Giustizia: quando è la Consulta a dire che il carcere è fuorilegge… di Andrea Pugiotto Il Manifesto, 11 dicembre 2013 Condannando l’Italia per violazione dell’art. 3 Cedu (divieto di tortura), la Corte europea dei diritti umani chiama tutti i poteri dello Stato a risolvere un sovraffollamento carcerario ormai endemico. Silente il Parlamento - che addirittura non ha ancora discusso il relativo messaggio del Quirinale - sono i giudici a tentare soluzioni inedite. I primi a farlo sono stati i tribunali di sorveglianza di Venezia e Milano, chiamando in causa la Corte costituzionale. Nelle loro ordinanze si dice apertamente che una pena scontata in celle colme fino all’inverosimile non ha finalità rieducativa, vìola il divieto di trattamenti inumani, lede la dignità umana del detenuto. Costituzionalmente, è una "non-pena". Servirebbe un rimedio estremo: la facoltà per il giudice di differirne l’esecuzione finché non si presentino le condizioni detentive per poterla eseguire legalmente. Come già accade in Germania, in California, nel nord Europa. A tal fine ne sollecitano l’introduzione all’art. 147 c.p., per il tramite di un intervento additivo della Consulta. Si sapeva che la richiesta era stata respinta. Ora che la sentenza costituzionale n. 279 è stata pubblicata, ne conosciamo le motivazioni, di assoluto rilievo. La sentenza riconosce "l’effettiva sussistenza" di quanto denunciato dai giudici. Il sovraffollamento carcerario, per la Corte, è un "fatto notorio", un problema "strutturale e sistemico", idoneo a "pregiudicare i connotati costituzionalmente inderogabili dell’esecuzione penale". La voce severa dei giudici costituzionali va così ad aggiungersi a quelle della Corte di Strasburgo e del Capo dello Stato, entrambe amplificate nella sentenza in esame. Come non sentirle? Di più. La condizione di sovraffollamento negli istituti di pena è di tale gravità da rendere "necessaria la sollecita introduzione di misure specificamente mirate a farla cessare". Il riferimento è da intendersi ad una legge di amnistia e indulto, giacché altri interventi ordinamentali richiederebbero tempo "mentre l’attuale situazione non può protrarsi ulteriormente". Già raccomandata nel messaggio del Quirinale, è un’indicazione di buon senso che si oppone al senso comune delle forze politiche ostile ad atti di clemenza generale. Eppure è la Costituzione "più bella del mondo" a contemplarli tra gli strumenti di politica criminale. E la condanna a Strasburgo ha fatto scattare il cronometro: dobbiamo recuperare una legalità dietro le sbarre a breve, entro il 28 maggio 2014. Deflazionare le carceri e le aule di giustizia, dunque, è la prima cosa da fare. Il rimedio preventivo richiesto dai giudici remittenti, invece, viene negato. Ma solo per ragioni processuali. La Corte, infatti, non può introdurre una regola scelta tra una pluralità di soluzioni normative: l’opzione non sarebbe costituzionale ma politica, dunque è riservata al legislatore. È quanto accade nel caso in esame, dove il differimento facoltativo della pena non esaurisce i rimedi possibili, che la sentenza esemplifica. Il Parlamento è però avvisato: in tema, "l’eccessivo protrarsi dell’inerzia legislativa" non sarà tollerato. Suggerirei ai giudici di sorveglianza di attendere la data del 28 maggio 2014. Superata inutilmente, ripropongano la medesima quaestio, fiduciosi nella disponibilità della Corte a sanzionare l’anomia legislativa. Come in natura, così anche nella tutela dei diritti non esiste il vuoto. Perché se i diritti vanno tutelati per evitare la catastrofe, ci sarà sempre un giudice a Berlino cui chiedere giustizia. Anche per i troppi detenuti costretti a vivere in formicai di sbarre e cemento armato. Giustizia: Dossier "Farfalla", il ministro ammette l’esistenza di un accordo tra Sisde e Dap di Silvio Messinetti Il Manifesto, 11 dicembre 2013 La farfalla volava basso, si mimetizzava nelle celle di massima sicurezza, volteggiava indisturbata tra i penitenziari di mezza Italia. Si nascondeva nelle barbe finte degli uomini dei servizi a caccia di informazioni nei colloqui riservati con i detenuti sottoposti al regime del 41 bis. Ma lemme lemme la nebbia fitta comincia a diradarsi e la farfalla a intravedersi. Il manifesto se ne occupa fin dal 2006 (cfr. Matteo Bartocci, "il carcere delle spie" 31 maggio 2006). Ma ora è uno dei tanti misteri d’Italia che l’audizione della Commissione parlamentare antimafia, che ha avviato ieri a Reggio Calabria la sua attività d’indagine, sta scoperchiando dal pentolone delle trame occulte e dei segreti irrisolti. È stato il guardasigilli in persona, Annamaria Cancellieri, ad ammettere l’esistenza di questo rapporto. Nome in codice "Farfalla", appunto. Racconta di un patto segreto tra i servizi di intelligence e Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria che in passato, ma chissà forse ancora oggi, ha permesso agli spioni di far visita ai detenuti (‘ndranghetisti e mafiosi) al 41 bis. Per raccogliere informazioni? Ancora non è dato sapere. "Soprattutto ci chiediamo se sia ancora operativo" incalza Claudio Fava (Sel), vicepresidente dell’Antimafia. "È una questione pesante a cui, noi come Commissione e il procuratore capo della Dna, Roberti, chiediamo venga data risposta al più presto. Siamo di fronte non al dubbio ma alla certezza che vi sia stato e vi sia un protocollo operativo che all’epoca era stato istituito fra il Sisde e il Dap. Di questo ha reso testimonianza di fronte all’autorità giudiziaria il numero due del Dap, Sebastiano Ardita, spiegando che di questo protocollo lui sapeva l’esistenza ma non i contenuti. È un protocollo che in sostanza prevede la collaborazione fra la struttura penitenziaria che si occupa dei detenuti al 41 bis e i servizi di sicurezza. Naturalmente abbiamo la necessità come commissione di sapere cosa contenga questo protocollo, quali fossero le possibilità di accesso alle strutture carcerarie dei nostri servizi di sicurezza. Anche perché supponiamo che il protocollo all’epoca sviluppato dal Sisde sia stato ereditato anche dall’Aisi. Mi è sembrato abbastanza insolito che il ministro della Giustizia non ne fosse a conoscenza. Quanto meno ai tempi in cui il protocollo è stato sviluppato, il Viminale deve essere stato informato e l’informazione deve essere messa a disposizione di chi viene dopo. La ministra ci ha detto che riferirà e noi aspettiamo. Ma la domanda resta. Quale funzione hanno avuto i servizi in questi anni? Indurre alla collaborazione i detenuti al 41 bis? Intercettare comunicazioni verso l’esterno?". Domande inquietanti, ma che diventano ancor più urgenti alla luce anche del ruolo "non di totale limpidezza", sottolinea Fava, che nella storia d’Italia hanno avuto i servizi. "Pensiamo a quello che è accaduto 20 anni fa, ai silenzi che hanno accompagnato la stagione delle stragi e presumibilmente al ruolo anche di una parte degli apparati", ma soprattutto della possibilità "di una nuova recrudescenza con il rischio di una nuova stagione stragista" come paventato giorni fa dal ministro Alfano. A lanciare l’allarme, rivela Fava, sono stati i magistrati di Palermo che hanno ventilato l’ipotesi che "la mano e l’intenzione non sia riferibile soltanto a Cosa nostra". Ma nasconda altri interessi non ancora definiti, ma che potrebbero non escludere - secondo Fava - un coinvolgimento della ‘ndrangheta e non solo. "La procura di Reggio questa preoccupazione l’ha esposta nitidamente. Vi è un punto di interesse condiviso sicuramente per quanto riguarda interessi passati e vecchi progetti stragisti. Questa collaborazione c’è stata in passato e c’è ragione di temere che si ripeta in futuro. Questo è anche un contesto inquinato e vischioso in cui è facile che si possa realizzare un progetto che chiama in causa soggetti diversi da quelli delle stesse organizzazioni criminali". Il pericolo, avverte il vicepresidente dell’Antimafia, non è solo legato alla criminalità calabrese. "Si è parlato molto anche di massoneria, come camera di compensazione all’interno della quale si possono incontrare interessi non solo riconducibili alle ‘ndrine, ma anche a borghesia d’affari e professioni. Al riparo da sguardi indiscreti possono costruire alleanze e progetti solidi". In questa situazione di confusione sociale e di crisi economica, c’è il rischio che la palude collosa di interessi eversivi si allarghi. Coinvolgendo pezzi deviati dello Stato e criminalità organizzata. Dalla città dei "boia chi molla" di quarant’anni fa, e nel pieno delle giornate dei forconi inclusi proclami para golpisti, il messaggio che arriva è inquietante. Giustizia: Cancellieri; un ufficio legale in ogni carcere, per dare voce a chi non ce l’ha Tm News, 11 dicembre 2013 "Quella della morte di Federico Perna è una foto drammatica che tocca tutti noi non ci sono parole per descriverla. L’amministrazione sta guardando verso se stessa nel massimo del rigore. La figura del Garante che io proporrò al primo consiglio dei ministri in tema di giustizia, sarà proprio per quello, affinché in ogni carcere ci sia un ufficio legale per dare voce a chi non ce l’ha". Lo ha detto il ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri intervistata da Linea Gialla, in onda questa sera alle 21.10 su La7 "Appena finita la Commissione che sta quasi con concludendo il suo lavoro - ha spiegato il ministro Cancellieri - daremo tutti gli atti alla Procura della Repubblica. Il mio impegno perché queste cose non accadano più che ed è totale. Ho molta fiducia nella figura del Garante Nazionale perché li metteremo una pietra in ogni carcere". Il ministro ha ringraziato il personale della polizia penitenziaria - conclude il Guardasigilli - perché fa un lavoro straordinario, un lavoro difficilissimo. Giustizia: Bernardini (Radicali); per neoresponsabile Pd degrado carceri è rieducazione di Rita Bernardini Notizie Radicali, 11 dicembre 2013 Per la neo-nominata responsabile Giustizia del Pd i trattamenti inumani e degradanti sono rieducativi. Ecco il nuovo che avanza, con Renzi. La neo-nominata - da Matteo Renzi - responsabile Giustizia del Pd spiega ai giornali che amnistia e indulto non risolvono il problema del sovraffollamento carcerario e creano nei cittadini l’idea che non esistono pene certe e fanno venire meno la funzione fondamentale del carcere, cioè la rieducazione. Per Alessia Morani, evidentemente, la "rieducazione" consiste nei trattamenti inumani e degradanti che, attualmente e da anni, vengono praticati nelle nostre carceri. Non deve essersi letta né il messaggio del Presidente della Repubblica alle camere né quanto affermato dalla Corte costituzionale in una recente sentenza: di fronte a tali trattamenti - che secondo l’art. 3 della Cedu vanno sotto il nome di "tortura" - c’è l’obbligo di intervenire per rimuoverli. Lo dice anche la sentenza Torreggiani della Corte Edu, che impone all’Italia di rimuovere questo stato di flagrante illegalità entro il prossimo 28 maggio. Figuriamoci poi se l’on Alessia Morani si sia presa la briga di documentarsi sulle condanne trentennali della stessa Corte di Strasburgo inflitte all’Italia per l’"irragionevole durata dei processi", violazione cronica che secondo il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa mette in pericolo lo "stato di diritto" nel nostro Paese. D’altra parte, cosa pretendere da una responsabile "giustizia" che nel suo mandato si è limitata a co-firmare atti parlamentari (disegni di legge, interrogazioni, ordini del giorno e mozioni) nessuno dei quali riguardanti il carcere o la giustizia? Il giorno di Natale, marceremo "per l’amnistia, la giustizia e la libertà, con Don Antonio Mazzi e tanti altri (vedi elenco adesioni), da San Pietro a Palazzo Chigi, per rispondere ad un "imperativo categorico morale" - come ha definito l’amnistia la guardasigilli Cancellieri - e per rispettare la Costituzione italiana, la più "bella del mondo" e la più violata nei suoi principi fondamentali. Giustizia: Morani (Pd); senza riforme provvedimenti di clemenza sarebbero dannosi Agi, 11 dicembre 2013 Alessia Morani, responsabile Giustizia del Partito Democratico, ha respinto le critiche di Rita Bernardini. "Invito Rita Bernardini a leggere i miei interventi su pene alternative al carcere e custodia cautelare, e a prendere visione degli emendamenti a mia firma alla stabilità sugli uffici di esecuzione penale esterna, prima di esprimere giudizi così trancianti nei miei confronti", ha dichiarato. Proprio ieri mattina sono intervenuta in aula per denunciare la condizione disumana in cui vivono moltissimi detenuti nelle nostre carceri e per affermare che, a 30 anni dal caso Tortora, la necessità di una riforma della custodia in carcere è divenuta ineludibile", ha sottolineato Morani. "Penso, pero’, che procedere come in passato con amnistia e indulto senza risolvere le cause del sovraffollamento sia un alibi per rinviare nuovamente le riforme e per continuare a perpetrare una prassi politica che sceglie di non scegliere", ha spiegato. "Senza le riforme, i provvedimenti di clemenza non servono a nulla se non a creare allarme sociale e a rinviare i problemi. Credo che un approccio sistemico alle cause del sovraffollamento, che consiste nell’approvazione del progetto di legge sulle pene alternative al carcere che ha già avuto l’ok della Camera, nella modifica della legge sugli stupefacenti e della custodia cautelare in carcere entro marzo 2014, sia l’unico modo serio e responsabile con cui possa essere affrontato una questione così delicata. Se Rita Bernardini lo vorrà mi farebbe piacere incontrarla per discutere insieme del tema", ha assicurato. Giustizia: anche Nitto Palma (Fi) e Marazziti (Sc) alla Marcia di Natale per l’amnistia Public Policy, 11 dicembre 2013 Il presidente della commissione Giustizia al Senato Francesco Nitto Palma (Fi), l’Unione Camere Penali (con il presidente Valerio Spigarelli), suor Fabiola Catalano, il deputato di Scelta civica Mario Marazziti, don Ettore Cannavera, don Antonio Mazzi, padre Massimiliano Sira (del Centro di accoglienza per detenuti "Buoncammino"). Sono alcune delle personalità, citate a Radio Radicale da Marco Pannella, che hanno dato la loro adesione alla terza marcia di Natale "per l’amnistia, la giustizia e la libertà", che partirà alle 10 del 25 dicembre da San Pietro, per arrivare davanti la sede del Governo a Palazzo Chigi. Dopo il messaggio alle Camere del presidente della Repubblica e dopo quanto affermato dalla Corte costituzionale nelle motivazioni di una sua recente sentenza, si legge in una nota dei Radicali, "non ci sono più alibi per non fare ciò che è obbligo fare, se vogliamo che il nostro Paese interrompa la flagranza criminale in cui si trova da troppo tempo per le condizioni inumane e degradanti nelle nostre carceri e per le condizioni della nostra giustizia, massacrata dall’insopportabile zavorra della sua decennale irragionevole durata dei processi". Giustizia: 10 detenuti-studenti laureati in un anno, ai corsi scolastici bocciati metà degli iscritti Ansa, 11 dicembre 2013 Solo 10 laureati in un anno e ai corsi di formazione scolastica bocciati più della metà degli iscritti. L’istruzione fa fatica ad avanzare all’interno dei 205 penitenziari italiani, dove il numero dei detenuti resta troppo alto (64.047) rispetto ai posti disponibili (47.649). A diffondere gli ultimi dati impietosi sulla cultura scolastica e universitaria dietro le sbarre, che si riferiscono al 2012, è il sito del ministero della Giustizia. È una risicatissima minoranza di reclusi a seguire i corsi universitari: appena 316 detenuti, tutti uomini e quasi tutti italiani (264 a fronte di 52 stranieri). Ma ancora più ridotti al lumicino sono quelli che raggiungono il traguardo della laurea: appena 10, l’anno scorso, quasi tutti in facoltà politico-sociali e giuridiche. Note dolenti anche per la scuola nel complesso: se pure l’anno scorso sono stati 15.900 gli iscritti a 953 corsi, che vanno dall’alfabetizzazione all’istruzione secondaria superiore, i promossi sono stati meno della metà: appena 6862, cioè il 42,4% di chi li ha frequentati. In questo caso la maggior parte degli studenti è rappresentata dagli stranieri: 8.959, dei quali però solo 3.450 hanno ottenuto la promozione. Stranieri che ormai rappresentano un terzo della popolazione carceraria: sono 22.434 e provengono soprattutto dal Marocco (4.146, cioè il 18%), dalla Romania (3.621), dall’Albania (2.860) e dalla Tunisia (2.688). Giustizia: fuori i bambini dalle carceri italiane! A 2 anni da riforma molti ancora in cella Ristretti Orizzonti, 11 dicembre 2013 Fra 15 giorni entra in vigore la Legge che avrebbe dovuto chiudere per sempre le porte del carcere ai bambini e invece, a due anni dalla riforma (l. 62/2011), sono ancora molti i piccoli che rischiano ancora di conoscere la sofferenza di nascere e/o crescere in un carcere. Per questo Terre des Hommes assieme a A Roma, Insieme - Leda Colombini, Bambinisenzasbarre e Antigone rilanciano a gran voce l’Appello "Fuori i Bambini dalle carceri italiane!". Nonostante gli auspici, infatti, le nuove norme non incidono davvero sul destino di molti bambini. Anzi. Se prima della riforma i bambini che potevano essere detenuti con le mamme avevano massimo 3 anni, con l’entrata in vigore della nuova legge, rischiano di restare detenuti sino ai 6 anni. Al 31.12.2012 erano "solo" 40 i piccini, presenti nei penitenziari italiani, al seguito delle loro mamme; tuttavia, benché i numeri del problema siano così esigui, sembra impossibile trovare soluzioni concretamente lontane dalla detenzione. E ciò nonostante lo stesso Comitato Onu per la Crc-Convenzione Onu sui Diritti dell’Infanzia - abbia più volte evidenziato all’Italia la necessità di risolvere con urgenza questa delicata questione. Le associazioni, dunque, ritengono urgente rilanciare nuovamente quello stesso Appello con cui anni fa venne stimolata la ripresa del dibattito parlamentare sul tema, seguendo con attenzione i contenuti dei lavori che portarono, nella primavera del 2011, all’approvazione di una legge di riforma sulla disciplina delle madri detenute con bambini. Infatti, nonostante gli auspici degli operatori e gli stessi propositi del Parlamento, il testo, frutto di compromessi che ne hanno inficiato la reale portata, oggi non impedisce a decine di bambini di varcare la soglia di un carcere nel nostro Paese. I punti nodali della mancata riforma: 1. Permane il rischio concreto che il bambino venga detenuto con la mamma sia in via cautelare, sia in esecuzione pena, nonostante - per questa seconda ipotesi - siano state agevolate le condizioni per accedere ai domiciliari speciali. 2. Si innalza a 6 anni (dai 3 precedenti) l’età dei bambini che possono essere soggetti con le loro mamme a misure cautelari anche in carcere. 3. Non viene garantito il diritto alla madre di poter assistere il figlio, in caso di malattia o ospedalizzazioni, per tutta la durata della stessa. 4. Permane l’automatica espulsione della donna extra comunitaria irregolare, che abbia scontato la pena con tutte le conseguenze che questo implica sul figlio. 5. Vengono finalmente introdotte dalla riforma le Case Famiglie Protette, realtà completamente sganciate dal mondo penitenziario, ma questo istituto non viene promosso (è escluso qualsivoglia onere a carico del Ministero della Giustizia). 6. Si continua a puntare sulle Icam (Istituti di Custodia Attenuata per Madri detenute), quali uniche, vere alternative alla detenzione per le madri con bambini, pur trattandosi di strutture sempre e comunque detentive, per quanto attenuate. Cosa chiediamo Al Ministero della Giustizia che venga riconsiderato il piano di costruzione di Icam in diverse città di italiane, nell’ottica di convertire risorse preziose in favore di quelle che, sì, dovrebbero essere la vera soluzione cui puntare: le Case Famiglia Protette. Chiediamo che ciò sia reso possibile stornando parte dei fondi destinati alla costruzione delle Icam in favore della effettiva attivazione delle Case Famiglia Protette, alla luce del principio di cui alla L. 62/2011 per cui le stesse sono previste "senza oneri aggiunti per lo Stato. Al Parlamento ed al Ministro della Giustizia, per quanto di loro reciproca competenza, chiediamo di tenere conto di questi concreti rilievi, intervenendo per mettere fine alla detenzione dei bambini. Giustizia: pestaggi e malattie, le denunce di Federico Perna "mi picchiano in cella" di Gaia Bozza www.fanpage.it, 11 dicembre 2013 Aggressioni con calci e pugni, sangue, maltrattamenti: Federico Perna, il giovane di Pomezia gravemente ammalato, detenuto a Poggioreale e morto lo scorso 8 Novembre, ne ha scritto dettagliatamente in due lettere-denuncia, che Fanpage.it ha potuto visionare in esclusiva. Pestaggi e malattie, le denunce di Federico Perna: "Nel corridoio centrale (…) mi aggrediva con calci e pugni e (…) anche se mi vedeva in terra non chiamava l’assistenza. Preciso che il tutto si può constatare con la videosorveglianza. Dopo i fatti mi hanno fatto entrare in cella sotto minaccia". Aggressioni con calci e pugni, sangue, maltrattamenti: Federico Perna, il giovane di Pomezia gravemente ammalato e detenuto a Poggioreale, morto lo scorso 8 Novembre, ne ha scritto dal carcere di Viterbo in due lettere-denuncia che Fanpage.it ha potuto visionare in esclusiva. Si legge: "Io sottoscritto Federico Perna (…) vengo picchiato nella propria cella. (…) Picchiava continuamente anche se mi sanguinava il naso. (…) Non mi faceva soccorrere né medicare (…) Mi lasciava nella cella sanguinante dicendomi: stai zitto". Queste lettere, scritte sotto forma di querela e indirizzate al magistrato di sorveglianza, sono oggetto di verifica da parte dei legali della madre di Perna, Nobila Scafuro, per appurare se siano state depositate in Procura. In ogni caso, si tratta di documenti impressionanti: il ragazzo descrive con dovizia di particolari e con grande lucidità quelli che sembrano chiaramente pestaggi, soprusi e abbandono. Le richieste inascoltate - Sul fronte dell’incompatibilità con il carcere del ragazzo, che era affetto da epatite c, cirrosi epatica e da un disturbo borderline di personalità, ci sono poi due istanze di scarcerazione e una richiesta di misure alternative alla detenzione. Tutte inascoltate. Come se non bastasse, in quasi tutte le sue lettere, come vi abbiamo mostrato, Federico accennava alle sue gravi condizioni di salute. Ecco l’incipit di una di esse: "Cara mamma, ti scrivo dal carcere di Viterbo perché mi hanno trasferito da Cassino. A Cassino sono stato ricoverato, dopo 3 ore mi hanno dimesso perché ho fatto casino. Avevo epitassi nasale e tachicardia, non sto tanto bene col cuore, quindi fatti sentire!". Di Sarno, un altro caso Perna. Gli avvocati: "Pronti a intervenire" - Quello dei malati in carcere è un dramma comune. Il caso più grave a Poggioreale è quello di Vincenzo Di Sarno, 35enne che da dieci anni lotta contro un cancro al midollo spinale (qui la sua storia). "In questa fase - spiega l’avvocato Camillo Autieri - la malattia è molto avanzata e sta colpendo le varie strutture nervose. Mi è stato riferito che ha un collarino, in quanto non riesce a rimanere eretto e si muove con il deambulatore o con la sedia a rotelle". Una situazione disperata. "Ha dovuto interrompere le terapie e ora è in forte deficit psicomotorio - continua Autieri - La madre del giovane ci ha contattati, vuole affidarci il caso. Abbiamo intenzione di presentare una nuova istanza di scarcerazione, e speriamo che dopo il clamore mediatico suscitato dal caso Perna ci sia più attenzione da parte dell’autorità penitenziaria". La direttrice del carcere: "Rispettati i diritti umani" - "Ho incontrato la direttrice di Poggioreale - racconta Nobila Scafuro - Ci siamo incontrate giovedì (qui la cronaca della giornata, ndr) quando c’era anche Rodotà in visita, che mi ha fatto molto piacere incontrare. Mentre la dottoressa Teresa Abate era meglio che non la vedevo. Le ho posto alcune domande - continua - Perché mio figlio era lì dentro da cinque mesi, malato gravemente, e non mi risulta che siano state eseguite nemmeno delle banali analisi. Malato di epatite, cirrotico, così grave". La direttrice Teresa Abate, però, rigetta ogni obiezione: "I pazienti sono tutti monitorati e si provvede al fabbisogno di ognuno di loro, nel rispetto dei diritti umani". Emilia Romagna: Provveditore Buffa; l’amnistia non basta, la vera sfida è la rieducazione Il Fatto Quotidiano, 11 dicembre 2013 L’intervento del provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria Emilia Romagna, è avvenuto in occasione di un dibattito organizzato dall’Unione degli universitari, da cooperativa Sirio e dalla Rete volontari carceri di Parma sulla situazione degli istituti penitenziari in Italia. "Il rischio dell’amnistia è che ci si accontenti del calo della popolazione carceraria e ci si fermi lì, senza pensare a umanizzare il carcere, a ridare dignità e umanità alle persone". Per Pietro Buffa, provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria Emilia Romagna, nel 2013 la sfida più grande per il sistema penitenziario in Italia rimane ancora quella della rieducazione del condannato. Un principio riconosciuto dall’articolo 27 della Costituzione, che non sempre però negli istituti del nostro Paese riesce ad essere applicato a causa delle carenze che presenta il sistema delle carceri. "Oggi solo il 25 per cento dei detenuti riescono ad accedere alle misure alternative alla pena" ha spiegato Buffa, ospite a Parma di un dibattito organizzato dall’Unione degli universitari, da cooperativa Sirio e dalla Rete volontari carceri di Parma sulla situazione degli istituti penitenziari in Italia. La questione si trascina da anni e oggi, di fronte a nuove ipotesi di indulto e amnistia da parte del Governo, a problemi di sovraffollamento, tagli alle risorse, organico insufficiente, il percorso da seguire per "un’umanizzazione del carcere" rimane ancora incerto. Come ha ricordato la direttrice dell’istituto penitenziario di Parma Anna Albano, ci sono carenze strutturali a fronte delle 68mila persone rinchiuse nelle strutture. In più, sull’Italia grava una condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo per il sovraffollamento degli istituti, che impone al Paese di apportare dei miglioramenti per non incorrere in una sanzione. Ma il provveditore Buffa mette in guardia rispetto a provvedimenti "svuota carceri" fini a se stessi: "Non è tanto un problema di strutture e di metri quadrati - spiega Buffa - perché è la relazione umana che trasforma uno spazio in un luogo. Il rischio invece è che ci si fermi all’amnistia e al calo dei detenuti, senza invece pensare a come fare ripartire una relazione umana all’interno degli istituti penitenziari". Un percorso reso ancora più problematico dall’alta percentuale di stranieri all’interno delle carceri, che dagli anni Novanta ad oggi sono passati dal 2 al 70 per cento sul totale di detenuti. "La metà dei detenuti è finita in cella per la legge Bossi-Fini" ha sottolineato Vincenzo Scalia, responsabile regionale dell’associazione Antigone che ogni anno redige un rapporto sullo stato delle carceri italiane. "Ogni estate alla Dozza di Bologna i detenuti da 480 diventano oltre mille per le retate in Riviera, ma il personale e gli spazi sono omologati per altri numeri". Come se non bastasse, le risorse statali per gli istituti penitenziari scarseggiano e alcuni di essi non riescono a pagare le utenze di luce e gas, e perfino quelle per l’acquisto di carta igienica. "Come si possono creare nuovi posti per detenuti se ci sono carceri che non riescono a pagare le bollette? - ha continuato Scalia, intervenuto al confronto insieme ad Alberto Cadoppi, ordinario di Giurisprudenza dell’Università di Parma - Solo dove il tessuto sociale è forte, grazie ad associazioni e a volontari, è possibile un percorso di rieducazione". Tra le esperienze di lavoro con gli istituti penitenziari, a Parma quella della cooperativa Sirio ha una storia di quasi trent’anni, cominciata insieme al suo ispiratore Mario Tommasini, che voleva ridare dignità alle persone rinchiuse dietro le sbarre con l’idea di riscattare quello che sembrava "perso per sempre". Lo ha spiegato la presidente della cooperativa Patrizia Bonardi, raccontando il cammino per aiutare tanti detenuti a riaccreditarsi di fronte alla cittadinanza. Un modello positivo che però "è solo un punto di partenza per un progetto globale sulla persona". Anche alla luce di questo, secondo il provveditore Buffa il sistema delle carceri si trova di fronte alla necessità di un cambiamento, sulla scia delle trasformazioni subite dalla nostra società negli ultimi anni. Basti pensare che dentro agli istituti si vive in anticipo quello che si vivrà fuori tra una decina di anni, dall’alta percentuale di disoccupazione alla malattia mentale. "La crisi economica rende sempre più difficile gestire le carceri - ha concluso il provveditore - Abbiamo una grande responsabilità come Amministrazione e molti sforzi devono essere ancora fatti, non solo sui numeri, ma soprattutto sul fronte delle relazioni. Un cambiamento però è possibile". Viterbo: detenuto romeno di 51 anni si impicca, da inizio anno già 47 i suicidi in cella Ansa, 11 dicembre 2013 Sono 47 i detenuti che si sono suicidati nelle carceri italiane dall’inizio dell’anno. L’ultimo caso risale a tre giorni fa, quando a togliersi la vita è stato nel penitenziario di Viterbo un romeno di 51 anni, Paul Badea, arrestato una prima volta il 13 novembre scorso, con l’accusa di detenzione di armi e di essere coinvolto in una serie di furti di rame; e poi tornato in carcere il 6 dicembre scorso, dopo una parentesi trascorsa ai domiciliari: si è ucciso il giorno dopo il nuovo arresto impiccandosi nella sua cella nel penitenziario di "Mammagialla". Secondo i dati di Ristretti Orizzonti il maggior numero di suicidi (nove) si è registrato nel mese di marzo e nella quasi totalità dei casi chi si è tolto la vita ha scelto di impiccarsi, come il detenuto di Viterbo. Poco meno della metà dei suicidi (22) era di nazionalità straniera. Foggia: detenuto muore in infermeria, il Coo.S.P denuncia "una situazione al collasso" Ristretti Orizzonti, 11 dicembre 2013 L’ennesima tragica storia che ci narra di un mondo ai margini, dimenticato, che attende interventi risolutivi ma che rimane, da troppi anni, abbandonato a se stesso. È il mondo delle carceri italiane e, in questo caso, pugliesi. Domenico Mastrulli, segretario generale del Sindacato di polizia penitenziaria, Coo.S.P. (Coordinamento sindacale penitenziario) si dichiara preoccupato per rende nota la morte di un detenuto nell’infermeria del penitenziario di Foggia. Si chiamava Salvatore Di Ceglie, di Bisceglie, classe 1955, il detenuto deceduto questa notte nel reparto della sezione infermeria del Carcere di Foggia. Di Ceglie espiava un condanna definitiva che sarebbe terminata il 30 luglio 2015. Come riferisce il sindacato Coosp: "l’uomo divideva la cella con un altro recluso, quando alle 04,30 circa di questa notte scorsa è scattato l’allarme ed il poco personale di polizia penitenziaria - 15 poliziotti di servizio in tutto il carcere che contiene quasi 611 di cui 28 donne più un bambino minore reclusi - immediatamente recatosi sul posto ha subito attivato le procedure d’urgenza ed il ricovero in infermeria dell’istituto dove non hanno potuto fare altro che accertare il decesso. In tarda mattinata il medico legale ha ispezionato il cadavere e le condizioni dell’ubicazione". Una morte che racconta condizioni di detenzione ai limiti dell’umano. In Puglia, infatti, "i detenuti sfiorano la soglia delle 4.000 - spiega ancora Mastrulli - persone ristrette contro i 2.400 posti letto nelle undici strutture penitenziarie al collasso quali Taranto, Lecce, Foggia e Bari". Accanto un sovraffollamento record c’è anche una carenza di uomini e mezzi. "In Puglia la polizia penitenziaria è pari a 2.448 unità ma per i servizi necessari ed i turni imposti da ccnl servirebbero altre 600 unità", aggiunge il segretario del Coo.S.P. Di conseguenza i turni a cui sono sottoposti gli agenti sono massacranti: "Un singolo agente è costretto a vigilare dai 50 ai 140 detenuti - prosegue il sindacalista pugliese - contemporaneamente e le situazioni di criticità nelle carceri sono all’ordine del giorno". Roma: il Garante Marroni; negato differimento di pena a 50enne gravemente malato Il Velino, 11 dicembre 2013 A poche settimane dal fine pena (marzo 2014), si è visto respingere per tre volte nel giro di otto mesi dalla Magistratura di Sorveglianza la richiesta di differire la carcerazione per motivi di salute. L’incredibile vicenda è stata denunciata dal Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni. L’uomo si chiama Vincenzo Lepore, 50 anni di Pagani, che in carcere ha già scontato 11 anni per un cumulo di pene (soprattutto furti) e la settimana scorsa ha denunciato la sua condizione con una lettera pubblicata sulla prima pagina di un quotidiano nazionale. Detenuto nel Centro Clinico di Regina Coeli, invalido al 100 per cento, più volte ricoverato ha subito due interventi di angioplastica ed ha un pacemaker ed un defibrillatore nel torace. Non può essere operato perché i rischi sono altissimi. Nonostante questo, il 31 ottobre il Tribunale di Sorveglianza gli ha negato la possibilità di passare gli ultimi mesi di reclusione in una Residenza Sanitaria Assistita anziché in carcere. Sulla vicenda sembra che anche il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria sarebbe intervenuto, scrivendo alla Procura della Repubblica di Roma, al Tribunale di Sorveglianza e alla Direzione Generale dei detenuti e del trattamento del Dap evidenziando le particolari condizioni di gravità in cui versa il detenuto. "A poche settimane dal fine pena - ha detto il Garante dei detenuti Angiolo Marroni - la Magistratura di sorveglianza si è assunta una grave responsabilità scegliendo di negare a quest’uomo l’uscita dal carcere. Ed a giustificare il rifiuto non può essere invocata neanche la pericolosità sociale, visto che una persona con tali problematiche fisiche difficilmente è in grado di nuocere a qualcuno. La verità è che la tutela della salute in carcere è un tema complesso, che coinvolge una pluralità di attori: direzione del carcere, Asl, medici, agenti di polizia penitenziaria, ospedali, magistrati di sorveglianza. Un meccanismo complesso che troppo spesso di inceppa. Il problema è che ritardi, rinvii e pastoie burocratiche possono anche costare la vita di un uomo. Come purtroppo accaduto due mesi fa ad un detenuto 82enne di Regina Coeli morto in carcere pochi giorno dopo la decisione del Tribunale di rigettare la richiesta di scontare la pena residua in una struttura diversa dal carcere". Cagliari: Sdr; Opere Pubbliche non paga piccole imprese per costruzione nuovo carcere Ristretti Orizzonti, 11 dicembre 2013 "La crisi di Opere Pubbliche ha messo in gravi difficoltà, non solo gli operai, ma alcune piccole e medie imprese che hanno operato e operano nel cantiere di Uta dove sta sorgendo il "villaggio penitenziario" che sostituirà il carcere di Buoncammino. Il mancato pagamento delle fatture per i servizi e le forniture di materiali accresce il malessere sociale non solo del territorio e rinvia nel tempo la conclusione dei lavori del mega complesso". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", dopo aver appreso che "un’altra piccola azienda dell’area industriale di Cagliari ha visto insoluti per decine di migliaia di euro i debiti contratti dalla società a cui sono stati assegnati senza bando pubblico i lavori per la costruzione del nuovo carcere di Cagliari - Uta". "Si tratta di una situazione insostenibile per chi, avendo dato fiducia, si trova - sottolinea Caligaris - a dover subire una drammatica condizione economico - finanziaria. La questione è ancora più grave perché sembra presentare una totale indifferenza verso il rispetto delle regole. Si aggiunge inoltre ai licenziamenti dei dipendenti in atto con la creazione di un pericoloso deserto lavorativo e imprenditoriale. In molti casi non è stato dato seguito neppure ai decreti ingiuntivi sollecitati dagli imprenditori danneggiati che si sentono quindi abbandonati dallo Stato e deprivati di qualunque tutela". "È necessario - conclude la Presidente di Sdr - un immediato intervento dei ministeri delle Infrastrutture e della Giustizia che con un ulteriore provvedimento straordinario garantisca il completamento dell’opera e gli interessi degli operai e delle aziende impegnate nei lavori. Per l’accertamento delle responsabilità sui diversi anni di ritardo e sulle irregolarità è invece opportuna un indagine parlamentare per fugare più di un dubbio che l’emergenza carceri non sia servita ad eliminare il sovraffollamento. Roma: detenuto picchiato nel carcere di Velletri nel 2011, condannati cinque agenti Agi, 11 dicembre 2013 Il tribunale di Velletri ha condannato a due anni e quattro mesi di reclusione gli agenti penitenziari Sergio Notarfonso, di Monte San Biagio, e Roberto Pagani, di Cisterna di Latina, ritenuti responsabili del presunto pestaggio di un detenuto avvenuto all’interno del carcere di contrada Lazzaria a Velletri. Il pm Carlo Morra aveva chiesto quattro anni di reclusione. Altre tre condanne ad un anno di reclusione sono state inflitte ad altrettanti agenti penitenziari. Il processo è partito dalla denuncia di un detenuto che ha sostenuto di essere stato pestato nel carcere nel gennaio del 2011 dopo un litigio con uno degli agenti condannati. Secondo il pm il detenuto sarebbe stato spinto nella guardiola del capoposto e pestato a sangue dagli agenti nascosti alle telecamere di sicurezza che non riprendevano quell’angolo. Due agenti, poi, avrebbero redatto una relazione di servizio dichiarando che il detenuto era caduto per le scale mentre si recava in infermeria. Reggio Calabria: le proposte del Centro Agape alla Commissione Parlamentare Antimafia www.strill.it, 11 dicembre 2013 Di seguito il testo integrale dell’audizione del Presidente del Centro Comunitario Agape di Reggio Calabria Mario Nasone nell’ambito della riunione della Commissione Nazionale Antimafia: "L’associazione Centro Comunitario Agape, fondata da don Italo Calabrò nel 1968, impegnata nel contrasto al fenomeno del disagio minorile ed in particolare verso i ragazzi a rischio di coinvolgimento nella criminalità organizzata ritine che accanto alla antimafia giudiziaria, a quella politica, serve anche una antimafia sociale se si vuole realmente eliminare il fenomeno e non solo contenerlo. Considerato che tra le funzioni della Commissione vi è quella di accertare e valutare la natura e le caratteristiche dei mutamenti e delle trasformazioni del fenomeno mafioso segnala alla Commissione un fenomeno che non è nuovo ma che ultimamente ha avuto una preoccupante impennata nella nostra provincia: quello dell’abbassamento dell’età di ingresso nelle file della ndrangheta che coinvolge anche i minori. Diverse operazioni giudiziarie hanno riscontrato questa tendenza delle famiglie mafiose, colpite da provvedimenti di carcerazione, che hanno delegato i figli anche minori a gestire i loro affari criminali Il problema è stato segnalato con allarme anche dai vertici delle Procure e del Tribunale per i minorenni del Distretto. Usando una metafora calcistica si potrebbe dire: Quando mancano i titolari la ndrangheta schiera i giocatori della Primavera,… con il rischio per lo Stato che possano vincere la partita! Le operazioni giudiziarie, gli arresti dei latitanti, le confische dei beni, sono importanti perché portano alla disarticolazione ed in diversi casi alla decimazione delle gerarchie criminali, creano scompiglio e vuoti di potere nei territori da loro controllati e restituiscono fiducia dei cittadini verso lo Stato. Ma le famiglie mafiose sanno di potere contare sul ricambio generazionale assicurato da figli, picciotti e rampolli vari che costituiscono il loro vivaio dal quale attingono per riprodursi e garantire continuità alloro disegno criminale. In particolare la ndrangheta è notorio che si basa su una struttura familistica, dove l’appartenenza ed i vincoli parentali creano l’humus naturale per una vera e propria eredità mafiosa che difficilmente si può rifiutare se non a prezzo di scelte laceranti. E emblematico la riflessione del Presidente del Tribunale per i Minorenni di RC Roberto Di Bella il quale ritornato a RC dirigere dopo venti anni l’Ufficio si ritrova a giudicare i figli dei mafiosi da Lui trattati in quegli anni. Due le linee d’intervento che proponiamo alla Commissione perché le valuti e si faccia eventualmente promotrice di iniziative legislative e programmatiche c/o gli organismi statali competenti: 1)Sul piano della prevenzione primaria, emanare una normativa che permetta un intervento, tramite il volontariato e la cooperazione sociale, nei Comuni e nei quartieri ad alto indice di criminalità organizzata sui minori a rischio. Proponiamo che sia ripresa, con gli opportuni miglioramenti e modifiche, una legge simile alla 216/1991 (Primi interventi in favore dei minori soggetti a rischio di coinvolgimento in attività criminose) che aveva dato buoni risultati, prevedendo la continuità negli anni, la relativa copertura finanziaria e l’utilizzo dei fondi comunitari e dei beni confiscati alle mafie. 2)Riguardo ai figli dei mafiosi proponiamo dei programmi organici d’intervento in grado di assicurare percorsi reali d’ uscita dai contesti familiari e sociali di ndrangheta, rafforzando il lavoro già avviato su questo versante dal Tribunale dei Minorenni di Reggio Calabria. Un lavoro che ha registrato una grande attenzione dei mass media internazionali (Bbc, Tv tedesca, norvegese, ecc.) e che stranamente non ha trovato spazio nei media nazionali. È importante che anche a livello politico ci sia un sostegno a questo Ufficio che ha emesso decine di provvedimenti di allontanamento e di sospensione e limitazione della patria potestà e che si è dato un importante protocollo di collaborazione tra i vari Uffici Giudiziari Per dare organicità a questi interventi abbiamo elaborato una idea progettuale sperimentale concordata tra Tribunale per i Minorenni, Libera e Centro Comunitario Agape, denominata Liberi di scegliere, chiedendo alla Commissione, nell’ambito delle sue competenze, di valutarla ed eventualmente investire i Ministeri competenti per una sua realizzazione Sintesi dell’idea progettuale Il progetto "Liberi di scegliere, con questa prima sperimentazione si propone di dare una risposta di sistema alla problematica dei figli dei mafiosi attraverso un approccio scientifico e metodologico adeguato finalizzato all’obiettivo del recupero sociale dei minori appartenenti a famiglie di ndrangheta. La finalità non è quella di strappare i figli ai mafiosi attraverso l’allontanamento coatto ma di offrire loro una alternativa di vita attraverso l’attivazione di una rete locale nazionale di risorse e servizi di accoglienza e di accompagnamento educativo e sociale che portino ad uno sganciamento dal contesto familiare. Una logica educativa prima che punitiva, in grado di offrire percorsi di risocializzazione a minori ad alto rischio di coinvolgimento nella criminalità organizzata . Per raggiungere questi obiettivi sarà attivata una rete dei servizi e delle opportunità composta sia dalle risorse locali, pubbliche e private, sia dalle più importanti organizzazioni che in Italia operano nel campo della legalità e del recupero sociale dei minori a rischio. Enti che in particolare si dovranno fare carico di tutti quei minori per i quali l’Autorità giudiziaria riterrà opportuno il loro allontanamento dal contesto familiare e sociale ed il loro inserimento in comunità, centri, famiglie affidatarie in altri contesti. Il progetto vuole perseguire anche obiettivi di prevenzione e di modifica culturale di quelli che vengono considerati i modelli culturali mafiosi che spesso fanno presa sulle nuove generazioni che vivono in determinati contesti familiari e mafiosi. Pertanto ci si propone di coinvolgere alcune scuole-pilota che saranno prescelte, sia nella provincia di Reggio Calabria, sia in alcune zone del centro Nord, tra quelle dove si registra una rilevante incidenza della criminalità organizzata. All’interno di questi Istituti Scolastici si terranno incontri di sensibilizzazione sulle tematiche inerenti il progetto e come programma di prevenzione della devianza rivolto agli studenti delle scuole medie inferiori e superiori". Sassari: processo per il delitto di Marco Erittu, in aula la psichiatra del carcere di Nadia Cossu La Nuova Sardegna, 11 dicembre 2013 Due detenuti che convivevano con stati d’ansia o di depressione comuni quando si vive un periodo in carcere. Nessuno dei due - almeno in base a una prima lettura del diario clinico di quell’anno (era il 2007) - presentava sintomi preoccupanti riconducibili a una grave patologia psichiatrica. È quanto emerso dalla testimonianza della psichiatra che nel 2007 visitò a San Sebastiano il supertestimone Giuseppe Bigella e il detenuto Marco Erittu. Ieri mattina, nel palazzo di giustizia di Sassari, c’è stata una nuova udienza del processo per il presunto omicidio di Erittu, il detenuto trovato morto (inizialmente si era parlato di un suicidio) il 17 novembre del 2007 nella sua cella di San Sebastiano. Anche ieri al centro del processo c’è stato Giuseppe Bigella, ossia colui che con le sue dichiarazioni aveva smontato la tesi del suicidio raccontando che Erittu in realtà fu ucciso: un omicidio commissionato - a detta del pentito - da Pino Vandi (attualmente in carcere e sotto processo). La ragione? Erittu sarebbe stato a conoscenza del coinvolgimento di Vandi nella scomparsa di Giuseppe Sechi, il muratore di Ossi il cui orecchio mozzato fu inviato alla famiglia di Paoletto Ruiu - il farmacista di Orune rapito nel 1993 e mai tornato a casa - come prova in vita del proprio caro. Per questa ragione Erittu, a detta di Bigella, doveva morire. Perché non rivelasse i dettagli di quella sparizione mettendo nei guai Pino Vandi. Nelle ultime udienze l’intento della difesa dell’imputato - rappresentata dagli avvocati Patrizio Rovelli e Pasqualino Federici - è stato quello di far vacillare la credibilità del supertestimone (per il quale sarà anche richiesta una perizia psichiatrica). Uno dei testi di ieri (la dottoressa Nivoli nel 2007 era uno dei medici psichiatri di San Sebastiano), ha dovuto rileggere alcune pagine del diario clinico di quell’anno per ricordare che tipo di problemi avessero i due detenuti. "Prescrissi antidepressivi a Bigella - ha spiegato. Suppongo, dando un’occhiata al dosaggio, che soffrisse di ansia, una depressione reattiva dovuta alla permanenza in carcere. Nulla di più grave". Rovelli poco prima aveva esibito un’annotazione dell’agosto 2007 - fatta da un altro psichiatra - nella quale lo specialista sosteneva che Bigella fosse affetto da problemi psichiatrici e che fosse idoneo al trasferimento in una struttura specializzata. La Nivoli non riscontrò alcuna "psicosi" nemmeno in Erittu: "Nessuna variazione dell’umore, non ritenni necessario che un piantone lo osservasse costantemente". L’esame della teste proseguirà il 16 dicembre. Salerno: agente Polizia penitenziaria accusato di rubare soldi ai detenuti, al via il processo La Città di Salerno, 11 dicembre 2013 Si è svolta ieri mattina, davanti al collegio della terza sezione penale presieduto dal giudice Lucia Casale, la prima udienza che vede come unico imputato Giancarlo Picariello, 44 anni, originario di Montoro, la guardia carceraria accusata di peculato per aver sottratto ad alcuni detenuti il denaro consegnato al momento dell’ingresso nel carcere di Fuorni. Durante la mattinata c’è stata la costituzione delle parti civili dei due romeni, difesi dall’avvocato Gerardo Cembalo che si sono presentati come vittime di alcuni dei furti perpetuati da Picariello, ora agli arresti domiciliari nella sua abitazione di Montoro, difeso invece dall’avvocato Michele Sarno. L’udienza è stata quindi rinviata al 21 gennaio quando prenderà il via l’istruttoria dibattimentale. Furono proprio alcune segnalazioni dei detenuti a far scattare le indagini su Picariello, che sono state coordinate dal sostituito procuratore Giancarlo Russo e condotte dagli agenti della penitenziaria in veste di polizia giudiziaria. Si giunse così ad individuare nel 44enne di Montoro il presunto responsabile degli ammanchi, nei cui confronti il giudice delle indagini preliminari Donatella Mancini firmò la misura cautelare ai domiciliari. Secondo le risultanze dell’indagine Picariello avrebbe approfittato del suo ruolo di incaricato alla registrazione dei depositi per mettere in cassaforte solamente parte degli averi degli arrestati, annotando sui documenti cifre inferiori a quelle davvero consegnate. Due gli episodi contestati nell’ordinanza, di cui uno ai danni di un detenuto "eccellente", l’imprenditore cilentano Emanuele Zangari, che lo scorso anno denunciò di essere entrato nella casa circondariale con mille euro, ma di essersene poi ritrovati a suo nome soltanto cento. La scoperta avvenne al momento di formalizzare una richiesta per l’acquisto in carcere di beni per un valore di 130 euro, quando dagli uffici penitenziari gli fecero sapere che in cassa non c’era per lui la capienza necessaria. Alla guardia carceraria di Montoro è stato poi attribuito un altro episodio, avvenuto nel corso di quest’anno, in cui a sparire sarebbero state poche centinaia di euro appartenenti ai due romeni, ieri costituitisi parte civile. Como: agente di Polizia penitenziaria salva bimbo, elogio dal Capo del Dap Tamburino Adnkronos, 11 dicembre 2013 Il capo del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria, Giovanni Tamburino, con una lettera, ha elogiato l’intervento fulmineo e coraggioso dell’Assistente Luigi Barbanera, 45 anni, che ieri si è reso protagonista dell’eroico salvataggio di un bambino di 20 mesi precipitato dalla finestra dell’appartamento dei genitori a Cantù, impedendo drammatiche conseguenze per la vita del piccolo. Barbanera, che presta servizio al carcere di Como, ieri, smontato dal servizio, si trovava in macchina, fermo a un semaforo, nei pressi dell’abitazione del bimbo, quando ha notato il piccolo in piedi sul davanzale. Con grande prontezza di riflessi, è uscito dalla macchina ed è riuscito ad afferrare al volo il bimbo dopo la caduta di otto metri. "È una bella notizia, che ci riempie di gioia - ha dichiarato il Capo del Dap - innanzitutto perché il bambino non ha subito conseguenze dalla drammatica caduta e poi perché il salvataggio è stato effettuato da un nostro poliziotto che, libero dal servizio, ha dimostrato il valore etico e professionale dell’Assistente Barbanera e con lui di tutti gli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria". "Centinaia di suicidi sventati ogni anno, interventi tempestivi e coraggiosi per evitare il peggio quando si verificano atti di autolesionismo, risse tra detenuti, eventi critici che mettono anche a rischio la vita stessa degli Agenti. La Polizia Penitenziaria ogni giorno si rende protagonista di atti eroici, senza che di questo venga dato risalto sui giornali - aggiunge il vice capo del Dipartimento, Luigi Pagano - L’intervento dell’assistente Barbanera ha giustamente dato rilievo a un uomo della Polizia penitenziaria, e in questo mi associo alle parole di elogio del capo del Dipartimento. Sarebbe bello, peroò ogni tanto, leggere sui giornali anche delle decine di storie di solidarietà, di umanità e di coraggio che si consumano all’interno delle carceri, e che vedono protagonisti gli uomini e le donne della Polpen". Viterbo: rissa tra detenuti nel carcere di Mammagialla, con calci, pugni e… stampellate www.ontuscia.it, 11 dicembre 2013 Botte da orbi lunedì presso l’istituto di "Mammagialla". Nel pomeriggio presso una sezione del reparto penale del carcere viterbese, dove le camere detentive vengono tenute aperte dopo le ore 16:00, due gruppi di detenuti si sono affrontati a calci, pugni e stampellate lungo il corridoio. La rissa scaturita da motivi al momento ignoti è arrivata fino al box dove presta servizio l’unità di polizia penitenziaria preposta al controllo, che fortunatamente non è stata attinta da nessun colpo. Ristabilita la calma, non rimane che interrogarci sull’opportunità di continuare con quella politica tanto decantata dall’Europa sulla necessità di permettere ai ristretti di permanere per molte ore al giorno al di fuori delle camere detentive, specie quando questi provengono da altre realtà penitenziarie dove hanno palesato una certa ritrosia al rispetto delle regole. Riteniamo quindi che alla luce dei fatti occorsi, sia necessario riflettere attentamente su come attuare la "vigilanza dinamica", perché se è giusto modificare l’attuale modello detentivo è altrettanto importante far sì che l’operatore preposto all’attività di osservazione non debba essere vittima di eventuali azioni antigiuridiche poste in essere dagli utenti degli istituti penitenziari. Milano: abusi sessuali sui detenuti di San Vittore, chiesta la condanna per l’ex Cappellano Corriere della Sera, 11 dicembre 2013 La Procura ha chiesto al gup 14 anni e otto mesi di reclusione per don Alberto Barin, accusato ora da otto presunte vittime (detenuti o ex detenuti) di aver chiesto prestazioni sessuali in cambio di beni di prima necessità. Sono salite a otto le presunte vittime costituite parte civile contro don Alberto Barin, il cappellano di San Vittore (originario di Desio) accusato di aver abusato di 12 extracomunitari detenuti ed ex detenuti per reati di piccola criminalità. Per il sacerdote la procura ha chiesto al Gup Luigi Gargiulo la condanna a 14 anni e 8 mesi di reclusione per don Barin. Il procedimento in atto è un rito abbreviato, che in caso di condanna concede lo sconto di un terzo della pena. Don Barin è stato arrestato lo scorso novembre e le violenze sessuali sono contestate a partire dal 2008. In base a quanto ricostruito don Barin faceva capire alle sue presunte vittime che, in sostanza, sarebbe stata gradita una partecipazione in cambio di piccole concessioni di beni di prima necessità. La procura ha ottenuto l’acquisizione da parte del gup di una lettera in cui una delle vittime è tornata ad accusare Barin, come già fatto in sede di indagini. La vittima spiega nella lettera di aver poi erroneamente ritrattato le accuse durante l’incidente probatorio, perché si sentiva pressato dalla presenza del cappellano in aula, come prevede l’acquisizione della fonte di prova in anticipo rispetto al dibattimento, in modo da cristallizzarla. Al termine delle discussioni di accusa e dei legali di parte civile, il procedimento è stato rinviato al 4 febbraio per dare la parola alla difesa. Un’altra udienza è fissata per il 21 febbraio per le repliche delle parti e la sentenza. Roma: Antigone; "L’Europa ci guarda", decimo Rapporto sulle condizioni di detenzione Ristretti Orizzonti, 11 dicembre 2013 Giovedì 19 dicembre 2013, alle ore 10.30, a Roma, presso la Sede del Cesv-Spes, in Via Liberiana 17, Antigone presenterà il Decimo Rapporto sulle condizioni di detenzione in Italia L’Europa ci guarda (Edizioni Gruppo Abele, 2013). Numeri, violenze, lavoro, sanità, suicidi, edilizia, personale, tagli, risorse, progetti: verranno illustrati i dati del sistema penitenziario italiano, insieme a quelli del sovraffollamento, spiegandone le cause nonché raccontando storie di violata dignità. Tra gli altri interventi, quello di Nobila Scafuro, la mamma di Federico Perna, il ragazzo di 34 anni morto lo scorso novembre mentre era detenuto nel carcere di Poggioreale. Verrà ricostruita la storia di Alfredo Liotta, detenuto morto a 41 anni nella Casa circondariale Cavadonna di Siracusa, il cui caso, dopo una prima archiviazione, è stato riaperto grazie alla denuncia presentata da Antigone. Mauro Palma, fondatore di Antigone ed attuale presidente della Commissione ministeriale sul sovraffollamento degli istituti di pena italiani spiegherà come il Ministero si sta muovendo per superare le disumane condizioni di detenzione italiane. Trieste: detenuti per le pulizie della Riviera di Barcola", 35.000 € di spesa per il Comune www.triesteprima.it, 11 dicembre 2013 Proroga fino a luglio 2014 per cinque borse lavoro. Nell’ambito del progetto di orientamento e formazione all’etica del lavoro denominato "Pulizia e manutenzione ordinaria su aree patrimoniali e pubbliche e decoro del verde pubblico sulla riviera da Barcola a Miramare", nell’ambito della Convenzione Quadro tra il Comune di Trieste e la Casa Circondariale di Trieste, è stata approvata la proroga (di 7 mesi) di cinque borse lavoro per altrettanti detenuti: nuovo impegno di spesa per il Comune di Trieste: 35.000 euro. H. I., D. T., M. E., C.C. e K. S. sono le iniziali dei detenuti ammessi alle borse lavoro dal luglio del 2012. La scadenza era prevista per il 31 dicembre 2013, ma come appunto è stato deliberato, c’è stata una proroga di altri 7 mesi, per 35 mila euro che il Comune pagherà in un’unica trance come da convenzione. Brindisi: per i regali "Made in Carcere"… apre a Ostuni il primo "store" in Italia Ansa, 11 dicembre 2013 Un regalo di Natale "alternativo" per perseguire un fine nobile e soprattutto con un’unica griffe, "Made in carcere": lo si può acquistare solo a Ostuni (Brindisi), nel primo store in Italia in cui sono commercializzati i prodotti realizzati dalle detenute delle carceri di Lecce e Trani, circa una ventina, che lavorano per Officina creativa, una cooperativa sociale senza scopo di lucro fondata nel 2007 da Luciana Delle Donne. Il negozio ha già aperto i battenti e tra qualche giorno vi sarà l’inaugurazione ufficiale. I prodotti sono disegnati dalle stesse donne che si ritrovano a scontare periodi di detenzione e che sono regolarmente assunte e stipendiate: lo scopo è favorire percorsi formativi, oltre che il reinserimento nella società. All’interno del punto vendita "Made in carcere" si possono trovare gli ormai noti braccialetti colorati, le t-shirt e non solo: anche porta i-Pad, progettati all’interno dei laboratori delle case circondariali porta sigarette elettroniche, le palle di natale realizzate con foulard di seta e tracolle che si trasformano in sciarpe. Ognuno fra gli oggetti esposti ha un suo nome: "Mano finta" è la custodia per il tablet, che si afferra con una sola mano, una borsa si chiama invece "doppia faccia". Il costo oscilla da 8 a 25 euro e i proventi sono interamente destinati alla prosecuzione del progetto e al finanziamento di nuove idee oltre che alla loro creazione. Piacenza: "Genitori reclusi, genitori comunque", ieri il convegno all’Università Cattolica www.piacenzasera.it, 11 dicembre 2013 "Genitori reclusi, genitori comunque". È questo il titolo del seminario che si è tenuto ieri all’Università Cattolica di Piacenza. Un momento importante per capire, attraverso l’intervento di esperti (le testimonianze di chi lavora in carcere e di pedagogisti), le difficoltà e le speranze sia dei genitori in carcere che dei loro figli. "Un genitore detenuto - ha spiegato Valeria Viganò, presidente dell’associazione di volontariato penitenziario "Oltre il muro" - è una presenza che in casa non c’è e ha un limitato numero di ore per vedere i figli, solo 6 al mese: è chiaro che i rapporti familiari subiscono delle difficoltà". Lunga la trafila per accedere ai colloqui: "Bisogna identificare il familiare - ha spiegato l’ispettore Rachele Nobile, responsabile settore colloqui carcere di Piacenza - che chiede di entrare a far visita al detenuto, poi verificare il titolo di accesso e la legittimazione a fare il colloquio (del direttore o dell’autorità giudiziaria dalla quale dipende il detenuto)". Spesso sono presenti dei bambini: "L’attività dei volontari - ha detto - è fondamentale: i bambini sono spaesati quando vengono la prima volta in carcere. Trovare un ambiente accogliente, dei giochi, delle persone che fanno animazione, serve a smorzare il clima austero". L’ispettore Nobile lavora in carcere da 17 anni: "Un episodio che non dimenticherò mai è successo diversi anni fa: la protagonista era una bambina che andava all’asilo con mia figlia e veniva a trovare il papà in carcere. Quando andavo a prendere mia figlia all’asilo e la incontravo mi diceva sempre: "Mi fai la perquisizione, mi fai in solletico?"". "Anche i bambini, come gli adulti, vanno perquisiti - ha aggiunto - ma si cerca di fare la perquisizione sotto forma di gioco, il gioco del solletico". Campobasso: carcere Larino, venerdì presentazione del progetto O.De. per i detenuti www.termolionline.it, 11 dicembre 2013 In data 13 c.m. alle ore 10,30 è indetta conferenza stampa per presentare il Progetto O.De. Il progetto promosso dall’Osservatorio per l’inclusione sociale, sezione della Isfol è volto ad orientare e formare i detenuti per metterli in rete con le richieste del mercato del lavoro al fine di facilitare un futuro loro inserimento lavorativo. Il percorso predisposto dalla dott.ssa Antonietta Maiorano, ricercatrice Isfol supportata dalla Sociologa Pierpaola D’Aloia, ha previsto diverse fasi: raccolta e analisi dei percorsi lavorativi dei detenuti ricerca delle competenze trasversali possedute, predisposizione di un curriculum lavorativo, formazione in materia di primo soccorso e sicurezza sul posto di lavoro. Partner essenziali del progetto sono stati lo psicologo dott. Francesco Basilico e il Direttore dell’Ufficio per l’Impiego di Termoli dott. Marcello Vecchiarelli. Al percorso hanno partecipato 20 detenuti con un fine pena prossimo o destinatari di misure alternative. Polonia: respinte le prime istanze di scarcerazione dei tifosi laziali, previsto un ricorso Asca, 11 dicembre 2013 I legali faranno ricorso, le prossime udienze forse giovedì e venerdì. Continua l’odissea dei tifosi laziali rinchiusi nel carcere polacco di Bialoleka in seguito ai presunti disordini di cui si sarebbero resi responsabili (il condizionale è d’obbligo non essendoci notizie certe in merito) nel centro di Varsavia prima del match di Europa League tra Legia e Lazio. Ieri è arrivata una brutta notizia: le prime istanze di scarcerazione per sette dei dieci ragazzi già condannati per direttissima (con la commutazione della detenzione in uscita su cauzione), sono state respinte dal giudice, con la motivazione che nessuno di loro risiede in Polonia, per cui non c’è la sicurezza della loro presenza ai successivi appelli. Grande delusione da parte dei genitori degli ultrà biancocelesti detenuti, che insieme agli avvocati, continuano a fare la spola tra l’ambasciata italiana ed il carcere. Secondo quanto riferisce lalaziosiamonoi.it, i legali stanno pianificando gli appelli per giovedì. L’idea è quella di convincere i giudici a concedere l’uscita dal carcere, trasferendo i ragazzi in un hotel di Varsavia in una sorta di "detenzione domiciliare". Il timore è che il gruppo di 12 ragazzi ancora in attesa di giudizio dovranno ancora attendere per le udienze di scarcerazione, che potrebbero slittare a martedì 17. Naturalmente delusi i familiari: "Adesso faremo ricorso contro la decisione - spiega uno dei genitori ai microfoni di Radiosei - ma ovviamente tutto ciò allunga la procedura. Venerdì sera avevamo speranze, la pressione fatta in questi giorni dalle istituzioni ci rassicurava. Anche i ragazzi speravano in una notizia positiva, spero che non la prendano male. Mio figlio ha girato il mondo per la Lazio, ma non mi sarei mai aspettato che in Polonia potesse accadere tutto ciò. Le ultime parole che mi ha detto? A qualsiasi costo, ma tirami fuori di qui papà….". Libia: rappresentante Onu Tareq Metr manifesta preoccupazione per situazione detenuti Nova, 11 dicembre 2013 "La situazione degli otto mila detenuti nelle carceri libiche è fonte di grandi preoccupazioni". È quanto ha denunciato ieri Tareq Metri, inviato delle Nazioni Unite in Libia il quale ha reso pubblico un rapporto della Commissione Onu che presiede, dal quale emerge che "la maggior parte di questi sono detenuti dalle milizie armate e attendono un processo in assenza di qualsiasi processo o regolari interrogatori a causa del mancato controllo da parte dello Stato. Nel rapporto emerge anche l’esistenza di "prove inconfutabili" di torture e maltrattamenti che avrebbero causato la morte in prigione di almeno 27 detenuti. Da parte sua il governo di Tripoli ha accolto positivamente il rapporto Onu. Israele: approvata nuova legge, immigrati in carcere anche senza processo Tm News, 11 dicembre 2013 Norma prevede anche detenzioni in centri "aperti". Il parlamento israeliano ha approvato una nuova legge per contrastare l’immigrazione clandestina proveniente dal continente africano, che prevede anche un anno di detenzione senza processo per gli immigrati privi di documenti. Nella norma, sostenuta dal governo e adottata con 30 voti a favore e 15 contrari, sono previsti due tipi di detenzione per gli immigrati che tentano di entrare illegalmente in Israele: alcuni potranno essere trattenuti in centri di detenzione "aperti", mentre altri potranno essere detenuti in centri "chiusi", senza processo, per un anno. Coloro che saranno trattenuti nei centri "aperti" potranno circolare di giorno, ma rientrare di notte. La presenza in Israele di oltre 62.000 migranti irregolari, tra cui 35.000 eritrei, ha scatenato nel 2012 manifestazioni di xenofobia. Lo scorso anno, le autorità hanno avviato una vasta campagna di arresti ed espulsioni di cittadini del Sud Sudan; inoltre lo Stato ebraico ha costruito un muro di circa 250 chilometri lungo il confine con l’Egitto. Israele: sono 300mila i palestinesi arrestati dall’inizio della prima Intifada Quds Press, 11 dicembre 2013 Un centro palestinese per i diritti umani ha affermato che, a partire dallo scoppio della prima intifada, avvenuto l’8 dicembre 1987, sono più di 300 mila i cittadini palestinesi che hanno vissuto l’esperienza della detenzione. Tra questi, 210 mila sono stati detenuti dall’inizio dell’intifada fino alla metà del 1994, anno in cui venne creata l’Autorità Palestinese. Un rapporto reso noto dal Centro studi "Usra Filastin" domenica 8 dicembre, ed in parte diffuso da Quds Press, osserva che decine di migliaia di palestinesi sono stati arrestati dal 1994 fino all’intifada di al - Aqsa, scoppiata il 28 settembre 2000, che 81 mila sono stati detenuti durante gli anni dell’intifada, e che tra questi v’erano donne, bambini, anziani, membri del Consiglio legislativo, accademici, medici e studenti universitari. Il rapporto, diffuso in occasione del 26° anniversario dello scoppio della prima intifada, ha affermato che "l’occupazione israeliana non è chiaramente riuscita a raggiungere l’obiettivo d’intensificare le politiche di detenzione. Paura e disperazione abitano però nei cuori dei figli del popolo palestinese, la cui resistenza si è fermata o ha rinunciato ad intraprendere la via del jihad o del sacrificio per porre fine all’occupazione e riottenere i diritti nella propria terra. E nonostante i numeri parlino di circa 750 mila palestinesi ad essere entrati nelle prigioni israeliane, il popolo palestinese continua ad opporsi e chiedere diritti nella propria terra e nei luoghi santi". Il rapporto inoltre rende noto che nelle carceri dell’occupazione vi sono 53 prigionieri detenuti sin dalla prima intifada o anche prima, al cui rilascio le autorità israeliane si sono opposte immediatamente dopo gli accordi di Oslo. Tra questi, 26 sono originari della Cisgiordania, quattordici dei territori occupati nel 1948, e cinque della Striscia di Gaza. Il più anziano è Karim Yusuf Yunis, originario delle terre occupate nel ‘48 e detenuto dal 6 gennaio 1983. Furono 43 i martiri tra i prigionieri durante la prima intifada: 23 morirono a causa delle torture subite e undici in seguito ad una deliberata negligenza medica. Due invece i martiri uccisi dal fuoco nemico e sette quelli assassinati a sangue freddo una volta arrestati. Romania: presidente Basescu invita Camera deputati a respingere legge su amnistia Nova, 11 dicembre 2013 Il presidente della Repubblica romeno, Traian Basescu ha "pregato" i membri della Camera dei deputati di respingere le legge sull’amnistia e la grazia presentata dall’opposizione. Secondo un annuncio del portavoce dell’amministrazione presidenziale, Bogdan Oprea, il capo dello stato crede che una decisione di questo tipo metterà a repentaglio la credibilità della lotta anticorruzione degli ultimi anni. La Camera dei deputati dovrà votare la legge dopo l’approvazione di ieri del Senato. La legge, proposta da Partito liberale, Partito democratico liberale e Partito del Popolo Dan Diaconescu prevede l’amnistia delle pene detentive sino a sei mesi e la grazia per i detenuti con pena sino ai sette anni di reclusione. Egitto: deposto presidente Mohammed Morsi rifiuta interrogatorio avvocati in carcere Aki, 11 dicembre 2013 Il deposto presidente egiziano Mohammed Morsi si è rifiutato di rispondere all’interrogatorio formulato dagli avvocati che gli hanno fatto visita nel carcere di Burg al - Arab di Alessandria dove è detenuto. Ne dà notizia il figlio Osama, che in qualità di avvocato aveva assistito al primo interrogatorio. Secondo quanto spiegato all’agenzia di stampa Anadolu, Morsi ha ribadito di non riconoscere la legittimità di questi interrogatori. Gli avvocati erano stati incaricati di interrogare l’ex presidente in merito alla sua evasione dal carcere di Wadi al-Natrun durante la Rivoluzione del 25 gennaio 2011 che ha deposto il presidente Hosni Mubarak. Stati Uniti: trasferimento detenuti di Guantánamo, dal congresso un accordo preliminare di Luca Pistone atlasweb.it, 11 dicembre 2013 I membri dei comitati per i servizi armati di entrambe le camere del congresso degli Stati Uniti hanno annunciato ieri un accordo preliminare per facilitare il trasferimento dei detenuti di Guantánamo in altri paesi, all’interno di un disegno di legge di bilancio per la difesa. Tale accordo spianerebbe la strada per circa 80 dei 162 prigionieri, ancora presenti nel carcere di Guantánamo - situato in una base statunitense a Cuba -, verso paesi terzi. Tuttavia, l’intesa lascia intatto il divieto di trasferimento per quei detenuti che devono essere giudicati in territorio statunitense e di costruzione di nuove strutture per ospitarli. Lo scorso maggio il presidente Obama si era impegnato a tracciare un piano per il trasferimento di questi detenuti verso i paesi che si sono mostrati disponibili a riceverli. Lo scorso novembre il senato aveva respinto un emendamento bipartisan che mirava a facilitare il trasferimento dei prigionieri di Guantánamo in territorio statunitense per essere giudicati o in paesi terzi per essere rilasciati. Il segretario della Difesa Chuck Hagel ha recentemente stimato che quest’anno ogni detenuto di Guantánamo è costato ai contribuenti circa 2,7 milioni di dollari, mentre un prigioniero di un carcere di massima sicurezza federale costa 34 mila dollari. La maggiore difficoltà nella chiusura di Guantánamo riguarda attualmente i 48 detenuti che non possono essere rilasciati perché rappresentano "una grave minaccia per la sicurezza nazionale".