Giustizia: se sei malato in galera, crepa di Arianna Giunti L’Espresso, 3 aprile 2013 Ci sono detenuti con il cancro, la leucemia, il diabete, l’Alzheimer, l’epilessia. Per non dire dei disabili. E nelle carceri italiane sono quasi sempre abbandonati come bestie. Una vergogna a cui bisogna mettere fine. Antonio respira a fatica, si trascina zoppicando appoggiandosi al muro. I suoi passi lenti dalla cella all’infermeria sono un calvario quotidiano che percorre quasi nell’oscurità. Il diabete gli ha portato via la vista e il piede sinistro è ormai consumato dalla cancrena. Michele, invece, quando è entrato a Rebibbia pesava più di novanta chili. Oggi, divorato dall’anoressia, non arriva a trentotto. Nei penitenziari italiani Antonio e Michele non sono eccezioni. L’elenco di reclusi con patologie gravi è sterminato: ci sono persone colpite dall’Alzheimer e dal cancro, leucemici ed epilettici come ha raccontato “l’Espresso” un mese fa. Dati ufficiali non esistono ma secondo le stime di alcune associazioni - tra cui Antigone e Ristretti Orizzonti - il 47 per cento dei detenuti ha bisogno di assistenza per seri problemi medici o psicologici: quasi 31 mila persone tra le 66 mila e 685 rinchiuse negli istituti di pena. Adesso il caso di Angelo Rizzoli ha permesso di aprire uno squarcio su questi drammi: i legali hanno denunciato la situazione dell’editore settantenne arrestato per bancarotta, provocando interrogazioni parlamentari e l’intervento del Guardasigilli. Rizzoli soffre di sclerosi multipla ma nella sezione detenuti dell’ospedale Pertini di Roma non c’è la possibilità di fisioterapia e quindi il morbo stava avanzando. Il Tribunale del Riesame gli aveva negato la possibilità di andare ai domiciliari ma adesso il gip lo ha autorizzato: potrà curarsi in un centro adeguato. Più a Nord, nel carcere di Busto Arsizio esiste un reparto di fisioterapia completamente attrezzato: non è stato mai aperto. Uno spreco e un paradosso rispetto al panorama disastroso delle prigioni italiane: ci sono istituti clinici solo in tredici penitenziari su 207. La Corte europea dei diritti dell’uomo è stata perentoria: “Le disfunzioni strutturali del sistema penitenziario non dispensano lo Stato dai suoi obblighi verso i detenuti malati”. Chi non assicura terapie adeguate viola la Convenzione europea e all’Italia sono già state inflitte diverse condanne. L’ultima lo scorso gennaio: un detenuto di Foggia, parzialmente paralizzato e costretto a scontare la pena in una cella di pochi metri quadrati, verrà risarcito per il danno morale. Una sentenza poco più che simbolica: lo Stato dovrà pagargli 10 mila euro. Spesso però il danno più grave viene dalla burocrazia, che impedisce di fatto le cure specifiche. L’acquisto dei farmaci deve essere autorizzato dal direttore, mentre i ricoveri e persino le visite urgenti passano attraverso procedure lente e complesse, con effetti disumani. Certo, bisogna impedire le fughe e i contatti con l’esterno: il trasferimento in centri clinici è uno strumento utilizzato soprattutto dagli uomini di mafia per evadere o mantenere i rapporti con i clan. Ma, a causa della carenza di mezzi e organici, troppe volte diventa impossibile organizzare il trasporto in ospedale, che prevede la sorveglianza costante da parte degli agenti. Così soltanto a Roma nelle ultime settimane quattro persone sono morte nei penitenziari. Anche i disabili faticano a ricevere assistenza adeguata. Nelle carceri italiane sono quasi mille. Come Cataldo C., 65 anni, detenuto a Parma per reati di droga. Nel 1981 è stato colpito da un proiettile e il trauma midollare lo ha costretto sulla sedia a rotelle. Da allora deve sottoporsi a una particolare terapia riabilitativa, la idrokinesiterapia, con iniezioni al midollo spinale, per alleviare il dolore e permettergli un parziale recupero. I medici hanno più volte dichiarato la sua totale incompatibilità con il carcere, che fra l’altro non ha ambienti idonei per chi si muove sulla sedia a rotelle. Le istanze presentate dal difensore Francesco Savastano sono state bocciate e oggi l’uomo non può più neppure sottoporsi alle iniezioni: Cataldo C. ha perso anche quel poco di mobilità che era riuscito a recuperare grazie alle cure. Dietro le sbarre moltissimi detenuti si ammalano di anoressia. Arrivano a perdere più della metà del peso e si riducono a larve umane, esposte a traumi e infezioni. Alessio M., 48 anni, dal 2011 è recluso ad Avellino, in attesa di giudizio per usura. A raccontare la sua storia attraverso l’associazione “Detenuto Ignoto” è la moglie Lucia: “Soffre di una forma di idrocefalo che gli provoca mal di testa lancinanti, parzialmente curati con un drenaggio alla testa di cui è tuttora portatore”. Giustizia: la strage continua, già 49 i detenuti morti dall’inizio dell’anno di Valter Vecellio Notizie Radicali, 3 aprile 2013 L’Osservatorio sulle carceri, preziosa fonte per conoscere quello che si agita nelle carceri (pubblichiamo oggi la nota diffusa su questi casi), informa che due giovani detenuti sono stati ritrovati morti nelle celle del carcere dove si trovavano ristretti, quello di Velletri vicino Roma, e quello di Teramo. Il fratello di Vincenzo, il detenuto morto a Teramo, ha mandato un messaggio a Marco Pannella: “…Volevo dirle che è venuto a mancare nel carcere di Teramo mio fratello. L’INPS e il medico legale hanno dichiarato, tramite certificati medici, che aveva gravi problemi di salute ed era in pericolo di vita, non era idoneo a restare in quella struttura, nonostante ciò il giudice ha sempre rigettato la richiesta di scarcerazione per portarlo in una clinica e curarlo. Chiedo che sia fatta giustizia”. Con la morte di Vincenzo salgono a 13 i decessi registrati nel carcere di Teramo negli ultimi quattro anni: otto per suicidio, uno per malattia, quattro per cause “da accertare”. E già solo questo sarebbe sufficiente per attivare il ministero della Giustizia, il Dipartimento per l’Amministrazione Penitenziaria: non per visite “ispettive” come quelle in cui si produce e ci ha abituato il ministro dell’(in)giustizia signora Paola Severino, con la sua coda di dichiarazioni surreali. Si parla di inchiesta seria, per comprendere e accertare come possa accadere che si possa morire e ignorare la causa della morte (“ragioni da accertare”). E soprattutto come e perché tante morti a Teramo. In quel carcere sono rinchiusi 430 detenuti; dovrebbero essere 270. Vi si registra lo stesso numero di decessi (13 negli ultimi 4 anni) che si è verificato soltanto nel carcere romano di Rebibbia, con la differenza che a Rebibbia sono carcerate oltre 2.000 persone. Ricordiamoli almeno noi i morti di Teramo: si chiamavano Gaetano, Cole, Uzoma, Gianluca, Enzo, Cosimo, Gianfranco, Mauro, Tareke, Valentino, Luigi, Tommaso; e appunto Vincenzo. Dell’altro detenuto, quello morto a Velletri, si sa poco. Era un extra-comunitario, si chiamava Mohamed, aveva 27 anni. Dicono il decesso sia stato provocato all’inalazione di gas dalla bomboletta in dotazione ai detenuti: lo abbia fatto perché stanco di quella vita e ha deciso di farla finita, oppure come molti detenuti fanno, per “stordirsi” e così “evadere” per qualche ora, sta di fatto che Mohamed è morto.. Negli ultimi 4 anni nel carcere di Velletri sono morti sei detenuti: Giuliano, Riccardo, Stefano, Gianluca, Danilo, Mohammed. Dall’inizio dell’anno sono 49 i detenuti morti (e ben 14 per suicidio); 38 anni la loro età media. È una strage. Quotidiana, clandestina, perché non se ne parla. Dopo i fremiti di indignazione e le promesse di rito in seguito alle iniziative di Marco Pannella e dei radicali, rapido cala il sipario. Non c’è dubbio che lo stato sia colpevole, anche quando il detenuto muore per “cause naturali” (che di “naturale” in carcere non c’è nulla), o peggio da “accertare”; e anche nei casi in cui il detenuto si dà volontariamente la morte: perché quando lo Stato priva un individuo della propria libertà, si fa garante della sua incolumità fisica e psichica. Stato criminale e criminogeno. E impunito, ancora. Giustizia: tre detenuti per un solo posto, in cella mai così tanti di Pino Ciociola Avvenire, 3 aprile 2013 Un atto d’accusa durissimo. Le carceri italiane “sono più affollate oggi che prima dell’indulto del 2006” e “lo sono più che le carceri delle altre democrazie europee”, in alcuni istituti italiani “si superano i 3 detenuti per posto” e “l’80% degli istituti ha più detenuti che posti regolamentari”, il sovraffollamento carcerario “non dipende dall’aumento dei detenuti: Paesi con livelli di crescita della detenzione più alti del nostro controllano meglio di noi il sovraffollamento carcerario”. Come racconta una ricerca, comparata a livello europeo, sulla popolazione penitenziaria e sulle condizioni detentive della Fondazione Istituto Carlo Cattaneo. Le carceri italiane ospitano mediamente “140 detenuti ogni 100 posti disponibili in base alla capienza regolamentare” (dati primo bimestre 2013) - si legge, ma “in alcuni istituti si supera anche quota 300” e quindi per ogni posto si contano 3 detenuti. Anche grandi penitenziari “come San Vittore a Milano o la Dozza a Bologna superano quota 200”. Così, nel complesso - annota la ricerca -”su 209 istituti presi in esame, 23 registrano oltre 200 detenuti per 100 posti e ben 167, l’80%, ha più detenuti che posti a disposizione”. E solo il 20% delle carceri italiane ha posti a disposizione sufficienti rispetto ai detenuti ospitati. Sul fronte comparativo, secondo l’Istituto Cattaneo “non solo l’Italia ha livelli di sovraffollamento carcerario ben superiori a quelli delle altre democrazie europee, ma anche gli attuali livelli del nostro Paese sono l’esito di una tendenza decennale alla crescita del tutto anomala rispetto al resto d’Europa”. Ed a sorprendere è soprattutto l’osservazione di quanto accade a partire dal 2006: “Il Parlamento votò un provvedimento di indulto che ebbe come effetto immediato la riduzione drastica del sovraffollamento”. E per quell’unico anno l’Italia “passò dalla prima all’ultima posizione per livello di sovraffollamento carcerario tra i Paesi presi in considerazione”, cioè Francia, Spagna, Germania e Gran Bretagna. Quanto avvenuto negli anni successivi “mostra chiaramente” gli effetti di quella decisione: “Già nel 2008 gli effetti dell’indulto furono riassorbiti e, a partire dal 2009, la crescita del sovraffollamento riprese la sua corsa riportando l’Italia in testa alla graduatoria e allargando la forbice tra il nostro e gli altri quattro Paesi”. C’è infine una relazione tra sovraffollamento e crescita della popolazione penitenziaria? Stando alla ricerca non ci sono prove dell’esistenza di questa relazione. Paesi come Regno Unito e Spagna in cui il tasso di detenzione (numero di detenuti rapportato alla popolazione) è aumentato, non hanno registrato alcuna crescita del sovraffollamento carcerario. In Spagna, ad esempio, i tassi di detenzione sono cresciuti sensibilmente all’inizio del secolo, ma il sovraffollamento, dopo un periodo di crescita, adesso inferiore a quello del 2000. Nel Regno Unito è addirittura diminuito. E se Francia, Spagna e Regno Unito hanno tassi di detenzione superiori a quelli italiani, in nessuno di questi Paesi il numero di detenuti supera il numero di posti disponibili nelle carceri. Codice di procedura penale da riscrivere, di Luca Liverani (Avvenire) Depenalizzazione dei reati, percorsi alternativi, rieducazione e lavoro per abbattere i tassi altissimi di recidiva, comunità terapeutiche per i tossicodipendenti, accordi diplomatici per il rimpatrio dei condannati stranieri. Può stupire solo chi del carcere ha una visione molto parziale che le soluzioni al sovraffollamento siano le stesse, sia per i cappellani e il volontariato che per gli agenti penitenziari. “È un’equivalenza sciocca pensare che a ogni reato debba corrispondere una risposta carceraria”, dice Luisa Prodi, la presidente del Seac, il Coordinamento enti e associazioni di volontariato penitenziario. “In carcere finisce di sicuro il topo d’appartamento e il piccolo spacciatore. Chi fa grandi abusi edilizi o speculazioni finanziarie spesso resta impunito. Perché oggi in Italia il carcere è il ricettacolo di reati semplici fatti da persone “complicate”: immigrati, rom, tossicodipendenti. È una discarica sociale per persone difficili da gestire”. Il nodo allora “è quello delle pene alternative: l’impianto legislativo offrirebbe moltissime potenzialità”. Il solito buonismo del volontari? “L’80% di chi si fa tutta la condanna “ dentro” - esemplifica la presidente del volontariato - quando esce delinque di nuovo. Chi invece usufruisce di pene alternative o regime non carcerario ci ricasca solo nel 14% dei casi”. Insomma: “Costruire tante carceri per farci marcire la gente non solo è ingiusto - e da cristiana dico anche immorale - ma nemmeno conveniente economicamente”. Due i piani su cui intervenire, secondo l’ispettore generale dei cappellani nelle carceri, don Virgilio Balducchi: “Va riscritto il codice penale: il carcere deve essere l’extre-ma ratio”. Delinquenti a spasso? “Niente affatto. Bisogna trovare forme di responsabilizzazione, di riparazione del danno causato, a livello personale e pubblico. Perché rimanere in cella non ripara il male fatto. E la recidiva crollerebbe. Il ministro Severino ci aveva provato con la messa alla prova...”. E l’altro pianto di intervento? “Facilitare tutto quello che già oggi è permesso dalla normativa: lavoro esterno, sospensione della pena, affidamenti in prova”. Senza dimenticare la prevenzione: “Il 70% di chi delinque viene dall’esclusione sociale e dalla povertà”. Concorda il segretario aggiunto del Sappe, Giovanni Battista De Blasis: “Sono anni che lo ripetiamo: serve un intervento strutturale”, dice il sindacalista degli agenti di polizia penitenziaria. “Già papa Wojtyla- ricorda -per il Giubileo chiese un gesto di clemenza. Ma va riscritto il codice di procedura penale: decarcerizzazione, espulsioni degli stranieri condannati, malati e tossicomani fuori dal carcere. Gli indulti hanno solo un effetto placebo”. E il piano carceri? “L’allora guardasigilli Alfano promise 11 nuovi penitenziari e 40 padiglioni. In quattro anni non è stato posato un mattone. In Germania i detenuti affrontano un percorso formativo, escono persone diverse, con un lavoro. E la recidiva così crolla. Da noi in 11 anni si sono spesi centinaia di milioni per una trentina di braccialetti elettronici”. Giustizia: On. Ferranti; dal Pd pacchetto di proposte su anticorruzione e carceri Asca, 3 aprile 2013 “Si tratta di un primo pacchetto di proposte per garantire la ragionevole durata dei processi, migliorare l’efficienza del sistema giustizia e correggere alcune storture che hanno causato il sovraffollamento delle carceri e depotenziato la lotta alla criminalità economica e alla corruzione”. Cosi la democratica Donatella Ferranti annuncia la presentazione di dieci proposte di legge “per reintrodurre il reato di falso in bilancio, introdurre il reato di auto riciclaggio, rafforzare la normativa sul voto di scambio e le recenti norme anticorruzione anche mediante l’attuazione delle decisioni quadro del consiglio d’Europa in materia di reciproco riconoscimento tra gli stati membri dei provvedimenti di confisca e delle sanzioni pecuniarie”. Aggiunge il deputato del Pd: “Queste proposte mirano anche a superare l’emergenza umanitaria che si vive nei nostri istituti carcerari ed assicurare la finalità rieducativa delle pene attraverso: l’introduzione di nuovi istituti, quali la messa alla prova e nuove pene detentive non carcerarie; l’eliminazione di tutti gli automatismi in materia di custodia cautelare e di esecuzione della condanna definitiva; la semplificazione e la deflazione del processo penale; e l’abrogazione della ex Cirielli”. Giustizia: Sel; conferenza stampa su reato tortura, immigrazione clandestina ed ex-Cirielli Agenparl, 3 aprile 2013 Dotare l’Italia di una cultura del diritto avanzata e moderna grazie ad una politica sistematica, coerente e trasparente sulla giustizia. È l’impegno che Sinistra Ecologia Libertà assume in questi primi della nuova legislatura del Parlamento italiano. Il nostro Paese ad esempio - e ce lo hanno ricordato le polemiche e le proteste dopo il “sit-in vergogna” sotto l’ufficio della mamma di Federico Aldrovandi - attende dal lontano 1987, anno in cui l’Italia firmò la Convenzione internazionale, che la tortura diventi reato nella nostra legislazione. Da alcuni anni la crudele legge sul reato di immigrazione clandestina, non sta stroncando affatto il commercio clandestino di braccia, riempie drammaticamente le carceri italiane, è un vero e proprio mostro giuridico. La legge ex Cirielli, ha introdotto effetti paradossali nell’ordinamento giudiziari o italiano, producendo insopportabili favori per i potenti. Per questo Domani giovedì 4 aprile 2013, presso la Sala Stampa della Camera dei Deputati a Montecitorio si svolgerà alle ore 12, una conferenza stampa di presentazione delle prime proposte di legge di Sel sui temi della giustizia, sull’introduzione del reato di tortura, dell’abolizione del reato di immigrazione clandestina, e dell’abolizione della ex Cirielli su recidiva e prescrizioni. Partecipano tra gli altri il capogruppo dei deputati di Sel on. Gennaro Migliore e l’on. Daniele Farina. Lo rende noto l’ufficio stampa nazionale di Sel. Giustizia: il pm di Milano; l’imputato ha violentato 22 donne… condannatelo a 122 anni! di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 3 aprile 2013 Alla fine della requisitoria nell’udienza preliminare, la richiesta di pena per lo stupratore seriale in bicicletta risuona come quasi mai in tribunale: “122 anni” di carcere, conseguenza dell’infrequente no al riconoscimento della “continuazione” tra reati per 22 violenze carnali di strada e altrettante rapine. Centoventidue anni che naturalmente in concreto non potranno essere più di 30 anni, visto che il codice livella a un tetto massimo di 30 anni qualunque altra pena teorica. E 30 anni che tra pochi giorni, al momento della sentenza, nel peggiore dei casi per l’imputato scenderanno comunque a 20 anni perché egli, avendo scelto di farsi giudicare con il rito abbreviato, avrà per legge automaticamente diritto allo sconto di un terzo. Ma intanto a destare attenzione è il segnale che la Procura, con i pm Cristiana Roveda e Gianluca Prisco, prova a dare nel processo a Sameh el Melegy, 2genne egiziano arrestato l’anno scorso e ora imputato di violenze sessuali a 22 donne aggredite per strada nei posti più disparati (San Babila, piazza Duomo, le vicinanze del tribunale, Porta Genova, Ticinese, via Imperia, viale Romolo, via Nervesa, via Boncompagni, la metropolitana a San Donato) e nelle condizioni più disparate - giovani che facevano footing sotto casa di sera, studentesse col fidanzato fuori da un locale, ragazze incaute nel bere troppo o cercare droga di notte -, ma sempre con un denominatore comune: l’arrivo dell’uomo in sella a una bicicletta nera con un parafanghi simile a un alettone. Dopo che i carabinieri e il pool abusi sessuali del procuratore aggiunto Piero Forno erano riusciti con una indagine non semplice non soltanto a individuare il violentatore, ma anche a raccogliere elementi d’accusa così concreti da impedirgli di poter negare i fatti, il problema che si pone ai pm nel processo è il trattamento giuridico da proporre alla giudice Antonella Bertoja sull’entità della pena per l’imputato che ammette i rapporti sessuali ma prova a sostenere che fossero tutti consensuali con le sconosciute per strada. Nella maggior parte dei casi, infatti, è invalsa una prassi che suole estendere l’istituto della continuazione fra reati, in base al quale chi con più azioni commette più reati, ma lo fa nel quadro di un medesimo disegno criminoso, viene punito non con il cumulo matematico delle singole pene che totalizzerebbe per i singoli reati, ma con la pena stabilita per il reato più grave, aumentata solo di frazioni singole che però non possono superare il triplo della pena massima. Nel caso dello stupratore in bicicletta e delle 22 aggressioni disseminate nel corso di un anno, i pm - anche sulla scorta di un’analoga richiesta accolta di recente dalla giudice Annamaria Gatto che non aveva dato la continuazione a un imputato di due stupri - chiedono di escludere che le varie violenze e le annesse rapine di portafogli e cellulari possano essere inquadrate in un “unico disegno criminoso”, e perciò propongono alla giudice di negare la “continuazione” tra i reati e farne invece il cumulo aritmetico, secondo un elenco che tira le somme appunto a quota 122 anni di carcere teorico. Il giorno della sentenza, la giudice dovrà anche decidere sia sui risarcimenti di mezzo milione di euro a testa chiesti dall’avvocato Patrizio Nicolò per sei delle vittime costituitesi con lui parte civile, sia sull’eventuale risarcimento al Comune di Milano, per il quale sinora la giudice ha ammesso la costituzione di parte civile per danni all’immagine: “l’elevato numero di aggressioni a scopo sessuale” e soprattutto il fatto che siano avvenute tutte “per strada” rendono per il giudice “evidente” come conseguenza potenziale “il discredito alla sfera funzionale del Comune” e “il grave detrimento all’immagine pubblica” della città. Giustizia: Sappe; alta tensione in sovraffollati penitenziari italiani, domani manifestazione Comunicato stampa, 3 aprile 2013 Il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, il più numeroso e rappresentativo dei Baschi Azzurri che lavorano nelle oltre 200 carceri del Paese, scenderanno domani in piazza a Roma, davanti alla sede del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria in largo Daga, per manifestare il disagio della categoria. “È la sesta manifestazione del Sappe negli ultimi dodici mesi per denunciare le gravi condizioni nelle quali sono costretti a lavorare le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria. Al di là delle dichiarazioni e degli impegni a parole, la situazione penitenziaria resta critica, con 66mila detenuti presenti, dei quali 25mila in attesa di un giudizio definitivo e 24mila stranieri. E il Personale di Polizia penitenziaria paga in prima persona da un lato le tensioni che il sovraffollamento delle celle determina (aggressioni, tentati suicidi, ferimenti, atti di autolesionismo, incendi, evasioni) e dall’altro le discutibili scelte gestionali dei vertici del Dap, che hanno persino ridotto i fondi di spesa per riparare gli automezzi del Corpo, per acquistare il vestiario degli agenti e per garantire adeguate condizioni di vivibilità durante i servizi di missione fuori sede”. Lo dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. “Il progetto dei circuiti penitenziari recentemente prodotto dall’Amministrazione penitenziaria è in realtà un bluff. Il superamento del concetto dello spazio di perimetrazione della cella e la maggiore apertura per i detenuti deve associarsi alla necessità che questi svolgano attività lavorativa e che il Personale di Polizia penitenziaria sia esentato da responsabilità derivanti da un servizio svolto in modo dinamico, che vuol dire porre in capo ad un solo poliziotto quello che oggi lo fanno quattro o più Agenti, a tutto discapito della sicurezza. Il progetto elaborato dal Capo Dap Tamburino e dal Vice Capo Pagano non prevede affatto lavoro per i detenuti e mantiene il reato penale della colpa del custode. È quindi un progetto basato su basi di partenza sbagliate e non è certo abdicando al ruolo proprio di sicurezza dello Stato che si rendono le carceri più vivibili (per i detenuti, è ovvio). Anche per questo domani mattina, giovedì 4 aprile 2013, i poliziotti penitenziari aderenti al Sappe manifesteranno compatti davanti alla sede del Dap”. Veneto: Furlan (Unioncamere); creare rete per lavoro penitenziario 9Colonne, 3 aprile 2013 Secondo l’articolo 27 della Costituzione italiana le pene “devono tendere alla rieducazione del condannato”. Il principio giuridico del fine rieducativo della pena, d’altronde, venne già affermato nel celebre pamphlet di Cesare Beccaria, “Dei delitti e delle pene”, uno dei testi più noti dell’Illuminismo italiano. In quest’ottica una funzione essenziale è svolta dal lavoro penitenziario, che in Veneto sarà valorizzato attraverso un Protocollo d’intesa tra il Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria per il Veneto, Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige (rappresentato dal provveditore Pietro Buffa) e Unioncamere regionale. L’intesa sarà presentata e siglata domani alle 11, presso la Sala Europa di Unioncamere Veneto a Marghera. Il vicepresidente del sistema camerale regionale Roberto Furlan, che sta curando l’iniziativa, spiega il perché dell’interesse di un soggetto economico come Unioncamere per il mondo penitenziario: “Dal 2010 - sottolinea Furlan - Unioncamere del Veneto partecipa ai lavori della Commissione regionale per il lavoro penitenziario, un tavolo al quale partecipano anche altri enti pubblici ed economici nell’ambito del quale ci si è resi conto che alcune informazioni collegate al lavoro penitenziario ed altre in possesso di Unioncamere, come i risultati del sistema informativo Excelsior sulla domanda di lavoro da parte delle imprese, avrebbero potuto essere opportunamente scambiate attraverso l’attivazione di una rete duratura ed affidabile tra i due sistemi che fanno capo rispettivamente al Provveditorato da una parte e a Unioncamere dall’altro”. Al di là dell’innegabile valore sociale del progetto, i risvolti economici per il territorio veneto “che ci si auspica di conseguire anche attraverso questo accordo - spiega Furlan - riguarderanno principalmente le imprese pubbliche e private che vorranno organizzare attività produttive con l’impiego di detenuti, oltre a quelle del settore della cooperazione. Si auspica poi di riuscire a formare all’interno delle strutture penitenziarie quei profili professionali di cui le aziende hanno effettivamente bisogno, immettendo così nella società persone in grado di mantenersi con il proprio lavoro”. Il vicepresidente di Unioncamere Veneto sottolinea inoltre che “la costituzione della rete stabile di comunicazione che il Protocollo si prefigge coinvolgerà progressivamente le strutture decentrate dell’Amministrazione penitenziaria dotate al loro interno di laboratori per la produzione di beni o per svolgere lavorazioni per conto di terzi. Tra le iniziative da realizzare nell’ambito dell’accordo, a mio avviso, si dovrà cominciare da una loro ricognizione per dare loro visibilità o promuoverle nel mercato affinché soggetti terzi siano stimolati a fare ordinazioni e/o ad offrirsi quali gestori di nuove opportunità lavorative. A questo proposito si farà ricorso agli strumenti già a disposizione di Unioncamere e delle Camere di Commercio o delle loro Aziende speciali”. Per Unioncamere Veneto, sottolinea infine Furlan, si tratta di una nuova sfida: “Anche se in passato alcune Camere di Commercio del Veneto avevano collaborato con gli Istituti penitenziari della loro provincia, per Unioncamere del Veneto si tratta di un accordo inedito che nasce dal recepimento di uno stimolo pervenuto da Unioncamere nazionale in accordo con il ministero della Giustizia”. Calabria: è on-line il nuovo sito internet della Uil-Pa Penitenziari www.giornaledicalabria.it, 3 aprile 2013 Ad oltre 10 anni dalla prima apparizione e dopo 7 anni dall’ultimo restyling, completamente rinnovato nella grafica e nei contenuti, è on-line il nuovo sito web della Uil-Pa Penitenziari della Calabria. Dopo la valorizzazione del gruppo dirigente calabrese del Coordinamento Nazionale Uil-Pa Penitenziari a seguito della Conferenza d’Organizzazione dello scorso ottobre, che tra l’altro ha portato a Roma con l’elezione a Segretario Nazionale Gennarino De Fazio - già Coordinatore della Calabria - e la scelta di tenere eccezionalmente a Lamezia Terme i lavori della Direzione Nazionale dei prossimi 10 e 11 aprile, la realizzazione del nuovo sito è l’ennesimo segno di attenzione e di vicinanza di tutta la Uil-Pa Penitenziari alla Calabria. “L’aver rinnovato il sito web non è solo una questione di grafica o di estetica - spiega infatti il Segretario Nazionale Gennarino De Fazio, ma l’introduzione di moderni sistemi di gestione consentirà anche l’aggiornamento delle pagine in tempo reale in modo di avvicinare con sempre maggiore tempestività le questioni che interessano l’universo penitenziario agli operatori ed in maniera da determinare uno scambio interattivo che renda possibile agli stessi lavoratori del settore di perseguire con migliore efficacia gli obiettivi, più e prima ancora che avvantaggiarsene. Non solo, ma l’auspicio è che possa diventare uno strumento e persino un “luogo” di approfondimento per tutti coloro che per qualsiasi motivo debbano relazionarsi o anche solo avvicinarsi al mondo carcerario. Insomma, in altre parole, abbiamo l’ambizione di pensare che questa iniziativa possa contribuire ad aprire una finestra panoramica nelle mura che recingono i penitenziari calabresi per offrirne una visione reale all’esterno”. “Certo - prosegue il sindacalista -in un momento in cui anche la politica ed, addirittura, le procedure per formare governi ed eleggere altissime cariche istituzionali, fino a quella di Presidente della Repubblica, si giocano in grande misura sul web, ciò richiederà un impegno ancora più forte e costante di tutti i Quadri della Uil-Pa Penitenziari regionale. Ma questo è per noi ragione di ulteriori stimoli e motivazione”. “Un pensiero ed un ringraziamento particolare - conclude De Fazio - va rivolto al collaboratore della Segreteria Generale e webmaster, Alessandro Ceralli, che ha costruito il sito, oltre che con non comune professionalità, soprattutto con spirito di amicizia e di condivisione di un progetto, tanto da non lesinare impegno ed energie neanche durante le festività di Pasqua”. Catanzaro: si impicca in cella un detenuto 55enne sottoposto al regime di alta sicurezza Redattore Sociale, 3 aprile 2013 Si tratta di un detenuto di 55 anni e di origini napoletane, sottoposto al regime di alta sicurezza, si è tolto la vita impiccandosi nella cella. Lo scorso anno in Calabria 3 suicidi, 36 tentativi e 167 atti di autolesionismo. Questa mattina nel carcere di Siano a Catanzaro un detenuto di 55 anni e di origini napoletane, sottoposto al regime di alta sicurezza, si è tolto la vita impiccandosi nella cella dove era rinchiuso. A Catanzaro si sono verificati già 2 suicidi e 5 tentativi di suicidio. Attualmente nel capoluogo calabrese sono ristretti 588 detenuti, per una capienza inferiore ai 400 posti. C’è, inoltre, un nuovo padiglione terminato che non può essere aperto per mancanza di personale della polizia penitenziaria. Quello di Catanzaro è un carcere particolarmente complesso, poiché ospita varie tipologie di detenuti, molti dei quali sottoposti al regime di alta sicurezza. Secondo i dati diffusi dal sindacato Sappe, in Calabria nel 2012, i suicidi sono stati 3, i tentativi di suicidio 36, gli atti di autolesionismo 167, i decessi per cause naturali 3, i ferimenti 18, le colluttazioni 81. “Un altro morto nelle affollate carceri italiane”, Giovanni Battista Durante e Damiano Bellucci, rispettivamente segretario generale aggiunto e segretario nazionale del Sappe, cosù commentano il suicidio di Siano. I due sindacalisti sottolineano che, nel corso del 2012, nelle carceri italiane i suicidi sono stati 56, i gesti di autolesionismo 7317, i decessi per cause naturali 97, i ferimenti 1.023, le colluttazioni 4651, i tentativi di suicidio 1308. “Un dato, quest’ultimo - secondo il Sappe - che mette bene in evidenza come la polizia penitenziaria nonostante le gravi carenze organiche, mancano oltre 7 mila unità a livello nazionale, riesca a salvare la vita a tantissime persone. Negli ultimi 20 anni sono stati circa 17 mila i detenuti salvati dalle guardie carcerarie”. Busto Arsizio: collaboratore giustizia trovato morto in cella, non fu suicidio ma incidente di Arcangelo Badolati Gazzetta del Sud, 3 aprile 2013 Il collaboratore di giustizia trovato morto in cella il 22 giugno dello scorso anno avrebbe respirato il gas d’una bomboletta usata per cucinare. La tragedia nel carcere di Busto Arsizio. Esclusa dalla magistratura inquirente l’ipotesi del suicidio. Il pentito Converso vittima di un “incidente”. Una morte sospetta. È il 22 giugno del 2012. Sul pavimento d’una cella del carcere di Busto Arsizio, giace riverso il corpo senza vita di Giampiero Converso, 45 anni, pentito di ‘ndrangheta e “azionista” delle cosche di Corigliano. L’allarme nel penitenziario scatta su segnalazione di alcuni detenuti. Il personale di sorveglianza allerta subito la Procura e arrivano sul posto un magistrato inquirente e un medico legale. Sul cadavere del collaboratore di giustizia non ci sono segni di violenza. Non sembra un omicidio ma neppure un suicidio. Viene disposta l’autopsia. L’esame necroscopico rivelerà che il decesso è stato causato dalla inalazione del gas di una bomboletta utilizzata per cuocere del cibo. Una inalazione volontaria non destinata, però, nelle intenzioni di Converso a provocare la morte. L’ex ‘ndranghetista, d’altronde, non aveva manifestato ai familiari propositi suicidi, né era apparso ai compagni di detenzione ed al personale del Dap in condizioni di prostrazione psichica. Dunque, potrebbe essersi trattato solo di un “incidente”. È probabile che l’inalazione del gas fosse uno dei metodi - è più volte stato riscontrato in passato -adottato per “evadere” mentalmente surrogando l’effetto di stupefacenti. Esclusa dunque pure l’ipotesi di una istigazione al suicidio e non potendosi considerare in alcun modo negligente l’attività di sorveglianza esercitata dalla Polizia penitenziaria, il caso appare adesso destinato all’archiviazione. È stato infatti dimostrato che la bomboletta utilizzata dal quarantacinquenne era “regolamentare”, cioè detenibile in carcere. Giampiero Converso era stato arruolato alla fine degli anni ‘80 dal clan un tempo guidato da Santo Carelli. La scelta di collaborare con la giustizia risaliva al 22 settembre del 2004. L’uomo, in quell’occasione, spiegò ai magistrati di essersi pentito perché temeva di essere assassinato. La sua tragica fine in carcere ricorda quella di altri detenuti cosentini. Nel tardo pomeriggio di sabato due giugno 2007, all’interno del supercarcere de L’Aquila, s’impiccò il quarantaseienne Carmelo Cirillo, “uomo di rispetto” di Paterno Calabro. L’undici agosto del 2010 s’uccise, invece, nella sua cella del carcere di Rebibbia, Riccardo “Cesarino” Greco all’epoca imputato di un omicidio commesso a Cosenza. Il 18 dicembre del 2010, si tolse infine la vita nel supercarcere dell’Aquila, un altro coriglianese: si chiamava Pietro Salvatore Mollo. S’impiccò nella cella dove era recluso in regime di 41 bis, adoperando i lacci della tuta da ginnastica. Piacenza: carcere delle Novate sotto la lente di ingrandimento della commissione comunale www.piacenza24.eu, 3 aprile 2013 Dopo aver ascoltato il Garante per i diritti dei detenuti e la Direttrice della Casa circondariale, questo pomeriggio è stata la volta degli agenti di polizia penitenziaria. Dopo la riunione dello scorso 17 gennaio, con l’intervento, proprio in Commissione, del Garante per i diritti dei detenuti, Alberto Gromi, e in seguito all’incontro con la Direttrice delle Novate, Caterina Zurlo, prosegue l’impegno dell’Amministrazione Comunale che punta la lente d’ingrandimento sulle condizioni di vita dei detenuti ma anche di coloro i quali lavorano nella struttura. In prima linea ci sono gli agenti di polizia penitenziaria che devono far fronte a carenze di organico e a detenuti “incattiviti” dalle condizioni disumane in cui si trovano. Una situazione condannata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo che ha puntato l’indice sul sovraffollamento delle carceri italiane in generale, con 47 mila posti disponibili ma 65 mila reclusi, ed in particolare su quelle di Piacenza e Busto Arsizio che vantano il poco onorevole primato di essere le carceri peggiori d’Italia. Alle Novate, ad esempio, la struttura, risalente agli anni 70, sarebbe omologata per contenere poco più di 360 persone ma il numero dei reclusi ha in passato sfiorato le 400 unità. Si continua, dunque, nel percorso intrapreso dal Comune per migliorare la condizione di un carcere fatiscente, in cui si riscontrano infiltrazioni d’acqua, con celle umide che non rispettano le condizioni di spazio minime per ospitare un detenuto. Si stima che ogni carcerato abbia a disposizione meno di sette metri quadrati. Se poi a questo si somma la mancanza di acqua calda, le infiltrazioni di cui parlavamo prima e il degrado degli spazi in cui operano gli agenti di custodia ecco che il cerchio si chiude. Le guardie carcerarie si proclamano parte offesa dalla sentenza della Corte di Strasburgo, come ha affermato ai nostri microfoni il delegato Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria), Giovanni Marro, il quale ha ringraziato per l’impegno sia il Garante Gromi che il Comune che si sta impegnando a trovare soluzioni ai diversi problemi. Noi continuiamo a denunciare la situazione e la precarietà delle condizioni igienico-sanitarie, afferma Gennaro Narducci di UGL Polizia Penitenziaria. Il carcere è parte integrante della città e anche gli enti locali devono contribuire al miglioramento della situazione e perché una vita dignitosa per i detenuti e per chi opera all’interno delle carceri fa parte di una società civile. A settembre dovrebbe essere aperto un nuovo padiglione ma le organizzazioni sindacali degli agenti di polizia penitenziaria, affermano che occorre di pari passo procedere a una radicale ristrutturazione di quello vecchio, in modo tale da non avere discrepanze tra agenti che lavorano meglio e chi invece è costretto a operare in condizioni di vetustà. Resta poi tristemente attuale la carenza di organico che, stando alle ultime stime, vedrebbe un agente ogni due detenuti. Palermo: il progetto è terminato… 70 ex detenuti ricevono stipendio senza avere un lavoro La Repubblica, 3 aprile 2013 In settanta da gennaio ricevono lo stipendio comodamente a casa perché non hanno alcun compito da svolgere. Stipendio che paga puntualmente la Regione. Ecco un altro capitolo della saga dello spreco che vede al centro la Trinacria Onlus, la società regionale che gestisce i tremila ex Pip assunti dal governo Lombardo nel 2010. La partecipata di Palazzo d’Orleans da settimane sta cercando di piazzare questo personale in altri enti, ma nessuno lo vuole. Si tratta in gran parte di ex detenuti con precedenti penali e, forse anche per questo, non hanno ricevuto il “gradimento” da parte di committenti che hanno già in capo altri ex Pip. La storia dei settanta stipendi pagati a vuoto da tre mesi comincia a fine dicembre, quando l’assessorato all’Ambiente restituisce duecento ex Pip alla Trinacria. Il motivo? Si è concluso il progetto per il quale questo personale era stato utilizzato: “Negli ultimi tre anni i duecento distaccati al Dipartimento Ambiente hanno lavorato alla raccolta dei rifiuti speciali e ingombranti, come elettrodomestici o lavastoviglie, che poi depositavano nei centri di raccolta gestiti dall’Amia - dicono dalla Trinacria - ma il progetto, che era gestito in collaborazione con un’altra società pubblica adesso liquidata, Palermo ambiente, si è concluso e questo personale ci è stato restituito dall’assessorato”. Da gennaio a oggi 130 ex Pip sono stati ricollocati negli oltre 190 enti convenzionati con la Trinacria. Ma altri settanta sono rimasti sul groppone e ancora per loro non è stata trovata una soluzione. Il rischio è che anche nei prossimi mesi questo personale non venga utilizzato, costando comunque non poco alle casse della Regione, che paga uno stipendio di 750 euro netti al mese, più contributi e assegni previdenziali. Attualmente dei tremila appartenenti al bacino della Trinacria, 1.171 lavorano negli assessorati regionali (con mansioni che vanno da quelle di addetto di portineria alle pulizie dei locali), 100 lavorano all’Università, 524 nelle scuole, 125 nei Comuni, 154 alla Procura e al Tribunale. E, ancora, 299 negli ospedali e 236 negli enti partecipati dalla Regione. Scorrendo l’elenco aggiornato delle assegnazioni si trovano anche Onlus e parrocchie. Sul primo versante sono 77 i precari in servizio, e tra le Onlus che beneficiano dei servizi garantiti dagli ex Pip ci sono l’associazione Palermo oggi, l’Anolf, la Kraljica Mira, l’Arte di crescere, la Cooperativa senza frontiere, l’Ulap, l’associazione Porte aperte e la Palermo 2000 Coop. Sul fronte parrocchie, dove sono distaccati in 171, nell’elenco compaiono, tra le altre, quelle di San Giacomo la Marina, Maria Santissima del Carmelo, Santissimo Crocifisso, San Giuseppe, Santissima Maria delle Grazie, San Nicolò da Tolentino, San Stanislao, Santi Cosma e Damiano e San Giovanni Decollato. Catanzaro: “La Costituzione italiana vista da dentro”, un opuscolo realizzato dai detenuti Ansa, 3 aprile 2013 “La Costituzione italiana vista da dentro” è il titolo dell’opuscolo realizzato dalla Casa circondariale di Catanzaro in cui sono state raccolte le riflessioni di un gruppo di detenuti sulle condizioni di vita all’interno del carcere, sul tema controverso della rieducazione e sulle difficoltà nell’applicare alcuni principi costituzionali alle realtà degli istituti di pena. Il volume, frutto di un progetto iniziato la scorsa estate e realizzato con il sostegno economico della Provincia di Catanzaro, è stato presentato questa mattina all’interno dell’istituto di pena catanzarese dal direttore del carcere, Angela Paravati, e dal docente universitario Nicola Fiorita, che ha seguito i corsi con i detenuti e curato la stesura del libro. Presenti, tra gli altri, anche il magistrato del Tribunale di sorveglianza di Catanzaro, Antonella Magnavita, il prefetto del capoluogo, Antonio Reppucci, l’arcivescovo, mons. Vincenzo Bertolone, e il presidente della Provincia, Wanda Ferro. “Siamo partiti dai valori fondamentali contenuti nella Costituzione - ha detto Paravati - incominciando un percorso di conoscenza che a volte si dà per scontato. Abbiamo lasciato, però, che fossero i detenuti a scegliere quali articoli commentare. Ne è venuto fuori un lavoro che vale la pena leggere perché ricco di esperienze personali che danno concretezza a quei principi e che ci dice che la Costituzione in parte deve ancora essere realizzata2. Tra le norme più discusse c’è l’art. 27 della Costituzione, laddove prevede che “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”. “Molti detenuti che hanno partecipato al progetto - ha continuato Paravati - sono condannati all’ergastolo ostativo, che preclude la concessione dei benefici previsti dalla legge come permessi o misure alternative quando se ne maturi il diritto. Su quanto questo tipo di pena sia conciliabile con il fine della rieducazione il dibattito è aperto e, in realtà, anche quando la condanna è breve, non sempre tende a rieducare il detenuto”. Messina: Sappe; detenuto affetto da tbc, 35 sottoposti a isolamento sanitario Comunicato stampa, 3 aprile 2013 Sappe: “Servono un’adeguata profilassi e dei “kit di protezione per poliziotti penitenziari”. 35 detenuti posti precauzionalmente in isolamento sanitario dopo la scoperta ed il ricovero in ospedale di un detenuto italiano affetto da Tbc: è quando accade nel carcere di Messina, dove la vicenda ha suscitato l’ovvia preoccupazione di poliziotti, detenuti e familiari di questi ultimi, alcuni dei quali non hanno potuto oggi fruire del colloquio in Istituto. “Purtroppo quanto accaduto nel carcere di Messina è un evento critico che sempre più frequentemente si verifica nelle carceri del Paese: questa malattia, riemersa dal passato, riveste in carcere una particolare gravità soprattutto in un contesto di sovraffollamento e promiscuità, dove non possono essere salvaguardate neanche le più elementari norme di medicina preventiva. Ma non può costituire un alibi per l’Amministrazione penitenziaria centrale l’assenza di un “programma di prevenzione” che preveda momenti formativi e informativi sui rischi di contagio, affinché si evitino ingiustificati allarmismi, con la sottoposizione periodica degli operatori penitenziari a vaccinazioni, la dotazione degli istituti di kit di protezione ai rischi biologici da utilizzare nei casi di possibile trasmissione, quali immobilizzazioni, colluttazioni, perquisizioni personali ed ambientali, interventi occasionali da gesti anti conservativi, l’impiego della forza per resistere ad una violenza o per respingere un’aggressione e situazioni similari, l’indicazione di una scrupolosa profilassi da eseguire, soprattutto per i nuovi giunti, anche in relazione al periodo di incubazione dei vari agenti patogeni/biologici. Siamo vicini ai colleghi di Messina per quanto accaduto, ed auspichiamo urgenti interventi da parte dell’Amministrazione Penitenziaria”. È il commento di Donato Capece, Segretario Generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe (il primo e più rappresentativo della Categoria), alla presenza di un detenuto affetto da Tbc nel carcere di Messina. “Auspico che il Ministro della Giustizia intenda assumere urgenti iniziative. Sono evidenti anche le responsabilità del Capo Dap Tamburino, che pontifica di vigilanza dinamica e patti di responsabilità con i detenuti, e del Vice Capo Pagano, che parla di rivoluzione nel trattamento penitenziario, a dimostrazione di come siano entrambi distanti molti anni ormai dalla quotidianità della vita in carcere. Peraltro, la necessità di uno screening su scala nazionale” conclude Capece, che auspica contestualmente un intervento ragionato e proiettato nel tempo da parte dell’Amministrazione penitenziaria “risulta quanto più utile ed opportuno in considerazione dell’alto tasso di detenuti stranieri provenienti da Paesi ove patologie, che in Italia sono da. tempo state debellate, sono assai radicate e diffuse, come dimostra il caso di Messina, anche in considerazione che il sovraffollamento favorisce, e non poco, la possibilità di contagio.” Venezia: Protocollo d’Intesa sul teatro in carcere, con l’Associazione “Balamòs” www.estense.com, 3 aprile 2013 È stato firmato il Protocollo d’Intesa tra gli Istituti Penitenziari di Venezia, il Teatro Stabile del Veneto e Balamòs Teatro, con l’obiettivo di ampliare, intensificare e diffondere la cultura teatrale dentro e fuori gli Istituti Penitenziari di Venezia (Casa di Reclusione Femminile di Giudecca e Casa Circondariale di Santa Maria Maggiore). Il Protocollo d’Intesa prevede una collaborazione attraverso incontri di laboratorio tra gli artisti ospiti del Teatro Stabile del Veneto e le detenute/detenuti e progetti specifici di pedagogia teatrale. Il progetto teatrale “Passi Sospesi” di Balamòs Teatro - Associazione Culturale, è attivo dal 2006 presso la Casa Circondariale di Santa Maria Maggiore di Venezia, Casa Circondariale Sat di Giudecca (attualmente chiusa) e dal 2010 alla Casa di Reclusione Femminile di Giudecca (Venezia). Negli anni è stato promosso dalla Regione Veneto, il Comune di Venezia e il Ministero della Giustizia. Fino a dicembre del 2012 sono stati attivati sette percorsi laboratoriali che si sono conclusi con altrettanti spettacoli teatrali che in qualche occasione sono stati presentati anche fuori dagli Istituti Penitenziari (“Le Troiane” della Casa di Reclusione Femminile di Giudecca presso il Teatro Maddalene di Padova, Maggio 2012). Tutto il progetto è stato documentato attraverso la produzione di materiale fotografico (Andrea Casari) e la produzione video (Marco Valentini) che sono stati presentati alla Mostra di Venezia negli anni 2009, 2010, 2011, nell’ambito dell’iniziativa “L’esperienza del progetto teatrale Passi Sospesi negli Istituti Penitenziari di Venezia”. In collaborazione con la Mostra di Venezia in questi anni si sono organizzati anche incontri di attori e registi con detenute/detenuti all’interno degli Istituti Penitenziari. Il progetto teatrale “Passi Sospesi” è stato presentato anche in numerose occasioni in rassegne, festival, mostre, incontri, convegni, in Italia e all’estero. C’è una linea che Michalis Traitsis, direttore artistico di Balamòs Teatro e responsabile del progetto “Passi Sospesi”, ha scelto di percorrere, dalla prevenzione alla detenzione, ed è quella di guardare ad una prospettiva culturale, attraverso lo strumento dell’arte teatrale, nell’approccio alle tematiche della reclusione e dell’esclusione. Cultura come informazione, come confronto, memoria, rete nei e dei territori, tutela delle fasce più deboli della società. Cultura della diversità e dell’inclusione sociale. Per questo motivo sono stati invitati nell’ambito del progetto teatrale “Passi Sospesi”, registi, attori, musicisti, danzatori, scenografi, per condurre incontri di laboratorio o contribuire alla messa in scena degli spettacoli: Pippo Delbono, Davide Iodice, Enzo Vetrano, Stefano Randisi, Cèsar Brie, Fabio Mangolini, Roberto Mazzini, Maria Teresa Dal Pero, Carlo Tinti, Elena Souchilina, Roberto Mannuzzi, Fatih Akin, Giuliano Scabia, Mira Nair. Molto significativa è la collaborazione con il Centro Teatro Universitario di Ferrara (dove Michalis Traitsis conduce i laboratori teatrali dal 2005), attraverso incontri di laboratorio misti tra studenti e detenuti e allestimento di spettacoli realizzati in comune. Negli ultimi anni si è collaborato con alcune scuole di Venezia, attraverso incontri di presentazione del lavoro svolto nelle carceri veneziane, proiezione dei video fatti all’interno degli istituti Penitenziari e presenza degli alunni di alcune scuole superiori agli spettacoli all’interno della Casa di Reclusione Femminile di Giudecca. In questo periodo sta per essere siglato un altro Protocollo d’Intesa tra il Coordinamento Nazionale di Teatro in Carcere (Balamòs Teatro è membro fondatore), l’Istituto Superiore degli Studi Penitenziari e il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Questo Protocollo d’Intesa rafforzerà ulteriormente il riconoscimento del progetto teatrale “Passi Sospesi” di Balamòs Teatro negli Istituti Penitenziari di Venezia che ha come obiettivo un’attività stabile, continuativa ed economicamente sostenibile negli Istituti Penitenziari di Venezia. Reggio Calabria: il Cis promuove l’incontro “La carcerazione e la dignità del detenuto” www.ntacalabria.it, 3 aprile 2013 Chiesa San Giorgio al Corso Reggio Calabria, il Cis promuove “La carcerazione e la dignità del detenuto”. Oggi 3 aprile 2013, presso il salone della chiesa di San Giorgio al Corso - Reggio Calabria - il Centro Internazionale Scrittori della Calabria promuove la conversazione “La carcerazione e la dignità del detenuto”. Relazionerà il dott. Pasquale Ippolito, Presidente aggiunto della Corte di Cassazione di Reggio Calabria - Magistrato, scrittore. Il sistema carcerario italiano è in profonda crisi. Negli ultimi tre anni la popolazione carceraria è aumentata del 50 per cento, superando il limite strutturalmente sostenibile di oltre 20 mila unità a fronte di un calo delle risorse del 10 per cento. L’allarme sovraffollamento crea problemi di sicurezza e non garantisce la dignità del detenuto. La Corte europea per i diritti umani afferma che si è in presenza di tortura quando un detenuto dispone di meno di 3 metri quadrati di spazio in cella. Il relatore Pasquale Ippolito parlerà delle ragioni che motivano la detenzione, la esecuzione della medesima e il modo come garantire il rispetto della dignità del detenuto. Immigrazione: penalisti visitano Cie di Milano; luoghi di detenzione peggiori del carcere Dire, 3 aprile 2013 Questa mattina una delegazione di avvocati dell’Unione delle Camere Penali composta dai membri della Giunta Vinicio Nardo e Manuela Deorsola, dai membri dell’Osservatorio carcere Antonella Calcaterra, Michele Passione e Mirko Mazzali, dal presidente della Camera Penale di Milano Salvatore Scuto e dai membri del direttivo Giovanni Bellingardi e Francesco Sbisa, si è recata in visita presso il Centro di Identificazione ed Espulsione di Milano. Qui i penalisti hanno potuto registrare la presenza di 52 uomini e 5 transessuali, per una capienza massima di 84 posti consentita dai settori attualmente aperti. Oltre agli operatori della Croce Rossa - 31 a rotazione - nella struttura prestano servizio due mediatori, un medico dalle ore 12 alle 21 e un infermiere 24 ore su 24. “I Cie sono dei luoghi di detenzione a tutti gli effetti e privi delle garanzie che sono proprie delle carceri”, affermano i penalisti. Infatti, “sebbene manchino le condizioni di sovraffollamento tipiche degli istituti di pena e le stanze rimangano aperte, i reparti dove vivono le persone trattenute sono chiusi a chiave e gli spazi all’aperto loro riservati sono angusti. Inoltre - spiegano - rispetto al carcere, dove i detenuti sanno di cosa sono accusati e quanto dovranno rimanere ristretti, all’interno del Cie gli ospiti non sanno quando usciranno; e li preoccupa constatare che dentro con loro ci sono persone trattenute anche da un anno, in balia dell’incertezza ma anche dell’ozio, visto nella struttura non ci sono biblioteche, né corsi di alfabetizzazione o attrezzature sportive. Ne deriva un’atmosfera di spaesamento che si traduce in molteplici, quanto generiche, domande di aiuto che il trattenuto rivolge al visitatore. Se si aggiunge che per due terzi si tratta di ex detenuti che sono passati direttamente dal carcere al Cie, vedendosi così negare non solo la libertà che avevano atteso contando i giorni, ma anche l’assistenza sanitaria di cui godevano in carcere, allora si capisce come il tasso di afflizione di questi centri sia addirittura maggiore del carcere. Nel Cie - continuano i penalisti - si rimane per lo più “in attesa di identificazione” e, considerato che al 95 per cento gli ospiti sono stati ristretti in un carcere, quindi sono stati certamente identificati da varie amministrazioni dello Stato, appare evidente come la struttura non serva a risolvere, ma semmai costituisca essa stessa un problema. Un problema che, peraltro, detto per i duri di cuore, ha un notevole costo economico per le pubbliche finanze”. L’unica riforma possibile è la chiusura dei Cie “L’unica riforma possibile è la chiusura dei Cie”. A dirlo è il presidente della Camera Penale di Milano, Salvatore Scuto, all’uscita del Centro di identificazione ed espulsione (Cie) in via Arcangelo Corelli a Milano. Secondo gli avvocati aderenti alle Camere Penali dunque, non ci sono possibilità di riforma ma l’unica via è la chiusura dei centri. Secondo i dati della Croce rossa, nel 2012 in via Corelli ci sono stati 871 nuovi ingressi, (734 maschi e 137 trans). Le uscite, in totale, 843. Questa mattina una delegazione dell’Unione delle Camere Penali italiane e della Camera Penale di Milano, ha visitato il Cie per verificare le condizioni degli ospiti e della struttura. Ad entrare nel Centro di identificazione ed espulsione, oltre a Scuto, sono stati Vinicio Nardi e Manuela Deorsola (giunta dell’Ucpi); Antonella Calcaterra, Mimmo Passione e il consigliere comunale Mirko Mazzali (componenti Osservatorio carceri Ucpi); Giovanni Bellingardi, Giampaolo Del Sasso e Francesco Sbisa (membri del direttivo degli avvocati aderenti alle Camere Penali). “Questo - ha commentato Scuto - non è un carcere, è peggio. È un non carcere, una struttura ideologica e inutile che serve solo a tranquillizzare la pancia di questo Paese”. All’interno del Cie “la situazione non è delle migliori” e “chi è dentro, non capisce perché si trova qui e non sa quando uscirà”. C’è un extracomunitario, ad esempio, “che si trova nel centro da oltre un anno”. Inoltre “si tratta di persone che non hanno fatto nulla e si trovano qui solo perché non sono identificabili”. Secondo gli avvocati il Cie “è un cucchiaino d’oro (perché costa molto) con cui si cerca di svuotare il mare dell’immigrazione”. Mazzali, infine, riferisce di aver visto una dozzina di poliziotti “che controllano le persone nel centro e che, invece, potrebbero essere reimpiegati in modi più utili”. Israele: a seguito morte detenuto palestinese nuove proteste nelle carceri Adnkronos, 3 aprile 2013 Continua la protesta dei prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane all’indomani della notizia della morte del detenuto Maisara Abu Hamdiyya. Stamani 4.500 prigionieri palestinesi hanno rifiutato la colazione in segno di protesta. Lo riferisce Ynet, il sito web del quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth. Abu Hamdiyya, 64 anni, è morto ieri in un ospedale di Beer Sheba dove era stato trasferito per cure mediche dal vicino penitenziario di Eshel. L’uomo, che Israele accusava di essere un militante di Hamas, era malato di cancro. Nel maggio del 2002 era stato arrestato e poi condannato all’ergastolo in Israele per tentato omicidio, militanza di un’organizzazione terroristica” e possesso di armi in relazione a un fallito attacco a Gerusalemme. Ieri dopo la notizia della morte di Abu Hamdiyya il ministro per gli Affari dei detenuti del governo di Hamas a Gaza, Atallah Abul-Sobah, ha invocato ‘una nuova intifadà. Sempre ieri notizie di prigionieri palestinesi in sciopero della fame e in rivolta sono arrivate da varie prigioni israeliane e scontri tra palestinesi e forze di sicurezza israeliane si sono registrati in Cisgiordania. Arabia Saudita: Amnesty denuncia; rese paralitico un amico, subirà la stessa pena Agi, 3 aprile 2013 Amnesty International ha rivolto un appello all’Arabia Saudita perché fermi la condanna alla paralisi di un uomo. L’organizzazione, che ha sede a Londra, rilancia una notizia data dai giornali sauditi sulla vicenda di un 24enne, da dieci anni in carcere, perché quando aveva 14 anni pugnalò un amico, rendendolo paraplegico. Recentemente la giustizia saudita ha deciso che Ali-Khawahir venga reso paralitico se non paga un indennizzo di un milione di riyals (circa 250mila euro). È l’applicazione della cosiddetta “qisas”, la retribuzione, vigente in Arabia Saudita e che segue la legge del taglione, “occhio per occhio”. “Paralizzare qualcuno come punizione sarebbe una tortura”, ha denunciato Ann Harrison, vicedirettore di Amnesty per il Medio Oriente e il Nord Africa, parlando di condanna “assolutamente scandalosa”. Secondo Amnesty, un’analoga punizione fu imposta nel 2010, ma non si è mai saputo se sia stata effettuata. Il regno musulmano ultraconservatore riserva vari tipi di punizioni corporali, ispirate alla “sharia”, la legge islamica (fustigazione, amputazione, estrazione di occhio o dente, decapitazione).