Giustizia: per l’emergenza carcere la strada obbligata è scommettere su pene alternative di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 30 aprile 2013 Applausi a destra e a sinistra, con la sola eccezione dei deputati M5S, quando Enrico Letta parla della corruzione e del carcere. Un consenso bipartisan scontato perché, per ora, il presidente del Consiglio Letta non va oltre i “titoli”, evitando dettagli come in altri casi e quindi lasciando in bianco i contenuti di questi due capitoli essenziali del fronte giustizia. Così, terminato il discorso, molti deputati (soprattutto Pdl) già leggono in quelle poche parole l’apertura a un provvedimento di amnistia e indulto. Fantasie o magari “proiezioni”. Certo è che la contabilità macabra delle morti in carcere e le condanne della Corte di Strasburgo per trattamenti inumani e degradanti rendevano obbligatorio un riferimento al carcere nel capitolo-giustizia, sebbene stringatissimo (appena 10 righe). Tanto più che della giustizia Letta ha parlato soprattutto come fattore essenziale per la ripresa economica. Un paese che deve crescere, ha detto, deve poter contare su una giustizia efficiente, che dia risposte certe in tempi ragionevoli. Deve garantire ai cittadini e agli investitori italiani e stranieri, ha poi aggiunto, il rispetto di regole e incentivi, e quindi una lotta efficace alla corruzione. “E tutto questo funzionerà se la smetteremo di avere una situazione carceraria intollerabile ed eccessi di condanne da parte della Corte dei diritti dell’uomo”, ha concluso, ricordando che l’Italia è il paese di Cesare Beccaria. Il carcere è causa ed effetto dell’inefficienza del sistema giudiziario. Il sovraffollamento è infatti il risultato di una politica penale carcerocentrica (anche se in galera finiscono soltanto i poveracci) che ingolfa il processo e agevola la prescrizione dei reati. Di qui anche la mancanza di “certezza del diritto” a cui ha fatto riferimento Letta come freno agli investimenti. “La ripresa ritornerà anche se i cittadini e gli imprenditori italiani e stranieri saranno convinti di potersi rimettere con fiducia ai tempi e al merito delle decisioni della giustizia italiana” ha detto, riferendosi alla necessità di sfoltire i reati e di velocizzare le procedure, ovviamente anche nel civile. Il che avrà un effetto positivo sul carcere, non solo in termini di presenze ma anche delle condizioni di vita e, quindi, del trattamento dei detenuti finalizzato al reinserimento sociale e alla riduzione della recidiva. È presto, però, per capire in che direzione si muoverà il governo. Il carcere è un’emergenza nazionale, vera, e non da oggi, anche se i detenuti sembrano diminuire (in parte per le misure svuota-carceri, in parte perché si arresta meno). Sarebbe quindi una delle prime questioni da affrontare, persino con decreto legge. Le misure per alleggerire le patrie galere, e al tempo stesso restituire alla pena la funzione costituzionale propria, sono da anni oggetto di studi approfonditi, e nella scorsa legislatura hanno avuto anche l’apporto esterno del Csm. Dunque esistono già e non sono improvvisate ma, semmai, “strutturali” come quelle che ci ha chiesto la Corte europea dei diritti dell’uomo, imponendoci di realizzarle in un anno. Sempre nella scorsa legislatura, poi, la Camera aveva già approvato il testo sulle misure alternative alla detenzione e sulla messa alla prova, arenatosi al Senato. Insomma, c’è materia in abbondanza per intervenire subito, come peraltro sembra auspicare anche il Quirinale, senza dover ricorrere a provvedimenti di clemenza se non, eventualmente, in seconda battuta. Amnistia e indulto non solo non risolverebbero il problema (se non momentaneamente) ma riaprirebbero le polemiche sui “veri beneficiari” della clemenza, al di là del suo significato di “pacificazione”. Ovviamente, più passa il tempo più l’emergenza carcere si fa “intollerabile” e più la clemenza diventa l’unica strada. In Parlamento troverebbe un’autostrada: solo la Lega è contraria, come peraltro ad ogni politica di de-carcerizzazione. Bisognerebbe solo definirne il perimetro. Altro capitolo, per ora in bianco, quello sulla corruzione. Anche qui Letta ne ha fatto una questione di crescita. “Questo ovviamente riguarda innanzitutto l’impegno alla moralizzazione della vita pubblica, alla lotta alla corruzione che distorce regole e incentivi” ha detto, aggiungendo nella replica che “la corruzione sarà un grande tema su cui lavoreremo: non possiamo dare un’idea di labilità del diritto”. È la conferma che la legge 190 appena approvata è assolutamente insufficiente e va implementata, anche se su alcuni punti - come lo spacchettamento della concussione che, nell’ipotesi dell’induzione, ha visto una riduzione della pena e della prescrizione nonché la cancellazione dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici - il “danno” è fatto e non si potrà recuperare. Non sui processi in corso, almeno, tra cui quelli a Silvio Berlusconi e a Filippo Penati. “Il confronto ci sarà e sarà importante” ha aggiunto Letta, riferendosi alla diversa “sensibilità” sull’argomento tra Pd e Pdl - sebbene la 190 sia stata un parto bipartisan - anche se Berlusconi, a questo punto, può persino permettersi aperture su questo fronte visto che gli inasprimenti riguarderanno solo i reati commessi dopo l’eventuale approvazione della riforma. Sei ha chiesto che sia varata dal governo nei primi 100 giorni, ma forse ce ne vorrà qualcuno in più perché diventi legge. Giustizia: ora il ministero ammette che in galera non c’è più posto di Susanna Marietti (Associazione Antigone) Il Manifesto, 30 aprile 2013 Il Dap ai direttori: 67mila detenuti per 45mila letti, metteteli nei reparti fatiscenti. Dà un’amara soddisfazione leggerlo nero su bianco su carta intestata del Ministero della Giustizia. Viene da vantarsi ricordando come lo andassimo raccontando da tempo. Se non fosse che le polemiche avvengono sulla pelle di persone in carne, ossa e tempo da scontare in galera. D Dipartimento dell’Amministrazione Penitenzaria ha emanato una circolare nella quale ammette che i numeri dell’affolla-mento carcerario sono assai più pesanti di quelli ai quali già chiunque - ex nonché neo presidente della Repubblica compreso - guardava con ormai ingestibile preoccupazione. A che gioco giochiamo? Ce lo eravamo chiesti nell’ultimo Rapporto del nostro Osservatorio sulle condizioni di detenzione in Italia, dato alle stampe lo scorso autunno. Il numero dei posti letto che l’Amministrazione Penitenziaria sosteneva di avere a disposizione lievitava magicamente, passando dalle poco più di 44 mila unità dell’inizio 2010, al momento in cui fu dichiarato lo stato di emergenza penitenziario, alle oltre 45.500 unità dell’estate 2012, che diventavano quasi 46.800 solo due mesi dopo per poi crescere ulteriormente. Lungo quei due mesi la Calabria avrebbe guadagnato 236 posti letto, l’Umbria ne avrebbe guadagnati 196 e la Lombardia addirittura 661. Senza tuttavia che alcun nuovo carcere fosse stato costruito in queste regioni né che alcun nuovo padiglione carcerario fosse stato inaugurato. Ma c’è dell’altro: non solo il sistema penitenziario italiano non si è recentemente arricchito di spazi nuovi, ma ha inoltre perso tanti spazi tra quelli già esistenti. La spending review che si è abbattuta sulle vite di tutti noi nei modi che conosciamo bene, per i detenuti ha significato, tra le tante altre cose, anche una brutale riduzione dei metri quadri a disposizione di ognuno. Come qualsiasi edificio abitato, anche il carcere ha infatti bisogno di ordinaria manutenzione, che senza soldi diventa difficile portare avanti. Girando per le carceri come siamo usi fare, sempre più spesso ci capita di incontrare reparti chiusi e abbandonati alla loro fatiscenza, con i detenuti ulteriormente stipati nelle sezioni sopravvissute dell’istituto. Il numero di posti ufficialmente conteggiato dall’Amministrazione per quel carcere, tuttavia, rimane lo stesso che era prima della chiusura del reparto. Dai cinquemila ai diecimila posti letto fantasma si sono in questo modo accumulati negli ultimi anni. Non roba da poco, quando ciascuno di essi si traduce concretamente nella presenza di un compagno di cella in più in stanze già soffocate da letti e materassi. Oggi l’Amministrazione ammet-te tutto questo. C’è voluta la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che lo scorso gennaio ha condannato l’Italia per trattamenti inumani e degradanti in relazione al sovraffollamento penitenziario. I numeri pubblicati sul sito del Ministero della Giustizia, già di per sé drammatici, edulcorano e non rispecchiano la situazione reale. Non 47.045 posti letto, come è oggi lì riportato, ma 45.000, come è scritto nella circolare inviata dal Dipartimento a tutti i provveditori regionali. E inoltre, ancora per ammissione dell’Amministrazione Penitenziaria, questo numero non va inteso come corrispondente a quello dei posti effettivamente disponibili, bensì “al lordo delle superfici di reparti chiusi o sottoutilizzati rispetto alle loro potenzialità”, come è scritto nella circolare. La quale ammette inoltre che “tale evidenza” era “peraltro già da tempo nota”, e invita a prendere provvedimenti entro il 31 maggio prossimo. Ma quali provvedimenti potranno mai prendere i poveri direttori di carcere? Cosa si sta scaricando sulle loro spalle? Si chiede loro di lavorare per “la progressiva riorganizzazione degli Istituti e la razionalizzazione dell’uso degli spazi disponibili”. Che, in assenza di qualsiasi stanziamento di denaro, non può che significare rimandare i detenuti a vivere nei reparti chiusi perché fatiscenti oppure rinunciare più di quanto già non si faccia ora a spazi comuni pensati per le varie attività trasformandoli in dormitori. Niente di buono in nessuno dei due casi. Ora, quel che ci domandiamo è questo: perché l’Amministrazione Penitenziaria continua a svilirsi tenendo il gioco a una politica pavida e incapace di farsi carico con serietà di un tema così centrale nella convivenza sociale come quello della giustizia e delle carceri? Perché continua a proporre improbabili aggiustamenti invece di denunciare lo stato del sistema che è costretta ad amministrare? Perché non opporsi alla decisione del governo di ricorrere contro la sentenza della Corte Europea solo al fine di perdere e prendere tempo? Se dicesse apertamente davanti alle sollecitazioni di Napolitano e alle sentenze della Corte di Strasburgo che sì, è vero, la situazione delle nostre galere calpesta la dignità umana (“Senza dignità”, si chiamava il nostro ultimo Rapporto sulle carceri), che è una situazione indecente per un paese che vuol dirsi civile, che si accatastano corpi uno sull’altro senza alcuna prospettiva; se rinunciasse alla propaganda del “Piano Carceri”, devolvendo invece alcune centinaia di milioni a progetti di recupero sociale anziché a costruire padiglioni penitenziari che andranno a espropriare aree verdi; se facesse questo, allora il prossimo ministro della Giustizia avrebbe meno scuse dietro le quali nascondersi. Nelle piazze e per le strade oggi tutti possono contribuire a dare un segnale forte per cambiare lo stato delle cose. Si può aderire alla campagna “Tre leggi per la giustizia e i diritti” www.3leggi.it e firmare per introdurre il reato di tortura nel codice penale italiano, per una nuova legge meno punitiva sulle droghe, per tornare alla legalità nelle carceri. La situazione è sotto gli occhi di tutti www.insidecarceri.it, anche ovviamente dell’Amministrazione Penitenziaria. La quale, sottraendosi alla propaganda di buona parte della politica, interpreterebbe in maniera dignitosa il proprio ruolo di amministrazione pubblica, al servizio di ogni cittadino e del rispetto dei suoi diritti. Giustizia: la Cancellieri: “Ghedini? non è lui il ministro… sarò io a proporre l’agenda” di Claudia Fusani L’Unità, 30 aprile 2013 “Il senatore Ghedini dice che la giustizia non è nell’agenda di questo governo? Vorrei informare il senatore Ghedini che sono io il ministro della Giustizia e come tale sarò io a proporre l’agenda dell’esecutivo”. Anna Maria Cancellieri è persona che sa certo nascondere la rabbia ma non ci sta ad essere trattata come un pacco che viene spostato dall’Interno alla Giustizia in nome di un ricatto o di uno scambio politico. Ad essere immaginata conte una burocrate che esegue decisioni concordate da altri. Ha appena ascoltato il discorso programmatico del premier Letta e cammina svelta tra i colonnati eli Montecitorio. Sempre gentile e sorridente, stavolta ha poca voglia di indugiare nei commenti tipici di giornate come queste. Prima di arrivare alla Camera ha fatto il passaggio di consegne con il ministro e vicepremier Angelino Alfano, suo successore al Viminale a cui ha raccomandato i dossier sull’allarme sociale, i tanti Luigi Preiti potenzialmente in circolazione. Subito dopo è andata in via Arenula dove ha ricevuto le consegne dalla professoressa Paola Severino, ex Guardasigilli, con cui poi è andata a pranzo. Hanno avuto molto da dirsi. A quattr’occhi. La questione giustizia può essere il principale motivo di instabilità del governo Letta. Tutti lo sanno. Negli ultimi giorni, infatti, è diventato argomento tabù, se ne parla il meno possibile. Si dice giustizia si scrive in tanti modi diversi. Vuol dire, prima di tutto processi in cui è imputato Silvio Berlusconi (Rubygate, in primo grado; compravendita Diritti tv in Appello) e che cascasse il mondo, ministri tecnici o politici, arriveranno a sentenza entro maggio nonostante il collegio difensivo del Cavaliere abbia fatto e ottenuto di tutto pur di rinviarli nel tempo. Giustizia vuol dire una serie di misure che non piacciono al centrodestra, i reati di falso in bilancio e autoriciclaggio, la revisione della prescrizione, la lotta alla corruzione in modi sempre più massicci visto che sottrae allo Stato risorse per circa (50 miliardi l’anno. Vuol dire anche riforma del Csm, introduzione della responsabilità civile di giudici e pm. Vuol dire quella matassa di provvedimenti che hanno paralizzato la scena politica nel ventennio berlusconiano. Giustizia significa anche e soprattutto, salvacondotto per Silvio Berlusconi, un modo, quale che sia, per metterlo al riparo da sentenze che possono diventare definitive entro l’anno (Diritti tv) e portare come conseguenza l’impossibilità di avere incarichi pubblici. Sono stati tutti argomenti molto forti nella campagna elettorale, da una parte e dall’altra, a seconda dei punti di vista. Di tutto questo si trovano accenni nel programma del premier Letta. “Lotta alla corruzione e giustizia saranno priorità per questo governo” ha detto in aula. Quindi “certezza nel diritto”, impegno nella “moralizzazione della vita pubblica” e per dire “basta a ima situazione carceraria intollerabile”. Linee programmatiche generali dove non trovano posto punti che sembravano irrinunciabili come autoriciclaggio, falso in bilancio, prescrizione e che lasciano indifferenti i banchi del Pdl. Il nuovo Guardasigilli, appena Letta ha concluso l’intervento, si limita a un “lasciatemi lavorare e poi ne parleremo”, Mostrando un sincero disappunto per l’intervista dell’onorevole avvocato Niccolò Ghedini che congela il ruolo della Cancellieri in via Arenula quasi fosse un copione deciso a tavolino. “Faremo qualcosa per la situazione carceraria e altro per tagliare i tempi del processo civile, non. è all’ordine del giorno nulla relativo al penale” spiega uno dei tanti onorevoli avvocati del Pdl. E i processi, le sentenze? Qui le scappatoie sono di altro tipo: la presidenza della Convenzione rivendicata ieri mattina da Berlusconi e che gli garantirebbe un legittimo impedimento costante; la nomina, a senatore a vita, scudo contro tutto e tutti. Senza contare che chissà perchè nel pdl sono tutti convinti che “in Cassazione il presidente Berlusconi sarà assolto”. Tutto questo senza fare i conti con il neo Guardasigilli che difficilmente sarà distratta da scorciatoie o omissioni. Interessanti, allora, diventano alcune indiscrezioni nel passaggio di consegne tra Severino e Cancellieri. Il ministro uscente si è permessa di suggerire di “tenere duro sulla riforma della geografia giudiziaria” che ha tagliato un paio di migliaia di uffici inutili e organizzato meglio il personale nonostante le pressioni contrarie arrivate dal Parlamento. Di continuare sulle carceri e sulle misure alternative (su cui Severino aveva subito l’ultima sconfitta in Parlamento), sui tagli dei tempi nel processo civile (tenere duro sul filtro dell’Appello che tanto ha fatto arrabbiare gli avvocati). E di puntare sulle nuove misure su corruzione, prescrizione, falso in bilancio. Dossier già pronti, che hanno bisogno solo di volontà politica. “Lasciatemi lavorare” ha promesso il ministro Cancellieri. Decisivi i prossimi giorni. I sottosegretari, ad esempio. L’arrivo dell’ex Guardasigilli Nitto Palma, ad esempio, porterebbe con sé foschi presagi di battaglie durissime negli uffici di via Arenula. Giustizia: Cancellieri; sovraffollamento delle carceri è priorità che mi sta molto a cuore Agi, 30 aprile 2013 “Il tema del sovraffollamento delle carceri è una priorità, che mi sta molto a cuore”. Lo afferma il neo ministro della Giustizia, Anna Maria Cancellieri, conversando con i giornalisti al Senato. L’Italia è stata condannata dalle Corte europea per lo spazio troppo esiguo riservato ai detenuti italiani. Giustizia: Schifani (Pdl); bisogna riportare le carceri in condizioni di civiltà Adnkronos, 30 aprile 2013 “Bisogna riportare dentro i confini della civiltà e del diritto le condizioni delle nostre carceri”. È l’appello lanciato dal capogruppo del Pdl al Senato Renato Schifani durante il suo intervento in Aula a Palazzo Madama. Giustizia: Amoddio (Pd); carceri sono priorità, politica ponga al centro l’aspetto umano Agenparl, 30 aprile 2013 “Ho condiviso il discorso del Presidente del Consiglio Enrico Letta, in particolare i passaggi sulla giustizia e sul problema delle carceri e della corruzione”. Così l’On. del PD Sofia Amoddio, membro della Commissione Giustizia della Camera e della Giunta per le Autorizzazioni a Procedere. “Mi auguro che questo Governo, ottenuta la fiducia, intraprenda una politica coraggiosa che sia capace di riformare un settore delicato e fondamentale come quello della giustizia”. “Il problema del sovraffollamento delle carceri italiane - prosegue l’On. Amoddio - non può essere risolto solamente con la costruzione di nuovi istituti penitenziari o con condoni ed amnistie, ma attraverso l’attuazione di una politica che ponga al centro l’aspetto umano, non sottovaluti quello economico e che favorisca misure alternative come la sospensione del processo con messa alla prova”. Giustizia: Marco Pannella in sciopero della sete, sit-in dei Radicali davanti a Poggioreale Ristretti Orizzonti, 30 aprile 2013 Ieri mattina i militanti dell’associazione radicale “Per la grande Napoli”, Luigi Mazzotta, Angela Micieli e Fabrizio Ferrante hanno tenuto un presidio all’esterno del carcere di Poggioreale. Nell’occasione 22 persone hanno aderito all’iniziativa nonviolenta in corso, unendosi al digiuno collettivo indetto dal leader Radicale Marco Pannella, in sciopero della sete per chiedere rimedi urgenti alla situazione illegale delle carceri italiane e al malfunzionamento della Giustizia. Oggi martedì 30 aprile, dalle ore 7.00 in poi, i radicali napoletani sono nuovamente al fianco dei familiari dei detenuti in fila per i colloqui, per continuare il dialogo con la comunità penitenziaria incrementare la partecipazione allo sciopero della fame e informare sulle prossime iniziative. I cittadini attendono risposte dalla politica sulle condizioni di grave inciviltà a cui sono sottoposti sia i detenuti che i loro parenti, costretti ad attese sempre più estenuanti. Una donna, probabilmente per via della coda interminabile nella quale le persone sono letteralmente accatastate una sull’altra - compresi numerosi bambini - ha accusato un leggero malore che ha portato ad anticipare di qualche minuto l’accesso dei parenti all’interno della struttura. Lettere: violenza sulle donne, umiliata chi denuncia di Dacia Maraini Corriere della Sera, 30 aprile 2013 Se una persona denuncia di essere stata rapinata, nessuno gli chiede se ha provato piacere. Se invece una donna denuncia uno stupro, le si chiede se sia stata connivente, ovvero se abbia provato gusto. La sua parola contro quella dello stupratore. Hai gridato? Hai scalciato? Hai graffiato? Ti hanno ferita? Ti hanno spaccato la testa per farti stare zitta e buona? Se non porti i segni della violenza addosso, si può sospettare che eri consenziente. Certo la prova migliore per provare l’innocenza è la morte. Come Maria Goretti, che è stata fatta santa. Un ragionamento aberrante che accompagna da tempi lontanissimi i processi per stupro. Dal famoso caso di Artemisia Gentileschi che ha denunciato il suo stupratore e ha subito un processo sadico in cui ha dovuto dimostrare, compresa una visita ginecologica in aula nascosta solo da un paravento, che aveva subito e non acconsentito. È per questo che le donne spesso non denunciano. Già la legge romana partiva dal presupposto che “vis cara puellae”, ovvero la forza piace alle vergini. E quindi lo stupro veniva in qualche modo giustificato: si trattava solo di una forzatura verso il piacere. Ma il piacere sessuale, erotico, non ha niente a che vedere con lo stupro, né per l’uomo né tanto meno per la donna. Se c’è un piacere è quello di umiliare chi si considera in quel momento nemico. Non a caso lo stupro è sempre stato utilizzato in guerra per sottomettere e avvilire il popolo avversario. Fra l’altro lo stupro colpisce simbolicamente il punto più potente, più sacro del corpo femminile, quello della nascita. Stuprare una donna vuol dire infatti offendere, calpestare la sua capacità di dare la vita, la sua autorità materna. Lo stupro sembra oggi essere diventato un linguaggio quotidiano. Ogni giorno la cronaca ci racconta di stupri plurimi, singoli, nelle strade, in casa. Esemplare il caso della ragazza di Montato: aveva 15 anni, era andata a ballare con delle sue amiche. Un giovane l’aveva convinta ad uscire per prendere una boccata d’aria, Una volta fuori l’hanno aggredita in cinque, l’hanno trascinata in un bosco e l’hanno stuprata per tutta la notte. La ragazza ha denunciato. Gli stupratori sono stati ritrovati, ma i giudici non li hanno condannati. L’opinione pubblica stava tutta dalla loro parte. Addirittura il sindaco ha dato un contributo comunale per pagare le spese degli avvocati della difesa. Sono passati sei anni ma niente è cambiato. La ragazza ha dovuto cambiare città. “Mi hanno preso la vita e rubato il futuro, ho sperato ogni giorno di avere giustizia, ma se avessi saputo che finiva così non li avrei mai denunciati. Ora sono stanca, non ho più la forza di combattere”, racconta la ragazza stuprata. Il paese l’ha accusata di portare la minigonna. Ovvero di avere voluto provocare: Ti piaceva attirare i maschi con vestiti succinti? La violenza te la sei cercata. Come a dire che se uno se ne va in giro con una bella macchina, deve essere condannato per incentivo al furto. Se gli rubano l’auto, la colpa è solo sua, non ha provocato il ladro? Genova: protesta nel carcere di Pontedecimo, i detenuti chiedono l’amnistia www.ogginotizie.it, 30 aprile 2013 Protestano i detenuti di Pontedecimo. Da alcuni giorni e per alcuni momenti della giornata hanno dato e danno vita alla rumorosa battitura delle suppellettili alle inferriate delle celle e al rifiuto del vitto dell’Amministrazione. Manifestazione che, iniziata congiuntamente nella sezione detentiva maschile ed in quella femminile, vede ora coinvolti solamente i detenuti. “Si tratta di una manifestazione in linea con quelle in atto in altre città d’Italia, peraltro sollecitate dai Radicali e da Marco Pannella, rumorosa ma pacifica - sottolinea Roberto Martinelli, segretario generale aggiunto del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe - Va detto che noi poliziotti non crediamo che l’amnistia, da sola, possa essere il provvedimento in grado di porre soluzione alle criticità del settore. Quel che serve sono vere riforme strutturali sull’esecuzione della pena: riforme che non vennero fatte con l’indulto del 2006, che si rilevò un provvedimento tampone inefficace a risolvere i problemi. Il sovraffollamento degli istituti di pena è una realtà che umilia l’Italia rispetto al resto dell’Europa e costringe i poliziotti penitenziari a gravose condizioni di lavoro. I poliziotti e le poliziotte penitenziarie, ad esempio, nel solo 2012 sono intervenuti tempestivamente in carcere salvando la vita ai 1.308 detenuti che hanno tentato di suicidarsi ed impedendo che i 7.317 atti di autolesionismo posti in essere da altrettanti ristretti potessero degenerare ed ulteriori avere gravi conseguenze. Hanno contato 1.023 ferimenti e 4.651 colluttazioni”. Martinelli sottolinea come sia giunto il tempo che la classe politica “intervenga con urgenza per deflazionare il sistema carcere del Paese, che altrimenti rischia ogni giorno di più di implodere. Il personale di Polizia Penitenziaria è stato ed è spesso lasciato da solo a gestire all’interno delle nostre carceri moltissime situazioni di disagio sociale e di tensioni, 24 ore su 24, 365 giorni all’anno. Torniamo a sollecitare l’adozione di riforme strutturali, che depenalizzino i reati minori e potenzino maggiormente il ricorso all’area penale esterna, limitando la restrizione in carcere solo nei casi indispensabili e necessari”. Roma: detenuto Regina Coeli morì per anoressia, 3 medici a processo per omicidio colposo Adelaide Pierucci Il Messaggero, 30 aprile 2013 Quando è entrato in carcere la bilancia segnava 81 chili. È morto, di notte, senza che i suoi tre compagni di cella se ne accorgessero, e ormai era un fuscello: 47 chili, tutto ossa. Si era spento così, in undici mesi, gli ultimi sei passati a Regina Coeli, Simone La Penna, il 32enne romano trovato senza vita sulla sua brandina il 26 novembre 2009. Per la procura i medici del carcere avevano sottovalutato la sua anoressia. Un nuovo caso Cucchi, si è detto. Simone e Stefano tutti e due trentenni, con problemi di droga alle spalle, ridotti a uno scheletro dalla fame, e, secondo i pm, vittime di chi avrebbe potuto e dovuti assisterli e salvarli. E mentre il caso Cucchi è ormai agli sgoccioli - il 22 maggio dovrebbe arrivare la sentenza - il processo per la morte di Simone La Penna si è aperto ieri. Sul banco degli imputati con l’accusa di omicidio colposo davanti al giudice monocratico tre camici bianchi di Regina Coeli: il direttore sanitario, Andrea Franceschini, e i medici Giuseppe Tizzano e Andrea Silvano. Un’udienza chiave per il pm Eugenio Albamonte, titolare dell’ inchiesta. Hanno parlato i compagni di cella di La Penna, ma anche la sua compagna, Valeria. “Ogni giorno Simone mi inviava una lettera. Mi scriveva: qua mi ignorano, mi fanno sentire un peso. Pensano che fingo. Non ho più le forze. Era un lamento continuo. Io lo sollecitavo, premevo con l’avvocato, ma nulla. Quando si presentava in infermeria: gli consigliavano di tornare in cella e bere un bicchiere di acqua e zucchero. Non so come sia potuto succedere - ha aggiunto la giovane - Era diventato pelle e ossa, inguardabile. L’ho visto io, come hanno potuto non vedere i medici?”. Simone La Penna era stato arrestato mentre era nella sua casa, a gennaio del 2009: doveva scontare un residuo pena per reati commessi nel 1998. Allora era padre di una bimba di un anno e una volta messo piede in carcere - la prima assegnazione era stata Viterbo - aveva avuto un tracollo psicologico: in tre mesi era dimagrito trenta chili. Il direttore del carcere aveva firmato il trasferimento a Regina Coeli, dove c’è un centro sanitario attrezzato. Lì, cinque anni prima, Simone era stato detenuto e assistito per problemi analoghi e poi, viste le condizioni, trasferito ai domiciliari. “Ma ora - si sfogava con la compagna - è cambiato tutto, sono cambiati direttore sanitario e medici. Le cure di routine non mi aiutano. Mangio e vomito”. L’ultima lettera è arrivata due giorni dopo la morte: “Me ne sto andando”, scriveva. L’avvocato Giuseppe Nicola Madia, difensore del direttore sanitario, è convinto che il dibattimento chiarirà tutto. “Qui sono stati mandati tre medici alla gogna solo sull’ onda dei fatti emotivi del caso Cucchi”, ha tagliato corto. Brescia: Mille Miglia; detenuti al lavoro, impiegati in quattro come addetti alla viabilità Corriere della Sera, 30 aprile 2013 Lavori socialmente utili? Un’occasione particolare per metterli in pratica sarà la prossima edizione della Mille Miglia che prende il via da Brescia il 16 maggio. La manifestazione vedrà impegnati in un lavoro di questo tipo alcuni detenuti. Nella veste di “addetti alla viabilità”, saranno incaricati di controllare che tutto fili liscio in due momenti topici: la partenza e l’arrivo. I detenuti, in particolare, avranno l’incarico di “accompagnare” le auto quando raggiungono la storica pedana di viale Venezia, tenendo sgombro il campo da appassionati o curiosi. Il progetto potrebbe coinvolgere quattro o cinque carcerati, che per il lavoro riceveranno una retribuzione, ma il numero esatto di chi potrà lasciare il carcere per dedicarsi alla Mille Miglia lo deciderà il giudice di sorveglianza. A rendere realizzabile il progetto è stato l’incontro tra Roberto Gaburri, presidente della Mille Miglia srl, ed Emilio Quaranta, ex magistrato, che dal 2011 ricopre l’incarico di garante dei diritti dei detenuti. L’idea è stata del patron della corsa che ne ha parlato con Quaranta, pronto a condividerla. E così l’idea ha camminato ed è prossima a concretizzarsi, in tempo per l’edizione 2013 della Mille miglia, la prima fatta “in casa”, che quindi si arricchirà di un risvolto sociale importante: la possibilità di dar lavoro, anche solo per qualche ora, a chi è in carcere a scontare un suo debito con la società. Rimini: Comunità Papa Giovanni XXIII; 5 detenute lasciano la cella per fare le mamme di Paolo Guiducci Avvenire, 30 aprile 2013 Per cinque mamme detenute a Rebibbia con figli al di sotto dei 3 anni si aprono le porte del carcere: potranno uscire e scontare una pena alternativa nelle strutture della Comunità Papa Giovanni XXIII. È il primo frutto della collaborazione fra movimenti cattolici che prestano servizio nelle carceri, e lo hanno raccolto i mille partecipanti del pellegrinaggio “Fuori le sbarre” che domenica ha unito il carcere di Rimini con il duomo della città. “Dobbiamo gridare a tutti che il carcere va superato, riconvertito in comunità in grado di accogliere sul territorio chi ha sbagliato e deve riparare”. Sotto un tiepido sole, Giovanni Paolo Ramonda ha dato il via alla quarta edizione del pellegrinaggio organizzato dalla Papa Giovanni XXIII che unisce chi sta dentro con chi sta fuori. Per alzare la voce, il responsabile della comunità fondata da don Oreste Benzi usa il metodo delle proposte supportate dai numeri che parlano da soli. “Il nuovo Governo si prenda cura del dramma carcerario. E necessario che i detenuti si riconcilino con se stessi e con le vittime dei reati, e inizino a lavorare nella società, e con costi minori per lo Stato”. L’esperienza della casa “Madre del Perdono”, nella Valconca riminese, dice che è possibile. Nel 2012 ha accolto 103 recuperandi facendo risparmiare allo Stato 8mila euro al giorno e abbassando la recidiva al 10% contro l’attuale 75%. Accompagnato dallo slogan “Non c’è sicurezza senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono!”, il corteo si e mosso dalla casa circondariale di Rimini verso il centro storico preceduto da una grande croce di legno. In testa al corteo, oltre a Ramonda, don Virgilio Bal-ducchi, ispettore generale dei cappellani delle carceri, don Andrea La Regina della Caritas e Stefania Tallei, comunità di Sant’Egidio. Ci sono pure 80 detenuti, di cui Giovanni e Francesco, due ergastolani ostativi, quelli del “fine pena mai”: sono a Rimini in permesso premio. “Il mondo carcere non va relegato in un angolo, è parte della società”, commenta Nicola Boscoletto, presidente della Cooperativa padovana Rebus. Il vescovo di Rimini Francesco Lam-biasi ha accolto il corteo all’arco d’Augusto con una richiesta: rallentare la marcia per favorire la distribuzione di materiale e sensibilizzare così i cittadini. “Le pene alternative sono la soluzione definitiva” rilancia Maurio Cavicchioli, del “Servizio carcere” della Papa Giovanni. E non è un paradosso. Ne è convinto pure Raffaele Martinez. “I movimenti ecclesiali hanno una grande responsabilità: - ha detto il presidente di RnS - non devono solo elevare preghiere, che non mancano, e neppure provvedere solo a opere di carità dall’esterno. È necessario offrire cammini di redenzione dentro e fuori dal carcere”. Nessuno però può vincere questa battaglia da solo. “Ma la comunione tra soggetti moltiplica la fantasia della carità e aumenta la prospettiva di bene”. Giorgio Pieri, responsabile della Casa Madre del Perdono, dà la notizia delle cinque mamme con figli neonati accolte (sono 60 in Italia quelle che stanno crescendo i loro piccoli in prigione). Di queste, una è del Ruanda ed è incinta di sette mesi, epilettica da accogliere urgentemente; un’altra è africana e tre sono Rom. Quindici Case Famiglia han già dato disponibilità per accogliere mamme con bambini. Cinque detenute di Rebibbia sconteranno la pena nelle strutture della Comunità Papa Giovanni XXIII. Larino (Cb): sette detenuti-volontari costruiscono una casa famiglia “sono una risorsa” www.termolionline.it, 30 aprile 2013 Sono sette i detenuti della casa circondariale di Larino che, da lunedì 19 aprile, sono stati autorizzati a lasciare per una settimana il carcere per recarsi tutti i giorni, dalle 9 alle 19, nella casa famiglia “Lucia e Bernardo Bertolino” (in fase di realizzazione) in contrada Chiancate a Guglionesi, dove si trova la sede operativa dell’associazione “Iktus Onlus” con sede legale nella parrocchia di san Timoteo in Termoli. Sono detenuti volontari: muratori, manovali, contadini, tutto fare. Tutti loro si sono resi disponibili per essere utili alla realizzazione di un luogo che ospiterà le persone in difficoltà. Tutto questo è stato reso possibile anche grazie alla disponibilità del direttore della casa circondariale Rosa La Ginestra e del giudice di sorveglianza, in collaborazione con l’Associazione Iktus. “Fare del bene fa bene prima di tutto a chi se ne rende protagonista e questa volta è bello vedere sedere in cattedra “la forza della debolezza”. Il detenuto non è solo un “peso” per la società, ma può diventare “risorsa” da incontrare, incanalare, condividere e con cui collaborare. Vedere per credere”, si legge nella nota. Ospitati a pranzo nella casa parrocchiale di San Timoteo, i detenuti ogni giorno vengono assistiti da qualche famiglia che pensa a donare loro e confezionare il pranzo. “Anche questo gesto - si legge ancora - educa una comunità che si sente investita del dono della loro presenza e raffina la sensibilità e la sacralità dell’accoglienza”. Firenze: internato all’Opg di Montelupo dà fuoco alla sua cella, evacuati in 150 Il Tirreno, 30 aprile 2013 Ha appiccato il fuoco al materasso della sua cella e per questo motivo l’Opg, l’ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo è stato evacuato. Protagonista del gesto un internato della struttura giudiziaria. I tre piani dell’ospedale psichiatrico, che ospita circa 150 persone, sono stati evacuati per alcune ore. E quattro agenti della polizia penitenziaria sono rimasti lievemente intossicati. Nel pomeriggio sono stati tutti dimessi dall’ospedale San Giuseppe dove erano stati ricoverati. L’incendio è scoppiato al primo piano della struttura, poco dopo le cinque del mattino. Sul posto sono intervenuti i vigili del fuoco di Empoli e Firenze, i carabinieri di Signa e la polizia per controllare che durante la temporanea evacuazione dalle loro celle nel cortile interno dell’Opg gli internati non si allontanassero dalla struttura. L’intervento dei vigili del fuoco è terminato intorno alle 9 e gli ospiti sono tornati nelle loro celle. Più che il fuoco, che sarebbe stato spento in breve, i danni maggiori, compresi quelli alle guardie, li ha provocati il fumo. La cella da dove è partito il fuoco, nella parte dell’Opg ristrutturata di recente, comunque, non avrebbe riportato danni strutturali. A causare l’incendio un detenuto sardo arrivato da pochi giorni che avrebbe avuto con sé un accendino. Con questo ha dato fuoco alle lenzuola e poi al materasso. Inizialmente era stata attivata la procedura delle maxi emergenze perché non era chiaro quale fosse l’origine dell’incendio. Ma nella mattinata all’Opg la situazione è rientrata nella norma. Sull’incendio il sindacato Sappe ha detto che “le conseguenze sono state contenute grazie ai pochissimi poliziotti in servizio, che sono riusciti a gestire il drammatico evento con professionalità, capacità e sangue freddo. Ai quattro poliziotti intossicati - ha aggiunto il segretario del Sappe Donato Capece - va la nostra vicinanza e solidarietà”. Capece poi aggiunge: “Il grave episodio di Montelupo deve servire da spunto per una immediata verifica della salubrità e sicurezza dei luoghi di lavoro nei quali sono impiegati gli appartenenti alla polizia penitenziaria. E questo episodio - conclude il segretario Sappe - deve fare riflettere, e molto, sul futuro degli internati e sulla loro custodia dopo la prevista chiusura di tutti gli opg”. Spoleto (Pg): Sappe; ancora un agente aggredito, la tensione cresce di ora in ora Ansa, 30 aprile 2013 Ennesimo agente aggredito in carcere. È scattato improvvisamente saltando alle spalle del poliziotto, il detenuto italiano di mezza età autore dell’ultimo episodio di violenza registrato nel penitenziario di Maiano. Sette giorni di prognosi Fortunatamente l’immediato intervento dei colleghi del sovrintendente che con prontezza hanno rapidamente immobilizzando il detenuto. L’agente è stato immediatamente soccorso ed ha riportato una prognosi di sette giorni. Sappe: “Tensione cresce di ora in ora” Immediato il grido d’allarme del segretario del Sappe, Donato Capece: “Questa ennesima aggressione ci preoccupa, anche perché gli eventi critici nelle carceri sono all’ordine del giorno e la tensione resta alta, a tutto discapito del nostro lavoro”. I nodi restano i soliti: “La carenza di personale, di educatori, psicologi e personale medico specializzato, il pesante sovraffollamento dei carceri italiani sono temi che si dibattono da tempo, senza soluzione, e sono concause di questi tragici episodi. Spesso, come a Spoleto, gli agenti vengono lasciati soli nella gestione di moltissime situazioni di disagio sociale e di tensione, 24 ore su 24, 365 giorni all’anno. Le tensioni in carcere crescono non più di giorno in giorno, ma di ora in ora: bisogna intervenire per garantire la sicurezza agli agenti ed impedire l’implosione del sistema”. Immigrazione: chiudere i Cie di Modena e Bologna… la richiesta dei Sindacati Cisl e Siulp Redattore Sociale, 30 aprile 2013 I Cie in Italia sono tredici, di cui due in Emilia-Romagna, uno a Bologna (attualmente in fase di ristrutturazione) e uno a Modena. Strutture, queste ultime, che possono contenere massimo 155 persone, di cui 95 nel capoluogo felsineo e 60 a Modena. “Nonostante nei due Cie emiliano romagnoli nel corso del 2012 siano transitati circa mille ospiti - proseguono i sindacalisti - la vera criticità non è il sovraffollamento, ma il fatto che siamo in presenza di aree totalmente inadeguate, luoghi di reclusione meno tutelati delle carceri”. “I Cie - rincara la dose Elia - sono la dimostrazione incontrovertibile di come la questione immigrazione in Italia venga affrontata come problema di ordine pubblico piuttosto che come problema di carattere sociale”. A tali situazioni si aggiunga il dramma delle irregolarità contrattuali della cooperativa Oasi di Siracusa e da tempo denunciate dai lavoratori attraverso le vertenze per il recupero delle spettanze. “Stipendi che non vengono pagati - sostiene il dirigente cislino - anche perchè, a causa del massimo ribasso che avrebbe effettuato la cooperativa Oasi di Siracusa per accaparrarsi l’appalto di Bologna e Modena, con la garanzia di 28,50 euro per ospite non si possano certo garantire la rete di servizi e l’inquadramento economico contrattuale previsto per il personale”. Da qui la proposta congiunta di Cisl e Siulp dell’Emilia-Romagna alla Regione: chiudere subito i Centro di identificazione ed espulsione e utilizzare i soldi risparmiati per contrastare l’immigrazione irregolare attraverso politiche coordinate e mirate di aiuto e d’integrazione. India: sul "caso marò" arrivano segnali di pace di Marco Ventura Il Messaggero, 30 aprile 2013 Processo breve di due o tre mesi e attenuante della “buona fede” per i marò Latorre e Girone. Esclusa la pena di morte. Il nuovo segnale di pace arriva in coincidenza con la nascita del governo Letta dal ministro degli Esteri di New Delhi, Salman Khurshid, che ieri in Russia ha voluto fugare "dubbi e confusioni". Letta sembra quasi rispondergli quando alla Camera annovera l’India tra i nuovi “giganti” con Cina e Brasile e aggiunge: "Lavoreremo per trovare una soluzione equa e rapida alla dolorosa vicenda dei fucilieri di Marina trattenuti in India, che ne consenta il legittimo rientro in Italia nel più breve tempo possibile". I nostri marò, accusati di aver ucciso due pescatori del Kerala scambiati per pirati un anno e due mesi fa, risiedono in ambasciata e dovranno sottoporsi a nuove indagini da parte della NIA (National Investigation Agency), l’Antiterrorismo, per poi essere giudicati da un tribunale speciale. "Fiduciosa" la nostra neo-titolare degli Esteri, Emma Bonino. "Ho seguito il dossier dei marò. L’India è un grande Paese, uno Stato di diritto: dobbiamo ascoltarci reciprocamente. Ci sono state slabbrature da molte parti che devono essere verificate. Spero in un nuovo inizio, nel rispetto reciproco dei ruoli. Avremo una soluzione com’è giusto che sia". Un vero e proprio reset. Khurshid auspica "che il nuovo governo in Italia abbia successo e credo che lo avrà. Avete un premier di centro-sinistra, molte donne, gente giovane". Sarà bene che la Bonino venga "presto e adeguatamente informata sul caso dei marò, per metterlo nella giusta prospettiva e andare avanti". L’Antiterrorismo non agirà in base alla sua legge istitutiva, il Nia Act, che prevede la morte per reati di terrorismo come la Sua, la legge sulla sicurezza del mare. I giudici agiranno "in base all’ordinanza della Corte Suprema" ritagliata sul caso particolare. Negli ultimi 10 anni ci sono state solo 2-3 esecuzioni, in gran parte per terrorismo o per l’uccisione di molte persone". I punti a favore dei marò sarebbero che "non hanno ucciso molte persone", "è un bene per loro e per l’Italia il trasferimento del caso dalla Corte del Kerala" per sottrarlo "a pressioni e emozioni locali" verso "una certa direzione" (l’impiccagione). E, terzo, il tribunale ad hoc "lavorerà giorno e notte solo su questo caso e deciderà in 2-3 mesi". Ritardi potranno derivare dalla convocazione dei testimoni italiani. "I fatti sono chiari e sfortunatamente restano, non possiamo cancellarli, ma sarà la Corte a decidere se sia stato un incidente o meno". C’è un articolo "molto cruciale del codice penale sulla buona fede" circa la responsabilità penale. Con l’omicidio colposo, niente cappio al collo. Il direttore generale della Nia, Wasan, spiega al “Messaggero” che la NIA è il top della capacità investigativa, ma che dopotutto "fa indagini come tutte le altre agenzie del mondo, nulla di più, e seguirà la legge indiana". Un responsabile della NIA nel Kerala che vuol restare anonimo ma cura le indagini in loco, ha accettato di rispondere alle nostre domande. "Sono un investigatore, le relazioni fra gli Stati non mi riguardano. Il mio compito è ricostruire i fatti e trovare la verità". Troppa emotività? "Siamo abituati, non ci faremo influenzare. A noi interessa il crimine, non se sia stato commesso da uomini in uniforme. Non siamo in guerra". I marò saranno ascoltati? "Sarebbe un’intervista, non un interrogatorio. Rispetteremo i loro diritti, saranno trattati secondo le regole. Su questo potete stare tranquilli". Svizzera: il Partito Comunista chiede il referendum contro la privatizzazione delle carceri Reuters, 30 aprile 2013 Il Partito Comunista dice “assolutamente contrario” alla decisione di trasferire parzialmente ad aziende private la sorveglianza all’interno delle carceri, “dando addirittura facoltà agli agenti di sicurezza privati di far capo a mezzi coercitivi”. “È una scelta molto grave che dà in appalto agli interessi privati elementi che, in ogni stato di diritto che si rispetti, dovrebbero invece essere di assoluta prerogativa statale e sotto controllo democratico”, si legge in una nota stampa odierna. “In altri paesi l’esperienza della privatizzazione delle carceri - si prosegue nel comunicato - è stata devastante anche dal punto di vista della sicurezza individuale, della tutela della sfera privata e del controllo sulle infiltrazioni criminali colluse con gli apparati di sicurezza. Si tratta di un precedente che aprirà le porte inoltre alla privatizzazioni di altri ambiti che il buon senso, ancora prima della politica, vorrebbe sotto controllo pubblico”. Il Partito Comunista ricorda pure di aver dovuto segnalare “casi di abuso da parte delle forze di polizia da Muralto a Lugano, figuriamoci cosa potrà ora accadere con forze di polizia private”. I comunisti, in sostanza, chiedono “agenti di polizia e di custodia adeguatamente selezionati e preparati anche dal lato psicologico e soprattutto che rispondano del loro agire alle autorità politiche democraticamente elette”. Per queste ragioni aderiscono al comitato referendario promosso dal sindacato VPOD invitando tutti i cittadini a firmare il referendum per rimettere sotto monopolio dello Stato l’uso della sicurezza e dei mezzi coercitivi. Israele: detenuti palestinesi… non c’è pace senza giustizia Ingrid Colanicchia www.globalist.it, 30 aprile 2013 Il caso di Samer Issawi, giovane detenuto nel carcere di Nafha, ha ottenuto l’attenzione internazionale dopo uno sciopero della fame di durato 8 mesi. “Non accetto i vostri tribunali e le vostre leggi arbitrarie. Dite di aver calpestato e distrutto la mia Terra in nome di una libertà che vi è stata promessa dal vostro Dio, ma non riuscirete a calpestare la mia nobile anima disobbediente”. Scrive così, in una lettera aperta al popolo israeliano, Samer Issawi, il giovane palestinese detenuto nel carcere di Nafha, che è riuscito ad attirare l’attenzione internazionale grazie a uno sciopero della fame durato otto mesi. Una storia come tante la sua, fatta di soprusi e ingiustizie. Samer, come ha raccontato lui stesso in una lettera al Guardian, viene arrestato la prima volta a 17 anni e condannato a due anni di carcere, poi nuovamente a vent’anni, condannato a 30 anni di prigione con l’accusa di far parte della resistenza all’occupazione. Dopo quasi dieci anni viene rilasciato nell’ambito degli accordi tra Israele e Hamas per lo scambio con il soldato israeliano Gilad Shalit. Il 7 luglio del 2012 viene arrestato per la terza volta, vicino Hizma, all’interno dei confini del comune di Gerusalemme, accusato di aver violato i termini di rilascio, ovvero di essere uscito dalla città santa. Samer decide quindi di cominciare uno sciopero della fame per protestare contro la sua detenzione: “Questa - dice al quotidiano britannico - è l’ultima pietra che mi resta da lanciare contro l’occupazione razzista che umilia il mio popolo”. Uno sciopero che ha interrotto il 22 aprile scorso grazie a un accordo con Israele di cui ancora non sono chiari i termini (secondo quanto riporta la Reuters, Israele gli ha garantito che sarà rilasciato a Gerusalemme, a differenza di quanto proposto in precedenza, quando gli era stata offerta la deportazione a Gaza, rifiutata da Issawi). Una lettera, quella che Samer ha diffuso ai primi di aprile, che dà voce ai quasi 5mila palestinesi rinchiusi nelle prigioni israeliane e che cade in prossimità della Giornata internazionale di solidarietà con i detenuti palestinesi, che si è celebrata il 17 aprile. Una ricorrenza in occasione della quale Assopace Palestina, Amici della Mezzaluna Rossa palestinese e Rete romana di solidarietà con il popolo palestinese hanno organizzato a Roma una tre giorni di iniziative, dal 15 al 17 aprile, per lanciare un appello per la liberazione di Marwan Barghouti, uno dei leader della prima ed ella seconda Intifada, in carcere da dieci anni, e di migliaia di palestinesi, incarcerati per motivi politici. Nell’ambito di questa iniziativa la Rete romana di solidarietà con il popolo palestinese ha presentato un dossier sulle condizioni in cui versano i detenuti palestinesi nelle carceri israeliane. Il quadro è desolante. “Dall’inizio dell’occupazione israeliana, nel 1967, sono oltre 800mila i palestinesi arrestati da Israele”, si legge nel Rapporto: numero che corrisponde al 20 per cento della popolazione palestinese dei Territori occupati. Tra questi figurano anche 8mila bambini arrestati dal 2000 a oggi. Addameer, organizzazione per la tutela dei prigionieri palestinesi e la difesa dei diritti umani, stima il numero di detenuti politici palestinesi alla data del 1° febbraio 2013 in 4.812, distribuiti in 17 prigioni, quattro centri per gli interrogatori e quattro centri di detenzione. “Tutti, tranne uno, si trovano all’interno di Israele, in violazione dell’art. 76 della IV Convenzione di Ginevra che stabilisce che una potenza occupante deve detenere i residenti del territorio occupato nelle carceri all’interno dello stesso territorio”. In conseguenza di ciò, prosegue il Rapporto, “molti detenuti hanno difficoltà ad incontrarsi con i loro difensori palestinesi e non ricevono visite dai familiari perché ai loro parenti vengono negati i permessi per entrare in Israele per “motivi di sicurezza”. “Del numero totale di prigionieri politici detenuti in Israele - prosegue il rapporto - 219 sono minori (31 dei quali sotto i 16 anni). Nel totale sono compresi anche 15 membri del Consiglio legislativo palestinese, 178 ristretti in detenzione amministrativa, e 437 prigionieri provenienti dalla Striscia di Gaza, ai quali sono in gran parte negate le visite dei familiari dal 2007”. Tra le innumerevoli violazioni commesse da Israele spicca la cosiddetta “detenzione amministrativa”, una procedura che consente ai militari israeliani di tenere indefinitamente reclusi prigionieri basandosi su prove segrete, senza incriminarli o processarli. Procedura di cui Israele si serve in spregio alle limitazioni previste dal diritto internazionale. Ma è l’intera filiera del sistema repressivo, sottolinea ancora il Rapporto, a essere gestita in “costante violazione delle leggi che regolano i procedimenti giudiziari, la tutela della salute, la dignità della persona e l’integrità fisica e psichica dei prigionieri”. Maltrattamenti e torture sono all’ordine del giorno, nella pressoché totale impunità. Secondo Yesh Din (organizzazione israeliana per i diritti umani), durante la seconda Intifada, il 90 per cento delle indagini condotte dal Dipartimento per le indagini sulla polizia militare, è finita con un’archiviazione. Etiopia: preoccupazione per due giornalisti detenuti con l’accusa di “terrorismo” di Elisa Cassinelli www.italnews.info, 30 aprile 2013 L’Etiopia si trova al 137° posto nella classifica sulla libertà di stampa nel mondo di Reporters sans frontières (Rsf). Le notizie che arrivano non sono infatti delle migliori. La stessa organizzazione ha dichiarato di essere molto preoccupata per la sorte di due giornalisti, Woubeshet Taye e Reyot Alemu, che sono detenuti dal giugno 2011 e sono stati condannati a pene detentive molto dure con l’accusa di terrorismo. Taye, che era il vice-direttore del settimanale in lingua amarica Awramba Times, è stato trasferito il 19 aprile in un centro di detenzione a Ziway, a 130 km a sud est della capitale, Addis Abeba. Alemu, editorialista del settimanale Fitih e recentemente vincitrice di un premio per la libertà dei media internazionali, è in pessime condizioni di salute. “La detenzione prolungata di questi due giornalisti innocenti, il recente trasferimento di Taye in un luogo lontano dalla sua famiglia, e la mancanza di cure mediche per Alemu sono indicativi di un’intransigenza del governo” si legge in una nota di RSF. Le autorità non hanno fornito alcuna spiegazione per il trasferimento di Taye al centro di detenzione a Ziway, un villaggio isolato, il che significa che la moglie e figlio dovranno percorrere più di quattro ore per visitarlo. Alemu, che si è aggiudicata il 2013 Unesco - Guillermo Cano Premio mondiale della libertà di stampa, il 16 aprile per “eccezionale coraggio, la resistenza e l’impegno per la libertà di espressione,” continua a essere detenuta nel carcere di Kality, nella periferia di Addis Abeba, dove i funzionari sono apparentemente indifferenti al preoccupante deterioramento della sua salute. I due giornalisti sono stati condannati a 14 anni di prigione in base alle legge anti-terrorismo dell’Etiopia nel gennaio 2012. Il Tribunale federale ha ridotto la condanna di Alemu a cinque anni di carcere otto mesi più tardi, ma quella di Taye è rimasta invariata. Timor Est: apostolato dei gesuiti nelle carceri di Dili incoraggiati da Papa Francesco Radio Vaticana, 30 aprile 2013 L’apostolato nella carceri, soprattutto con i giovani detenuti, è uno dei ministeri speciali per la comunità dei gesuiti a Dili, capitale di Timor Est. Come riferito all’agenzia Fides, la seconda domenica di ogni mesi, i gesuiti celebrano l’Eucaristia nel carcere di Becora, a Dili e molte sono le attività di cooperazione e di aiuto dei detenuti. Il servizio sociale nelle carceri - riferiscono all’agenzia Fides - ha acquistato nuovo slancio e nuovo incoraggiamento dopo il gesto di Papa Francesco, che ha scelto di celebrare la Messa del Giovedì Santo in un carcere giovanile. Anche perché la popolazione di Timor Est è formata per il 75% da giovani sotto i 30 anni, e anche la popolazione carceraria abbonda di giovani. Come racconta fratel Noel Oliver, uno dei religiosi che svolge il ministro pastorale nel carcere, “nella prigione ci accolgono col sorriso” e “i detenuti partecipano attivamente alla Messa”, animata anche grazie all’aiuto di quattro suore, “leggendo le letture e cantando in un coro, con grande intensità e professionalità”. Altra nota importante è “la coda di prigionieri in attesa di confessarsi”. Un altro gesuita, padre Quyen, riferisce che i prigionieri sono ansiosi di accostarsi al Sacramento e di ricevere la misericordia di Dio, aprendo il cuore alla grazia divina. “Nel carcere c’è una atmosfera di pace”, prosegue fratel Noel, cha racconta un episodio: “Un prigioniero, che ha scontato quattro anni della sua condanna a sette anni, desidera tornare dalla sua famiglia. Il giovane, dichiarandosi innocente, non mostra alcun segno di rancore o di odio, confidando nell’amore di Dio”. Timor Est è, con le Filippine, una delle due nazioni asiatiche a larga maggioranza cattolica. La Chiesa locale ha sempre affermato di voler contribuire alla crescita e allo sviluppo del Paese. I gesuiti lavorano a Timor Est nell’assistenza ai rifugiati, hanno una parrocchia dove svolgono lavoro pastorale e nel campo dell’istruzione. Ucraina: Corte Strasburgo; detenzione di Yulia Tymoshenko è illegale e arbitraria Tm News, 30 aprile 2013 La Corte europea dei diritti umani ha emesso oggi una sentenza per la quale la detenzione dell’ex primo ministro ucraino Yulia Tymoshenko è considerata illegale. Lo scrive l’agenzia di stampa Interfax. I giudici di Strasburgo, all’unanimità, hanno definito “arbitrario e illegale” lo stato di detenzione preventiva in cui si è trovata la leader dell’opposizione al presidente ucraino Viktor Yanukovich. Hanno tuttavia respinto a maggioranza la denuncia da parte di Tymoshenko di maltrattamenti in occasione del suo trasferimento in ospedale. “La Corte in particolare ha stabilito: che la detenzione preventiva di Tymoshenko è stata arbitraria, che la legalità della sua detenzione non è stata propriamente dimostrata e che la detenuta non ha avuto la possibilità di chiedere un risarcimento per la privazione illegale della sua libertà”, spiega in un comunicato la Corte europea dei diritti dell’uomo. Inoltre, si legge nel comunicato della Corte, “il suo diritto alla libertà è stato ristretto per motivi diversi da quelli permessi” dalla Convenzione europea sui diritti umani. Tymoshenko è in stato di detenzione da agosto 2011 e il periodo al quale si riferisce la sentenza delle Corta va dal 5 agosto 2011 al 30 dicembre 2011, quando dopo la sentenza di condanna fu trasferita nel penitenziario dove deve scontare la sua pena. Ad aprile 2012 è stata trasferita dalla prigione a un ospedale di Kharkiv per esser curata di un’ernia del disco. A ottobre 2011 è stata condannata a sette anni di carcere per abuso di potere nell’ambito di un’inchiesta sui contratti per le forniture di gas firmati con la Russia. La leader dell’opposizione sostiene di essere vittima di una persecuzione politica da parte del suo rivale Yanukovich. Figlia: decisione Strasburgo prima vittoria Ievghenia Timoshenko, la figlia della leader dell’opposizione ucraina Iulia Timoshenko, ha definito una prima vittoria la decisione della corte di Strasburgo di ritenere illegale la decisione del giudice Rodion Kireiev di sottoporre la madre al carcere preventivo nell’agosto del 2011 Gran Bretagna: ministro giustizia propone riforma carceri e regime detentivo più severo Tm News, 30 aprile 2013 I detenuti nelle carceri britanniche dovranno “guadagnarsi i privilegi” di poter vedere la televisione in cella e di poter indossare i propri vestiti, sapendo che la semplice buona condotta “non sarà sufficiente”. È quanto prevede la riforma messa a punto dal ministro della Giustizia, Chris Grayling, anticipata oggi dai media, volta a porre fine alla percezione dell’opinione pubblica su un trattamento troppo indulgente dei detenuti. La riforma prevede una prima fase di ingresso in carcere, di due settimane, in cui tutti i prigionieri dovranno indossare l’uniforme e avranno accesso limitato al denaro. Alla fine di questo periodo, i detenuti che non avranno mostrato spirito di “collaborazione con il regime carcerario o non si saranno impegnati nella riabilitazione” verranno posti a livello base, che prevede il divieto di avere la televisione in cella. Il ministro prevede anche di allungare la giornata lavorativa dei detenuti, perchè “non è giusto che alcuni prigionieri trascorrano ore in cella a guardare la televisione, mentre il resto del Paese è al lavoro”, e di vietare l’accesso ai canali satellitari e via cavo, come avviene oggi in alcune carceri private. “I prigionieri devono guadagnarsi i privilegi, non solo attraverso la buona condotta, ma anche lavorando, partecipando ai corsi di istruzione o accettando le opportunità di riabilitazione che vengono offerte loro”, ha sottolineato il ministro. Stati Uniti: detenuti recensiscono prigioni su Yelp, con dettagli sui servizi offerti 9Colonne, 30 aprile 2013 L’utilità del sito web Yelp è indiscutibile, grazie alle valutazioni che gli utenti possono effettuare su servizi di vario genere riportando la propria esperienza diretta. Nessuno dei programmatori del sito avrebbe mai pensato che i detenuti lo avrebbero utilizzato per recensire gli istituti di correzione, con dettagli sui servizi offerti dai vari penitenziari. Come riporta il Washington Post, le segnalazioni vanno dalla qualità del cibo ai trucchi per ottenere doppie razioni di dolce, fino alle percentuali di rischio di subire abusi da parte degli agenti carcerari. I detenuti - principalmente statunitensi - sostengono che Yelp possa fungere da strumento attraverso il quale poter comunicare direttamente con le autorità dei vari istituti, senza che la propria voce e le proprie rimostranze, soprattutto nei confronti del comportamento delle guardie carcerarie, finiscano in udienze amministrative che generalmente si concludono con un nulla di fatto.