il target delle persone che possono uscire dal carcere, ai domiciliari o con altre misure alternative, in condizioni di sicurezza". Il vice capo del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria, Luigi Pagano, commenta così all’Adnkronos l’introduzione del braccialetto elettronico obbligatorio per i detenuti ai domiciliari, che potrebbe essere tra le misure del decreto legge che il ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri porterà a breve in Consiglio dei ministri. "Il braccialetto, o qualsiasi altro presidio elettronico per il controllo, deve essere implementato per aumentare il numero delle persone che possono stare fuori dal carcere", aggiunge Pagano, ma, precisa, "a patto che coniughi le misure alternative con la sicurezza". E "il fatto che non sia più facoltativo ma obbligatorio, dovrebbe nelle previsioni portare a un incremento dell’uso rispetto al passato". Riguardo alle difficoltà di utilizzo registrate finora, il vice capo del Dap denuncia il ritardo dell’Italia: "Abbiamo iniziato tardi, negli altri Paesi sono riusciti a mettere a punto i presidi, e in quelli anglosassoni, ad esempio, è una tradizione da decenni. Ma l’evoluzione della tecnologia consentirà di adeguarne la realizzazione anche da noi". Positivo dunque il giudizio. "Ben venga qualsiasi cosa allarghi le misure alternative, che sono il futuro del sistema penitenziario - conclude Pagano - La differenza con gli altri Paesi sta proprio in questo, nel loro scarso utilizzo, e anche su questo ci ha richiamato l’Europa con la sentenza Torreggiani: troppo carcere e poche misure alternative". Giustizia: Uil-Pa Penitenziari; il "braccialetto elettronico" non basta, investire in personale Adnkronos, 15 dicembre 2013 La previsione del braccialetto elettronico obbligatorio per i detenuti ai domiciliari, che potrebbe essere tra le misure del decreto legge che il ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri porterà a breve in Consiglio dei Ministri, "è utile e potrebbe funzionare per attenuare la grave situazione del sovraffollamento carcerario, ma di certo non basta. Tra tagli, blocchi stipendiali, auto usurate e senza benzina, questo governo tutto fa tranne che investire nella sicurezza. È necessaria una decisa inversione di tendenza", dice all’Adnkronos Eugenio Sarno, segretario generale della Uil Pa Penitenziari. C’è poi il rischio, rileva Sarno, "che migliaia di detenuti ai domiciliari facciano crescere l’allarme sociale. Per questo bisognerà organizzare e finanziare articolari servizi di controllo. Questa misura si rivelerà davvero utile soltanto se i 160 euro al giorno che costituiscono il costo medio di un detenuto in carcere saranno reinvestiti in stanziamenti reali sul comparto della sicurezza". Giustizia: il carcere è un business; reportage da Sollicciano, nove detenuti in celle per due di David Allegranti Corriere Fiorentino, 15 dicembre 2013 Il sovraffollamento, il cibo in più, persino i braccialetti elettronici. "Anche il carcere è un affare, qualcuno che ci guadagna c’è". Un mese dopo il caso Cancellieri, reportage dalle celle di Firenze. L’ora d’aria? Qui coincide con quella della doccia. E tutti rinunciano all’acqua per un pezzetto di cielo… "Nelle celle di Sollicciano". Era il titolo dell’editoriale con cui David Allegranti e il nostro giornale facevano formale richiesta per poter visitare il carcere (e le carceri) di Sollicciano in modo da poter verificare le condizioni in cui vivono i detenuti. Erano i giorni della bufera Cancellieri: il ministro alla giustizia si era interessata alle condizioni di salute di Giulia Ligresti, la figlia di Salvatore, agli arresti come il padre e la sorella fino a pochi giorni fa. Era il modo per andare oltre le polemiche del momento, le richieste di dimissioni, il dibattito in Parlamento. Era il modo per raccontare se le condizioni dei detenuti (tutti, quelli di Firenze, della Toscana e dell’Italia), sono compatibili con un paese civile a prescindere dal cognome. La richiesta di visitare Sollicciano fu inviata il 5 novembre. Dopo un mese quell’autorizzazione è arrivata. Del caso Cancellieri ormai non se ne parla più. I Ligresti, le due sorelle Giulia e Lionella sono uscite dal carcere. E di nuovo, Radicali a parte, sulle condizioni di vita dei detenuti è calato il silenzio. La realtà invece è sempre peggiore, giorno dopo giorno. Il carcere più grande della Toscana, Sollicciano, è anche uno dei più sovraffollati d’Italia. Secondo solo a quello di Poggioreale. Le otto ore d’aria (anziché due) che il ministro ha chiesto per i detenuti italiani, non ci sono, e comunque non possono bastare se in una cella costruita per tre persone ci vivono in nove. Il Reportage In carcere comandano i numeri. Sono gli anni da scontare, sono i suicidi, 306 tra il primo gennaio 2009 e il 17 ottobre 2013. Dieci a Firenze, record insieme a Poggioreale. Ognuno ha la sua storia, detenuti, guardie, costretti a condividere il dramma di essere troppi, i primi, per una struttura inadeguata ad ospitarli e pochi, i secondi, per un carcere che esplode di persone. Ma tutto è geometrizzato, analizzato, sminuzzato in unità, segmenti, numeri. Dopo un po’ che sei lì cominci a contare anche tu. A sapere un sacco di cose di codici penali, di leggi, di Cancellieri, sputi cifre come macchinette, sono i numeri la cosa più orrenda contro cui devi lottare. Mercoledì 11 dicembre, 10 del mattino. Un carcere con le mura umide, i tubi che perdono acqua, le mutande appese ad asciugare nelle docce, le lampadine che durano pochi giorni e poi si fulminano, l’acqua calda che manca e meno male che c’è quel campo da calcio dove ci si va "per sfogarsi", quello dove ti giri e vedi un pezzo di cielo e il cemento e le celle nelle quali rientrare dopo la partitella. Il caso Cancellieri è già sparito dal radar dei giornali, anche se non è passa- to tanto tempo. Ma pochi giorni sembrano essere anni. Qui è Sollicciano, c’è la sala perquisizioni, c’è la sala delle matricole, c’è la chiesa, ci sono i tubi irranciditi dall’umidità, c’è il ragazzo tunisino massacrato di botte dal napoletano dieci giorni fa, li hanno separati per qualche giorno ma sono già tornati nella stessa cella. C’è una scritta del magistrato Nicolò Amato appesa al muro, "dietro il delitto c’è un passato, ma davanti al detenuto c’è un avvenire; e in questo avvenire vive ed opera un uomo. Dopo qualche tempo, questo spesso è un uomo completamente diverso da quello che ha commesso il delitto". La frase, che vorrebbe essere ottimista, è pericolosamente a doppio taglio. Perché il sovraffollamento non impedisce a un detenuto "primario", cioè a uno che è finito per la prima volta in carcere - un ragazzo di 18 anni beccato con qualche grammo di fumo - di essere messo in una cella con qualche cliente abituale che magari ha trenta o quarant’anni di "carriera" alle spalle. In carcere comandano i numeri. A Sollicciano ci sono 909 detenuti e 112 detenute, in totale fanno 1.021. Ci sono anche tre bambini, nel "nido". "I detenuti dovrebbero essere 480, la soglia tollerabile è di 780", spiega il direttore Oreste Cacurri. A novembre il ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri ha annunciato che l’80 per cento dei detenuti potrà usufruire di otto ore d’aria invece di due. "Mi ha fatto male scoprire che i detenuti avevano al massimo due ore di libertà al giorno, indi- pendentemente dal tipo di reato, e dunque anche per i casi di media e lieve detenzione. Così ci siamo mossi per arrivare, e ci arriveremo, a che l’80 per cento dei detenuti possa usufruire di otto ore di uscita dalla cella", ha detto il ministro. "Stiamo cercando di attuare quella circolare, abbiamo creato dei luoghi che possono frequentare dalle nove di mattina alle 16 di pomeriggio", dice Cacurri. "In condizioni ottimali i detenuti dovrebbero essere uno per cella, massimo due, in tutte le celle sono tre". Poi ci sono i cameroni, dove "tre sarebbe la condizione ottimale, sei quella tollerabile, ma si arriva fino a nove". Numeri però che non tornano all’ispettore Giampaolo Ietro, che assicura: "Non ci sono celle con nove persone". La corte di Strasburgo l’8 gennaio scorso ha condannato l’Italia per "trattamento disumano e degradante", perché i detenuti sono rinchiusi in carceri di meno di tre metri quadrati. Secondo l’ultimo rapporto Antigone, il sovraffollamento carcerario è del 142,5 per cento; ci sono oltre 140 detenuti ogni 100 posti letto, mentre la media europea è del 99,6. Gli avvocati dell’associazione "L’Altro Diritto", che fanno consulenza legale stragiudiziale gratuita per i detenuti, monitorano costantemente la situazione. Fra le cause maggiori, spiega Cacurri, c’è la carcerazione preventiva. "È un grosso problema, dovrebbe essere usata unicamente quando c’è reale necessità; invece una persona viene messa dentro per reati non molto gravi, poi magari viene assolta e si è fatto la galera per niente. Il sovraffollamento è un problema reale, così le persone vivono in condizioni non dignitose". E l’amnistia e l’indulto "sono soluzioni tampone. Ci vorrebbe la depenalizzazione, o il ricorso a misure alternative alla detenzione". In carcere comandano i numeri. A calcio giocano, o meglio "si sfogano", come dice Ietro, ispettore amato dai detenuti ("Fossero tutti come lui il carcere sarebbe un posto migliore", dice Frederico), due volte al giorno. Sono due i rotoli di carta igienica che ricevono al mese. Sono sette gli educatori più un capo area per mille detenuti. I carcerati dicono che sono pochi, perché l’educatore ha un ruolo fondamentale per alcuni di loro: scrive la relazione per i definitivi, che è necessaria perché il magistrato di sorveglianza conceda i benefici di legge. "Ma ora ci riteniamo fortunati, c’è stato un periodo in cui abbiamo lavorato in 3 o 4", dice Palmina Nespoli, che sembra una ragazzina ma lavora da 25 anni a Sollicciano, "un carcere fatiscente, che non è stato costruito bene". È con lei e gli altri educatori che parlano i detenuti. Frederico Troiano Bührer ha 35 anni, tre figli, è in carcere da due anni e mezzo per stupefacenti. Padre tedesco, mamma italiana. È nella commissione detenuti. Nel suo Paese aveva studiato alberghiero. In carcere ha studiato per diventare bibliotecario e ora ha un lavoro che gli permette di guadagnare qualcosa. "Conosco i problemi delle carceri, e non sono quelli che si vedono in tv. Sollicciano carcere modello? Assolutamente no. Io sono stato tre mesi al buio perché si erano fulminate le lampadine, che qui durano 3 giorni, perché c’è umido e i cavi si bagnano". Le docce, nel suo settore, il penale, sono le docce del paradosso; danno l’acqua calda nelle ore in cui i detenuti non possono uscire dalla cella. "E per qualsiasi cosa ci danno una tachipirina, sempre e solo tachipirina". Il suo compagno di cella ha avuto il foglio di espulsione 5 mesi fa. È una possibilità prevista dalla Bossi-Fini: l’accompagnamento alla frontiera. "Il problema - dice Frederico - è che l’espulsione costa e la questura non ha mandato nessuno a prenderlo. Anche io potrei essere fuori di qui, ho maturato i termini per uscire da Sollicciano. E guarda, io preferirei andare in carcere in Brasile, dove sicuramente subirei violenze fisiche. Meglio di qui, però, dove le violenze sono psicologiche". In carcere, dove comandano i numeri, c’è sempre qualcuno che si sente più privilegiato di altri, ma sono privilegi in una guerra tra poveri. Frederico si sente un privilegiato perché lui ha un lavoro. Molti non ce l’hanno. Ci racconta del progetto di un suo amico, Fernando, brasiliano come lui, condannato in secondo grado a 18 anni con l’accusa di omicidio, sulla raccolta differenziata dei rifiuti in collaborazione con i Comuni interessati grazie a un macchinario da lui inventato, Riselda. Frederico, Nelio e Fernando ci stanno lavorando, hanno persino depositato il brevetto del macchinario e fondato un gruppo "Keep the planet clean". La raccolta differenziata naturalmente sarebbe fatta anche all’interno di Sollicciano. "Daremmo da lavorare a 20/30 persone", spiega Frederico, cui una volta "un educatore mi ha detto, "è tutto molto bello, ma non ci riuscirai mai"; è in quel momento che mi è venuta voglia di farlo". Indulto e amnistia sono fondamentali, dice Frederico, ma da soli non servono senza un programma efficace di reinserimento. "L’unica soluzione è una riforma della giustizia. Io ho un lavoro, in Brasile ho studiato, ho fatto l’alberghiero, presto dovrei andare a lavorare alla biblioteca di Scienze Politiche a Novoli. Ma chi non ha studiato e non lavora come fa?". "Il detenuto che lavora è un detenuto tranquillo", dice Ietro con l’accento sardo che ogni tanto si fa sentire. Il ministro Cancellieri l’ha spiegato qualche giorno fa, "chi è in carcere deve avere la possibilità di lavorare o studiare. È dimostrato che l’80 percento di chi lo fa non ha recidive". Come Roberto Abinanti, che sta studiando per la terza media ed entra ed esce dal carcere. È un tossico. "È vero, io sono una testa di cazzo. Sono un recidivo, sono rientrato in carcere 15 volte", spiega, gli occhi azzurri penetranti, i capelli lunghi. "Scrivilo, scrivilo che nelle celle c’è la muffa, che nelle docce ci sono i funghi. Scrivilo che qui non funziona niente, scrivilo che Sollicciano non è un carcere modello. Scrivilo che da noi al giudiziario l’ora della doccia coincide con l’ora d’aria e che un detenuto sceglierà sempre l’ora d’aria alla doccia. Scrivilo che la legge funziona bene solo per Berlusconi e che per noi non funziona. Scrivilo che qui servono più educatori, più dottori. Scrivilo che la sezione sette, quella dei tossicodipendenti, non la fanno vedere a nessuno, neanche ai magistrati e ai deputati che vengono qui a fare il loro giro, perché fa schifo". Roberto vorrebbe più corsi, "più psicologi per parlare con qualcuno". La cosa più importante per Roberto sembra essere proprio questa; parlare. "Altrimenti come possiamo rieducarci?". L’articolo 27 della Costituzione dice infatti che le "pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". Ma stare in nove in una cella dove si dovrebbe stare in tre, o al massimo in sei, ha poco di rieducativo. E in una prigione possono finire insieme detenuti di religioni diverse. "Essere nella stessa condizione di carcerati non ci aiuta a superare le nostre differenze", dice Roberto. "La solidarietà fra carcerati non esiste", spiega Frederico in biblioteca. Poi ci salutiamo, perché il tempo è finito e Ietro, l’ispettore che ci accompagna, deve tornare a lavoro. Se i detenuti sono il doppio di quelli che dovrebbero stare a Sollicciano, le guardie penitenziarie sono la metà di quelle che servirebbero. In carcere comandano i numeri. E i soldi, che mancano sempre. Eppure, sostiene Ietro, "qualcuno che ci guadagna c’è, perché il carcere è un business. Basta fare due conti: ogni detenuto costa allo Stato 200 euro al giorno, in Italia ce ne sono settantamila. Evidentemente a qualcuno conviene il sovraffollamento. Abbiamo un contratto con Telecom di 3-4 milioni l’anno per i braccialetti elettronici all’americana. Dal 2002 a oggi sono stati usati soltanto undici volte. Neanche una volta all’anno". E poi c’è la cooperativa che vende il sopravvitto, il cibo che puoi acquistare per integrare quello che ti dà il carcere. "I prezzi non sono assolutamente a livello di mercato. Qua costa tutto di più che fuori". Negli ultimi due anni, peraltro, sono state tagliate del 60 per cento le risorse destinate ai detenuti che lavorano. "Noi guardie veniamo dai ceti bassi-medi, capiamo i loro problemi perché anche noi veniamo da situazioni difficili. E la prima assistenza, quando arrivano qui, la diamo noi. Ma noi non siamo psicologi, non siamo dottori. Però siamo privilegiati, perché poi finito il turno usciamo di qua, abbiamo le nostre famiglie". Qualcuno, direbbe Roberto, con cui parlare. Giustizia: alla Camera prosegue l’esame del pdl su visite dei detenuti a figli con handicap Asca, 15 dicembre 2013 Riconoscere ai detenuti, agli internati e agli imputati sottoposti a custodia cautelare il diritto a visitare i figli affetti da handicap grave e assisterli quando devono sottoporsi a visite specialistiche. Questa la finalità della proposta di legge 1438 "Disposizioni in materia di visite dei detenuti a figli affetti da handicap in situazione di gravità" che la Commissione Giustizia della Camera ha iniziato a esaminare il 12 dicembre. Il deputato di Sel Daniele Farina, relatore, ha illustrato il testo che si compone di un solo articolo e che modifica la legge n. 354/1975 laddove interviene sulle visite autorizzate dei genitori detenuti al figlio minore in imminente pericolo di vita o in gravi condizioni di salute, introducendo previsioni che estendono la facoltà di visita ai figli, anche non minori, che versino in situazioni di handicap grave. Farina ha sottolineato che il provvedimento mira a tutelare due ordini di interessi, entrambi meritevoli di tutela: i diritti dei detenuti nella loro sfera di affetti personali e familiari e, soprattutto, i diritti delle persone con disabilità grave. Il deputato di Sel ha auspicato il passaggio del testo alla sede legislativa in modo da accelerare i tempi di approvazione di una proposta di legge "che risponde unicamente a ragioni di umanità e civiltà". Pistoia: Garante dei detenuti; petizione al Ministro per miglirare la situazione del carcere Ristretti Orizzonti, 15 dicembre 2013 Al Ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri: ci rivolgiamo a Lei per migliorare la situazione del carcere di Pistoia La Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (Cedu) ha condannato l'Italia per trattamenti inumani e degradanti riservati alla popolazione carceraria. Il carcere di Pistoia ha la più alta percentuale di detenuti, oltre il numero consentito, di tutta la Toscana: circa 120 reclusi su una capienza regolamentare di 64, con celle di 7 mq dove sono ristrette per gran parte della giornata tre persone. Vi è un progetto a costo zero a carico dell'Amministrazione Penitenziaria per migliorare tale situazione, ma che ad oggi non è stato ancora realizzato, perché manca l'autorizzazione per l'inizio dei lavori da parte del Ministero della Giustizia. Il progetto consiste nella dislocazione, all'esterno del carcere, dell'attuale sezione dei detenuti in regime di semilibertà ristretti presso la Casa Circondariale di Pistoia. Questi detenuti durante la giornata svolgono attività lavorativa all'esterno e la sera rientrano in carcere. Attualmente a Pistoia sono circa 12 persone, ma potrebbero arrivare fino ad un numero massimo di 20 unità. La sistemazione esterna dei semiliberi, garantendo la copertura degli operatori di polizia penitenziaria necessari al controllo durante le ore serali, è una possibilità prevista dall'ordinamento penitenziario (Legge 26 luglio 1975, n. 354), e consentirebbe ai detenuti di Pistoia di fruire di uno spazio più dignitoso e sopratutto permetterebbe di rispondere in parte al problema del sovraffollamento carcerario alleggerendo il numero dei reclusi presenti in Istituto. L'ambiente individuato per dislocare la sezione dei semiliberi del Carcere di Pistoia, si trova presso il Convento dei Frati Cappuccini, situato a poche centinaia di metri dal Casa Circondariale, e donato gratuitamente per questo scopo dai Frati stessi. Anche i lavori di ristrutturazione di questo ambiente, richiesti per motivi di sicurezza dai tecnici del Provveditorato Regionale dell'Amministrazione Penitenziaria della Toscana, sarebbero a carico di una Fondazione privata di Pistoia. Per sottoscrivere la petizione: https://secure.avaaz.org/it/petition/Al_Ministro_della_Giustizia_Annamaria_Cancellieri_Ci_rivolgiamo_a_Lei_per_migliorare_la_situazione_del_Carcere_di_Pistoi/?launch Torino: Osapp; casi di scabbia tra detenuti, adottare misure protezione per il personale Adnkronos, 15 dicembre 2013 Casi scabbia tra i detenuti del carcere di Torino. A denunciarli è il sindacato di polizia penitenziaria Osapp, secondo cui "gli agenti, oltre a dover fronteggiare il ben noto sovraffollamento con il quotidiano disagio, adesso si trovano di fronte a un altro aggravio per la loro salute". L’Osapp si augura "che siano state adottate fin dall’inizio le opportune misure di osservazione per il personale. Qualora non fossero state approntate, si esorta a farlo immediatamente al fine di non estendere il contagio all’esterno". Secondo il segretario generale Leo Beneduci, "piove sul bagnato: aggiungiamo anche la scabbia tra i rischi professionali dei poliziotti penitenziari tra le cause di degrado del nostro disastrato sistema penitenziario". Trento: la Giunta provinciale premia 62 detenuti-studenti con 100 euro ciascuno Agi, 15 dicembre 2013 Grazie ad un finanziamento di 6.200 euro concesso dalla Provincia di Trento, l’Amministrazione penitenziaria riconoscerà a 62 detenuti della Casa circondariale di Trento che hanno utilmente seguito un percorso scolastico o formativo un premio individuale di 100 euro. L’assegnazione della somma è stata deliberata stamane dalla Giunta provinciale con l’approvazione di una delibera firmata dall’assessore alla Salute e solidarietà sociale, Donata Borgonovo Re, tra le cui competenze rientrano anche quelle relative agli interventi volti a prevenire e rimuovere gli stati di emarginazione. L’intervento a favore dei detenuti è legittimato dall’intesa istituzionale che la Provincia autonoma di Trento e il ministero della Giustizia sottoscrissero a settembre 2012 e relativa al reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti stessi attraverso, in particolare, percorsi d’istruzione, formazione professionale e culturali. Nell’anno scolastico 2012-2013, presso la Casa circondariale di Trento 28 detenuti hanno imparato o perfezionato la lingua italiana, 7 hanno conseguito la promozione dalla seconda e terza classe alla quarta del corso per geometri, e 27 (tra cui 8 detenute donne) hanno ottenuto l’attestato di regolare frequenza ai 3 moduli di acconciatura di base che si sono svolti nell’inverno-primavera di quest’anno a cura dell’Istituto "Pertini". Bologna: il Guardasigilli col coro Papageno alla Dozza… "questo è il carcere che vogliamo" di Lorenza Pleuteri La Repubblica, 15 dicembre 2013 La prima volta del ministro Anna Maria Cancellieri alla Dozza - "era grave che non ci fossi venuta prima", parole sue - finisce con applausi e richieste di bis, strette di mano ai detenuti coristi, lacrime e abbracci. E con un augurio che suona come una promessa. "Speriamo che il 2014 sia l’anno giusto e porti risposte al sistema carcerario, in tutti i sensi", auspica il Guardasigilli, invitata in via del Gomito per assistere all’esibizione del coro polifonico Papageno, un concerto aperto al pubblico esterno e un gruppo di familiari di tenori, bassi e soprani. Il decreto "svuota carceri", quello che permette ai condannati con pene sotto i 18 mesi di chiedere la detenzione domiciliare, "sarà sicuramente prorogato alla scadenza", a fine anno. E martedì in Consiglio dei ministri approderà il pacchetto di interventi abbozzati per uscire dalla procedura europea di infrazione, entro maggio. Il ricorso al braccialetto elettronico per le persone ammesse a misure alternative. L’introduzione della "messa alla prova" anche per gli adulti. Una minore penalizzazione dei reati di lieve entità. L’innalzamento della detrazione di pena per buona condotta da 45 a 60 giorni a semestre. La revisione dei vincoli posti dalla recidiva. Il completamento del piano di edilizia carceraria, che a Bologna prevede un nuovo padiglione da 200 posti. Quanto a indulto e amnistia, e alle posizioni contro del neosegretario Pd Matteo Renzi, Cancellieri si chiama fuori. "Solo il Parlamento - ricorda - può decidere se darvi corso o meno. Noi facciamo la nostra parte per quel che riguarda il resto". Il coro Papageno, un progetto del maestro Claudio Abbado e dell’orchestra Mozart, rientra nell’elenco di ciò che alla Dozza funziona a dispetto di cronici problemi e quotidiane emergenze. Impegna e aiuta a cambiare. Mescola uomini e donne con età e storie differenti. Cancella differenze linguistiche e sociali. Spinge alla commozione. "La musica - sottolinea il ministro - dà speranza e fiducia a chi non ce l’ha, scalda i cuori, eleva gli animi". E la formazione della Dozza, diretta da Michele Napolitano, supportata da coristi volontari e da quattro musicisti, "è un unicum nel nostro panorama, un’iniziativa straordinaria che va nel senso del carcere che tutti vogliamo". "Ben venga la presenza della Cancellieri, ma siamo stanchi di promesse, annunci, rinvii, illusioni - si sfogano alcuni parenti dei detenuti-cantori, tenuti separati dagli altri ospiti, confinati per loro conto - Servono cose concrete, subito. Il ministro ci ha appena detto che la Dozza è un bel carcere e ha un’ottima direttrice. Ma forse, anche se siamo i signori nessuno, dovrebbe chiedere se è così pure a noi e ai nostri familiari in cella. L’averci messo in un angolo, oggi, racconta più di mille chiacchiere". Cagliari: versi scritti sulle sbarre… quando la poesia incontra i detenuti di Giulia Clarkson La Nuova Sardegna, 15 dicembre 2013 "Parlo dei detenuti / del desiderio che racconta cicatrici / non mie non del mio corpo / parlo della mia gente (...) e intanto scrivo sulle sbarre della gabbia / una speranza a scoppio ritardato/ e se l’anima ha voglia di nominarne i dubbi / se le interessa… prenda…". Così apriva e chiudeva la poesia sui detenuti il poeta Alberto Masala. Ed era il 2004. Ieri mattina non l’ha letta all’incontro all’interno del carcere di Buoncammino, a Cagliari, organizzato per Marina Cafè Noir, ospite con il collega poeta Alberto Lecca. Hanno parlato d’altro. Hanno parlato di poesia. Ma la sua idea di fondo è stata confermata ancora una volta: "Se le condizioni fossero diverse, nel mondo non ci sarebbe bisogno di punizioni. Perché non esiste la delinquenza, esistono semmai condizioni deteriori, le negazioni - dell’amore, del bello, dello star bene, della cultura - che ti trascinano dentro una spirale maledetta. E poi da lì succede tutto. Ti ritrovi in un abisso, un buco da cui non sai più uscire". A dispetto della previsioni della Costituzione e delle affermazioni sul rispetto dei diritti e della dignità umana, in Italia la cultura carceraria è punitiva più che riabilitativa. Col conseguente svilimento della personalità, inibizione dell’affettività, della sessualità e dei diritti umani più elementari. Un portato del periodo fascista che non è certo da ascrivere alle persone che nel carcere lavorano. "Mi ha sconvolto, all’ingresso, dopo il primo portone e poi il secondo, nel cortile, trovare una lapide in cui è scolpito il testo dell’articolo 27 della Costituzione "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". Un’assurdità se solo si pensa a come sono organizzate le strutture carcerarie". Davanti a una trentina di detenuti, per la maggior parte sardi, di ogni età e provenienza, Masala ha parlato di poesia. Intanto per contrastare un’idea diffusa ed ebete sulla poesia. Ovvero, che sia esclusivamente legata ai buoni sentimenti. "Come se non fossero esistiti Pasolini, Rimbaud, Lucrezio. Ma no, poesia è tutto quello che succede". E così si sono distesi i ponti, e l’incontro è proseguito come in un salotto letterario perché in prigione "tutti scrivono. E scrivono cose belle. È come fare autocoscienza. Tu li vedi alcuni, con certe facce da paura, ma poi, leggono le cose che hanno scritto e ti strappano le lacrime. Sono sensibili, a volte timidi, dimostrano grande tenerezza tra di loro, si sostengono, si aiutano". C’è un dato che Alberto Masala è fiero di poter sfoggiare: il carcere di Cagliari ha il record nazionale di lettura, con 4500 libri dati in prestito in un anno. "È il carcere con più lettori, e loro ne sono molto fieri. Prendono molto sul serio la biblioteca e la letteratura. Hanno questa necessità-felicità di scrittura continua. Il problema è conservare la dignità delle persona. Se riescono a conservarla anche con i libri, benedetta sia la scrittura!". Dall’incontro, Alberto Masala esce non solo pieno spiritualmente, per la bellezza delle persone che ha conosciuto, ma anche con le braccia ingombre: "Mi hanno coperto di testi. Su uno c’è un post-it con su scritto: fammi una critica. Lo leggerò e gli manderò una lettera quando torno a casa". E poi, lancia una provocazione: "Il dramma è sociale, non esistono i criminali. Ogni detenuto è un fallimento della società. Se poi si depenalizzasse la droga, come è successo in America, il carcere si svuoterebbe. Ma il sistema della droga non è solo del traffico, ma anche di tutti gli avvocati e tribunali che ruotano intorno. A depenalizzare, non rimarrebbe più nessuno". Pisa: due donne tentano di portare hashish ai familiari in carcere, scoperte e denunciate Ansa, 15 dicembre 2013 Due giovani pisane sono state arrestate ieri dalla polizia penitenziaria della casa circondariale Don Bosco di Pisa, in collaborazione con la squadra Mobile, per spaccio di sostanze stupefacenti all’interno del carcere. Per una terza persona, un tunisino, anche lui arrestato ieri, la procura ha ritenuto insussistenti gli indizi di colpevolezza e ne ha ordinato la scarcerazione immediata mentre ha richiesto la convalida dell’arresto al Gip per le due donne. Secondo l’accusa, le due italiane durante i colloqui in carcere con altri familiari detenuti tentavano di introdurre hashish all’interno della struttura penitenziaria. Nelle abitazioni delle due giovani sono stati complessivamente recuperati 14 grammi di marijuana oltre ad alcune cartucce per fucili da caccia illegalmente detenute e per il possesso delle quali sono state denunciate. Milano: domani il ministro Cancellieri a un convegno nella Casa di Reclusione di Bollate Adnkronos, 15 dicembre 2013 Lunedì 16 dicembre alle ore 9, all’interno della Sala Teatro della casa di reclusione di Milano Bollate, il ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri partecipa ai lavori del convegno intitolato ‘Cooperazione sociale ed esecuzione della pena: quali modelli?’, organizzato da Alleanza delle Cooperative Italiane. Dopo i saluti del presidente Regione Lombardia Roberto Maroni, del sindaco Milano Giuliano Pisapia e del direttore del carcere milanese Massimo Parisi, l’intervento del guardasigilli nell’ambito della sessione Giustizia e carcere in Italia: verso nuovi modelli di reinserimento socio-lavorativo. Successivamente la tavola rotonda coordinata da Massimo Minelli, di Alleanza Cooperative Sociali Lombardia: intervengono il presidente del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Giovanni Tamburino, il provveditore dell’Amministrazione penitenziaria per la Lombardia Aldo Fabozzi, l’amministratore delegato di Banca Prossima Marco Morganti, il responsabile del settore cooperative B di Legacoop Sociali Giancarlo Brunato e il presidente di Agci Solidarietà Eugenio De Crescenzo. Mondo: i "Mandela" dimenticati, vescovi in galera da 50 anni di ANTONIO SOCCI Libero, 15 dicembre 2013 Non dico che l’apparato mediatico mondiale sia un congegno di sistematica disinformazione. Non voglio dirlo. Però sono insopportabili la sua ipocrisia e il suo doppiopesismo. Per le notizie che tace, ma anche per quelle che dà con enfasi e per le mitologie che crea. È la società dello spettacolo "politically correct" di cui Hollywood è il tempio. L’ultimo mito che ha costruito e celebrato è quello di Nelson Mandela. Il quale ha indubbi meriti politici, ma lui per primo avrebbe rifiutato di paragonarsi a Gesù Cristo, accostamento che invece è stato fatto da qualcuno della Bbc. L’establishment occidentale prima ha sostenuto il regime razzista dell’Apartheid. Quando poi non era più digeribile e si rischiava di tenere fuori dal mercato globale le immense ricchezze minerarie del Sudafrica (anzitutto l’oro) si è trovato un leader della lotta alla segregazione, Mandela appunto (in precedenza ritenuto un mezzo terrorista), che ha avuto la saggezza politica di accettare e guidare - nel nome della riconciliazione - un’uscita pacifica da quel regime, senza bagni di sangue, rese dei conti o processi. Cosicché la maggioranza nera ha ottenuto il potere politico, mentre la minoranza bianca si è tenuta il potere economico. Mandela non è stato un santo, ma si è dimostrato un vero leader e uno statista. Come tutti i politici ha avuto le sue ombre e ha fatto i suoi errori, però ha sopportato anni di carcere e gli va riconosciuta una gran dignità. Lascia a desiderare invece quella dell’Occidente "politically correct" considerando le foto che hanno immortalato Obama (pure con Cameron), allo stadio di Johannesburg, durante la commemorazione del leader sudafricano: ha sghignazzato continuamente facendo il cascamorto con la bionda premier danese, tanto da suscitare l’irritazione della moglie Michelle. È così che l’Occidente liberal "piange" la scomparsa di Mandela? Del resto che i media abbiano costruito, sui suoi 27 anni di carcere, un martirologio ipocrita lo dimostra il fatto che poi, gli stessi media, sono stati e restano indifferenti a detenzioni più lunghe e orribili di quella di Mandela. Drammi tuttora in corso. Faccio qualche esempio. Monsignor Giacomo Su Zhimin, vescovo cattolico di Baoding (Hebei), ha trascorso 41 anni in lager e prigioni varie, "senza alcuna accusa e senza alcun processo" (come scrive l’agenzia dei missionari, Asia News). Egli rappresenta quell’inerme popolo cristiano che, sotto il comunismo, subisce più dell’apartheid: ottantenne, ha passato metà della sua vita in prigione ed è tuttora incatenato, ma non si sa dove e il regime si rifiuta di dare qualsiasi informazione, anche alla famiglia. Tanto il mondo se ne infischia. Infatti da noi nessuno ne ha mai sentito parlare. C’è qualche giornale che ne abbia raccontato la storia? C’è un solo statista - magari di quelli, anche italici, che sono pappa e ciccia col regime cinese - che ne ha chiesto la liberazione, o almeno qualche notizia? C’è una mobilitazione internazionale per lui? Le cosiddette organizzazioni umanitarie hanno fatto iniziative sul suo caso? Qualcuno lo ha mai candidato al Nobel? Hanno promosso per lui concerti di solidarietà o iniziative come il "Mandela day"? Gli hanno intitolato palazzetti dello sport come il "Mandela Forum" di Firenze? Star della musica, del cinema e della politica sono andati a incontrarlo? Si sono fatti film su di lui o almeno reportage televisivi? Nulla di nulla. Nessuno da noi conosce neppure la sua faccia e il suo nome. Totalmente ignorato. Eppure quest’uomo buono e grande, abbandonato da quei media che poi beatificano Mandela, non ha mai fatto politica, ma ha solo chiesto diritti umani e libertà religiosa. E non ha predicato odio e violenza, ma solo l’amore di Cristo. Non cerca e non vuole alcun potere. Sa che non lo aspetta né la libertà, né il Nobel, né una poltrona da Capo di Stato, né gli applausi di Hollywood e gli onori del mondo. Ma solo la morte in qualche lurida e fredda prigione, nell’indifferenza generale. Eppure non rinnega la sua fedeltà a Cristo e al suo popolo. Lui sì che è un santo e un martire. Ma nessuno in Occidente si sogna, per lui, di andare a disturbare i crudeli despoti cinesi da cui, anzi, tutti gli statisti e gli gnomi del potere economico si recano per baciare la pantofola. Un caso analogo è quello di monsignor Cosma Shi Enxiang, vescovo cattolico di Yixan. A 90 anni di età ne ha passati 52 fra lager, prigioni e lavori forzati. La sua via crucis cominciò nel 1957. L’ultima volta è stato arrestato il 13 aprile del 2001 e da allora non se ne sa più nulla. Si potrebbe continuare con altre vittime. Ma non c’è solo la Cina di fronte alla quale l’Occidente è pavido e servile come davanti al nuovo padrone del mondo. Ricordo il caso di Asia Bibi, la donna cattolica pakistana, poverissima, madre di quattro figli, che da quattro anni e mezzo è detenuta in condizioni subumane ed è stata condannata a morte solo per essersi dichiarata cristiana e aver rifiutato la conversione all’Islam. I cristiani del Pakistan vivono in condizioni peggiori dei neri del Sudafrica durante l’apartheid. Ma per loro e per Asia Bibi nessuno si batte e i media se ne infischiano. Le situazioni di apartheid in cui vivono i cristiani o altri gruppi umani non fanno notizia e non suscitano scandalo. Lo ha dimostrato anche un caso di questi giorni. È accaduto che in India - per iniziativa di un leader nazionalista indù - un tribunale ha reintrodotto la norma che punisce col carcere la pratica omosessuale. Chi ha difeso gli omosessuali? La Chiesa cattolica. Il cardinale Gracias, arcivescovo di Mumbai, ha attaccato questa sentenza opponendosi a chi criminalizza i gay. In Occidente la decisione del tribunale ha fatto clamore, ma è passata quasi inosservata l’opposizione della Chiesa e anzi qualcuno ha messo (arbitrariamente) indù, cristiani e musulmani nello stesso fronte, d’accordo col tribunale. Non è così. Del resto la (giusta) sensibilità dei media occidentali in difesa dei gay indiani purtroppo non si nota in difesa dei dalit, i "senza casta", i "paria" (che significa "oppressi"), quelli che nell’antica religione indù erano considerati meno degli animali. Infatti nessuno scandalo internazionale è scoppiato per la manifestazione, tenutasi mercoledì a New Delhi, per i diritti dei dalit cristiani e musulmani, durante la quale la polizia ha picchiato vescovi, sacerdoti e religiosi e ha addirittura arrestato l’arcivescovo monsignor Ardit Couto. I dalit cristiani sono anch’essi in condizioni uguali o peggiori dei neri sudafricani sotto l’apartheid. Ma nessuno grida allo scandalo. Eppure la Costituzione indiana sulla carta avrebbe abolito le caste. Ma i dalit, circa 200 milioni, sono rimasti in condizioni miserrime e vittime di tanti abusi. Per questo molti di loro si sono convertiti al cristianesimo e all’Islam, per avere dignità umana e liberarsi dall’orribile teologia induista delle caste. Queste conversioni hanno scatenato le violente reazioni degli indù. Inoltre il Parlamento indiano ha riconosciuto diritti solo ai dalit che restavano nell’induismo. Niente ai dalit cristiani e musulmani. "Una discriminazione che viola la Costituzione", ha dichiarato il presidente della Conferenza episcopale indiana. Ma per questo regime di apartheid tuttora praticato dalla democrazia più grande del mondo, nessuno si scandalizza. Nessuno propone sanzioni. Intanto i vescovi cattolici vengono arrestati per la loro lotta in difesa dei dalit proprio negli stessi giorni in cui il mondo, i potenti della terra e i media esaltano Mandela e la sua lotta all’apartheid sudafricano. La Chiesa disprezzata e bistrattata dall’Occidente laico e dai suoi media, continua- oggi, come ieri e come sempre - a difendere tutti gli oppressi da ogni apartheid. E lo fa pagandone le conseguenze, cioè persecuzioni, sofferenze e tanti martiri. C’è qualcuno, nei media, che se ne accorgerà? Stati Uniti: Benedetto Cipriani marcisce in galera nonostante l’ordine di estradizione di Clemente Pistilli www.lanotiziagiornale.it, 15 dicembre 2013 Mai stati dei leoni davanti agli Stati Uniti d’America. Mai brillanti nel difendere i propri diritti, ma sempre pronti ad obbedire al minimo cenno dello Zio Sam. Infiniti gli esempi di sudditanza degli italiani verso gli statunitensi e il caso di Benedetto Cipriani non ha fatto eccezione. Nel 2005 l’allora guardasigilli Roberto Castelli concesse l’estradizione del connazionale, accusato di essere il mandante di un triplice omicidio, legando però quel provvedimento all’impegno a non condannare il 58enne a morte e nel consentirgli, in caso di condanna, di scontare la pena in Italia. La seconda clausola non è stata accettata dagli Usa, il decreto non è stato cambiato, l’estradizione concessa e da tempo, dinanzi ai ricorsi di Cipriani, i diversi Ministeri stanno facendo scaricabarile. Il risultato? Ora è dovuto intervenire il Consiglio di Stato e dare a Palazzo Chigi e ai Ministri della giustizia e degli esteri i compiti per casa. Cipriani, originario di Ceccano, in provincia di Frosinone, è stato ritenuto il mandante dell’uccisione, il 30 luglio 2003, del marito della sua ex amante, Robert Stears, un meccanico, del socio in affari di quest’ultimo, Barry Rossi, e del dipendente Lorne Stevens, freddati da tre portoricani a Windsor Locks, nel Connecticut. Rientrato in Italia, Cipriani si è visto raggiungere dalla richiesta di estradizione, concessa con le clausole ora oggetto del contenzioso, e il 13 luglio 2007 è stato condotto negli Usa, dove è stato condannato a 200 anni di reclusione. Anche se gli americani hanno negato al 58enne la possibilità di scontare la pena nel suo Paese, dicendo che al massimo sarebbe stata possibile dopo aver scontato metà pena negli Usa, ovvero dopo un secolo, il decreto parla chiaro e a Cipriani sinora non è servito vincere i vari ricorsi. Lo Stato è rimasto inerte e muto. Il Consiglio di Stato ha ora ordinato al commissario ad acta nominato da Palazzo Chigi di convocare una conferenza con i capi di gabinetto dei Ministeri della giustizia e degli esteri e di trovare una soluzione. Meglio tardi che mai. Svizzera: il procuratore generale John Noseda difende la riapertura delle carceri pretoriali www.liberatv.ch, 15 dicembre 2013 Il procuratore generale John Noseda non trova nulla di male nella decisione di riaprire le vecchie carceri pretoriali, chiuse nel 2006 in quanto ritenute inadeguate a ospitare detenuti e in contrasto con il rispetto dei diritti umani. "Si sta facendo una tempesta in un bicchier d’acqua", dice Noseda al Corriere del Ticino. E ricorda: "Oltre ad essere uno dei membri fondatori di Amnesty International e aver fatto per anni parte del Comitato internazionale per la prevenzione della tortura sono stato tra i primi in Ticino ad aver sollevato in passato l’irregolarità delle vecchie pretoriali per la detenzione preventiva". Noseda sottolinea che non si intende in alcun modo ripristinare la vecchia destinazione e che per la detenzione preventiva si continuerà a far capo al carcere giudiziario della Farera. Nessun ritorno a metodi coercitivi non rispettosi della legalità, dunque. "Le vecchie celle che si trovano al pian terreno di palazzo di giustizia a Lugano e nel pretorio di Locarno - spiega - verrebbero utilizzate unicamente per le persone fermate che si trovano in attesa di essere tradotte davanti al Ministero pubblico. Questo allo scopo di accelerare l’audizione da parte del magistrato senza perdere tempo prezioso negli spostamenti. Il tutto per una durata prevista dal codice di procedura penale dell’ordine di poche ore". Non solo, conclude Noseda: "Gli spazi ricavati al posto delle vecchie celle pretoriali potranno essere utilizzati nelle pause dei processi per trattenere i detenuti senza doverli riportare ogni volta al Giudiziario". Svizzera: pitturare le cella di rosa non fa diminuire l'aggressività dei detenuti www.tio.ch, 15 dicembre 2013 Nessun effetto positivo dopo l'esperimento nel carcere zurighese di Pöschwies. L'idea di pitturare le celle penitenziarie di rosa, con l'obiettivo di rendere più tranquilli i detenuti, non funziona: è quanto emerso da uno studio empirico condotto nel carcere zurighese di Pöschwies, il più grande della Svizzera. "Finora non abbiamo praticamente notato alcun effetto", ha affermato Thomas Noll, fino all'anno scorso capo-esecuzione delle pene a Pöschwies e attualmente direttore del centro svizzero di formazione del personale penitenziario, in un servizio radiofonico diffuso oggi dalla SRF. Per 18 mesi nella struttura di Regensdorf (ZH) sono stati osservati complessivamente 60 detenuti: il personale ha tenuto d'occhio 30 persone ospitate in celle rosa e altrettante in stanze normali. Il grado di aggressività è stato protocollato al primo e al terzo giorno di soggiorno in cella: non sono al riguardo emerse differenze significative. Pöschwies non è l'unica prigione che ha tentato la strada del colore rosa: nella Svizzera tedesca esistono attualmente una ventina di celle di questo tipo. C'è chi però nel frattempo ha già fatto marcia indietro: è il caso del penitenziario grigionese di Realta, dove dopo due anni di esperimento rosa una cella è tornata nel 2012 nuovamente bianco-grigia. Gran Bretagna: auspicare fine monarchia è ancora reato da ergastolo, norma mai abrogata Ansa, 15 dicembre 2013 L’appello all’abolizione della monarchia britannica costituisce ancora un delitto di tradimento nel Regno Unito, passibile di carcere a vita e di deportazione oltremare. Lo ha ricordato il governo di Londra, dopo che per errore aveva inserito questo reato in una lista di 309 delitti abrogati. Il ministero della Giustizia ha dovuto ammettere che la sezione 3 del "Treason Felony Act" del 1848, mai applicata dal 1879, non è mai stata soppressa.