Giustizia: emergenza carceri, l’ira del Quirinale. E nelle piazze parte una raccolta firme di Federica Seneghini Corriere della Sera, 9 aprile 2013 Per Napolitano “condizioni insostenibili”. Oltre 10.000 firme raccolte per tre leggi di iniziativa popolare. Con oltre 10.000 firme raccolte in meno di tre ore, è partita bene la campagna a sostegno delle tre leggi di iniziativa popolare “Tortura, carceri e droghe”. Una mobilitazione, iniziata martedì davanti ai tribunali di tutta Italia, per promuovere tre proposte, già depositate in Cassazione lo scorso 30 gennaio che, secondo le associazioni, “costituiscono un vero e proprio programma di governo per ripristinare la legalità del nostro sistema penale e penitenziario”. Le richieste sono tre: ridurre il sovraffollamento all’interno delle carceri introducendo una sorta di “numero chiuso” all’esaurirsi della capienza regolamentare; inserire nel codice penale quel reato di tortura che ancora manca; modificare la legge Fini-Giovanardi sulle droghe. Secondo i dati resi noti dalle Camere penali, solo l’anno scorso sono entrate in carcere per violazione della normativa antidroga 28.000 persone, fra consumatori e piccoli spacciatori, mentre sono oltre 15.000 i tossicodipendenti ristretti su un totale di 67.000. A firmare “sono soprattutto giovani che hanno raccolto l’invito lanciato via Facebook”, ha spiegato Patrizio Gonnella, presidente di “Antigone”, una delle oltre trenta associazioni attive sul fronte della tutela dei diritti dei detenuti promotrici dell’iniziativa (oltre all’Unione camere penali italiane e al coordinamento garanti dei diritti dei detenuti). A Roma in pochissimo tempo hanno firmato oltre 400 persone. A Bologna oltre 1.000 in quattro ore. “Davanti ai banchetti ci sono ovunque file ininterrotte”, sintetizza Gonnella. “Dimostra che il tema dei diritti in carcere non è così lontano dalla gente”. Al 31 marzo erano 65.831 i detenuti presenti nelle carceri italiane, a fronte di una capienza regolamentare pari a 47.045. Sul totale dei detenuti presenti nei 206 istituti di detenzione italiani, le donne sono 2.847, gli stranieri 23.436. I soggetti in semilibertà sono 890, e tra questi 99 sono stranieri. La Lombardia con oltre 9 mila detenuti, la Campania, con oltre 8mila, il Lazio e la Sicilia, con oltre 7 mila, sono le regioni con il maggior numero di detenuti e con gli scostamenti più forti tra presenze reali e capienza regolamentare. Altri dati arrivano da Roberto Martinelli, del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria (Sappe): “Circa l’80% dei detenuti ha problemi di salute, più o meno gravi. Il 38% versa in condizioni mediocri, il 37% in condizioni scadenti, il 4% ha problemi di salute gravi e solo il 20% è sano”. Anche il Quirinale è tornato a parlare di emergenza carceri. Napolitano “ha colto ogni occasione per denunciare l’insostenibilità delle condizioni in cui versano le carceri”, si legge in un messaggio del segretario generale del Quirinale Donato Marra al sindacato della polizia penitenziaria Sappe. Il Quirinale, prosegue la nota, auspica “un sistema di gestione della pena più conforme ai principi costituzionali”, sottolineando che “il sovraffollamento degli istituti, le condizioni di vita degradanti che ne conseguono, i numerosi episodi di violenza e di autolesionismo, le condotte di inquieta insofferenza o di triste insofferenza sempre più diffuse tra i reclusi, la mancata attuazione dunque delle regole penitenziarie europee confermano purtroppo la perdurante incapacità del nostro Stato a realizzare un sistema rispettoso del dettato dell’art. 27 della Costituzione repubblicana sulla funzione rieducativa della pena e sul “senso di umanità” cui debbono corrispondere i relativi trattamenti”. Napolitano denuncia ancora: condizioni insostenibili (Dire) Il segretario generale della Presidenza della Repubblica, Donato Marra, in occasione del XXIV Consiglio Nazionale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria, ha inviato al Segretario generale, Donato Capece, un messaggio nel quale ricorda come “il Presidente Napolitano ha più volte, e anche molto di recente, colto ogni occasione per denunciare l’insostenibilità delle condizioni in cui versano le carceri, sottolineando che ‘il sovraffollamento degli istituti, le condizioni di vita degradanti che ne conseguono, i numerosi episodi di violenza e di autolesionismo, le condotte di inquieta insofferenza o di triste insofferenza sempre più diffuse tra i reclusi, la mancata attuazione dunque delle regole penitenziarie europee confermano purtroppo la perdurante incapacità del nostro Stato a realizzare un sistema rispettoso del dettato dell’art. 27 della Costituzione repubblicana sulla funzione rieducativa della pena e sul ‘senso di umanità à cui debbono corrispondere i relativi trattamenti”. Il messaggio prosegue: “L’acuta criticità della situazione impegna anche la Polizia Penitenziaria a una complessiva riflessione sul tema al fine di formulare, in spirito di costruttiva collaborazione, proposte per un sistema di gestione della pena più conforme ai principi costituzionali. Con tale auspicio il presidente della Repubblica rinnova il suo apprezzamento alle donne e agli uomini della Polizia Penitenziaria per l’impegno e la professionalità con cui svolgono la loro delicata funzione”. Giustizia: droghe, tortura e recidiva; 3 firme per cambiare, la raccolta davanti ai tribunali di Riccardo Chiari Il Manifesto, 9 aprile 2013 “Con questa campagna vogliamo inviare l’ennesimo appello al parlamento, perché finalmente si occupi sul serio dei problemi sempre più gravi delle carceri italiane”. Franco Corleone offre anche il senso politico della raccolta di firme “Tre leggi per la giustizia e i diritti. Tortura, carceri, droghe”, organizzata oggi davanti ai tribunali di buona parte della penisola. Una mobilitazione per promuovere tre proposte di legge di iniziativa popolare già depositate in Cassazione. Con gli obiettivi di ridurre il sovraffollamento, introducendo una sorta di “numero chiuso” all’esaurirsi della capienza regolamentare - solo teoricamente fissata per legge - negli istituti di pena; modificare e alleggerire le disposizioni della criminogena legge Fini-Giovanardi sulle droghe; infine inserire nel codice penale quel reato di tortura che ancora manca, nonostante l’Italia sia firmataria di trattati internazionali che lo prevedono. Ad organizzare la campagna di raccolta delle firme, insieme all’Unione delle camere penali ci sono praticamente tutte le associazioni attive sul fronte della tutela dei diritti dei detenuti. Fra queste anche due “giganti” come l’Arci e la Cgil: “Qui a Firenze organizza la Fp Cgil - osserva sul punto Corleone - perché il carcere è diventato anche lo specchio della crisi sociale che stiamo vivendo. Per gli effetti della crisi economica, un numero sempre maggiore di detenuti non ha i soldi per acquistare e cucinarsi da sé il cibo, e ricorre alla mensa dell’amministrazione penitenziaria. Che a sua volta ha tagliato le forniture, con il risultato che recentemente alcuni detenuti sono rimasti senza pasto”. Le altre associazioni promotrici (A buon diritto, Acat Italia, Adu, A Roma, insieme-Leda Colombini, Antigone, Ass. Federico Aldrovandi, Giuristi democratici, Saman, Bin Italia, Cnvg, Cnca, Coordinamento dei garanti dei diritti dei detenuti, Fondazione Michelucci, Forum Droghe, Forum per il diritto alla salute in carcere, Giustizia per i diritti di Cittadinanzattiva, Gruppo Abele, Gruppo Calamandrana, Il detenuto ignoto, Itaca, Libertà e Giustizia, Medici contro la tortura, Naga, Progetto Diritti, Ristretti Orizzonti, Società della Ragione, Società italiana di psicologia penitenziaria, Vic-Volontari in carcere) sono esplicite: “Sarebbe un bel segnale se anche esponenti delle forze politiche si recassero davanti ai tribunali a sottoscrivere le nostre proposte, tutte nel segno della giustizia, della democrazia e dei diritti umani”. Nonostante il conclamato disinteresse di gran parte della politica, il garante fiorentino dei detenuti non perde la speranza: “Nei loro discorsi di insediamento a camera e senato, sia Laura Boldrini che Pietro Grasso hanno fatto riferimenti alla disperante condizione carceraria. Ora però qualcosa si deve concretizzare: più del 30% dei detenuti sono dentro per la violazione delle leggi sulla droga”. Più in dettaglio, la proposta di legge per introdurre il reato di tortura nel codice penale segue il testo codificato nella Convenzione dell’Onu, che qualifica un sistema politico come democratico solo quando si ha una proibizione legale della tortura. La seconda proposta “Per la legalità e il rispetto della Costituzione nelle carceri”, ha l’obiettivo di ridurre l’affollamento rafforzando il concetto di misura cautelare in carcere come extrema ratio, proponendo modifiche alla legge Cirielli sulla recidiva, e imponendo il “numero chiuso” una volta esaurita la capienza regolamentare. In aggiunta c’è la richiesta di istituire un Garante nazionale per i diritti dei detenuti, e l’altra meritoria proposta di cancellare il reato di clandestinità. Infine, le “Modifiche alla legge sulle droghe: depenalizzazione del consumo e riduzione dell’impatto”, che puntano ad archiviare la Fini-Giovanardi depenalizzando i consumi e la coltivazione casalinga, diminuendo le pene e restituendo centralità ai servizi pubblici per le dipendenze. Giustizia: campagna “Tre leggi per la giustizia e i diritti”, commenti di politici e operatori Ristretti Orizzonti, 9 aprile 2013 Di Giovan Paolo (Forum): “Basta tollerare disagio detenuti” “L’attenzione del Quirinale al mondo carcerario è importante, perché non è più possibile tollerare la grave situazione in cui sono costretti a vivere tanti detenuti e a lavorare tanti operatori”. Lo afferma il senatore Roberto Di Giovan Paolo, presidente del Forum per la Sanità Penitenziaria. “Ora serve un atto del Parlamento per dare un vero impulso alle misure alternative alla detenzione in carcere - continua Di Giovan Paolo - Non bisogna nemmeno dimenticare poi gli Opg, che riusciranno a chiudere solo tra un anno. E mi auguro che i ministeri competenti abbiano previsto un serio cronoprogramma perché nuovi ritardi non sono più tollerabili”. Brogi e Ruggeri (Pd): firmiamo contro il sovraffollamento Una raccolta di firme per contrastare il sovraffollamento carcerario. Stamani in Toscana, di fronte ai tribunali di Firenze, Pisa e Livorno, l’iniziativa organizzata da molte realtà attive sul fronte dei diritti dei detenuti, con l’obiettivo di raccogliere migliaia di firme a sostegno di tre proposte di legge di iniziativa popolare mirate a istituire un “numero chiuso” nelle carceri, un tetto massimo oltre il quale nessuno possa più entravi, di inserire nel codice penale il reato di tortura e di alleviare le disposizione della legge Fini-Giovanardi in materia di sostanze stupefacenti. Tra le adesioni, quella del consigliere regionale Pd Enzo Brogi, da anni attivo sul tema carcerario, e del capogruppo Pd Marco Ruggeri, che hanno firmato stamani, plaudendo all’iniziativa. “Ormai da troppo tempo attendiamo provvedimenti urgenti, le nostre carceri, nonostante i frequenti richiami del presidente della Repubblica e le condanne dell’Unione Europea, continuano ad essere le più sovraffollate d’Europa, dove le persone vivono in condizioni lesive della dignità - dichiara Ruggeri - Per questo come gruppo Pd abbiamo intensificato la nostra attività, e nei prossimi giorni con Brogi visiteremo il carcere di Porto Azzurro”. “Invito tutti coloro che ritengono, a ragione, che la situazione delle nostre carceri non sia più tollerabile, ad aderire a questa raccolta di firme - afferma Brogi. Annuncio anche che, sul fronte dei diritti dei detenuti, il Consiglio Regionale si riunirà il 23 aprile in seduta straordinaria per affrontare l’emergenza toscana. Ricordo anche che l’Italia è tra i Paesi europei con un più basso ricorso alle pene alternative e che questo influisce su un alto tasso di recidiva. Non possiamo permettere che le carceri siano discariche della società, troppe persone che stanno dentro dovrebbero stare fuori, in primis riguardo all’uso di sostanze stupefacenti. Insomma, nello stato in cui versano le carceri sono svuotate dal compito che gli riserva la nostra Costituzione, il fine rieducativo della pena, che restituisca alla società persone migliori e non ancora più incattivite e disperate”. Ferrero (Prc): sosteniamo campagna “Tre leggi per la giustizia e i diritti” Rifondazione comunista sostiene a partecipa attivamente alla campagna “Tre leggi per la giustizia e i diritti. Tortura, carceri, droghe”. Obiettivo della campagna è la raccolta delle firme per tre importantissime proposte di legge di iniziativa popolare depositate lo scorso gennaio in Cassazione: l’introduzione del reato di tortura nel codice penale, la legalità e il rispetto della Costituzione nelle carceri, le modifiche alla legge sulle droghe, con la depenalizzazione del consumo e la riduzione dell’impatto penale. Invitiamo tutte/i a firmare, oggi nello specifico la raccolta di svolge davanti ai Tribunali di tutta Italia. La mattanza del G8 di Genova e le drammatiche vicende di Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva e le tante, troppe vittime di un sistema malato impongono un necessario ripensamento del nostro sistema giudiziario e penitenziario”. Così Paolo Ferrero, segretario nazionale di Rifondazione comunista, e Giovanni Russo Spena, responsabile Giustizia di Rifondazione comunista in merito all’iniziativa on line all’indirizzo www.3leggi.it. Ucpi: partenza di successo per raccolta firme L’Unione delle camere penali italiane esprime grande soddisfazione per il successo della giornata nazionale di raccolta firme sulle tre leggi di iniziativa popolare “Per la giustizia e i diritti in carcere”, che ha visto mobilitate numerose camere penali con banchetti davanti ai tribunali e che in poche ore ha portato alla raccolta di oltre diecimila firme in tutta Italia. Un risultato straordinario che conferma la necessità di intervenire su temi fondamentali, come la tortura e la custodia cautelare in carcere. Le iniziative proseguiranno con l’obiettivo di raggiungere il quorum di 50 mila sottoscrizioni. Ballerini (Antigone): rivedere il sistema penale e penitenziario “Il 73% delle persone in carcere hanno problemi di salute e ne soffrono per le condizioni in cui li teniamo”. Alessandra Ballerini, avvocato Cgil e osservatrice Antigone, è una delle promotrici locali della Campagna “Tre leggi per la giustizia e i diritti. Tortura, carceri, droghe”, che oggi ha riempito piazza De Ferrari a Genova con gente in coda per firmare le tre proposte di legge per tutto il pomeriggio. “Si tratta di tre proposte di legge che all’interno contengono moltissime richieste di modifiche - spiega Ballerini. Si parte dall’introduzione del reato di tortura che dal G8 in poi sarebbe interessante avere nel nostro codice penale, poi la depenalizzazione dei reati che riguardano le droghe e infine l’inserimento delle persone che hanno problemi con le droghe in comunità, la depenalizzazione del reato di clandestinità, il garante nazionale delle carceri, e l’introduzione di una sorta di lista di attesa di condannati che dovrebbero scontare una pena in carcere”. E vista la situazione di sovraffollamento, per questi “la dignità sarebbe a rischio, così come la loro incolumità - sottolinea ancora - visto che il 73% delle persone in carcere hanno problemi di salute e ce li hanno per le condizioni in cui li teniamo. Tutte queste disposizioni di legge e anche la modifica della legge sulla recidiva potrebbero ridurre il problema sovraffollamento. Non si tratta di risolvere il problema in maniera emergenziale, attraverso le amnistie e gli indulti, ma di rivedere completamente il nostro sistema penale e penitenziario”, conclude Ballerini. Per firmare anche nei prossimi giorni ci si può informare sul sito www.3leggi.it o recarsi presso le associazioni che hanno aderito, dall’Arci alla Cgil all’associazione Antigone, solo per citarne alcune. Per firmare ci si può informare sul sito www.3leggi.it e recarsi presso le associazioni che hanno aderito, dall’Arci alla Cgil all’associazione Antigone. Giustizia: Sappe; “Il ruolo della Polizia Penitenziaria a tutela della sicurezza del cittadino” Il Velino, 9 aprile 2013 “Carcere, sicurezza e territorio. Il ruolo della Polizia Penitenziaria a tutela della sicurezza del cittadino” è il titolo del Convegno che si è tenuto questo pomeriggio ad Abano Terme, presso la Sala convegno dell’Hotel Helvetia in via Marzia 49. Organizzato dal Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, ha visto la presenza e partecipazione di diversi esponenti del mondo politico, sindacale e dell’associazionismo penitenziario, come la direttrice di “Ristretti Orizzonti” Ornella Favero e il garante regionale dei detenuti dell’Emilia Romagna Desi Bruno. “Nel 2012 ben 1.300 detenuti hanno tentato il suicidio, 7.317 gli atti di autolesionismo e 4.651 le colluttazioni. 56 i suicidi e 97 le morti per cause naturali. Oltre 1.500 le manifestazioni su sovraffollamento e condizioni di vita intramurarie. Questi dati sono importanti per far conoscere il duro, difficile e delicato lavoro che quotidianamente le donne e gli uomini della Polizia penitenziaria svolgono con professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto umanità. E questo Convegno vuole proprio far emergere e valorizzare il ruolo sociale dei Baschi Azzurri. È importante che la Società riconosca e sostenga l’attività risocializzante della Polizia Penitenziaria e ne comprenda i sacrifici sostenuti per svolgere tale attività, garantendo al contempo la sicurezza all’interno e all’esterno degli Istituti”. A dichiararlo è Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa organizzazione dei Baschi Azzurri. Il Sappe tornerà a proporre con urgenza un nuovo ruolo per l’esecuzione della pena in Italia, che preveda circuiti penitenziari differenziati ed un maggiore ricorso alle misure alternative, e sottolinea l’importante ruolo svolto quotidiano dai Baschi Azzurri del Corpo: “La Polizia Penitenziaria, negli oltre 200 penitenziari italiani, è formata da persone che nonostante l’insostenibile, pericoloso e stressante sovraffollamento credono nel proprio lavoro, che hanno valori radicati e un forte senso d’identità e d’orgoglio, e che ogni giorno in carcere fanno tutto quanto è nelle loro umane possibilità per gestire gli eventi critici che si verificano quotidianamente, soprattutto sventando centinaia e centinaia suicidi di detenuti. Dispiace constatare che le risposte dell’Amministrazione penitenziaria all’emergenza penitenziaria si siano rilevate del tutto inefficaci, come ad esempio la fantomatica quanto irrazionale e sporadica sorveglianza dinamica, che accorpa ed abolisce posti di servizio dei Baschi Azzurri mantenendo però in capo alla Polizia penitenziaria il reato penale della “colpa del custode” (articolo 387 del Codice penale). Il Dap, con il Capo Dipartimento Tamburino ed il vice Pagano, favoleggia di un regime penitenziario aperto, di sezioni detentive sostanzialmente autogestite da detenuti previa sottoscrizione di un patto di responsabilità favorendo in realtà un depotenziamento del ruolo di vigilanza della Polizia Penitenziaria: di fatto tutto ciò impedisce ed impedirà ai poliziotti di intervenire in tantissime situazioni critiche che quotidianamente si verificano in carcere”. Giustizia: “Ricomincio dal bio”, orti biologici coltivati dai ragazzi di istituti penali minorili Redattore Sociale, 9 aprile 2013 Diventa operativo il progetto nazionale “Ricomincio dal bio” che coinvolge sei strutture in Italia. L’obiettivo: “Migliorare la qualità della vita durante l’esecuzione della pena”. Con l’arrivo della primavera, negli spazi di sei istituti penali italiani, diventano operativi gli orti sociali del progetto “Ricominciando dal bio”: un’opportunità per minori sottoposti a misure penali. Le sedi di svolgimento sono gli istituti penali minorili di Palermo, Airola (Bv), Roma (maschile e femminile), Pontremoli (Ms) e presso l’Usmm de L’Aquila. La presentazione del progetto, per quanto attiene all’istituto penale Malaspina di Palermo, è avvenuta questa mattina presso la sala “Gialla” del Centro Giustizia Minorile di Palermo. All’interno degli spazi dell’istituto penale di Palermo l’orto sarà allestito su due aiuole di 80 metri quadrati ciascuna per un totale di 34 parcelle. Tra gli ortaggi comuni saranno coltivati lattuga, rucola, zucchine, specie rare di peperoncini piccanti e poi ancora alloro, origano, timo, lavanda, salvia e rosmarino. Il progetto nazionale, iniziato lo scorso settembre, ha la durata di un anno ed è realizzato dall’Aiab (Associazione italiana agricoltura biologica) in collaborazione con gli operatori dei Centri di giustizia minorile (Cgm), degli Istituti penali per i minorenni (Ipm) e dei Servizi Sociali. “Ricomincio dal Bio si pone l’obiettivo di trasmettere ai minori del circuito penale l’amore per la vita, la natura e il lavoro, attraverso la cura dell’orto e l’auto-produzione di alimenti. L’intento è di migliorare la qualità della vita durante l’esecuzione della pena. Attraverso il progetto, si impianteranno nuovi orti biologici ed si integreranno quelli già esistenti negli istituti penitenziari per minorenni. Ciò permetterà di ampliare in modo duraturo le attività interne alle strutture detentive e le occasioni di lavoro per i minori. Il progetto avrà una continuità nel tempo: agli istituti resteranno gli orti, ai giovani la soddisfazione di raccogliere e consumare i frutti del proprio lavoro e la passione per la terra. I giovani verranno stimolati a consapevolizzare e riflettere sulla propria attività attraverso la redazione di un apposito diario in cui scrivere e disegnare il proprio punto di vista e le considerazioni sull’esperienza in corso. I sei orti saranno suddivisi in parcelle di 4 metri quadrati, collegate da sentieri di passaggio, in cui verranno realizzate coltivazioni biologiche di ortaggi ed erbe aromatiche mediterranee a ciclo primaverile-estivo e di alcune essenze officinali vivaci. “Credo molto in questo progetto - dice Angelo Meli direttore del Centro di Giustizia Minorile per la Sicilia e per la Calabria e la Basilicata. Ricordo tanti anni fa a Firenze un ergastolano che coltivava con interesse degli ortaggi negli interstizi degli edifici del carcere. A volte la natura è capace di trasmetterci il senso del vivere anche in un contesto difficile e amaro come quello detentivo. Riteniamo quindi che questi progetti siano tasselli importanti, inseriti in un quadro più ampio che è quello del recupero sociale, familiare e lavorativo dei ragazzi che ci vengono affidati. Per ognuno di loro individuiamo un programma personalizzato che prevede un percorso attraverso il quale riscattarsi dal passato per inserirsi coerentemente nella società. Dal un lato i giovani acquisiscono una preparazione del settore agro-biologico dall’altro acquisiscono la consapevolezza del valore del rispetto della natura. Il numero di minori coinvolti è variabile, lo decideremo in corso di svolgimento perché dipenderà anche dalla loro idoneità: è importante che questi minori siano già portatori di un percorso di maturazione idoneo per potere essere impegnati nel progetto”. “Abbiamo sperimentato l’efficacia dell’attività agricola ai fini della riabilitazione - sottolinea Anna Ciaperoni, responsabile del progetto - Aiab - degli adulti in stato di detenzione e adesso anche dei minori. Tra le testimonianze mi piace ricordare che un ergastolano un giorno ci raccontò che la sua passione nei confronti delle piante era tale che sarebbe riuscito a coltivare pure in mezzo ai gusci di noci. Mentre un educatore di Bologna ci ha raccontato come un piazzale cementificato di un istituto penale, trasformato in area verde, faceva identificare nei detenuti che vi hanno partecipato il loro processo di nascita e di crescita. C’era proprio questo specchiarsi. In questo senso l’agricoltura è una marcia in più rispetto ad altre attività. Ai minori, attratti spesso dai guadagni facili, l’agricoltura intesa come nel passato risulta poco appetibile mentre l’agricoltura biologica con le sue valenze sociali inizia ad attrarli”. “Il lavoro nei campi e con i viventi vegetali, mette la persona in contatto diretto con i cicli della vita - aggiunge Aldo Milea, coordinatore del progetto Aiab. consentendogli di sviluppare un più corretto rapporto col fluire del tempo e con il suo impiego ai fini del sostentamento. La capacità di procurarsi il cibo, in modo semplice e diretto, assecondando la natura attraverso il lavoro e il saper attendere, riveste una grande importanza per la crescita dell’autostima e per il maturare di un punto di vista corretto sul rapporto tra lavoro e sostentamento”. Giustizia: i pm Barba e Loy; “Cucchi ucciso da incuria medici il pestaggio non fu decisivo” di Federica Angeli La Repubblica, 9 aprile 2013 Medici, infermieri, guardie carcerarie: ognuno dei dodici imputati ha una responsabilità nella morte - o, meglio, “nel non aver evitato la morte” - di Stefano Cucchi, il geometra romano di 31 anni deceduto il 22 ottobre 2009 nel reparto per i detenuti dell’ospedale Pertini, a sei giorni dal suo arresto. Tuttavia, secondo i pubblici ministeri Vincenzo Barba, titolare dell’inchiesta, e Francesca Loy “Cucchi è morto di fame e di sete, e non per le percosse subìte dalle guardie carcerarie durante la sua detenzione”. Una verità, quella sostenuta ieri dai magistrati nell’aula bunker di Rebibbia, che mette un punto fermo nel processo di primo grado. Calci e pugni, raccontati dal testimone gambiano compagno di cella di Cucchi Samura Yaya, colui che vide l’esito dell’aggressione e sentì quando Stefano cadde a terra, ritenuto dagli inquirenti “credibile”, furono sferrati dagli agenti della penitenziaria perché il detenuto, una persona debilitata “di magrezza patologica, di quelle che abbiamo visto di rado, per lo più nei film che raccontano quanto successo ad Auschwitz”, pretendeva “cure per la sua crisi d’astinenza in cui probabilmente si trovava”. Un pestaggio su un fisico debole che però non ha contribuito alla morte, al contrario, secondo l’accusa, di quello che accadde dopo. L’indifferenza dei camici bianchi, la “sciatteria nel conservare una cartella clinica”, probabilmente per coprire il pestaggio delle guardie carcerarie, ha infatti giocato un ruolo importante: medici e infermieri hanno “accettato il rischio” che il paziente, giudicato da loro “maleducato, cafone e scorbutico”, e che rifiutava di nutrirsi, “potesse morire”, annotando la circostanza nel referto ma guardandosi bene dell’intervenire. Scuotono la testa amareggiati la mamma, il padre e la sorella di Stefano, presenti in aula, di fronte alla ricostruzione di uno dei casi giudiziari più discussi degli ultimi anni. Al termine dell’udienza, Ilaria Cucchi parla di “un processo ipocrita”: “I magistrati hanno dipinto mio fratello come uno zombie tossicomane. Sarà soddisfatto Giovanardi. Allora meglio che gli imputati siano assolti, piuttosto che considerati colpevoli per falsi motivi. La verità è che Stefano è stato massacrato da rappresentanti dello Stato. E non avrebbe mai conosciuto quei medici che lo hanno lasciato morire, se non fosse stato picchiato dagli agenti della penitenziaria. E poi poco contano le decine di testimonianze che affermano che Stefano stava bene e faceva tapis roulant un’ora prima del suo arresto. Poco conta che nelle sue urine non vi erano tracce di droga”. La requisitoria dei pm è granitica. Sono tre i punti chiave su cui ruota tutto l’impianto accusatorio di cui i giudici della III Corte d’Assise dovranno tener conto. Il primo: Stefano Cucchi fu picchiato mentre era in una cella di piazzale Clodio, in attesa del processo di convalida, perché chiedeva insistentemente farmaci contro la sua crisi di astinenza. Il secondo: fu ricoverato al Pertini pur essendo gravi le sue condizioni. Infine, la condotta del personale sanitario dell’ospedale nei cui confronti la accuse sono gravissime: “Non provvedono al trasferimento del ragazzo”, “non gli danno neanche acqua e zucchero”, “nessuno spiega a Cucchi cosa gli sta succedendo. Non gli prendono neanche i battiti del polso: una delle cose più banali”. Tutti comportamenti “non colposi, ma chiari indici di indifferenza dei medici nei confronti del paziente”. Così, al termine della ricostruzione dei fatti, durata cinque ore, arrivano le richieste di condanna dai 2 ai 6 anni e 8 mesi di reclusione per reati che vanno dalle lesioni all’abbandono di incapace. Per Aldo Fierro, direttore del reparto detenuti del Pertini, è stata chiesta la condanna più alta. A seguire Stefania Corbi, medico (sei anni), Silvia Di Carlo e Luigi Preite De Marchis, anche loro camici bianchi (cinque anni e mezzo), e Rosita Caponetti, che finiva il turno al momento del ricovero dell’uomo (due anni). Quattro anni per gli infermieri Giuseppe Flauto, Elvira Martelli e Domenico Pepe. Due anni, invece, per gli agenti della polizia penitenziaria Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Domenici. Stefano Cucchi, processo alla vittima, di Riccardo Chiari (Il Manifesto) I pm: condanne per tutti gli imputati. Ma in aula giudizi pesanti sul 31enne pestato e lasciato morire in ospedale. Indignata la sorella Ilaria: “Tutte le istituzioni si sono voltate dall’altra parte. Spero nella giustizia”. Stefano Cucchi morì di fame e di sete. Nella “assoluta indifferenza” dei sanitari che avrebbero avuto il dovere di assisterlo. Anche se “le lesioni provocate dagli agenti penitenziari nelle celle di piazzale Clodio hanno avuto una valenza meramente occasionale sul piano della morte, non consequenziale”. Fanno già molto discutere queste conclusioni della pubblica accusa nel processo per la morte di Cucchi. Questo nonostante la richiesta di condanna per tutti gli imputati a pene comprese fra i 6 anni e 8 mesi di reclusione al primario dell’ospedale Pertini, Aldo Fierro, e i 2 anni agli agenti penitenziari Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Domenici. Passando per i 6 anni ai medici Stefania Corbi e Flaminia Bruno, 5 anni e 6 mesi ai medici Luigi De Marchis Preite e Silvia Di Carlo, 2 anni al medico Rosita Caponetti e 4 anni ai tre infermieri Giuseppe Flauto, Elvira Martelli e Domenico Pepe. I fatti emersi nel corso delle udienze processuali sono stati ripercorsi dai pm Barba e Loy: Stefano Cucchi fu picchiato nelle celle del tribunale dagli agenti; fu ricoverato al Pertini senza che ce ne fosse bisogno, solo per isolarlo dal mondo, dal suo avvocato difensore e dagli stessi familiari; morì perché abbandonato a se stesso. Ma le ripetute osservazioni sul giovane sotto effetto di droga e magrissimo (“una magrezza patologica simile ai prigionieri di Auschwitz”, dice il pm), che soffriva di crisi epilettiche, e che “andava al pronto soccorso due volte l’anno” (di più: “Cucchi non era un giovane sano e sportivo - ha detto il pm Loy - era un tossicodipendente da vent’anni, con gravi conseguenze sugli organi”), hanno provocato l’immediata reazione sia di Ilaria Cucchi che di Luigi Manconi: “Per l’ennesima volta un processo destinato ad accertare i responsabili della morte di una persona privata della libertà - ha subito osservato Manconi - si è trasformato nella requisitoria dei pm nella stigmatizzazione della vittima, e in una pesante critica nei confronti dei suoi familiari. La pubblica accusa ha parlato di “processo mediatico”, sorvolando sul fatto che difficilmente poteva essere altrimenti: si tratta della morte tragica di un 31enne, passato in sette giorni attraverso undici istituzioni pubbliche, dalla prima caserma dei carabinieri fino al reparto detentivo dell’ospedale Pertini, non trovando mai soccorso e cura ma al contrario abusi, violenze e abbandono”. Sulla stessa linea Ilaria Cucchi, che con la famiglia ha sempre denunciato che Stefano fu anche vittima di un pestaggio, fatto confermato in aula dal compagno di cella Samura Yaya, pure definito “testimone oculare credibile”. “Non posso accettare che non sia riconosciuta la verità su quello che è successo a Stefano - commenta Ilaria Cucchi - tutti sanno la verità, speravo che entrasse anche nell’aula di giustizia. Ripongo nella Corte tutta la mia fiducia perché ogni risposta non coerente con quanto accaduto a Stefano, ogni risposta ipocrita, non la possiamo accettare”. “L’atteggiamento di oggi in aula - attacca ancora Ilaria Cucchi - è coerente con quello che è stato l’atteggiamento della procura. Tanto che viene da chiedersi chi sono gli imputati nel processo per la morte di mio fratello. I medici avrebbero potuto salvare mio fratello e non lo hanno fatto, si sono voltati dall’altra parte e non si può far finta di niente. Come non si può far finta che Stefano sarebbe finito in quell’ospedale per cause che non c’entrano con il pestaggio”. Friuli Venezia Giulia: Serracchiani (Pd); il carcere dev’essere necessariamente rieducativo Ansa, 9 aprile 2013 “Il carcere deve avere un carattere necessariamente rieducativo, che purtroppo oggi manca e che va recuperato attraverso il lavoro”. Lo ha detto la candidata alla presidenza del Fvg Debora Serracchiani, in occasione di un incontro con la Conferenza Volontariato Giustizia Fvg, che riunisce diverse associazioni operanti nell’ambito del settore penitenziario. Ai rappresentanti della Conferenza, i quali hanno illustrato la situazione di grave emergenza delle strutture detentive della Regione, elencando le criticità e le urgenze da affrontare nell’immediato, Serracchiani ha detto che “il lavoro è lo strumento migliore per il reinserimento sociale dei cittadini detenuti. Per questo credo sia opportuno che la Regione favorisca tali percorsi incentivando i lavori di pubblica utilità e le borse lavoro. È inoltre indispensabile che la Regione recepisca la riforma sanitaria degli istituti penitenziari: siamo gli unici in Italia - ha sottolineato - a non averlo ancora fatto”. Rispondendo alla richiesta delle associazioni di istituire un Garante regionale che monitori e tuteli la condizione detentiva, Serracchiani ha precisato che “non solo va introdotta la figura del Garante, ma bisogna anche riattivare la Commissione regionale in tema di disadattamento e devianza, bloccata da anni, che potrebbe ricoprire un prezioso ruolo di regia tra le tante realtà che a vario titolo - ha concluso - si occupano del settore penitenziario in Friuli Venezia Giulia”. Sardegna: per quattro carceri che aprono, due chiudono i battenti… Iglesias e Macomer La Nuova Sardegna, 9 aprile 2013 Per quattro carceri che aprono, due chiudono i battenti. E alle proteste sulla realizzazioni dei grandi istituti si contrappongono proteste, invece, contro la soppressione dei piccoli. Sembra un paradosso, ma i distinguo sono d’obbligo. Altre polemiche sono piovute sul Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria quando, il 21 marzo, ha confermato le indiscrezioni circolate sull’addio alle sezioni di Iglesias e Macomer, il primo dedicato ai sex offender, l’altro con estremisti islamici. La voce più critica che si è levata appartiene a Claudia Lombardo, presidente del Consiglio regionale nata proprio nel Sulcis-Iglesiente. “È incredibile che il Dap tolga alla Sardegna realtà funzionanti come quelle di Iglesias e Macomer, e invece realizzi grandi carceri di massima sicurezza. Siamo di fronte al solito Stato patrigno”. Non era la sola a ritenere infausta questa scelta. In una cittadina come Iglesias, il carcere era quasi una risorsa, nonostante le difficoltà che il provveditorato ha incontrato, talvolta, per far lavorare in quel territorio i detenuti, tutti reclusi per reati legati alla violenza sessuale su donne o minori. Per la criminologa Cristina Cabras, professore associato alla facoltà di Scienze politiche di Cagliari, la decisione invece rispetta un ovvio criterio di razionalizzazione. “L’Italia ha il triplo di carceri della Spagna con il minor numero di detenuti”, spiega riferendosi ai 223 istituti nostrani per 67mila detenuti, contro gli 82 edifici destinati ai 70mila prigionieri spagnoli. “Com’è possibile lasciare aperto un carcere come Lanusei, ad esempio, che ha soli 31 posti? Si tratta di un costo troppo elevato”. Cristina Cabras sta effettuando uno studio per conto del provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria (Prap) sulla recidiva dei detenuti sardi. In pratica, il provveditorato vuole capire cosa fanno gli ex reclusi una volta in libertà e se qui si raggiungano i livelli italiani, dove tornano a delinquere sette detenuti su dieci, una enormità. A piano carceri completato, la Sardegna sarà una regione ad “autarchia detentiva”, nel senso che ospiterà tutte le tipologie di reclusi, forse caso unico in Italia. Basti pensare che qui hanno sede tre delle quattro colonie penali del Paese - Isili, Mamone, Is Arenas - che invece sono sotto utilizzate, anche perché i detenuti lavorano e vanno retribuiti. Poi ci saranno le due (forse tre) sezioni per i 41 bis a Uta e Bancali e i due bracci speciali a Massama e Nuchis per detenuti altrettanto pericolosi, quelli soggetti al regime di Alta sicurezza. Si tratta di affiliati alle cosche o comunque condannati per reati legati alla criminalità organizzata. Oppure, capimafia per i quali il regime di carcere duro non viene rinnovato e allora è “declassato” in Alta sicurezza. Ma il piano prevede anche la costruzione di un istituto per madri detenute con i loro figli a Senorbì: sarebbe il secondo in Italia, dopo quello di Milano. Roma: detenuto a Rebibbia per aver rubato 20 euro, muore a causa di probabile infarto Dire, 9 aprile 2013 Detenuto per aver tentato di rubare venti euro ad un tabaccaio, un detenuto di 57 anni è morto la scorsa notte, probabilmente a causa di un infarto, nel carcere di Rebibbia Nuovo Complesso. Lo rende noto il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni. Si tratta del terzo detenuto che muore, nelle carceri del Lazio, dall’inizio del 2013. La vittima, Marco P. era detenuto da un mese e mezzo nella sezione G11 del carcere romano. Doveva scontare una condanna per una tentata rapina ai danni di un tabaccaio. L’uomo, a quanto appreso dai collaboratori del Garante, era affetto da dipendenza dall’alcool e per questo, dal momento del suo ingresso in carcere, era stato preso in carico dal Sert ed aveva colloqui periodici con gli psicologi. Il detenuto è stato trovato, questa mattina, senza vita nel suo letto, morto probabilmente per un infarto nel corso della notte. “Al di là dei motivi che hanno portato alla morte di quest’uomo - ha detto il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni - fa riflettere la circostanza che un uomo con tali problematiche sia condannato a scontare in carcere una pena per una tentata rapina di € 20. La colpa è di una legislazione che prevede un uso abnorme del carcere, anche per i reati minori. Nelle carceri del Lazio registriamo un tasso di sovraffollamento di quasi il 50%. Occorrerebbe rivedere l’ordinamento nel senso di prevedere il carcere solo come extrema ratio. Ma, nonostante gli appelli del Presidente della Repubblica e di quelli dei due rami del Parlamento, la politica sembra essersi di nuovo dimenticata del dramma che si sta vivendo nelle carceri italiane”. Genova: detenuto di 45 anni è morto nel carcere di Marassi, era gravemente malato Radio Carcere, 9 aprile 2013 Sergio Bosio, di 45 anni, è morto questa mattina nel carcere Marassi di Genova. L’ennesima morte annunciata. Infatti Sergio Bosio era gravemente malato e per questo motivo era ristretto nel centro clinico del carcere genovese. Un centro clinico, denominato: “Reparto di sostegno integrato” e situato al I piano, che ospita circa 12 detenuti gravemente malati. Salgono così a 52 le persone morte per una pena dall’inizio del 2013. Ovvero una media di 13 morti al mese. Sappe: nuovo triste capitolo per la storia difficile delle carceri italiane La storia difficile delle carceri italiane si arricchisce di un nuovo triste capitolo. Un detenuto italiano di 45 anni, B.S. condannato per omicidio, è morto oggi, martedì 9 aprile 2013, per infarto nella sua cella all’interno del carcere di Marassi. A dare la notizia è stato il segretario generale del sindacato autonomo di polizia penitenziaria Sappe, Roberto Martinelli, che sottolinea: “a Marassi, alla data del 31 marzo, c’erano 792 detenuti stipati in celle realizzate per ospitarne 450 e oltre 100 Agenti di polizia penitenziaria in meno rispetto agli organici previsti”. Lo scorso anno a livello nazionale - riferisce il segretario del Sappe - sono morte in carcere per cause naturali 97 persone (82 italiani e 15 stranieri), e 56 si sono suicidate (36 italiani e 20 stranieri). I tentati suicidi sono stati 1.308, e 7.317 gli atti di autolesionismo. Vasto (Ch): il carcere trasformato in Casa di Lavoro per detenuti pericolosi www.zonalocale.it, 9 aprile 2013 Dal primo marzo scorso il carcere di Vasto è stato trasformato in casa di lavoro in cui far scontare la pena aggiuntiva ai detenuti pericolosi. Nelle scorse settimane la stragrande maggioranza dei carcerati di Torre Sinello è stata trasferita a Chieti, Pescara, Teramo, Isernia e Larino. Attualmente rimangono poche decine di reclusi. Nel prossimo futuro inizieranno ad arrivare a Vasto i detenuti del carcere di massima sicurezza di Sulmona. Ma verrà comunque istituita a Torre Sinello una sezione per i delinquenti comuni arrestati in zona e da processare a Vasto. Duecento detenuti pericolosi. Persone che hanno commesso numerosi reati. Arriveranno nel penitenziario di Vasto, che si sta per trasformare: non più carcere, ma casa di lavoro per il recupero di internati di elevata pericolosità sociale. “È vero”, conferma il direttore della struttura di pena di Torre Sinello, Massimo Di Rienzo. “Ci stiamo lavorando - spiega - su disposizione dell’amministrazione penitenziaria. Sarà un cambiamento graduale”. Non più carcere nel senso tradizionale de termine, ossia istituto di detenzione in cui vengono reclusi tutti gli arrestati, ma “una casa di lavoro per una diversa tipologia di detenuti: persone di cui è stata riconosciuta la pericolosità sociale a causa di reati reiterati. Si tratta di internati - chiarisce Di Rienzo - che hanno subito più condanne e, dopo averle scontate in un altro penitenziario, verranno condotte a Vasto per intraprendere un percorso di riabilitazione”. Quando un imputato viene considerato pericoloso perché ha un’abituale propensione a delinquere, la magistratura, oltre a condannarlo alla carcerazione, può decidere un ulteriore periodo di detenzione finalizzato al reinserimento sociale del detenuto, che svolgerà attività “a carattere lavorativo”, spiega Di Rienzo. Pavia: celle affollate, organici scarsi, e negli alloggi degli agenti penitenziari entra acqua di Manuela Marziani Il Giorno, 9 aprile 2013 Acqua che entra anche negli alloggi degli agenti penitenziari, oltre che nelle aree riservate ai detenuti e nelle parti comuni. Il carcere di Pavia, diretto da Jolanda Vitale, al suo quarto di secolo di vita, mostra tutti i segni del tempo. Segni che si trasformano in muffa non certo salutare per chi lavora all’interno della struttura o vi è recluso. L’ha vista ieri il deputato di Sel, Franco Bordo in visita a Torre del Gallo. E ora la fatiscenza della struttura sarà oggetto di un’interrogazione urgente che verrà presentata al ministro della Giustizia, Paola Severino. “Non è un fatto nuovo - ha detto il deputato - ma è preoccupante sia perché la struttura non è molto vecchia, sia perché da anni la direzione chiede fondi a Roma per effettuare interventi di manutenzione. E da anni resta inascoltata, mentre la situazione peggiora. Ora vedremo se si potranno ottenere delle risorse da utilizzare magari anche per nuovi progetti”. Come molte altre carceri italiane, infatti, anche Pavia vive un problema di sovraffollamento con 484 detenuti ospitati negli spazi pensati per 220. “E l’organico degli agenti di Polizia penitenziaria che sulla carta è di 280 uomini - ha aggiunto il deputato - in realtà è di 220 effettivi che tra servizi di trasporto esterno effettuati non solo per Pavia, si riducono ulteriormente, raggiungendo i 191 agenti. Siamo sotto organico. Una situazione che sarà ancora più difficile nei prossimi mesi, quando sarà disponibile il nuovo padiglione da 300 posti”. Con l’ampliamento non sono previsti potenziamenti dell’organico. “E questo preoccupa molto il personale - ha proseguito Bordo - anche quello dell’unità medico-infermieristica perché non ci saranno più servizi. Anzi paradossalmente sono destinate a peggiorare anche le condizioni di vita, visto che ci saranno celle più grandi, ma gli spazi comuni come le aule scolastiche, le sale colloqui o l’infermeria si dovranno dividere tra tutti i detenuti”. Anche su queste difficoltà il guardasigilli sarà chiamato a dare delle risposte. “Senza risorse umane - ha concluso il deputato - con l’ampliamento il carcere rischia il collasso. Oggi si cerca di ovviare al problema del sovraffollamento tenendo le celle aperte. Va bene, ma non basta”. Pescara: sei detenuti reclutati tramite tirocini, svolgeranno lavori socialmente utili www.abruzzo24ore.it, 9 aprile 2013 “Sei detenuti reclutati tramite tirocini formativi per lavori socialmente utili nella cura dei parchi, dei giardini e del verde comunale, con un contratto di almeno cinque mesi. È il progetto della Provincia di Pescara al quale il Comune ha deciso di aderire, per il terzo anno consecutivo, ma questa volta investendo fondi comunali per finanziare l’iniziativa, circa 20mila euro complessivi. Stamane abbiamo stipulato il Protocollo d’Intesa e già nei prossimi giorni partirà la fase operativa che avrà una duplice finalità: da un lato contribuire al reinserimento lavorativo di chi sta scontando una pena detentiva ma ha il diritto, una volta espiata la propria condanna, di essere riaccolto dal tessuto sociale; dall’altro lato l’aiuto di tali lavoratori rappresenta un forte supporto per la stessa amministrazione comunale in un periodo di forti difficoltà sotto il profilo della forza lavoro”. Lo ha detto l’assessore ai Parchi Roberto Renzetti nel corso della conferenza stampa odierna convocata con l’assessore provinciale al Lavoro Antonio Martorella per la stipula del Protocollo d’Intesa, alla presenza anche della Direttrice dell’Ufficio Sportello Lavoro Adelina Pietro Leonardo. “Il progetto - ha spiegato l’assessore Renzetti - rappresenta senza dubbio una spinta importante nell’opera di recupero e di reinserimento nel tessuto lavorativo di ex detenuti, dando anche loro modo di sperimentare come si possa vivere lavorando, senza considerare che comunque la possibilità di fare ricorso a tale forza lavoro esterna rappresenta un valido supporto per la pubblica amministrazione, oggi costretta a sopperire in vario modo al blocco delle assunzioni. Sei i tirocini formativi che andremo a stipulare, per la durata di cinque mesi, per l’impiego di sei lavoratori che impiegheremo nel settore del verde pubblico e dei Parchi, in cui la manutenzione non è mai troppa, specie nel periodo estivo quando è senza dubbio di importanza fondamentale garantire la massima e costante fruibilità dei nostri spazi verdi, e l’esperienza maturata negli anni passati è garanzia di dedizione e impegno da parte di tali lavoratori. Peraltro ringrazio anche il Direttore della Casa Circondariale la cui collaborazione è stata fondamentale nella realizzazione del progetto che ci vede partner, Direttore cui spetta il compito di individuare le persone da ammettere al progetto”. “L’adesione per il terzo anno consecutivo del Comune di Pescara, quest’anno con fondi propri - ha detto l’assessore Martorella - è prova della bontà del progetto stesso che portiamo avanti attraverso il Servizio di inserimento lavorativo dell’utenza svantaggiata. Il costo dell’operazione è pari a 20mila euro complessivi, di cui 18mila euro per il rimborso spese dei detenuti, ossia 600 euro mensili, oltre alle spese assicurative”. “I sei tirocinanti - ha detto l’assessore Renzetti - prenderanno subito servizio aiutandoci a preparare la città in vista dell’estate, con lo sfalcio dell’erba in parchi, giardini, aiuole, con la realizzazione di piccoli interventi di sistemazione e mini-potature di basso impatto”. Rovigo: i detenuti e “L’arte d’imbiancare”, progetto sostenuto dalla Fondazione Cariparo www.rovigo24ore.it, 9 aprile 2013 È stato presentato stamattina a Palazzo Nodari a Rovigo il progetto “L’arte d’imbiancare”, sostenuto dalla Fondazione Cariparo e realizzato con Comune e Cna, che mira a trasmettere competenze professionali, dando gli strumenti necessari per un reinserimento sociale dopo la detenzione. Il percorso di formazione è rivolto ai detenuti del carcere di via Verdi. “Si tratta di una iniziativa importante - ha detto l’assessore ai Servizi sociali Antonio Saccardin, durante la presentazione - che ha trovato il terreno adatto all’interno del tavolo del carcere, dove tra istituzioni e associazioni sono racchiuse circa 13 realtà. Esprimo viva soddisfazione e un grazie particolare alla Fondazione Cariparo, per la sensibilità dimostrata e alla signora Daniela Guagliumi della Cna per l’impegno nel concretizzare il progetto”. Il corso per imbianchino vede la partecipazione di 6 giovani detenuti, e si sviluppa in due parti, una teorica e una pratica. “Spesso - ha aggiunto il direttore del carcere rodigino Ottavio Casarano - è difficile avviare iniziative di riqualificazione per i detenuti, ma una delle nostre finalità è proprio la loro risocializzazione perché , una volta scontata la pena, devono trovare una collocazione nella società. Benvengano quindi, iniziative come questa”. Guagliumi, tutor del corso, ha spiegato che chi supererà il 70% delle ore previste, riceverà un attestato di frequenza. I partecipanti avranno modo di acquisire una professionalità che, una volta usciti dal carcere, potranno mettere a frutto come dipendenti o aprendo anche un’attività propria. Nel frattempo le capacità acquisite si vedranno sul campo, dando una rinfrescata alle pareti dell’istituto. Per la casa circondariale erano presenti anche il commissario Salvatore Opipari e Angelo Maffione che ha seguito il progetto. Lucca: “Ora d’aria”, un corso di formazione in tecnica fotografica per i detenuti Agi, 9 aprile 2013 “Ora d’aria”. Si chiama così il corso di formazione di fotografia per i detenuti del carcere di Lucca che inizierà venerdì prossimo, 12 aprile. Si tratta di un percorso formativo sperimentale di fotografia che alcuni detenuti del carcere di Lucca potranno seguire fuori dalle pareti delle loro celle in “San Giorgio”. Sì, perché il corso che un gruppo di carcerati (una ventina) ha deciso di intraprendere li impegnerà per tre mesi sia sotto il profilo teorico, sia sotto quello pratico anche se, per ovvie ragioni, il “panorama” e gli “orizzonti” dei set fotografici saranno particolarmente ridotti visto che ai partecipanti-allievi è interdetta l’uscita dalla casa circondariale. L’iniziativa è stata presentata oggi a Palazzo Ducale, a Lucca, nel corso di una conferenza stampa nel corso della quale sono intervenuti l’assessore provinciale alle politiche sociali Federica Manieri con il dirigente del settore politiche sociali della Provincia, Rossana Sebastiani, il direttore del carcere Francesco Ruello, il responsabile della comunicazione della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca, Marcello Petrozziello, il fotografo versiliese Nicola Gnesi e Adriano Paoli in rappresentanza del comitato San Francesco. La Provincia di Lucca e la Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca, infatti, sostengono il progetto, avallato dalla Direzione della casa circondariale “San Giorgio”, che vede l’aiuto anche di alcune associazioni di volontariato locali (in particolare il comitato San Francesco) che si sono attivate dallo scorso dicembre per recuperare alcune macchine fotografiche da usare durante le lezioni. Docente del corso sarà Nicola Gnesi, con lezioni settimanali programmate fino a giugno, che avrà il compito di educare i detenuti all’uso delle macchine fotografiche e sensibilizzarli alle azioni di socializzazione, fine ultimo del processo di rieducazione della pena detentiva, con lezioni di teoria ed esercitazioni pratiche. Una prima parte del progetto verterà sull’apprendimento delle tecniche fotografiche e molta importanza verrà data anche allo stimolo creativo attraverso la visione di scatti d’autore. La seconda fase sarà incentrata sulla creazione del progetto personale del fotografo, il quale farà lavorare “sul campo” i detenuti, dando loro la possibilità di scattare immagini all’interno della struttura. I temi trattati riguarderanno le attività di socialità che scandiscono la vita del recluso (progetti teatrali, di scrittura, e le ore d’aria giornaliere appunto). Per quanto riguarda le apparecchiature, saranno usate macchine digitali e con pellicola, ma anche Polaroid, mentre lo spazio per le lezioni sarà la parte del carcere adibita alla socializzazione e all’ora d’aria. Imperia: Sappe; vessazioni a detenuto? La Polizia penitenziaria è sana Il Velino, 9 aprile 2013 “Il Corpo di Polizia penitenziaria è sano e composto da donne e uomini che svolgono questa delicata professione con professionalità, abnegazione e soprattutto umanità. È quindi quasi superfluo nascondere la grande amarezza che le notizie su presunte vessazioni a un detenuto nel carcere di Imperia ha determinato, specie quando il detenuto che oggi si dice vessato fino a poco fa lavorava in carcere e nulla ha mai denunciato”. Lo sottolineano Donato Capece e Roberto Martinelli, rispettivamente segretario generale e segretario generale aggiunto del Sindacato autonomo polizia penitenziaria Sappe, commentando le dichiarazione rilasciate alla stampa di un detenuto di Imperia che ha accusato alcuni agenti del carcere di presunte vessazioni nei suoi confronti. “Peraltro - ricordano -, va ricordato che nel 2012, nel sovraffollato carceri di Imperia, i detenuti si sono resi protagonisti di sette atti di autolesionismo (e cioè ingestione di corpi estranei come chiodi, pile, lamette, pile; tagli diffusi sul corpo e provocati da lamette) e un tentativo di suicidio, tutti eventi critici che grazie all’intervento tempestivo dei nostri agenti hanno impedito ben più gravi conseguenze”. “Questi dati - sottolineano Capece e Martinelli - sono importanti per far conoscere il duro, difficile e delicato lavoro che quotidianamente le donne e gli uomini della Polizia penitenziaria svolgono con professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto umanità. È importante che la Società riconosca e sostenga l’attività risocializzante della Polizia penitenziaria e ne comprenda i sacrifici sostenuti per svolgere tale attività, garantendo al contempo la sicurezza all’interno e all’esterno degli Istituti. Siamo certi che i colleghi di Imperia affronteranno con serenità ogni accertamento che verrà disposto. Noi torniamo a sottolineare che la Polizia Penitenziaria, ad Imperia e negli oltre 200 penitenziari italiani, è formata da persone che nonostante l’insostenibile, pericoloso e stressante sovraffollamento credono nel proprio lavoro, che hanno valori radicati e un forte senso d’identità e d’orgoglio, e che ogni giorno in carcere fanno tutto quanto è nelle loro umane possibilità per gestire gli eventi critici che si verificano quotidianamente, soprattutto sventando centinaia e centinaia suicidi di detenuti”. Reggio Calabria: convegno sul tema “La carcerazione e la dignità del detenuto” www.iltitolo.it, 9 aprile 2013 Appuntamento promosso dal Centro Internazionale Scrittori della Calabria. Loreley Rosita Borruto, presidente del Centro Internazionale Scrittori della Calabria, nel Salone della Chiesa di San Giorgio al Corso di Reggio Calabria, ha promosso: “La carcerazione e la dignità del detenuto”. Relatore il Dott. Pasquale Ippolito, Presidente Aggiunto della Corte di Cassazione - Magistrato - Scrittore. La trattazione del tema è iniziata con l’individuazione del significato di “dignità umana” intesa come diritto proprio di ogni essere umano ad essere rispettato, un diritto connaturato nell’esistenza umana, le cui radici risalgono all’ambito culturale dell’Occidente cristiano-giudaico. È seguito un breve excursus su quei pensatori che, dall’antichità sino ad oggi, hanno colto il ruolo centrale della “dignità umana” e le cui opere sono state determinanti per i profondi cambiamenti prodotti in ambito sociale e giuridico. Tra i numerosi citati dal relatore, sono emersi in particolare: pensatori cristiani come S. Agostino d’Ippona e, tra i moderni, Giovanni Pico della Mirandola autore del De Dignitate Hominis, Pascal, Rousseau e, in particolare, Kant che meglio di ogni altro ha reso l’idea del concetto di “dignità della persona”. Per il filosofo tedesco “l’umanità è essa stessa dignità”; “l’uomo considerato come persona è al di sopra di ogni prezzo”. La dignità dell’uomo, dunque, consiste in un “valore intrinseco assoluto” che impone a tutti gli altri esseri ragionevoli il rispetto e ciò comporta il riconoscimento della dignità che è negli altri . Un secondo punto di riflessione è stato il riferimento al diritto alla vita , un diritto naturale inteso come diritto a vivere dignitosamente, ma anche, il diritto ad una giustizia giusta ove non sia presente la pena di morte, così come auspicato da Cesare Beccaria nell’opera Dei delitti e delle pene. La dignità umana, riferisce il Dott. Ippolito, è un principio presente nelle Carte dei diritti umani e, in particolare, nella Dichiarazione universale dei diritti umani dell’Onu (1948) e nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (approvata dal Parlamento europeo nel 2000 e ora riconosciuta dal Trattato di Lisbona del 2007 come avente lo stesso valore giuridico dei Trattati), i cui principi generali devono essere osservati dagli Stati membri dell’Unione europea. Nel testo c’è un capitolo sulla dignità umana considerata come una categoria specifica comprendente un gruppo di diritti (quali il diritto alla vita, all’integrità personale, a non essere torturati o soggetti a trattamenti disumani o degradanti, a non essere ridotti in schiavitù o sottomessi a condizioni servili). Dopo l’intermezzo di una video- proiezione curata dal Segretario del Cis Calabria, Stefano Fava, sull’esperienza positiva in un carcere italiano e completata da un’intervista ad un ufficiale carcerario sulla funzione di recupero del detenuto, il dott. Ippolito ha proseguito con l’analisi dello status delle carceri italiane caratterizzato da situazioni di precarietà e di sovraffollamento. Da qui la necessità di ridare ai detenuti quella dignità ribadita non solo nella nostra Carta Costituzionale, ma intesa come diritto inviolabile e intangibile che deve anche essere difeso dalle violazioni e preservato insieme con gli altri diritti conservati dal detenuto. In particolare: il diritto ad uno spazio vitale adeguato comprensivo dell’uso dei servizi indispensabili all’igiene personale e ambientale e il diritto alla salute. Ribadendo che il carcere non ha una funzione punitiva ma di recupero e di rieducazione, il relatore ha individuato nel lavoro e, quindi, in un impegno produttivo, la possibilità di una vita dignitosa che impedisca il ripetersi di comportamenti delittuosi ed eviti gesti estremi come il suicidio la cui incidenza, oggi, è più frequente. L’interesse per la trattazione ha aperto un ampio e vivace dibattito tra il pubblico. Sono intervenuti: la Dott.ssa Maria Grazia Grieco, giudice dei minori, il Vice-prefetto dott.ssa Francesca Crea, il Prof. Paolo Arecchi, le Prof.sse: Natina Cristiano, Emilia Serranò, Eleonora Triveri e Antonietta De Angelis. Da ultimo la Dott.ssa Maria Grazia Marrapodi e la Sig.ra Maria Rosa Catalano. Pavia: stasera presentazione del libro “I giorni scontati. Appunti sul carcere” La Provincia Pavese, 9 aprile 2013 “Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri perché è da esse che si misura il grado di civiltà di una nazione” diceva Voltaire, ma è quello che sostiene anche Silvia Buzzelli, docente di diritto penitenziario presso l’Università di Milano Bicocca e curatrice del volume “I giorni scontati. Appunti sul carcere” (Sandro Teti Editore - 2012), che verrà presentato stasera alle 21, nell’Aula Magna del Collegio Ghislieri (ingresso libero). Il libro raccoglie gli interventi di numerosi autori che, con competenze differenti, sono in contatto con la realtà carceraria del nostro Paese ed è inoltre arricchito da un dvd-documentario del regista Germano Maccioni, che ha ripreso per un anno e mezzo la quotidianità dei detenuti del carcere di Lodi. Docenti universitari di diritto, filosofi, neurologi e educatori sono stati chiamati a riflettere sul trattamento riservato ai detenuti, un problema di urgente attualità, visto che l’8 gennaio 2013 la Corte Europea dei Diritti Umani ha condannato nuovamente l’Italia ritenendola colpevole di tortura, per le condizioni disumane in cui tiene i suoi detenuti. Alla presentazione interverranno anche Stefania Mussio, direttrice della casa circondariale di Lodi, Mauro Palma, vicepresidente del Consiglio europeo per l’esecuzione penale del Consiglio d’Europa e Laura Cesaris, docente di diritto dell’esecuzione penale presso l’Università degli studi di Pavia. “L’Italia è il fanalino di coda dell’Europa per le condizioni delle sue carceri - dice Silvia Buzzelli - non riesce a garantire a ogni detenuto nemmeno tre metri quadrati di spazio, è una situazione drammatica e, mi dispiace dirlo, tipicamente italiana”. Il risultato nel nostro sistema penitenziario qual è? “Che il periodo di detenzione in carcere, che dovrebbe essere riabilitativo, in realtà diventa una scuola di criminalità; che nel carcere italiano ci si suicida venti volte di più rispetto all’esterno; un alto tasso di stress lavorativo per la polizia penitenziaria che in carcere lavora”. Su cosa bisognerebbe ragionare per cambiare la situazione? “Dovrebbe esserci la volontà politica, anche perché i soldi ci sono, basterebbe usarli per le cose giuste. Ma il sovraffollamento delle carceri non è un argomento elettorale e non interessa nemmeno tanto alla gente. Tante parole da tutte le parti, ma poi, nessuno cerca di risolvere”. Dal punto di vista legislativo? “Basterebbe modificare il testo unico sugli stupefacenti e la legge sull’immigrazione, oppure, rispettare la Costituzione, che parla della rieducazione come fine di ogni pena”. Ma come si possono rieducare delle persone tenute in gabbia? “I dati dimostrano che la recidiva va di pari passo con l’alta carcerazione: c’è meno recidiva quando la persona è davvero rieducata, magari non sconta la pena del carcere e si trova a vivere altre situazioni”. La Costituzione prevede anche pene non detentive? “La Costituzione parla di “pene”, non di “pene detentive”, di condizioni “umane” e mai “disumane”: in teoria ci sarebbero altri istituti per rieducare al di fuori del carcere, ma spesso i detenuti non sanno di averne il diritto, quindi non chiedono. Anche i tempi della giustizia non aiutano. Infatti. Dai dati forniti dal Ministero della Giustizia, e discussi all’interno del libro, si apprende che circa il 40% della popolazione carceraria è in attesa di giudizio e che più della metà è accusata di reati contro il patrimonio. La giustizia è così lenta che spesso la custodia cautelare diventa la pena effettiva. È assurdo”. C’è qualche “oasi felice” in Italia? “Il carcere di Lodi, da cui siamo partiti per la nostra indagine, ha tentato, con mille sforzi e le poche risorse a disposizione, di mantenere un contatto con l’esterno, facendo interagire i suoi detenuti con situazioni positive e di utilità sociale. Il carcere di Bollate anche. Ma per mille persone che vivono dignitosamente ce ne sono altre 65mila in condizioni inaccettabili. Per tamponare il danno non ci si può affidare alla buona volontà di poche persone e al volontariato, dovrebbe essere lo Stato a provvedere. Se Voltaire diceva il giusto, il nostro è una paese allo sfascio”. Immigrazione: l’Ucpi visita Cie Ponte Galeria; superare sistema che calpesta i diritti civili Ansa, 9 aprile 2013 Una delegazione dell’Unione delle camere penali italiane guidata dal Presidente Valerio Spigarelli si è oggi recata in visita al Centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria (Roma) per verificare le condizioni della struttura dove attualmente sono trattenuti 66 uomini e 44 donne. La capienza del centro risulta fortemente ridimensionata a seguito dei recenti disordini che hanno reso necessaria la chiusura di alcune aree. “Anche nei centri come questo di Roma o come quello di Milano (dove gli sforzi e l’impegno degli operatori, del personale medico e delle forze dell’ordine fanno sì che la situazione sia meno drammatica che altrove) salta subito agli occhi l’assurdità di un sistema in cui la compressione di diritti fondamentali risulta aggravata da tempi di permanenza ingiustificati e ingiustificabili. Col risultato di trasformare quello che dovrebbe essere un trattenimento limitato nel tempo in vera e propria detenzione”, hanno dichiarato i penalisti al termine della visita. “Basta varcare la soglia di questi centri e guardarsi intorno per rendersi conto che si tratta di strutture detentive a pieno titolo, con tanto di sbarre, dove uomini e donne si trovano a scontare una pena senza reato e senza le garanzie che il circuito carcerario pure fornisce ai detenuti; senza nessuna possibilità di svolgere una qualche occupazione, ma soprattutto senza sapere quando usciranno”. A prescindere dalla condizione delle strutture, “bisogna superare - sostengono i penalisti - quanto prima questo sistema paradossale, che calpesta i diritti civili e trasforma un provvedimento amministrativo in dura galera”. Brasile: al via processo a 26 poliziotti per massacro Carandiru dove morirono 111 detenuti La Presse, 9 aprile 2013 Si è aperto in Brasile il processo a 26 ufficiali di polizia accusati di responsabilità nel massacro del 1992 nel carcere di Carandiru a San Paolo, in cui morirono 111 detenuti. Gli ufficiali imputati, alcuni ancora in servizio, sono incriminati per l’omicidio di 15 carcerati. Ore dopo l’inizio dell’udienza, i giudici l’hanno aggiornata alla prossima settimana, in un processo che secondo le previsioni dovrebbe durare due settimane e che sarà seguito nei prossimi mesi da quelli nei confronti di altri ufficiali. In tutto, sono 79 gli agenti accusati in relazione al massacro del 2 ottobre 1992, che mise fine alla rivolta nella sovraffollata prigione di San Paolo, la più grande del Brasile. Molti critici ritengono ‘il massacro di Carandirù un simbolo della brutalità della polizia brasiliana e dell’impunità di cui essa gode. Molti ufficiali coinvolti negli omicidi sono infatti stati promossi e due decenni dopo i fatti un solo ufficiale è stato processato per il suo ruolo nel massacro. Si tratta del colonnello Ubiratan Guimaraes, condannato nel 2001 a 632 anni di carcere per uso eccessivo della forza quando ordinò alla polizia di sedare la rivolta. Nel 2006, però, una Corte d’appello ribaltò la sentenza sulla base del fatto che Guimaraes stava solo eseguendo degli ordini. Sette mesi dopo, il colonnello fu trovato morto nel suo appartamento di San Paolo, ucciso da sei spari al petto. La sua fidanzata è stata processata per omicidio e poi prosciolta. Nel carcere, quel 2 ottobre, tutto iniziò da una rissa tra gruppi di carcerati, che si allargò velocemente e diede il via a una vasta rivolta, complice il fatto che la struttura era stata creata per ospitare 4mila detenuti ma ne ospitava quasi 8mila. La violenta protesta durò tre ore, poi 300 agenti fecero irruzione nel penitenziario sparando a 111 detenuti in meno di mezz’ora. Le autopsie rivelarono poi che erano stati uccisi con una media di cinque proiettili ciascuno. Nessun ufficiale perse la vita. Dieci anni dopo il massacro, il carcere è stato demolito e ha lasciato il posto a un parco. I fatti del 1992 hanno ispirato il film del 2003 ‘Carandirù del regista brasiliano Hector Babenco, che ha contribuito a far sì che i riflettori non si spegnessero del tutto sulla vicenda. Svizzera: il Canton Ticino dice “no” alla parziale privatizzazione delle carceri www.tio.ch, 9 aprile 2013 L’Associazione per la difesa del servizio pubblico boccia l’intenzione del Consiglio di Stato di trasferire a ditte private la sorveglianza, all’interno delle strutture carcerarie cantonali, di coloro che sono sottoposti a fermo o a carcerazione amministrativa secondo la legge federale sugli stranieri e dei richiedenti l’asilo “recalcitranti”. Gli agenti privati, secondo il CdS, potranno far uso di mezzi coercitivi per prevenire pericoli imminenti per l’ordine pubblico e in particolare per impedire evasioni, danneggiamenti e atti di violenza delle persone fermate o carcerate, contro se stesse e contro terzi. Una decisione che ha sorpreso l”Associazione per la difesa del servizio pubblico, che esprime preoccupazione “per questa proposta governativa che disattende i pericoli relativi all’inserimento di agenti privati in seno a una struttura delicata quale un carcere e alla facoltà concessa a agenti privati di far uso di mezzi coercitivi”. L’Asp ricorda che, “dal profilo istituzionale, in uno Stato di diritto l’uso della forza deve essere limitato alle forze di polizia e ad agenti di custodia, accuratamente selezionati e debitamente formati, chiamati a rispondere all’Autorità politica. Non possono neppure essere sottovalutati i rischi di collusione e di fughe di notizie”. L’Asp ricorda inoltre che le esperienze all’estero di privatizzazioni di carceri, in particolare negli Stati Uniti d’America, hanno avuto effetti devastanti e attira l’attenzione sui pericoli che una tale decisione potrebbe costituire per l’incolumità delle persone, e invita pertanto il Gran Consiglio a bocciare la proposta.