Dialogo tra un genitore di una studentessa e un ergastolano Il Mattino di Padova, 8 aprile 2013 Nel progetto che coinvolge migliaia di studenti del Veneto in un confronto acceso e serrato con i detenuti della redazione di Ristretti Orizzonti, si aprono ogni giorno prospettive nuove, che fanno capire che la discussione sul senso che dovrebbero avere le pene, e che spesso non hanno affatto, per le condizioni in cui versano le carceri italiane, riguarda tutti i cittadini, “liberi” e reclusi. Nel dibattito entrano oggi due interlocutori nuovi, un detenuto condannato a una pena che di senso ne ha poco, l’ergastolo senza speranza, quello che assomiglia a una pena di morte al rallentatore, e un genitore di una studentessa, entrato in carcere con la classe della figlia per assistere al confronto tra studenti e detenuti. Un “uomo ombra” nel progetto “scuola-carcere” di Padova Il progetto di portare dei ragazzi in carcere ad ascoltare le storie dei “cattivi” è un’idea da matti. E promotrice di questa “pazzia” è la redazione della rivista dal carcere “Ristretti Orizzonti”. Il progetto assomiglia molto a quello che ha realizzato tempo fa la direttrice Kiran Bedi nel carcere di Tihar, con ottimi risultati di abbassamento di violenza dentro le mura del carcere e di recidiva esterna dei detenuti ritornati in libertà. In quel carcere, uno dei più violenti e sovraffollati di tutta l’India, è stato elaborato e realizzato un modello di “risveglio” della coscienza del detenuto con incontri collettivi di dialogo che ha ben funzionato. La formula “Scuola carcere” dell’iniziativa di Ristretti assomiglia molto a quell’esperienza. E le modalità sono semplici: vengono intere classi di scuola superiore (a volte più di una classe) e ascoltano tre storie di detenuti raccontate con dentro la situazione familiare, sociale e ambientale di dove è nato e maturato il reato, senza trovare nessuna giustificazione per averlo commesso. Poi tutto il gruppo dei detenuti della redazione, tutti volontari che hanno deciso di scontare la pena in modo risarcitorio e costruttivo, rispondono alle domande dei ragazzi. Credo che non sia facile per i detenuti raccontare il peggio della loro vita con onestà e obiettività, ma penso anche che sia un modo terapeutico per prendere le distanze dal proprio passato e riconciliarsi con se stessi. Penso che parlare a dei ragazzi aiuti a formarsi una coscienza di sé e del significato del male fatto agli altri. E guardare gli sguardi e gli occhi innocenti dei ragazzi aiuta molto ciascuno di noi a capire quali sono state le ragioni dell’odio, della rabbia, della violenza dei nostri reati, più di tanti inutili anni di carcere senza fare nulla di così costruttivo. Penso che non sia neppure facile per i ragazzi ascoltare le nostre brutte storie dal vivo, invece che sentirle alla televisione o leggerle sommariamente nei giornali. Credo che in questo modo percepiscono meglio che molte volte dietro certi reati non ci sono dei mostri, ma ci sono solo delle persone umane che hanno sbagliato. Poi dalle nostre risposte alle loro domande scoprono anche che il carcere rappresenta a volte un inutile strumento d’ingiustizia. Un luogo di esclusione e di annullamento della persona dove nella maggioranza dei casi si vive una vita non degna di essere vissuta. Da alcuni mesi in via sperimentale, perché sono un ergastolano in regime di “Alta Sicurezza”, faccio parte di questo progetto più unico che raro e devo ammettere che questa esperienza mi sta aiutando a dare una svolta alla mia coscienza e a educare il mio cuore. Per Hannah Arendt il male è banale, ma senza profondità: solo il bene è profondo e può essere radicale. Ecco, il progetto “Scuola/carcere” ti aiuta a capire questo. E non è poco specialmente in un luogo infernale, sovraffollato in maniera disumana e illegale come sono le carceri in Italia, condannate spesso dalla Corte europea per la loro disumanità. Carmelo Musumeci A un certo punto mi sono sentito io stesso il possibile carcerato che parlava con gli studenti Mi chiamo Alberto e oggi per la prima volta in vita mia, non solo mi sono avvicinato ad un carcere ma ci sono pure potuto entrare, approfittando di mia figlia, appartenente al quarto anno del liceo linguistico dell’Istituto Scalcerle, impegnata con altre quarte ad un progetto che prevedeva il colloquio con alcuni detenuti, esteso gentilmente anche a qualche genitore. Sono rimasto abbastanza colpito di trovare persone come noi tutti e non solo persone che hanno fatto della loro vita una scommessa con il diavolo. Ad un certo punto del colloquio mi sono sentito io stesso il possibile carcerato che poteva parlare con gli studenti, perché la realtà che ci circonda a volte, in momenti incalcolabili per chiunque, ci spinge ad avere reazioni violente che, senza volerlo, ci potrebbero portare al di là di quei muri e dietro le sbarre. Mi è venuta una irrefrenabile voglia di fare il possibile per poter permettere al signor Carmelo, ergastolano e detenuto già da 22 anni, che ho sentito oggi parlare della sua esperienza, di potersi togliere le scarpe per poter camminare su un tappeto di erbetta fresca, fargli abbracciare un albero e magari riuscire a portarlo al mare a fare un bagno. Sì lo so che non sarà mai possibile tutto questo, però almeno vorrei fare qualcosa per lui e per quelli come lui che probabilmente non avranno mai più la possibilità di uscire dalla struttura carceraria. Poter dare a Carmelo una piccola speranza o comunque un appoggio morale, forse farebbe rifiorire una persona nuova, quello che tuttora lo stato non gli permette di diventare lasciando quelli come lui lì a fare niente se non progettare nuovi modi di fare i soldi facili a qualsiasi costo, causa della loro detenzione. Vorrei trasmettere al signor Carmelo la consapevolezza di non essere dimenticato dal mondo di cui anch’io fino a ieri facevo parte. Aspetto pertanto di essere contattato dalla vostra associazione perché mi dia un compito seppure marginale, di poter operare in qualche modo all’interno dell’associazione stessa per un possibile reinserimento nella società di quelle persone che, dopo aver scontato la loro condanna, vogliono smettere di essere delinquenti per rifarsi una vita onesta e quindi vera. Grazie. Alberto, genitore di una studentessa Giustizia: leggi popolari contro il sovraffollamento, al via raccolta firme per tre proposte Dire, 8 aprile 2013 Introdurre nella legislazione il reato di tortura, rendere le carceri posti più vivibili, in cui davvero sia recuperata la funzione rieducativa della pena, e modificare le norme sulla droga. Queste le tre leggi di iniziativa popolare per cui domani, dalle 9 alle 13, sarà possibile firmare davanti al Tribunale di Bologna e di tanti altri capoluoghi italiani (in Emilia-Romagna ci sarà un banchetto anche a Ferrara, nella piazza del Comune). Si tratta del primo lancio nazionale della compagna sostenuta da diverse sigle, tra cui Arci, Cgil, Unione camere penali italiane, Associazione Federico Aldrovandi, Associazione nazionale giuristi democratici. L’iniziativa è stata presentata stamane alla stampa a Bologna da Alda Germani, della Fp-Cgil regionale: “L’obiettivo- spiega- è raccogliere 50.000 firme entro luglio”. Desy Bruno, garante regionale dei detenuti, ricorda la situazione esplosiva delle carceri italiane, dove “ci sono 65-66 mila presenze, almeno 22.000 in più dei posti disponibili”. Tra l’altro la Corte europea dei diritti umani, ricorda sempre Bruno, ha dato all’Italia un anno di tempo per correggere la situazione penitenziaria. Ed ecco perché una delle tre leggi per cui si chiede la firma vuole far sì che la detenzione sia l’extrema ratio, chiede modifiche alla legge Cirielli sulla recidiva e impone una sorta di ‘numero chiusò sugli ingressi in carcere, per evitare nuovi ingressi quando non c’è più posto. La legge prevede anche l’abrogazione del reato di clandestinità introdotto dalla legge Bossi-Fini e l’istituzione di un Garante nazionale per i diritti dei detenuti che, spiega Bruno, “è un atto di buonsenso che aumenterebbe il potere ispettivo”. Negli ultimi anni, aggiunge Nicola Mazzacuva, presidente della Camera penale di Bologna, la legislazione ha preso una piega repressiva: “Sono aumentate le tipologie di reato e sono state inasprite le pene, soprattutto per i recidivi”, e ora bisogna invertire questa tendenza. “Inutile- incalza Mazzacuva- battersi per l’abolizione della pena di morte negli altri Stati se poi da noi ci sono i detenuti che si suicidano”. Il presidente della Camera penale mette all’indice anche la “carcerazione preventiva”, che “spesso però nell’opinione pubblica viene vista come una misura giusta”. La seconda legge d’iniziativa popolare vuole invece modificare la normativa sulle droghe, depenalizzando i consumi e diminuendo le pene. Anche perché, fa notare Elia De Caro dell’associazione Antigone, “quasi il 40% dei detenuti è dentro per questo”. Infine, la terza legge sostenuta è per l’introduzione del reato di tortura nel codice penale, ancora assente nonostante vi sia un obbligo internazionale in tal senso. Da qui a luglio, promettono le associazioni, ci saranno almeno altri due momenti a livello nazionale per promuovere la raccolta di firme. Giustizia: una modesta proposta… di Luigi Pagano (Vice capo del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) Comunicato Dap, 8 aprile 2013 Il diritto che ha ognuno di manifestare liberamente il proprio pensiero è diritto costituzionalmente garantito e va rispettato. Tale rispetto, però, non può significare rimanere silenti quando nei riguardi di una proposta argomentata non ci si limita a esprimere un’opinione, quantunque negativa, ma si lancia contro di essa ogni sorta di accusa senza, però, ritenersi impegnati a doverle dimostrare. Il riferimento è alle critiche rivolte da taluni alla volontà espressa dall’Amministrazione Penitenziaria di realizzare circuiti in ogni regione differenziando, in relazione alle diverse tipologie dei detenuti, gli istituti ivi presenti nei quali, specie per la media sicurezza, possa venirsi a caratterizzare un regime detentivo dove, gradualmente, andranno a essere ampliati gli spazi utilizzabili dai detenuti e il tempo di permanenza, incentivate le iniziative trattamentali, favorita l’interrelazione con la comunità esterna, promossa la progressiva assunzione di responsabilità del detenuto. I risultati attesi, oltre che il miglioramento delle condizioni di vita detentiva, con riflessi positivi estesi al benessere del personale operante, sono anche quello di realizzare le premesse per un più ampio ricorso alle misure alternative fornendo alla Magistratura di sorveglianza elementi di valutazione concreta fondati su di una conoscenza più ampia della persona detenuta. A ben vedere nessuno sforzo di originalità ideativa in quanto sia gli obiettivi da perseguire che il metodo da utilizzare derivano da norme di legge, esistenti non da oggi, che pongono un “obbligo di fare” in capo alla nostra Amministrazione. Eppure l’aver annunciato di volerli concretamente perseguire ha generato in taluni settori forti opposizioni mentre altri si sono fatti notare per un “distratto e assordante silenzio”. Le critiche sono di vario tenore andando dal generico scetticismo all’evocazione di tsunami, sfracelli e sfaceli, catastrofi apocalittiche nelle carceri ove mai si fosse passato dalla teorizzazione alla pratica del pur condiviso, beninteso in astratto, progetto. Perché, ci si giustifica, sarà pur vero che troppe ore di chiusura nelle celle esasperano gli animi dei detenuti e fanno innalzare pericolosamente le tensioni interne, che la necessità di creare circuiti differenziati esiste, ma, cosa si vuole, in Italia oggi non lo si può fare. Peccato che l’oggi, come in un famoso film, ripeta se stesso da circa 30 anni, trovando sempre un intoppo che lo giustifichi. L’Amministrazione, quindi, secondo i rassegnati impotenti del “vorrei ma non posso” non dovrebbe intervenire su questo presente per modificarlo, ma limitarsi a esporre cosa è che non va e, poi, rimanere in attesa, meglio se fiduciosa, di un domani migliore. È bene essere chiari, chi scrive ritiene necessari, per affrontare alla radice il problema penitenziario, un aumento della portata delle misure alternative, interventi legislativi, come ad esempio sulla normativa riguardante le tossicodipendenze e taluna delle preclusioni poste dalla c.d. legge Cirielli e confesso che non mi dispiacerebbe neppure avere risorse illimitate a disposizione. Ma queste considerazioni non possono divenire alibi per non agire né può paralizzare l’azione il timore dei rischi che si potrebbero correre. Invero, a prescindere che il carcere, di per sé, non è luogo ameno, neppure si può negare quanto lo status quo incida sulla produzione di eventi critici drammatici. Riconoscere le difficoltà esistenti è, invece, dire altro: significa dare il giusto peso alla complessità della realtà in cui si interviene, evitare voli pindarici e adottare un metodo di lavoro fatto di interventi misurati e graduali, ma su di un progetto comune e condiviso da tutta l’Amministrazione. La consapevolezza è che esistano, nel nostro ordinamento, norme poco, o addirittura mai, applicate e l’esperienza ha insegnato che laddove lo siano state si e creato all’interno degli istituti un clima più disteso, una netta riduzione degli eventi critici, minore stress per il personale, incremento delle attività lavorative gestite da agenzie esterne, aumento nella concessione di misure alternative. Bollate, Brescia Verziano, Rieti, Ancona Barcaglione, Avellino, Pescara, Is Arenas, Isili, Mamone, Saluzzo, Gorgona, Volterra, Civitavecchia, Rebibbia, Padova, Torino, Aosta, Sant’Angelo dei Lombardi, solo per citare taluni istituti che hanno adottato il regime delle celle aperte e un tipo di sorveglianza che viene definito di natura “dinamica”, non sono esperimenti eccentrici, ma esempi tangibili, la prova provata non solo che il trattamento è la chiave di volta per risolvere i problemi del carcere, ma che ciò avviene senza abbassare la soglia di sicurezza. Anzi. I profeti che parlano di questo progetto come di resa alla criminalità trascurano i dati positivi, quantificabili, questi sì, conseguiti in questi istituti e le migliaia di misure alternative andate a buon fine, preferendo evocare futuri disastri, magari per poter dire, un giorno, come Walther Matthau all’indomani della morte del suo caro amico Jack Lemmon “Glielo avevo pur detto che se continuava a invecchiare sarebbe morto”. La mia opinione è che chi oggi si limita, con fiero cipiglio, a disapprovare, senza proporre per oggi, qui e ora, alternative fattibili per personale e detenuti, non critichi tanto il Dipartimento, quanto l’ordinamento penitenziario additando responsabilità laddove, invece, ci sarebbe solo da inorgoglirsi nel partecipare attivamente alla sua realizzazione. E tale orgoglio e motivazione abbiamo ritrovato non solo nei c.d. vertici del Dap, nel palazzo romano, ma ancor di più in periferia, nei provveditori, come nei direttori, negli agenti, negli educatori, assistenti sociali, nelle stesse OO.SS. locali. I tentativi di creare spaccature, sospetti in questa dirigenza è grossolana e inutile, nell’Amministrazione Penitenziaria c’è unità d’intenti e l’unitarietà è nella persona del presidente Tamburino. Noi ci assumiamo la responsabilità del progetto, ma auspichiamo che su queste basi ci sia ampia collaborazione da parte della società esterna, delle altre istituzioni deputate a partecipare alla esecuzione penale. Perché l’esercizio della sola critica, il continuo riferimento alle “colpe” degli altri, della politica, dell’amministrazione, della magistratura, si traduce in colpevole disimpegno rispetto a quanto è possibile fare oggi nel campo della sanità, della cura e recupero dei tossicodipendenti, nella creazione di opportunità di lavoro, nella possibilità di misure alternative per le migliaia di detenuti che rimangono in carcere in quanto non hanno alloggio, famiglia, lavoro. La certezza è che solo il lavoro d’insieme realizzi buone prassi all’interno degli istituti di pena, l’ambizione è che queste, così come fu negli anni 80/90 quando il fiorire di iniziative nate in carcere stimolarono il varo di leggi quali la Gozzini, la Smuraglia, la Finocchiaro, si pongano come credibili modelli di riferimento per il varo di quelle riforme legislative da tempo attese. Se questo impegno viene meno non basterà, poi, citare Voltaire, Dostoevskij, perché se è vero che la civiltà di un popolo si valuta dallo stato delle sue prigioni, è altrettanto vero che queste non miglioreranno se le si considera isolate dal contesto sociale, una realtà da rimuovere e non un servizio pubblico che attraverso il trattamento, il lavoro, deve portare al reinserimento del detenuto nella comunità, ovvero produrre vera sicurezza sociale evitando le ricadute nella recidiva. Giustizia: Pier Ernesto Irmici; oggi abbiamo carceri peggiori di quelle dell’Italia fascista intervista di Lanfranco Palazzolo Voce Repubblicana, 8 aprile 2013 La situazione delle carceri italiane di oggi è peggiore di quella dell’Italia fascista. Lo ha detto alla “Voce” Pier Ernesto Irmici, Vicepresidente dell’Associazione “Sandro Pertini Presidente”. Ernesto Irmici, lei si è sempre occupato della situazione nelle carceri italiane e ha svolto una relazione, nel corso del convegno dal titolo “Sandro Pertini: dalla Resistenza al Quirinale”, sulla situazione delle carceri fasciste ai tempi della persecuzione politica contro l’uomo politico del Psi. Cosa pensa della battaglia per l’umanizzazione delle pene in Italia…. “La battaglia sulle carceri è sacrosanta. Non possiamo più tollerare una situazione che offende la dignità dell’Uomo e impedisce l’attuazione della della Costituzione. Mi riferisco all’articolo 27 della Costituzione. Il terzo comma di questo articolo recita che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Il sistema carcerario italiano non può andare avanti così. Quando ho svolto la relazione al convegno su Sandro Pertini ho pensato che fosse importante parlare della situazione delle carceri e come il nostro Presidente della Repubblica ha vissuto la situazione nelle carceri italiane”. Crede che le vicende carcerarie di alcuni esponenti politici della Resistenza siano state dimenticate dalla nostra storiografia. Padri costituenti come Ugo La Malfa e Sandro Pertini sono stati in carcere tanti anni, ma sono in pochi a raccontare qualcosa su questo…. “Questo aspetto della nostra storiografia è rimasto volutamente in ombra sia per Pertini che per altri personaggi illustri. Parlare delle carceri è molto scomodo. Questo è un problema per molti. Il nostro paese, oggi, si trova a fare i conti con una situazione imbarazzante”. Quali sono le impressioni che ha avuto nel corso del suo mandato da Consigliere regionale della situazione delle carceri nel Lazio? “Durante i miei 2 anni 1/2 da consigliere regionale ho constatato la mancanza di rispetto della dignità umana nelle carceri di questa regione. La visione della nostra Costituzione è garantista e guarda al recupero dei detenuti. Direi che la condizione carceraria di oggi in Italia è peggiore di quella del regime fascista. Durante il “ventennio” non c’era la visione formulata dall’articolo 27 della Costituzione, ma oggi la situazione degli istituti di pena dell’Italia democratica è peggiore di quella degli anni 30”. Ritiene che ci sia stato un atteggiamento intimidatorio delle istituzioni contro le visite ispettive nelle carceri italiane come è accaduto nel caso dell’onorevole Renato Farina? “Se le visite ispettive vengono fatte per modificare la situazione delle carceri è malvista da qualcuno. Questo dipende da un atteggiamento culturale negativo sulle carceri”. Giustizia: dietro le sbarre delle carceri femminili… senza ginecologi, pediatri e assorbenti di Federica Seneghini Corriere della Sera, 8 aprile 2013 “Spazi carenti, poca igiene e sovraffollamento sono problemi comuni per chi vive in carcere. Ma per le donne una vita dietro le sbarre significa anche altro: ginecologi o pediatri spesso irreperibili, difficoltà a procurarsi assorbenti e saponi per l’igiene intima, senza contare poi il problema dei bambini detenuti”. Riccardo Arena conduce su Radio Radicale il programma “Radio carcere”: da oltre dieci anni, riceve e legge in diretta le lettere che i detenuti di ogni parte d’Italia gli inviano ogni settimana. Racconta così, attraverso la loro voce, le storie di chi sta dentro (o di chi ci è stato). Alcune, una piccola parte, sono di donne. “Quando ero dentro non ho avuto il ciclo per diversi mesi”, dice una ragazza di 23 anni. “La causa, secondo il medico del carcere, era lo “stress da detenzione”. Quando sono uscita mi è stata diagnosticata una menopausa precoce: rischio di diventare sterile”. “Non abbiamo il bidè e spesso non possiamo neanche farci la doccia perché manca l’acqua calda”, raccontano Stefania, Anna e Laura, rinchiuse a Benevento. “Siamo arrivate ad essere anche otto nella stessa cella, con un solo bagno, uno spazio dove cucinavamo anche”, spiega Silvia, ex detenuta a Rebibbia. Ricorda Maria: “Mi si sono rotte le acque in carcere. Solo dopo un’ora, quando è arrivata l’autorizzazione del giudice, mi hanno portato in ospedale. Ci sono rimasta il tempo per partorire. Dopo tre giorni io sono tornata in carcere mentre mio figlio è rimasto in clinica: l’ho allattato a distanza tirandomi il latte con il tiralatte”. Racconti di una minoranza. In Italia le donne in carcere sono pochissime: 2818, il 4% del totale. Vivono ristrette in uno dei 5 istituti femminili (Trani, Pozzuoli, Roma Rebibbia, Empoli e Venezia Giudecca) o in una delle 52 sezioni presenti all’interno delle carceri maschili. Le loro storie spesso sono poco conosciute. Se il cinema si è concentrato più sulle realtà maschili, un’eccezione è “Le jardin des merveilles”, di Anush Hamzehian, documentario girato all’interno di Venezia Giudecca (presentato nell’ambito della rassegna “Effetti Personali”, del Festival “Il Cinema Italiano visto da Milano”, che include molte opere realizzate all’interno delle case di reclusione, sia milanesi sia di altre città italiane, fino al 14 aprile). E quindici cortometraggi dedicati alle donne detenute saranno proeittati il 13 aprile all’interno del Valsusa Filmfest. Per gran parte di loro i figli sono forse il capitolo più doloroso. Ad oggi sono una cinquantina quelli che vivono “dietro le sbarre” insieme alle proprie madri: “Quando sono entrata mio figlio aveva appena 11 mesi”, racconta Gabriella. “Dentro ha imparato ben presto ad essere detenuto, dal linguaggio (“agente, mi apri?”, “mamma, andiamo al colloquio con l’avvocato?) alle perquisizioni (“apriva lui le gambe davanti all’agente, alzava anche le braccia da solo)”. E se gli occhi dei più piccoli “rispecchiano un ambiente in cui ci sono solo urla, malattie e suicidi”, come si resiste? “Inventando favole, raccontando loro che è tutto un gioco”. Strategie in stile “La vita è bella”. Lo choc maggiore arriva però quando il bimbo compie tre anni: è il momento in cui la legge prevede che il minore debba uscire. “Mio figlio si è aggrappato ad un cancello, si è girato e mi ha detto: “Perché mi fai andare via?. Poi è finito tra le braccia di un agente, che l’ha portato via”. La maternità si interrompe. Ad oggi c’è solo un’eccezione che dimostra come un’alternativa a tutto questo sia possibile. L’Icam - Istituto a custodia attenuata per detenute madri fino a tre anni - nato a Milano nel 2007: qui una decina di donne, perlopiù straniere, vivono in una struttura dove vigono le stesse regole del carcere. Ma in luoghi senza sbarre e controllate da agenti in borghese. La mattina i bimbi vengono portati al nido di zona, mentre le madri rimangono dentro, impegnandosi in attività volte al recupero sociale. “È questo l’esempio da seguire”, riprende Riccardo Arena. E in questa direzione va la “legge Alfano” sui bimbi in carcere. Approvata nel 2011, entrerà in vigore nel 2014: a meno di particolari esigenze cautelari di “eccezionale rilevanza”, le detenute incinte o con bambini fino a 6 anni non saranno più chiuse in cella ma sconteranno la pena in strutture apposite. “Peccato che queste strutture per ora non ci sono”, puntualizza Arena. “E visto che la legge non riguarda tutte le detenute, ciò significa che i bambini in carcere continueranno ad entrare. Invece di una legge, servirebbe un accordo amministrativo, proprio come è successo a Milano”. “Se non avessero infranto la legge ora avrebbero a che fare con le faccende di casa o con i lavori di sempre”, ha detto il presidente russo Putin, parlando qualche tempo fa delle detenute più famose degli ultimi tempi, le Pussy Riot. Una dichiarazione (riportata nel libro “Free Pussy Riot” di Alessandra Cristofari) che sottolinea, suo malgrado, un aspetto fondamentale della detenzione al femminile. Il carcere vuol dire anche separazione dalla propria realtà sociale e “le donne ne sono colpite più violentemente degli uomini”, ha spiegato in un’intervista a “Ristretti Orizzonti” Donatella Zoia, medico dell’Unità operativa per le tossicodipendenze a San Vittore: “Nella società sono solitamente loro a portare il maggior peso di responsabilità affettiva. Quando una donna finisce in carcere, fuori ci sono sempre i figli, una madre, un padre e, a volte, anche un marito che contavano su di lei e che restano abbandonati” e senza sostegni. E così la detenuta oltre al peso della carcerazione, si sente colpevole per averli lasciati soli, si sente responsabile per non poter far nulla per loro e somatizza il suo malessere”. Le conseguenze fisiche sono evidenti, dicono gli operatori: disturbi al ciclo mestruale, ansia, depressione, ma anche anoressia e bulimia. Ci potevano pensare prima, dirà qualcuno. Ma come ha ricordato Laura Boldrini nel suo discorso di insediamento alla Camera non si dovrebbe forse stare accanto “ai tanti detenuti che oggi vivono in una condizione disumana e degradante, come ha autorevolmente denunciato la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo”. E per le donne ciò non dovrebbe volere dire anche proteggere la maternità e la femminilità? Giustizia: richiesta pm al processo Cucchi “condannare tutti gli imputati, agenti e medici” La Repubblica, 8 aprile 2013 Le richieste della pubblica accusa durante il processo nell’aula bunker di Rebibbia al processo per la morte del giovane avvenuta il 21 ottobre 2009: 6 anni ai medici, 4 agli infermieri e 2 agli agenti di polizia penitenziaria. Condannare tutti gli imputati sotto processo per la morte di Stefano Cucchi. Questa la richiesta di condanna fatta dai pubblici ministeri ai giudici della III corte d’assise della Capitale. Sotto accusa i dottori Aldo Fierro, responsabile del reparto di medicina protetta dell’ospedale Pertini 6 anni e 8 mesi. Per la dottoressa Stefania Corbi sono stati chiesti 6 anni. Per Luigi Preite de Marchis e Silvia Di Carlo, 5 anni e 6 mesi. Per gli infermieri Giuseppe Flauto, Elvira Martelli e Domenico Pepe, il pm Maria Francesca Loy ha sollecitato la pena di 4 anni. Tutti i sanitari sono accusati a diverso titolo di abbandono di persona incapace. Secondo il magistrato è stata riscontrata una “sciatteria assoluta” nel modo in cui era tenuta la cartella clinica di Cucchi. Tutto il personale medico e infermieristico deve rispondere anche di favoreggiamento e omissione di referto. A carico di Rosita Caponetti è ipotizzato invece il reato di falso e abuso d’ufficio. Per lei sono stati chiesti due anni. Per gli agenti di polizia penitenziaria sono stati chiesto 2 anni. I tre sono: Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Domenici. Loro devono rispondere di lesioni personali aggravate. Oggi è stata giornata della requisitoria dei pubblici ministeri nell’aula bunker di Rebibbia, a due anni dall’avvio del processo davanti alla terza corte d’Assise di Roma per la morte di Stefano Cucchi. I pm Vincenzo Barba e Maria Francesca Loy hanno chiesto alla corte, presieduta da Evelina Canale, di condannare i dodici ritenuti responsabili della morte di Cucchi, nel reparto protetto dell’ospedale Sandro Pertini il 21 ottobre del 2009 a una settimana dal suo arresto per possesso di stupefacenti. La sentenza del processo ci sarà entro il 22 maggio. Per quella data infatti il presidente della III Corte d’Assise di Roma ha stabilito l’ultima udienza. Fitto i calendario: la prossima udienza è in programma il 10 aprile quando è previsto l’intervento della parte civile. Il 17 aprile i primi interventi dei difensori. La requisitoria. “I tre agenti di polizia penitenziaria non hanno mai chiamato il medico, dopo aver preso in consegna Stefano Cucchi, prima dell’udienza di convalida quella mattina”, ha detto in un passaggio della sua requisitoria il pm Vincenzo Barba davanti ai giudici della corte d’assise di Roma. “Samura ha sentito il pestaggio che ha subito Cucchi. Proprio il fatto che lui dice solo di aver ascoltato e non visto gli dà proprio ulteriore attendibilità - ha detto parlando del cosiddetto super testimone, un immigrato del Gambia che fu portato in carcere lo stesso giorno del giovane geometra poi deceduto - Samura ha parlato delle lesioni avute da Cucchi, ci ha mostrato come lui gli fece vedere il colpo ricevuto sulla gamba. E quando trovammo i pantaloni che aveva indosso la vittima abbiamo avuto l’ulteriore conferma della veridicità del racconto di Samura. Vedendo le strisciate di sangue all’interno della gamba del pantalone si capisce”. “Tutti volevano farsi grandi con la morte di Cucchi”, ha accusato il pubblico ministero Vincenzo Barba. Che ha ricordato le difficoltà affrontate nel corso delle indagini a causa “del clamore mediatico insopportabile” e in particolare per proteggere quello che ritiene essere il testimone “credibile”, l’immigrato Samura Yaya. “Abbiamo avuto l’esigenza di tutelarlo come fonte di prova - ha continuato Barba - A un giorno dall’incidente probatorio tutti hanno tentato di raggiungerlo, anche il senatore Stefano Pedica. Noi abbiamo dovuto fare una lotta impari per difendere la nostra fonte di prova da un attacco politico e giornalistico, tutti volevano farsi grandi con la morte di Cucchi. Il processo è stato difficile - ha detto il pm Barba - anche a causa di varie rappresentazioni dei fatti che sono state portate fuori dal processo. I mass media hanno influito sull’opinione pubblica. C’è chi ha voluto dare una rappresentazione della realtà diversa da quella emersa dal processo”. “Sin dall’inizio - ha sottolineato ancora - i pm hanno operato nell’ombra senza clamori mediatici emersi in seguito non certo per nostra volontà. Abbiamo voluto dare massimo spazio a tutte le parti in causa, a tutte le loro richieste. Ma l’impatto mediatico è divenuto sempre più invasivo, ci sono state ben due commissioni che hanno indagato contemporaneamente a noi e con evidenti interferenze. Ci sono state svariate interrogazioni parlamentari fino a numerosi tentativi di depistaggio da parte di personaggi che noi abbiamo inserito nella lista testimoniale”. “Ci sono tre punti chiave di questo processo: Stefano Cucchi fu picchiato mentre era in una cella di piazzale Clodio; fu ricoverato al Pertini pur essendo gravi le sue condizioni; la condotta del personale sanitario dell’ospedale fu caratterizzata da lacune, omissioni e incurie che rivelano un vero e proprio e stato di abbandono del paziente che essendo detenuto non poteva scegliere da chi farsi curare”, ha proseguito il pm Barba durante la requisitoria. Il magistrato ha quindi aggiunto che il ricovero all’ospedale Sandro Pertini “per isolarlo dal mondo, dalla sua famiglia e nascondere quanto accaduto nelle celle di piazzale Clodio”. E ancora: “Cucchi e la sua malattia sono stati trattati come una mera pratica burocratica come si evince dal certificato di morte, una farsa in cui si parla di morte naturale. Niente degli ultimi giorni della vita di Stefano Cucchi doveva trasparire dalla documentazione ospedaliera. In sostanza secondo il pm l’amministrazione penitenziaria si sarebbe fortemente impegnata per far ricoverare Cucchi al Pertini benché tale struttura sanitaria non fosse adeguata alle sue condizioni di salute. Per raggiungere tale scopo si attiva anche il funzionario del Prap (provveditorato regionale amministrazione penitenziaria) Claudio Marchiandi. Giudicato con rito abbreviato in altro procedimento questi fu condannato a due anni di reclusione. Tale sentenza è stata capovolta nel giudizio di secondo grado, dove è stato assolto. Pendente il ricorso in Cassazione. “C’è un’evidente falsità di quanto scritto nella documentazione sanitaria da cui sembrerebbe che Cucchi stava benino”, ha concluso Barba. La parola è poi passata al pm Maria Francesca Loy: “L’unica lesione comprovata dalla perizia è quella della vertebra sacrale. In termini di invalidità civile si può affermare che provocò un danno biologico inferiore al 9 per cento, quindi una lesione lieve, modesta, anche se dolorosa. Ma certamente non doveva portare ad un esito mortale”. Il magistrato ha sottolineato che “i medici legali più famosi d’Italia si sono concentrati su questa vicenda”. L’atto di violenza subita da Stefano Cucchi fu “gratuito e inutile”, ha continuato il pm Loy proseguendo nella sua requisitoria davanti ai giudici della III corte d’assise. “Cucchi era una persona di una magrezza patologica di quelle che abbiamo visto di rado, per lo più nei film che raccontano quanto successo ad Auschwitz”, ha commentato. Poi ha affrontato la questione delle lesioni riportare da Cucchi: “Secondo tutti i periti sono modeste anche se dolorose - ha detto - Siamo convinti che le lesioni cagionate dalla penitenziaria siano state, più che un pestaggio, probabilmente una spinta o un calcio che lo ha fatto cadere a terra. Una violenza gratuita inflitta nei confronti di un detenuto che in quel momento teneva un comportamento ritenuto insopportabile. Stefano Cucchi era lungi da essere un giovane, sano e sportivo - ha aggiunto - era tossicodipendente da circa trent’anni con gli effetti devastanti che ciò comporta per il corpo di una persona. Soffriva inoltre di crisi epilettiche da quando aveva 18 anni. Due volte all’anno circa negli ultimi dieci anni si è recato al pronto soccorso per traumi, abusi d’alcol. Non è normale per un giovane sano. Periti definiscono le sue condizioni di grave deperimento organico. Durante la degenza al Pertini ha perso dieci chili. Le botte non sono una concausa della morte ma hanno una valenza occasionale. Non ci sono elementi - ha ribadito il pubblico ministero - per collegare la morte alle lesioni. Non gli danno nemmeno lo zucchero, non gli prendono il battito cardiaco. Questi sono chiari elementi di indifferenza dei medici nei confronti del paziente”. Per Loy, il comportamento dei medici e degli infermieri del Pertini “non fu colposo, ma un chiaro sintomo dell’indifferenza che hanno avuto nei confronti di quel paziente”. Nessun dubbio quindi per il pm sulla configurabilità del reato di abbandono di persona incapace nei confronti del personale che curò Cucchi al Pertini, stesso reato ipotizzato anche nel caso del naufragio della Costa Concordia. “Anche di fronte a un paziente maleducato, che rifiuta le cure e il cibo - ha aggiunto - non si doveva lasciar perdere, dagli esami erano evidenti le gravi condizioni, se cosi non fosse meglio cambiare mestiere”. Le perizie. “I medici dell’ospedale Sandro Pertini, con condotte colpose o con imperizia o con negligenza, non hanno saputo individuare la patologia da cui era affetto il paziente Stefano Cucchi, di cui ne sottovalutarono le condizioni. L’evento morte era prevedibile”. Era stato il parere dei periti (i milanesi Cristina Cattaneo, Mario Grandi, Gaetano Iapichino, Giancarlo Marenzi, Erik Sganzerla, Luigi Barana) incaricati dalla terza corte di assise di Roma di stabilire le cause della morte di Stefano Cucchi. “La causa della morte di Stefano Cucchi - dice testualmente la perizia - per univoco convergere dei dati anamnestico clinici e delle risultanze anatomopatologiche va identificata in una sindrome da inanizione”. “Con il termine di morte per inanizione - scrivono i periti - si indica una sindrome sostenuta da mancanza (o grande carenza) di alimenti e liquidi”. Replica la famiglia Cucchi. “Riteniamo inaccettabile e gravemente offensive le dichiarazioni del pm Barba sul conto di Stefano e di tutti noi. Continuo chiedermi chi sono gli imputati nel processo per la morte di mio fratello. Affermare, o peggio alludere al fatto che noi non avessimo riferito ai carabinieri, durante la perquisizione in casa nostra, che Stefano avesse anche un’altra casa a Morena per nascondere la droga, da noi stessi poi ritrovata e denunciata, è un comportamento intollerabile oltre che incomprensibile. Tra l’altro nessuna indagine è stata fatta su chi l’abbia data a Stefano. I pm nella loro ansia accusatoria dimenticano che mio padre aveva regolarmente denunciato alla Questura la presenza di Stefano in quella casa”, ha precisato Ilaria Cucchi, sorella della vittima. “Io e la mia famiglia ci siamo sottoposti a questo processo lunghissimo e dolorosissimo. Continuiamo a sperare che si riconosca verità su quanto accaduto a Stefano e per questo riponiamo estrema fiducia nella Corte. Non posso accettare che non venga riconosciuta la verità su quello che è successo a Stefano tutto il resto non mi interessa - ha aggiunto con gli occhi lucidi - La verità la sanno tutti io, speravo che entrasse anche nell’aula di giustizia e continuo ad avere fiducia nella Corte: ripongo in loro tutta la mia fiducia, perché ogni risposta che non sia coerente con quanto accaduto a Stefano, ogni risposta ipocrita noi non la possiamo accettare. L’atteggiamento che abbiamo notato oggi in aula è perfettamente coerente con quello che e stato l’atteggiamento della procura per tutta la durata del processo, tanto che spesso viene da chiedersi chi sono gli imputati nel processo per la morte di mio fratello. La responsabilità dei medici è assolutamente gravissima e innegabile, loro non sono più degni di indossare un camice, questo lo abbiamo sempre detto e continueremo a sostenerlo fino alla morte. Loro avrebbero potuto salvare mio fratello e non lo hanno fatto, si sono voltati dall’altra arte e non si può far finta di niente, come non si può far finta che Stefano sarebbe finito in quell’ospedale per cause che non c’entrano con il pestaggio. Non si può negare che Stefano fino a prima del suo arresto conduceva una vita assolutamente normale”. Giustizia: l’avvocato Fabio Anselmo “Polizia e carcere più violenti quando Stato è debole” di Elisabetta Reguitti Il Fatto Quotidiano, 8 aprile 2013 In un quintetto base sarebbe il pivot, quello attorno al quale ruota la squadra. Purtroppo però non si tratta di un gioco, semmai di una partita della vita, molto più spesso della morte. Fabio Anselmo è il legale delle quattro donne più conosciute tra le tante che rimangono anonime alla ricerca della verità sui decessi degli uomini delle loro famiglie. Cucchi, Aldrovandi, Uva e Ferulli: fermati o arrestati, tutti comunque in “custodia”. Tutti morti. Negli ultimi sette giorni dal suo studio di Ferrara sono uscite una querela all’ex ministro Giovanardi (per aver detto che la macchia rossa fotografata sotto la testa di Federico Aldrovandi non è sangue) e una denuncia al pm di Varese Agostino Abate per favoreggiamento e abuso in atti d’ufficio fatta dalla nipote di Uva. Una buona media… Il contesto politico e culturale in cui ci muoviamo ha una diretta conseguenza con l’andamento dei processi. L’attenzione dei media è l’unica via per eludere insabbiamenti, presunte indagini e le ostilità oggettive di una politica. Ricordiamo nel caso di Stefano Cucchi, lo stesso Giovanardi allora ministro, parlava di “zombie sieropositivo” per affibbiare alla vittima la responsabilità della sua morte. Domani alla Corte di Assise si riparte con le requisitorie, il 15 a Rebibbia le parti civili. Senza i riflettori dei media, questi processi spesso non vengono nemmeno celebrati. Parliamo di decessi avvenuti durante uno stato di custodia. Negli ultimi dieci anni i soli casi conclamati sono almeno 17 e per molti non è ancora dato sapere chi siano i colpevoli. Perché lo Stato ha così paura della verità? Perché non ama essere messo in discussione. Le violenze di Stato sono un problema reale, pur evitando una criminalizzazione generalizzata, i fatti ci dimostrano che questi non sono accadimenti sporadici ma al contrario molto diffusi. Da decenni lo testimoniano gli stessi rapporti europei. Gli atteggiamenti dei sindacati di polizia poi devono far riflettere. I reati commessi dai singoli non possono essere difesi d’ufficio dalle corporazioni, dalle associazioni di categoria. Servirebbe un efficace controllo preventivo delle tutele pubbliche. Se lo Stato non è in grado di licenziare chi ha abusato dei suoi poteri (caso Aldrovandi) perde di credibilità. E intanto le famiglie travolte da queste tragedie rimangono sole ed emarginate. Poche resistono. Alcune ipotecano la casa e si indebitano per i processi. Altre rinunciano. La questione rimane aperta: forze dell’ordine chiamate a tutelare la sicurezza dei cittadini che diventano carnefici. Manca un’adeguata formazione per gli agenti della Polizia di Stato? L’analisi è complessa; sicuramente manca un’adeguata attività di formazione alla quale si aggiunge un diffuso sentimento di frustrazione dovuto all’incapacità dello Stato di garantire in modo reale e concreto la certezza del diritto e della pena. Spesso poi l’operato delle forze dell’ordine viene vanificato da cavilli e trappole processuali dei quali si possono avvantaggiare quelli che hanno disponibilità economiche. I poliziotti in strada spesso rischiano la pelle e chi interpreta il proprio mestiere talvolta cede alla tentazione di essere il giustiziere, detentore esclusivo della legalità. Dal suo punto di vista, la smilitarizzazione del corpo ha cambiato qualcosa? Non credo sia un problema ascrivibile solo a forze dell’ordine militarizzate, ma piuttosto di carattere generale che investe tutti, nessuna escluso. La posto in gioco però è alta, perché viene messo in discussione il contratto sociale tra Stato e cittadini. Lo Stato può usare la violenza soltanto come ultima scelta possibile e deve essere proporzionata alle circostanze contingenti. Se la utilizza è perché non sussiste alcun altro rimedio. Quando accade il contrario, chi sbaglia deve essere perseguito senza ritrosia o tentennamenti. In concreto purtroppo ci imbattiamo spesso nella scarsa sensibilità di pm e giudici rispetto al verificarsi di questi episodi che mettono in discussione i loro rapporti funzionali con le forze dell’ordine. Esistono decine di commissioni parlamentari, il più delle volte mummificate. Una sui morti nelle mani dello Stato forse avrebbe di che occuparsi… Non credo nelle commissioni parlamentari, perché non ho fiducia nella nostra classe politica. Basta pensare all’approvazione della legge sulla tortura dove lo Stato italiano ha dato l’ennesima prova di pregiudizio culturale. Preferiamo subire i richiami dell’Onu nell’ipocrisia di chi ritiene che in Italia non esista la tortura. Le condizioni delle nostre carceri sono tortura. Allora mi domando: chi non vuole la legge sulla corruzione? I corrotti. Chi non vuole quella sulla tortura? Nelle prossime settimane sono fissate le udienze per Cucchi, Uva e Ferulli, l’uomo pestato da poliziotti in una strada di Milano le cui immagini sono state l’unica prova contro gli aggressori. Come ci si prepara a udienze dove sotto accusa sono le forze dell’ordine e un magistrato? Per Uva l’udienza del 16 è finta perché il pm porta a giudizio dei medici per una colpa che non esiste neppure per il suo consulente. Ferulli è tutto da iniziare, mentre il processo Cucchi entra nel vivo, ci affidiamo alla Corte perché si appropri dello scempio che è stato fatto a Stefano. Sardegna: il Provveditore; nell’isola affollamento carceri al 103%, è il più basso d’Italia Ansa, 8 aprile 2013 Affollamento delle carceri sarde pari al 103%: è il tasso più basso di tutta Italia. Lo comunica, in una nota, il Provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Gianfranco De Gesù. La capacità ricettiva complessiva dei 12 istituti penitenziari della Sardegna - secondo i dati illustrati - è pari a 2.257 posti letto mentre i posti effettivamente disponibili al netto di quelli temporaneamente non utilizzabili per le ristrutturazioni sono 1943: i detenuti attualmente presenti negli istituti sardi sono 2.003. E la situazione è destinata a migliorare con le nuove strutture di Cagliari e Sassari: si arriverà a quota 2.257 con un incremento di 400 posti. Centonovanta saranno i detenuti del regime speciale 41 bis. “Per legge - spiega l’amministrazione penitenziaria - i detenuti sottoposti al regime speciale di detenzione devono essere ristretti preferibilmente in aree insulari. La presenza di detenuti appartenenti al circuito dell’alta sicurezza in regione è percentualmente in linea con il dato che si registra a livello nazionale”. Il personale? Secondo De Gesù, a fronte di un organico regionale pari a 1.324 unità, i dipendenti in servizio erano 1.262, cioè il 95% del totale. “La Sardegna era quindi - spiega il comunicato - la regione con la minore carenza di personale. Sul dato rileva l’assegnazione a sedi penitenziarie, avvenuta negli ultimi 10 mesi, di ben 261 agenti sardi in servizio in altre regioni. Un numero elevatissimo che non appare nella storia penitenziaria dell’isola. Il ministro della Giustizia ha determinato - spiega il provveditore - la nuova ripartizione di dotazioni organiche del corpo di polizia penitenziaria che assegna alla regione 1834 unità, 510 in più rispetto al precedente. Per consentire l’aumento dell’organico sardo - conclude - sono stati proporzionalmente ridotti gli organici di altre regioni ad eccezione di Marche e Umbria”. Sardegna: Sindacati PolPen; basta falsa propaganda, soddisfatti da incremento organico Comunicato stampa, 8 aprile 2013 Certi politici e certe OO.SS. con la loro confusionaria (e non reale) propaganda vogliono perseguire solo ed esclusivamente i loro interessi. In Italia sono circa 7.000 i detenuti AS e 650 quelli sottoposti al regime del 41bis op, come si può solamente pensare che il 50% di questi sarà trasferito negli istituti penitenziari sardi… questa è mistificazione. Le OO.SS. Sappe, Osapp, Uil-Pa e CIsl-Fns, smentiscono categoricamente quanto comunicato da un politico e da una O.S. relativamente alla carenza di 1.000 unità di personale di Polizia Penitenziaria nella regione Sardegna, notizia da ritenersi non veritiera demagogica e priva di ogni fondamento, utile solo a creare disorientamento fra i colleghi in quanto mai e poi mai in nessun tavolo a livello ministeriale o regionale è stato affrontato tale argomento. Le scriventi si ritengono soddisfatte per il risultato ottenuto con l’aumento di 510 unità sulla pianta organica regionale, quando sarà a regime, portandole a 1.834 unità contro le 1.324 attuali e con una capienza detentiva di circa 2.300-2.400 posti. Per quanto riguarda l’invio in Sardegna di detenuti sottoposti a regimi speciali ci domandiamo: ma dove era il politico di riferimento quando nel parlamento italiano, già nel 2009 si è discussa e approvata la legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 170 del 24 luglio 2009 - supplemento ordinario n. 128. I detenuti sottoposti al regime speciale di detenzione devono essere ristretti all’interno di istituti a loro esclusivamente dedicati, collocati preferibilmente in aree insulari) la risposta la diamo noi, il politico che oggi si erge a paladino quella legge l’ha firmata. Riteniamo offensive le frasi in cui ritiene il popolo sardo debole a potenziali infiltrazioni mafiose e/o di criminalità organizzate ignorando di fatto la caparbietà e il carattere che il sardo ha nel non farsi condizionare né da potenziali infiltrazioni criminose né da chi che sia, riteniamo che queste ultime tentano di mettere radici sicuramente in contesti dove si produce benessere e ricchezza e ci pare che in questa fase così austera che attraversa la nostra terra non sia proprio il caso di preoccuparci. Emilia Romagna: con il progetto “Raee in carcere” i rifiuti elettronici diventano arte 9Colonne, 8 aprile 2013 Il recupero dei rifiuti elettronici diventa una mostra. Questa mattina, nella sede della Regione Emilia Romagna, a Bologna, si inaugura la mostra “OpeRaee, esercizi artistici di recupero degli apparecchi elettrici ed elettronici”, organizzata fino al 22 aprile dal progetto interprovinciale “Raee in carcere” con il patrocinio della Regione Emilia Romagna e dell’Amministrazione penitenziaria regionale, e il supporto del consorzio Ecolight e di Hera. La mostra raccoglie manufatti creativi realizzati all’interno dei laboratori “Raee in carcere” di Bologna e Forlì, in collaborazione con l’associazione Recuperiamoci! di Prato, recuperando vecchi elettrodomestici e parti elettroniche ormai inservibili. I laboratori hanno rappresentato per i detenuti un’opportunità per approfondire l’uso dei materiali e delle tecniche artistiche, per incontrare giovani artisti e per riflettere sul tema della creatività e della libertà, anche in rapporto alla detenzione. Durante la cerimonia di inaugurazione è previsto un incontro di approfondimento sul progetto. A seguire, live musicale a cura del Gruppo Elettrogeno: la suite di danze mediorientali con Fabio Tricomi e Sabahi Hassene, tratta dal programma musicale del concerto spettacolo La collina incantata (realizzato all’interno del progetto “I fiori Blu”, percorsi di musica e teatro, rivolti a persone che dallo stato di detenzione o dalla libertà accedono alle misure alternative alla detenzione). Il progetto “Raee in carcere” nasce nel 2005 dalla collaborazione di Hera con i consorzi Ecolight, Ecodom, le cooperative sociali It2, Gulliver e Il Germoglio e le direzioni delle carceri di Bologna, Forlì e Ferrara con l’obiettivo di promuovere l’inclusione sociale e lavorativa di detenuti o reduci dal carcere, inserendoli in un processo industriale nel settore del recupero dei Raee gettando le basi per il reinserimento nella vita lavorativa e nella legalità. Napoli: Gozi (Pd) e i Radicali; inferno a Poggioreale, nelle celle una situazione esplosiva di Anita Caiazzo Roma, 8 aprile 2013 I numeri da soli, seppur ampiamente significativi, non bastano a dipingere quel report di drammi che si susseguano nel carcere di Poggioreale. A confermare la tragica situazione dei detenuti è stato il deputato del Pd Sandro Gozi, ieri in visita nella casa circondariale napoletana. Un giro ispettivo in cui Gozi è stato accompagnato da Yuri Guaiana, segretario dell’associazione radicale “Certi diritti”, e da Roberto Gaudioso, tesoriere dell’associazione radicale “Per la grande Napoli”. La delegazione ha fatto ingresso nel carcere di Poggioreale alle 10 e ha poi tenuto una conferenza stampa all’uscita del carcere. Per il deputato Gozi questa di ieri è stata la prima visita al carcere napoletano: “La situazione è grave - ha spiegato - il carcere di Poggioreale ha il triste record del carcere più sovraffollato d’Europa. Siamo a una popolazione carceraria di oltre 2.700 persone quando, in base al regolamento, dovrebbero essere 1.600, quindi questo è un problema enorme, soprattutto nel padiglione Napoli”. Se la situazione carceraria è oggi esplosiva, con problemi di sovraffollamento e carenze strutturali spalmate sul tutto il territorio, il “casermone” di Poggioreale rappresenta il termometro del sistema sull’orlo dell’esplosione. Una situazione grave e proprio per le condizioni delle patrie galere, l’Italia ha incassato una pesante sanzione da parte da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo. Secondo direttive europee, infatti, ogni detenuto ha diritto a 9 metri quadrati di spazio, a Poggioreale, in molte celle, proprio per il sovraffollamento, molti detenuti non possono neanche restare in piedi contemporaneamente. “Nel padiglione Napoli - ha continuato Gozi - ci sono 8 detenuti per cella, ma ci hanno detto che arrivano anche a 10 quindi è evidente che i detenuti sono ammassati gli uni sugli altri. Siamo, quindi, molto lontani dalle norme europee e da quelle sentenze che ci hanno condannato e che continueranno a condannarci se devo giudicare la risposta dello Stato”. La visita ispettiva di Ieri ha riguardato principalmente i padiglioni “Napoli” e “Roma”: le zone del carcere, dove presenti tossicodipendenti, detenuti per reati connessi allo spaccio, e nel padiglione Roma i “sex offenders” (detenuti per reali sessuali) insieme con omosessuali e transgender divisi su piani diversi. La situazione più critica per Sandro Gozi riguarda i detenuti in attesa di cure: “Ho parlato con un detenuto cardiopatico - ha detto il deputato Pd - molto preoccupato perché non sapeva quando avrebbe ricevuto un intervento in cui era in attesa e anche il suo compagno di cella, un uomo con problemi di deambulazione e costretto su una sedia a rotelle, che non sapeva il programma di cura da seguire. Inoltre, c’è una totale assenza, in relazione ad una carenza di risorse, dei trattamenti psicologici. Siamo, infatti, a 13 ore al mese di assistenza psicologica per 2.700 detenuti”. Una vita in promiscuità quella dei detenuti senza spazi e spesso chiusi tutto il giorno in cella molte volte con il blindato chiuso. Gozi ha parlato anche dell’abuso della carcerazione preventiva e dell’amnistia: “C’è bisogno dell’amnistia - ha chiarito -. Ho presentato una proposta di legge alla Camera per i reati commessi entro il 14 marzo del 2013 con pene detentive non superiori ai quattro anni, se la legislatura parte spero ci sia una forte sensibilità e una singola valutazione da parte dei deputati”. Mantova: 70 internati Opg lamentano malori. Uno muore in Ospedale. Forse cibo avariato La Gazzetta di Mantova, 8 aprile 2013 Settanta. Un quarto degli ospiti dell’Opg. È questo il numero dei detenuti che si sono sentiti male dopo la cena di martedì alla mensa dell’ospedale psichiatrico di Castiglione. Tra questi c’era Christian Ubiali, trentunenne bergamasco morto al Poma tre ore dopo il ricovero. L’autopsia, disposta dalla Procura di Mantova, non avrebbe fatto definitiva chiarezza sul decesso, avvenuto, sembrava, dopo una diagnosi di occlusione intestinale. Il magistrato si limita a confermare che saranno necessari “ulteriori accertamenti”. Sotto accusa, per ora, c’è proprio la cena consumata martedì sera alla mensa dell’Opg, in seguito a cui settanta ospiti hanno accusato malori e dissenteria. Di questi dodici hanno manifestato sintomi più seri. Il più grave di tutti era Ubiali, trasportato d’urgenza al pronto soccorso del Poma, con la diagnosi di occlusione intestinale provocata da un probabile volvolo. Tutti avrebbero mangiato del pesce che, a questo punto, forse era avariato. È questo il sospetto della Procura che ha già disposto accertamenti. È stata eseguita una campionatura che attraverso l’Asl è stata inviata al laboratorio di sanità pubblica di Brescia per le analisi tossicologiche. Sono stati eseguiti prelievi sia sulle scorte di pesce che sono rimaste nei frigoriferi sia nelle cucine in particolare sulle attrezzature che sono state utilizzate per preparare la cena di martedì. Le indagini epidemiologiche dovranno identificare le eventuali fonti inquinanti o rintracciare la presenza di tossine. Un attacco batterico che potrebbe essere stato letale per Christian Ubiali, già debilitato per problemi passati di tossicodipendenza. La Tac, a cui era stato subito sottoposto mercoledì a mezzogiorno al Poma, non aveva confermato la diagnosi dell’occlusione. Ubiali però continuava a lamentarsi dei dolori violentissimi che partivano dallo stomaco. Per questo era stato disposto il trasferimento nel reparto di chirurgia. In attesa di essere spostato era stato sistemato su una barella. Ad un certo punto era diventato tachicardico e un’infermiera lo aveva accompagnato fuori per permettergli di accendere una sigaretta. Al rientro, prima che i medici della chirurgia fossero riusciti a prenderlo in consegna per portarlo in reparto, aveva smesso di vivere, tre ore dopo il ricovero. Originario di Osio di Sotto, un paese del Bergamasco, Ubiali aveva una doppia diagnosi di tossicodipendenza e problemi psichici che aveva convinto i giudici che l’internamento in un ospedale psichiatrico giudiziario fosse la soluzione migliore per lui dopo aver escluso la possibilità di un percorso riabilitativo in famiglia. Teramo: detenuto prova a impiccarsi, salvato in extremis. Sinappe: situazione al collasso Ansa, 8 aprile 2013 B.M., 63 anni, calabrese, arrivato venerdì dal penitenziario di Saluzzo. L’uomo è stato salvato grazie ad altri detenuti che hanno dato l’allarme facendo accorrere sul posto la polizia penitenziaria. L’uomo per togliersi la vita si sarebbe stretto un cordone al collo legandolo all’inferriata della scalinata, quindi fuori la sua cella. Il detenuto non corre pericolo di vita e viene tenuto sotto stretta sorveglianza all’ospedale di Teramo. A comunicare la notizia è il segretario regionale Sinappe (Sindacato nazionale autonomo Polizia penitenziaria), Giampiero Cordoni. Il tragico episodio, che poteva avere conseguenze ben peggiori, è avvenuto nella tarda mattinata un detenuto ha cercato di impiccarsi ad una finestra. In suo soccorso sono arrivati, però, i secondini, che lo hanno bloccato e fatte desistere. “Questo ennesimo tentativo, per fortuna fallito, fotografa le difficoltà di un carcere oramai alla corda - dice Cordoni. Da anni denunciamo il deterioramento dell’intera struttura. Oramai riteniamo stantio continuare a denunciare le difficoltà del sovraffollamento, della carenza di Personale, delle diverse tipologie di detenuti e del continuo arrivo di detenuti con gravi problemi sanitari che il Personale presente deve gestire ricorrendo solo allo spirito di abnegazione. Dall’altra parte, continuiamo al totale disinteresse di chi è oramai obbligata ad intervenire. Il Dipartimento è lontano anni luce da questa periferia, il Provveditorato nasconde la testa sotto la sabbia, Direttore e Commissario hanno perso il contatto con la realtà”. “Gli unici che garantiscono ancora la possibilità di impedire l’irreparabile - conclude il segretario Sinappe per l’Abruzzo, è il Personale di Polizia Penitenziaria”. Radicali accusano Regione per mancata nomina Garante dei detenuti Il tentativo di suicidio sventato stamattina dalla polizia penitenziaria nel carcere teramano di Castrogno viene commentato duramente dai radicali abruzzesi che, tramite Alessio Di Carlo, hanno parlato di “un comportamento ormai inaccettabile da parte della Regione Abruzzo che da quasi due anni è inadempiente rispetto all’obbligo di nomina del garante dei detenuti”. “Il garante regionale - ha detto Di Carlo - assicurerebbe un monitoraggio continuo sullo stato degli istituti, la raccolta delle informazioni e delle istanze che provengono dalla comunità penitenziaria, oltre che pungolare le istituzioni ad adottare i provvedimenti opportuni”. Secondo l’esponente radicale la Regione è ormai “politicamente complice delle tragedie che ormai, periodicamente, si consumano nelle galere d’Abruzzo”. Teramo: Radicali; troppi detenuti morti a Castrogno, 13 vittime in 4 anni (di cui 8 suicidi) Il Centro, 8 aprile 2013 I Radicali tornano all’attacco per denunciare le condizioni di sovraffollamento del carcere teramano. Lo fanno a pochi giorni dalla morte di un detenuto pescarese ucciso da un malore e dopo la visita fatta recentemente nella casa penitenziaria di Castrogno con il consigliere regionale di Fli Berardo Rabbuffo. “Il carcere teramano conquista un triste record”, ha detto il radicale Vincenzo Di Nanna nel corso di una conferenza stampa alla quale erano presenti il radicale Ariberto Grifoni, il consigliere regionale Rabuffo e quello comunale del Pd Alberto Melarangelo, “ in quattro anni ci sono stati 13 detenuti morti, di cui otto per suicidi. Il carcere teramano vive sicuramente una situazione di sovraffollamento tra le più pesanti di tutta Italia”. A Castrogno, che dovrebbe ospitare 200 reclusi, attualmente sono presenti 390 detenuti: questo a fronte anche di un numero di agenti di polizia penitenziaria sotto organico. “Va precisato”, ha detto Rabbuffo, “che la polizia penitenziaria, nonostante l’esiguo numero di agenti, esprime grande professionalità. Ma è evidente che non può essere umano un carcere in cui ci sono duecento detenuti in più di quelli previsti. Nel corso della nostra visita abbiamo visto che in alcune celle ci sono anche tre brande. Parliamo di celle di nove metri quadrati. Nel corso della giornata nei bracci le celle restano aperte e questo consente ai detenuti di spostarsi in spazi più ampi, ma è evidente che non può essere questa la risposta per garantire umanità. Chi ha sbagliato deve scontare la pena che gli è stata inflitta dall’autorità giudiziaria, ma lo deve fare in condizioni umani”. Va detto che nel carcere teramano esiste un presidio medico aperto 24 ore sue 24 e questo fa sì che molti detenuti vengano trasferiti a Castrogno, soprattutto quelli con patologie psichiatriche. Un problema che porta al sovraffollamento e che più volte è stato denunciato dai sindacati. A questo proposito il consigliere comunale del Pd Melarangelo ha lanciato un appello al sindaco Brucchi “affinché sulla vicenda convochi il comitato ristretto dei sindaci della Asl”. L’esponente dei radicali Grifoni ha auspicato una riforma della giustizia “l’unica via contro il sovraffollamento delle carceri italiane”. Cosenza: ex detenuto senza casa e lavoro tenta di suicidarsi, chiede un alloggio popolare Agi, 8 aprile 2013 Ha tentato di gettarsi nel vuoto, restando appeso alla ringhiera di un balcone di un albergo per diversi minuti, S. C., cosentino, 39 anni. Operaio ed ex detenuto l’uomo è senza alloggio e sta usufruendo dell’ospitalità del Comune di Cosenza, che sta pagando a lui, alla compagna ed alla figlia di 13 anni, una stanza d’albergo. Oggi però scadeva il termine dell’ospitalità. S.C. chiede da tempo una casa popolare, che però non è disponibile, secondo quanto comunicato dal municipio bruzio. Che ha offerto di far ospitare la famiglia in un istituto di accoglienza, cosa che l’uomo avrebbe rifiutato. L’uomo ha già più volte minacciato, in forma plateale, di volersi suicidare. “Ci rendiamo conto della disperazione di questa famiglia, ma più di quello che abbiamo fatto finora non possiamo fare. Anzi, Cardellicchio è anche un privilegiato”. Lo ha detto Katya Gentile, vice sindaco del Comune di Cosenza, in riferimento alla vicenda dell’ennesima minaccia di suicidio inscenata da Salvatore Cardellicchio, che chiede da tempo un alloggio popolare. “Abbiamo provato ad offrirgli un alloggio in una casa famiglia, ma lui non vuole andarci. Abbiamo le mani legate: non ci sono case popolari disponibili. Stiamo accertando se ce ne siano occupate da chi non ne ha i titoli, ma si tratta di procedure lunghe”, ha detto la Gentile. Firenze: il Garante; detenuti di Sollicciano rimasti senza cibo e l’Asl ispezioni la cucina Redattore Sociale, 8 aprile 2013 La denuncia del Garante Corleone: “A volte i pasti sono insufficienti”. “La cucina necessita di una visita della Asl perché, tra gli altri problemi, ci sono le piattole” “A Sollicciano alcuni detenuti sono stati costretti a saltare il pasto per mancanza di cibo”. È la denuncia lanciata questa mattina da Franco Corleone, garante dei detenuti del comune di Firenze, secondo il quale il “problema cibo” è uno dei più gravi dell’intero istituto penitenziario fiorentino. Secondo Corleone “la cucina di Sollicciano va chiusa” ed è necessaria “una visita specifica della Asl” perché “c’è la presenza di piattole, manca l’acqua calda, ci sono sette pentole a vapore inefficienti, il pavimento manca di piastrelle, i bracieri per il sugo sono rotti, cinque piastre per la carne sono rotte, uno dei due forni è fuori uso, mancano i carrelli termici, mancano stivali da cucina antiscivolo per i lavoranti e i cuochi hanno scarpe bucate e rotte, mancano le pettorine per il lavaggio e l’abbigliamento da lavoro”. Sassari: iniziativa di solidarietà; l’associazione senegalese Yakaar aiuta detenuti stranieri Ansa, 8 aprile 2013 Hanno scelto di aiutare chi all’interno del carcere di San Sebastiano si trova più in difficoltà. I detenuti stranieri potranno contare nei prossimi giorni su un semplice e prezioso gesto di solidarietà da parte della comunità senegalese cittadina che ha deciso, per opera della sua associazione Yakaar, di acquistare biancheria per gli stranieri del carcere: calze, slip e magliette in cotone sono infatti indumenti particolarmente richiesti da chi non può contare, all’esterno del carcere, su una famiglia o su amici che possano provvedere alle loro primarie esigenze. L’iniziativa è stata presentata questa mattina a Palazzo Ducale dal sindaco di Sassari, Gianfranco Ganau, assieme al Garante dei detenuti, Cecilia Sechi, in rappresentanza del carcere l’educatrice Ilaria Troffa e il cappellano don Gaetano Galia, il presidente dell’associazione Yakaar Cheikh Diankha e l’Imam della comunità senegalese cittadina, Ibrahima Diop. L’idea nasce da una riflessione congiunta tra i rappresentanti dell’associazione dei senegalesi, in particolare il presidente Cheikh Dianka e la Garante dei detenuti Sechi, sui numeri e le esigenze manifestate dalla popolazione straniera dell’istituto penitenziario. I 35 detenuti stranieri, attualmente ospitati a San Sebastiano, rappresentano poco più di un quarto dell’intera popolazione penitenziaria che oggi oscilla fra i 145 e i 150, di cui 13 donne. Il gruppo straniero più numeroso, al momento, è quello spagnolo composto da 10 detenuti (otto uomini e due donne); quattro invece provengono dalla Nigeria, due dalla Romania e due dal Senegal. Gli altri detenuti (uno per ciascuna nazionalità) arrivano invece dalla Bulgaria, Bolivia, Germania, Repubblica Dominicana, Algeria, Francia, Gambia, Croazia, Marocco, Sudan, Tunisia, Ucraina e Jugoslavia. Le donne straniere sono invece otto, due della Bosnia Erzegovina, due della Spagna, una del Congo Belga, una della Romania e una del Senegal. A loro l’associazione Yakaar ha deciso di regalare tute da ginnastica. La biancheria e l’abbigliamento per le donne sono stati acquistati con i fondi a disposizione dell’associazione nata nel 1986 e che svolge attività a supporto della storica comunità di immigrati cittadina. Il materiale sarà consegnato, nei prossimi giorni, alla direzione del carcere che si occuperà della distribuzione ai detenuti stranieri. Prato: “Non dimentichiamole”, Sportello per i familiari dei detenuti, in particolare donne Adnkronos, 8 aprile 2013 “Uno sportello che cerca di dare risposte ai familiari dei detenuti, in particolare alle donne, per rispondere alle varie esigenze che si presentano di fronte alla detenzione di un congiunto”. Con queste parole l’assessore alle Pari opportunità Rita Pieri ha presentato questa mattina lo Sportello “Non dimentichiamole”, attivo da febbraio in via sperimentale, al Laboratorio del Tempo di via Roma, 101 e realizzato in collaborazione con l’assessore alle Politiche sociali Dante Mondanelli e l’assessore all’Integrazione Giorgio Silli. “Abbiamo accolto con favore la proposta arrivata dall’Associazione Studi umanistici Rogersiani, che si occupa del sociale sul territorio - afferma l’assessore Pieri - e riteniamo giusto e doveroso supportare, sia psicologicamente che integrando con i servizi disponibili, queste donne che si trovano ad affrontare e gestire situazioni particolari anche di quotidianità. Il Laboratorio del Tempo, struttura dinamica e flessibile, è il luogo ideale per ospitare questo sportello che ha già avuto consensi e attenzione da parte di altre realtà locali e nazionali collaborando con associazioni e interagendo con una rete di servizi con la volontà di integrare anche attraverso corsi e laboratori”. Lo sportello, realizzato a costo zero per le casse dell’Amministrazione comunale, è attivo il venerdì mattina dalle 10 alle 13 al Laboratorio del Tempo, in via Roma, 101. Cagliari: Sdr, in Cdt Buoncammino detenuto ad alto rischio vita Asca, 8 aprile 2013 “Un detenuto di 56 anni, originario di Codrongianus (Sassari), affetto da un grave disturbo respiratorio, è stato trasferito dalla Casa Circondariale di Nuoro, dove stava scontando la pena dell’ergastolo, a Cagliari e si trova attualmente ricoverato nel Centro Clinico di Buoncammino. L’uomo è affetto da emosiderosi polmonare, una patologia rara che comporta un’insufficienza respiratoria cronica degenerativa con necessità di una terapia costante e continua con ossigeno e con un alto rischio di ischemia cerebrale. Una condizione incompatibile con lo stato detentivo anche se la struttura cagliaritana è dotata di Centro Clinico. Manca infatti l’ossigenoterapia”. Lo sostiene Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme” avendo ricevuto alcune segnalazioni dai familiari preoccupati per le condizioni di salute del loro congiunto. A.G., in carcere dal 2009, ha visto progredire costantemente la patologia originata nel 1992 da un’intossicazione da vapori di zinco che ne aveva determinato un ricovero urgente per una crisi respiratoria acuta nell’ospedale di Sassari. A diagnosticare l’emosiderosi polmonare era stato nel 2005 il pneumologo Carlo Grassi della Clinica Pneumologica dell’Università di Pavia che aveva individuato la malattia indicando le diverse tappe di ineludibile aggravamento. Due successive perizie hanno evidenziato l’impossibilità per l’uomo di continuare a scontare la pena in carcere senza opportuni sussidi terapeutici. È stata quindi suggerita la detenzione domiciliare in modo che i familiari possano garantire oltre all’assistenza quotidiana costante anche una pronta emergenza in caso di crisi. “L’emottisi o perdita di sangue nell’albero bronchiale - ha scritto tra l’altro nella recente perizia medico-legale Roberto Atzeni - rappresenta l’evento anatomopatologico più importante e grave della patologia, per il quale deve essere garantita una efficace e pronta emergenza”. Il medico ritiene inoltre indispensabile l’ossigenoterapia costante nell’intera giornata con interruzioni solo per cibarsi e per le funzioni biologiche così come paventa la possibilità di ischemia cerebrale o miocardica che richiedono interventi tempestivi”. La successiva perizia del dott. Vindice Mingioni, Direttore del Dipartimento di Anatomia Patologica dell’Ospedale San Francesco di Nuoro, per il Tribunale del Riesame di Sassari aveva confermato l’indispensabile presenza dell’ossigenoterapia per la sopravvivenza del detenuto. “È evidente che la struttura del Cdt di Buoncammino - sottolinea la presidente di Sdr - non è in grado di assicurare né l’ossigenoterapia continua né una cella singola con dispositivi idonei e neppure un immediato trasferimento in ospedale nell’eventualità di una crisi per evidenti limiti strutturali. Non si può considerare un centro diagnostico come un ospedale o una clinica e non può neppure essere un luogo di cura per malati cronici. La pena detentiva, benché pesante come l’ergastolo, non comprende inoltre la cessazione del diritto alla salute che invece sempre più spesso, ingiustamente, viene negato ai cittadini privati della libertà”. Pescara: nel carcere di San Donato mancano 70 agenti di Polizia penitenziaria Il Centro, 8 aprile 2013 Ieri mattina, il deputato di Sel Gianni Melilla ha visitato il carcere San Donato accompagnato dal direttore. La casa circondariale di Pescara ha 4 sezioni (penale, giudiziario, pentiti, semiliberi) in cui si trovano 294 detenuti. Il sovraffollamento cronico è stato parzialmente alleviato dalla recente costruzione della nuova sezione penale. I detenuti definitivi sono 224, mentre quelli in attesa di giudizio sono 70. Il carcere pescarese ha una alta valenza trattamentale e sono molti i progetti innovativi portati avanti dalla direzione per il recupero dei detenuti, anche grazie alla grande passione professionale del direttore. Ma le risorse messe a disposizione per la formazione e il lavoro sono scarse e solo 70 detenuti (circa il 25%) sono impegnati in attività lavorative (calzature, cucina, lavanderia, digitalizzazione, raccolta differenziata, orto). Un altro problema serio è la non copertura dell’organico di polizia penitenziaria che prevede 197 addetti, ma ne mancano 30 e questo comporta doppi turni e straordinari, con conseguenti problemi organizzativi e di sovraccarico di lavoro. Un’ altra richiesta è la copertura sanitaria per 24 ore, mentre attualmente dalle 23 alla mattina successiva non c’è guardia medica, e i problemi spesso insorgono la notte. Sono varie le associazioni di volontariato che operano positivamente nel carcere per un sostegno psicologico e rieducativo ai detenuti. Molti detenuti hanno avuto a che fare con reati collegati allo spaccio, oltre che al consumo di droga, e questo naturalmente comporta problemi sanitari complessi. Il 30% circa dei detenuti sono extracomunitari con ulteriori conseguenti problemi di integrazione. Il carcere a San Donato è circondato da palazzi e case da ogni lato e questo apre una riflessione sulla sua necessaria futura delocalizzazione fuori della città, come avviene per tutti i nuovi progetti di edilizia penitenziaria. Melilla ha deciso di continuare questa iniziativa ispettiva in qualità di parlamentare, recandosi nelle prossime settimane in altre case circondariali della Regione per verificare la situazione della popolazione carceraria e del personale di polizia penitenziaria. Pisa: da Bernardini e Corleone solidarietà a Francesco Ceraudo, accusato da ex detenuta Il Tirreno, 8 aprile 2013 Del caso del professore Francesco Ceraudo si sono interessati Rita Bernardini, deputata radicale, e Franco Corleone, coordinatore nazionale dei garanti dei detenuti. “Mi sono occupata del caso di Natascia Berardinucci - si legge in una nota scritta da Rita Bernardini - quando tutte le porte erano a lei sbarrate. Berardinucci è stata la seconda donna in Italia condannata per stalking e la sua vicenda mi ha coinvolto per il drammatico percorso carcerario che ha dovuto subire per oltre quattro mesi. Brillante infermiera professionale, malata di Parkinson giovanile, Natascia si è ritrovata nel tritacarne della cieca giustizia italiana, senza che nessuno si accorgesse che il suo comportamento oppressivo nei confronti del suo ex fidanzato era dovuto molto probabilmente ad un farmaco che assumeva per contrastare la sua grave patologia. Ciò che mi rattrista oggi è che Natascia Berardinucci, finalmente ristabilitasi per quanto possibile in salute, conclusi i conti giudiziari, nel tritacarne della giustizia voglia gettare un medico, Francesco Ceraudo, che per quarant’anni si è dedicato con grande abnegazione alla sanità penitenziaria, adorato dai detenuti non solo per la sua indiscutibile professionalità ma anche per la sua grande umanità. Figuriamoci se proprio il dott. Ceraudo, abbia potuto voler danneggiare una persona così in difficoltà come Natascia: lo dimostrano le cartelle cliniche, gli atti processuali e, me lo si consenta, anche il particolare non trascurabile per il quale il pm non abbia voluto nemmeno ascoltare il medico del Don Bosco che, immediatamente, aveva chiesto di poter parlare”. Solidarietà anche da Franco Corleone: “Il professor Ceraudo è ora accusato da una ex detenuta di averla sottoposta a cure con violenza e ricatto. Sono stato al fianco del professor Ceraudo in molte vicende per garantire la vita dei detenuti. Non posso assolutamente credere a una tale ricostruzione dei fatti e da parte mia esprimo solidarietà stima e amicizia a una persona che si e battuta a lungo con coraggio per l’integrità di uomini e donne rinchiuse nelle prigioni d’Italia”. Voghera: botte in carcere fra detenuti, un 50enne finisce all’ospedale La Provincia Pavese, 8 aprile 2013 Botte da orbi fra detenuti all’interno della casa circondariale di via Prati Nuovi, e alla fine deve intervenire il 118. È accaduto l’altra mattina alle 11.30. Due uomini che sono detenuti in una delle aree del carcere destinate alla criminalità comune (e quindi una zona non ad elevato indice di sorveglianza) hanno iniziato a litigare per futili motivi. Poi dalle parole sono passati ai fatti e uno dei due è stato colpito con un pugno dall’altro. Il detenuto colpito, un uomo di 50 anni, a quanto sembra è caduto e ha battuto la testa. Altri ospiti della casa circondariale hanno separato i due contendenti e sono intervenuti anche gli agenti della polizia penitenziaria. Dopo una veloce sosta nell’infermeria del carcere, è stato quindi deciso di chiamare il 118. In via Prati Nuovi alle 11.50 è giunta un’ambulanza della Croce rossa di Voghera. I volontari hanno portato il 50enne all’ospedale cittadino, dove è stato visitato, medicato e sottoposto ad esami radiologici. Visto l’esito negativo della visita, l’uomo dimesso poche ore dopo e trasportato nuovamente alla casa circondariale, con prognosi di pochi giorni. Torino: “A Scatola Chiusa”, un progetto d’arte relazionale all’Ipm Ferrante Aporti Adnkronos, 8 aprile 2013 Venerdì prossimo, alle 18,30, nel bookshop della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, sarà presentato “A Scatola Chiusa”, progetto d’arte relazionale nato dalla collaborazione tra il Gruppo Radici e i giovani detenuti dell’Istituto Penale Minorile “Ferrante Aporti” di Torino. Un laboratorio artistico-sperimentale, voluto dalla Direzione del carcere minorile di Torino, con l’alto patrocinio del Ministero di Grazia e Giustizia, ideato e messo in atto dall’artista Claudio Pieroni, titolare della prima cattedra di Pittura all’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino, insieme ai suoi migliori studenti (oggi molti dei quali ex allievi) riuniti sotto il nome “Gruppo Radici” che interverranno alla presentazione con lo stesso Pieroni, con la Direttrice del Carcere Minorile “Ferrante Aporti”di Torino, e con Patrizia Sandretto Re Rebaudengo. Per un confronto internazionale e per condividere i risultati del lavoro svolto nel Carcere Ferrante Aporti, sono stati invitati anche quattro studenti della Accademia di Belle Arti di Monaco di Baviera, che portano a Torino tre video progettati nell’ambito del Corso di Arte Terapia della professoressa Senta Connert e sono presentati dalla curatrice Emily Barsi. I quattro giovani artisti tedeschi sono Korbinian Jaud (autore del video “I Picture”, 2007), Clea Stracke & Verena Seibt (col video “The end”, 2012) e Marcus Bartos, che proporrà un video girato per l’occasione. Tutto il progetto nasce da un’esperienza durata vari mesi, tra il 2011 e del 2012, che ha visto Pieroni e il Gruppo Radici lavorare fianco a fianco con i giovani detenuti del Ferrante Aporti, dando vita a due seminari. L’intento non era né terapeutico né di trattamento, ma nasceva solo dalla volontà di creare un progetto d’arte relazionale che prendeva il via da un momento conviviale, quotidiano, come il pranzare insieme: artisti e detenuti. Subito dopo seguivano vari momenti di creatività artistica-performativa incentrata sulla rivisitazione del mito di Ulisse. L’intera attività è stata documentata da videoregistrazioni che, dopo un accurato montaggio, si sono trasformate in una veri e propri video d’artista, presentati ora, in anteprima, alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo. Sulla parete antistante il bookshop verrà inoltre esposta una gigantesca tela su cui sono state applicate, un’accanto all’altra, le tovaglie di carta utilizzate durante il pranzo condiviso. La tela diventa così installazione ambientale ed emblema del momento clou del laboratorio, poiché racchiude, nelle macchie e nelle tracce del cibo, il ricordo e la memoria di quella proficua relazione tra i giovani artisti e i giovani detenuti. Il Gruppo Radici è un collettivo di una decina di giovani artisti coalizzatosi nell’ambito della Scuola del Professor Claudio Pieroni, titolare della prima Cattedra di Pittura all’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino. Il Gruppo lavora insieme ormai da ormai tre anni su progetti pensati come interventi unitari, anche se parallelamente ciascun componente porta avanti la propria ricerca personale, indispensabile all’arricchimento dei contenuti del gruppo stesso. Cooperando per un’idea di arte che vuole essere speculazione costante e riflessione poetica, ma al tempo stesso anche azione, il Gruppo Radici ha accettato con entusiasmo la proposta di lavorare nel carcere minorile. Una collaborazione ufficializzata con la firma di un Protocollo d’Intesa nel luglio del 2011 tra il Ferrante Aporti di Torino e l’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino. Ciò che il Gruppo Radici vuole portare al Ferrante Aporti, non è un momento di svago o un tentativo di Arte Terapia per trattare i detenuti, ma è davvero un modo nuovo di intendere la didattica artistica come possibilità espressiva e creativa di crescita personale e culturale, offerta a dei ragazzi ancora molto giovani, per la gran parte minorenni, che vivono l’adolescenza in una situazione esistenzialmente assai difficile. Pescara: Premio di poesia “Alda Merini”, domani la premiazione della detenuta vincitrice Il Centro, 8 aprile 2013 Si chiama Stefania Morosini, detenuta nel carcere di Teramo, la vincitrice della prima edizione del premio di poesia Alda Merini, organizzato dall’associazione Donna Cultura Spoltore della presidente Veruska Caprarese. Con la poesia “Le Trincee degli stupidi”, che ha ricevuto 23 voti, Stefania Morosini si è aggiudicata il premio della giuria popolare nella sezione B riservata ai detenuti. La giuria tecnica ha invece premiato la poesia “Corro” di Cristian Di Marzio, detenuto a Chieti, con 42 voti; al secondo posto la poesia “Zenit” di Domenico De Clerico Di Pillo con 41 voti e al terzo posto “Il battesimo della libertà” di Elisabetta Sozio, detenuta a Chieti, con 40 voti. Per la sezione C dedicata alle scuole, vince la poesia “Attraverso il velo” di Gaia Grilli con con 39 voti, al secondo posto “Arabeschi” di Giada Romandini con 36 voti e al terzo posto “Provocazione” di Camilla Loretucci con 33 voti, tutte appartenenti alla scuola media Mazzini Pescara 3. Per la sezione A dedicata alla poesia edita e inedita, la poesia vincitrice è “Ricominciare” di Marta Ardesi di San Mauro Torinese (Torino) con 40 voti; al secondo posto “Di sale è l’amore” di Agata Corsino di Trapani con 39,5 voti; al terzo posto “Un pensiero distratto di Anna Pistuddi di Sestu (Cagliari) con 39 voti. Le menzioni di merito, assegnate da ogni giurato a una delle poesie preferite vanno a - per la sezione A - Mario Di Nicola di Pescara per la poesia “Gennaio 1976”; Edmea Marzoli di Pescara con “Siedimi accanto”, Pamela D’Amico di Chieti con “Ci sono poeti”, Mariella Di Camillo di Roma con “Lunedì 15 ottobre”, Emanuele Paggi Piacentini di Vercelli con “La mia vita” e Ilaria Parlanti di Pistoia con “Scritte”. Per la sezione B menzione di merito a Stefania Morosini del carcere di Teramo; a Silvia La Molinara del carcere di Teramo per la poesia “Memorie”; Luigi Palummo detenuto a Chieti con la poesia “Il viaggio”; Daniela Iuliana da Chieti con “L’amore”; Mihaela Iulian Crusoveanu da Chieti con “Amore mio”; Emanuela Ecca dal carcere di Teramo con “Pensieri verso la libertà”. Domani la premiazione dalle ore 16 alla sala Flaiano dell’Aurum di Pescara. Mondo: non solo marò… chi si preoccupa dei 3.100 italiani detenuti all’estero? di Sonia Oranges Il Secolo XIX, 8 aprile 2013 Se il caso dei due marò Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, in India in attesa di giudizio per la morte di due pescatori, è diventato una questione di Stato che ha messo in discussione le relazioni internazionali italiane, è anche la punta di un iceberg di cui si parla poco. Nelle prigioni straniere, infatti, sono detenuti 3.103 italiani, secondo i dati del 2012 forniti dalla Farnesina: 2.394 in attesa di giudizio, 647 sono già stati condannati, 32 in attesa di estradizione. I174,9% di loro (2.323 persone, secondo gli ultimi dati raccolti dalla Farnesina e riferiti al 2012) si trova in istituti di pena dei Paesi dell’Unione europea, soprattutto nelle nazioni dove maggiore è la presenza di comunità italiane, a cominciare dai 1.115 connazionali dietro le sbarre in Germania. Ma anche in Spagna e Belgio le percentuali di detenuti italiani sono alte. Un altro 15,9%, pari a 494 detenuti, si trova Oltreoceano. Ma se negli Stati Uniti, principale meta turistica e Paese che ospita il maggior numero di italiani, i connazionali in carcere sono 69, la cifra lievita a 76 in Perù, 81 in Venezuela, fino al picco di 83 persone in Brasile. Persino in Honduras c’è un italiano dietro le sbarre. Quelli che mancano all’appello sono equamente distribuiti nel resto del mondo: 129 (4,2%) nei Paesi europei non comunitari, 76 (2,4%) in Asia e Oceania con un picco di 24 detenuti in Australia, 64 (2,1%) nei Paesi del Mediterraneo e mediorientali, 17 (0.5%) nell’Africa sub sahariana, dove diversi italiani sono in cella in Congo e Tanzania. Sono in carcere principalmente per reati connessi all’uso o al traffico di sostanze stupefacenti. Le loro storie non sono facilmente reperibili, ma quelle di chi ha vissuto l’esperienza della detenzione all’estero, soprattutto in Paesi extracomunitari, raccontano che alle volte non si tratta di pericolosi trafficanti. Basti pensare alla vicenda di Lorenzo Bassano, fermato nel 2007 all’aeroporto Dubai, dove si era recato per lavoro: nella tasca di un pantalone, in valigia, c’erano 0,8 grammi di hashish, che gli hanno fatto rischiare una detenzione da quattro anni all’ergastolo. Per fortuna è stato graziato. Oppure la storia di Daniele Tanzi, colpevole ma detenuto in condizioni ben peggiori di quelle delle carceri italiane (che pure non scherzano), ricordata sul suo blog da Katia Anedda, tra le fondatrici di “Prigionieri del silenzio”, organizzazione che si occupa proprio dei detenuti all’estero: “Daniele Tanzi, arrestato anche in Brasile per traffico di stupefacenti, aveva nascosto della droga in un finto gesso alla gamba. Un giornale nazionale ha raccontato di 15 italiani, tra cui appunto Daniele, erano segregati in un carcere con celle sottoterra. All’epoca la cosa fece scalpore, ma ora tutti hanno dimenticato quell’inferno e nessuno si è accertato che i nostri italiani siano stati riportati in una situazione civile”. O ancora, proprio in India, si ricorda il caso di Angelo Falcone, in favore del quale si mobilitò l’associazione radicale Nessuno Tocchi Caino. “Falcone nel 2009 è stato incastrato, insieme con un suo amico, dalla polizia che gli aveva sistemato 18 chili di hashish in camera, e che gli aveva fatto firmare una confessione scritta in indu, senza l’ausilio di un avvocato né di un traduttore” racconta Elisabetta Zamparutti che, da parlamentare, accompagnò il padre di Angelo a trovare il figlio condannato in primo grado a dieci anni, visto che in carcere gli negavano anche le telefonate: “Abbiamo presentato una serie di interrogazioni parlamentari sulla vicenda che si è conclusa in secondo grado con un’assoluzione. La famiglia ha assunto il miglior avvocato indiano. E per pagarlo ha dovuto vendere praticamente tutto quello che possedeva”. In India ci sono in totale sette italiani condannati, mentre altri dieci prigionieri attendono di essere giudicati come i marò dell’Enrica Lexie. Tra loro ci sono anche Tommaso Bruno, di Albenga, e la torinese Elisabetta Boncompagni: sono stati entrambi condannati in primo grado all’ergastolo per aver ucciso il fidanzato di lei, Francesco Montis. Strangolato, per le autorità indiane, forse vittima dell’asma secondo la tesi sostenuta dalla difesa. Il mese scorso, i genitori di Bruno e Boncompagni sono tornati per l’ennesima volta in India, nella speranza che il braccio di ferro italiano per la vicenda dei marò, “non si ripercuota sui nostri ragazzi”. Per loro, come per gli altri, la Farnesina fa quel che può, attraverso la rete dei consolati e delle ambasciate che, lo scorso anno, “ha consentito di assistere 3.200 casi di questo genere, attraverso una serie di visite al detenuto, il reperimento di legali in loco, la cura dei contatti con i familiari, nonché l’assistenza medica e la fornitura di diversi generi di conforto al detenuto”.