Giustizia: intervista a Paola Severino “lascio un pacchetto chiavi in mano” di Dino Martirano Corriere della Sera, 27 aprile 2013 Il ministro: è fondamentale una continuità su carceri, tempi dei processi e abbattimento dell’arretrato civile. “Lasciamo un pacchetto pronto per l’uso, chiavi in mano, anche se capisco benissimo che le soluzioni tecniche prospettate non equivalgono affatto a una proposta politica, che richiede ben più ampie e diverse condivisioni”. Il Guardasigilli Paola Severino sta raccogliendo le carte accumulate nei 18 mesi trascorsi in via Arenula. Gli scatoloni sono pronti da giorni, nonostante le indiscrezioni non abbiano interrotto il tam tam su un suo possibile coinvolgimento nel nuovo governo. Lei però spiega: “Ho sempre pensato, fin dall’inizio del mio incarico, che questa dovesse essere una missione non ripetibile. D’altronde ritengo che ci siano altre persone in grado di affrontare questo difficile percorso della giustizia e che comunque non conti tanto la persona che lo farà, ma il modo con cui lo si farà. Ritengo fondamentale che si mantenga un rapporto di continuità su alcuni temi: carcere, depenalizzazione, tempi della giustizia, abbattimento dell’arretrato civile, impegno nella lotta alla corruzione. Che dunque si continui nel solco tracciato perché sarebbe un peccato buttare al vento quello che si è fatto con una ampia condivisione parlamentare su temi difficili. Che non è poco”. Sul fronte delle carceri, però, il Parlamento ha silurato il vostro ddl sulle pene alternative… “Sulle carceri ho registrato delusioni ma anche soddisfazioni. Intanto, con il decreto “salva carceri”, i detenuti, che erano 68 mila, ora sono 65 mila e il fenomeno delle “porte girevoli” (che portava molti arrestati ad uscire dal carcere entro 48 ore) è stato ridimensionato. Infine ha visto la luce la carta dei diritti, tradotta in moltissime lingue, un conforto soprattutto per il detenuto straniero. E poi, con 16 milioni, siamo riusciti rifinanziare la legge Smuraglia per il lavoro in carcere perché se un detenuto lavora, poi nel 98% dei casi non va incontro alla recidiva. La strada è tracciata. Il testo sulle pene alternative potrebbe essere integrato con parti della proposta del Csm che inciderebbe su una platea più ampia di detenuti. Ricordo, poi, il presidente Napolitano ha più volte indicato le carceri come una delle maggiori priorità. E Strasburgo, su questo tema, ci ha dato un anno per metterci in regola”. Che fine farà il lavoro sulla prescrizione, sulla depenalizzazione e sull’auto riciclaggio? “Sulla depenalizzazione la commissione Fiorella ha prodotto uno studio davvero approfondito che potrebbe essere tradotto in testo di legge: l’obiettivo è quello di consentire al giudice penale di alleggerirsi di tutta una serie di processi “minori”. Sulla prescrizione i suoi “saggi” hanno anche proposto un “bonus” per l’accusa quando si arriva in prossimità della sentenza e il tempo concesso sta per scadere… “Si è cercato di fare un passo in avanti su un tema complesso, studiando varie soluzioni tecniche possibili, ma prendendo in esame ipotesi in cui ci sia già una sentenza di condanna”. Processo civile: avete fatto molto ma la mediazione obbligatoria è stata fermata. “In nome della massimizzazione dell’efficienza, abbiamo varato la revisione delle circoscrizioni giudiziarie, il tribunale delle imprese, il filtro per l’appello, sviluppato l’informatizzazione. Certo, si dovrebbe tonare sulla mediazione obbligatoria perché la Consulta ha ritenuto che ci fosse un eccesso nell’attuazione della delega, ma nel merito di questa forma alternativa di processo non ha avuto nulla da eccepire. Se avessimo avuto più tempo saremmo intervenuti”. Intercettazioni: vi siete tenuti alla larga da questo scoglio. “In realtà, si è svolto un approfondito confronto con i partiti e si è arrivati vicini a un accordo, dibattendone a lungo anche con i rappresentanti della stampa. Ma poi il meccanismo della calendarizzazione si è inceppato, impedendo la discussione”. Cosa racconterà ai suoi studenti ora che tornerà alla Luiss? “Racconterò loro un anno e mezzo passato al governo perché vedere la formazione della legge non più solo dal punto di vista dello studioso, ma nel rapporto con il Parlamento, è una esperienza straordinaria”. Tornerà anche a esercitare la professione di avvocato... “Tornerò alla mia vita di prima, una vita piena di molte cose e di soddisfazioni. Ci torno sapendo di aver fatto un’esperienza importante”. Giustizia: Ucpi; Governo vanifica legge Pinto, impossibile ottenere risarcimenti dallo Stato Ansa, 27 aprile 2013 “L’ennesimo esempio di disinteresse verso i diritti delle persone dato dal Governo”: l’Unione delle Camere penali si schiera contro una norma “ben nascosta” nell’ultimo dei decreti finanziari del governo (il numero 35 dell’8 aprile) che “impedisce qualsiasi atto di sequestro o pignoramento contro lo Stato per la riscossione coattiva di somme liquidate a norma della legge Pinto”. In pratica, spiegano i penalisti , “il cittadino mantiene il proprio diritto al ristoro per le lungaggini dei processi, ma viene resa ineseguibile la sanzione: rimane l’arma ma le munizioni ora sono a salve”. “Ancora una volta - lamenta l’Ucpi - il Governo ricorre ad un espediente procedurale per evitare di risolvere un problema reale. Come con riguardo al carcere non si è messo mano a misure per diminuire il sovraffollamento e si è invece impugnata la sentenza Torreggiani (che pone all’Italia il termine di un anno per riportare le carceri ad una condizione di minima civiltà), per prendere tempo, così anziché assumere iniziative concrete e serie per velocizzare i processi, si è fatto ricorso ad un articolo semi-clandestino per neutralizzare una normativa finalizzata a tutelare il diritto del cittadino di ricevere giustizia in tempi ragionevoli. Deve essere ben chiaro ad ogni compagine governativa, di tecnici e non - concludono i penalisti - che il rispetto dei diritti dei cittadini non è un optional”. Giustizia: lo Stato italiano sempre più insolvente... e sempre più delinquente abituale di Deborah Cianfanelli Notizie Radicali, 27 aprile 2013 Ancora una volta, nel bel mezzo del delirante spettacolo offerto dalla scena politica italiana, tra il polverone sollevato davanti agli occhi degli italiani da un governo fittizio, dall’incapacità del parlamento di eleggere un presidente della repubblica, tra le liti ed i capricci dei partiti che ogni giorno affollano i mass media di futili e plateali litigate, lo Stato italiano è comunque riuscito a sferrare un nuovo colpo alla concreta effettività della Legge Pinto: Il decreto legge n. 35 dell'8 aprile 2013, recante quasi ironicamente il titolo "disposizioni urgenti per il pagamento dei debiti scaduti della pubblica amministrazione, per il riequilibrio finanziario degli enti territoriali, nonché in materia di versamento di tributi degli enti locali", in realtà elimina ogni residua possibilità, per chi ha ottenuto il riconoscimento del proprio diritto al risarcimento per l'eccessiva durata dei processi ai sensi della Legge Pinto, di ottenere quanto liquidatogli con decreti emessi dalle Corti di Appello o con sentenze emesse dalla Corte di Cassazione. Infatti all'art. 6, in tema di “Altre disposizioni per favorire i pagamenti delle pubbliche amministrazioni”, al comma 6 così apporta una modifica alla legge 24 merzo 2001 n. 89 (meglio conosciuta come Legge Pinto, inserendo l’art. 5-quinques che così recita: "al fine di assicurare un'ordinata programmazione dei pagamenti dei creditori di somme liquidate a norma della presente legge (ndr: l. Pinto), non sono ammessi atti di sequestro o di pignoramento presso la tesoreria centrale e le tesorerie provinciali dello Stato per la riscossione coattiva di somme liquidate a norma della presente legge (ndr l. Pinto)”. Peccato che i suddetti pignoramenti presso terzi fossero l'ultima azione rimasta per ottenere il pagamento di quanto dovuto, avendo già precedenti leggi nel corso degli anni reso impignorabile tutto il resto, con uno stato che continua ad essere dolosamente e sistematicamente moroso. Già in un mio articolo per Notizie Radicali dell’anno 2010 e successivamente nel dossier predisposto per il Comitato dei Ministri della Corte Europea avevo avuto modo di segnalare la disparità di trattamento tra un qualsiasi cittadino debitore e lo Stato debitore evidenziando chequando è lo Stato a subire una condanna, già esso ha la prerogativa che il titolo emesso nei suoi confronti non può divenire esecutivo se non dopo centoventi giorni dalla notifica. Ebbene, nonostante questo lungo ed inaccettabile lasso di tempo che già la legge gli concede per adempiere agli ordini dei tribunali, la regola è ormai divenuta quella della persistenza nell'inadempimento. In questo modo i cittadini vittime della irragionevole durata dei procedimenti che li coinvolgono si trovino, grazie alle nostre leggi, a vivere una seconda paradossale esperienza che li costringe ad affrontare ulteriori irragionevoli spazi temporali per ottenere il giusto e riconosciuto risarcimento. Infatti, trascorsi i quattro mesi, lo Stato non adempie mai spontaneamente, motivo per cui è necessario intraprendere la procedura esecutiva che, di norma, prevede pignoramenti presso terzi. Ebbene, anche sotto questo punto di vista lo Stato italiano si sta ben tutelando per rendersi pressoché del tutto impignorabile. In un primo momento, infatti, tali crediti venivano escussi tramite pignoramenti presso la Banca d'Italia, ma, con il decreto legge n. 143/08, convertito nella legge 181/2008, all'articolo due sono state rese impignorabili tutte le somme del Ministero della Giustizia depositate presso le Poste Italiane e presso la Banca d'Italia. Nella successiva ricerca di crediti del Ministero della Giustizia da poter escutere presso terzi, i pignoramenti si sono allora indirizzati presso le Agenzie di riscossione tributi (Equitalia S.p.A.), le quali, per un po' di tempo, hanno così rappresentato l'unica possibilità per i cittadini vittime della regola italiana della eccessiva durata dei procedimenti, sia penali sia civili, di ottenere una esecuzione coattiva delle condanne impartite allo Stato dalle Corti d'Appello. Ma anche questa via è stata di recente bloccata dal governo italiano che, con il cosiddetto "decreto milleproroghe", convertito nella legge n. 14 del 27.02.2009, all'articolo 42 comma 7-novies ha stabilito che "non sono soggette ad esecuzione forzata le somme incassate dagli Agenti della riscossione e destinate ad essere riversate agli enti creditori ai sensi dell'art. 22 del D. Lgs. 112/99 e degli artt. 8 e 9 del D. Lgs. 237/97". Il Decreto Legge dell’8 aprile 2013 n. 35 mette così la parola fine ad ogni tentativo di escussione forzata dei crediti dei cittadini in forza della L. Pinto. Agli aventi diritto al risarcimento (risarcimenti che ammontano centinaia e centinaia di migliaia di euro) non resta che attendere passivamente un ormai insperato pagamento spontaneo da parte dello Stato italiano. Oltre al danno di aver subito un processo avente una durata irragionevole, la beffa di non poter ottenere il risarcimento riconosciuto. Contro tutto questo non resta che adire con nuovi ricorsi la corte europea dei diritti dell’uomo da parte di tutti coloro per i quali il riconoscimento del risarcimento dei danni resta un semplice foglio di carta. Giustizia: Pannella in sciopero della fame, mobilitazione per "Amnistia, giustizia e libertà" Ansa, 27 aprile 2013 Marco Pannella questa mattina è intervenuto ai microfoni di Radio Radicale per ricordare e precisare i contenuti della sua iniziativa nonviolenta: è in sciopero della fame dopo 5 giorni di sciopero della sete. L'iniziativa vede la sua massima mobilitazione da ieri al 30 aprile. "Confermiamo, come dal 2007 e prima ancora, gli obiettivi emblemizzati e sostanzializzati dalla triplice indicazione "Amnistia, giustizia e libertà", ha detto Pannella. Il Satyagraha, ha spiegato, intende coinvolgere tutti coloro che avvertono l'urgenza assoluta dell'obiettivo di far uscire lo Stato italiano, la Repubblica (monarchica o meno che sia), il regime, noi tutti dal suo attuale stato di flagrante violazione dei diritti umani, perché dove c'è strage di legalità c'è strage di popolo e non solo di individui". L'obiettivo, ha insistito Pannella, è quello di dare corpo, voce e consapevolezza all'esigenza di uscire immediatamente la situazione di illegalità dello Stato italiano, se non vuole essere espulso dalla comunità internazionale come uno degli Stati peggiori, contenendo in sé davvero la peste letale per tutto il mondo". Giustizia: Sappe; ogni anno più di mille tentativi di suicidio in carcere, quasi tutti sventati Adnkronos, 27 aprile 2013 Un altro caso di tentato suicidio in carcere. Questa volta nell’istituto penitenziario di Sant’Anna di Modena dove nella notte tra lunedì e martedì un detenuto di origine straniera, dopo che il personale di polizia penitenziaria aveva già effettuato il consueto giro di controllo, ha tentato di impiccarsi utilizzando un rudimentale cappio. Ne dà notizia in una nota Giovanni Battista Durante, segretario generale del Sappe (Sindacato autonomo polizia penitenziaria) che ricorda come ogni anno sono più di mille i tentati suicidi in carcere. “Dopo averlo legato alle sbarre della finestra l’uomo, di circa 40 anni, è salito su uno sgabello e si è lasciato cadere nel vuoto - spiega - Il rumore dello sgabello ha svegliato il compagno di cella che ha lanciato l’allarme. È intervenuto immediatamente il personale di polizia penitenziaria che lo ha salvato da morte certa. Ricordiamo che lo stesso giorno, nella casa di lavoro di Castelfranco Emilia, un giovane internato si era tolto la vita inalando il gas dalla bomboletta”. “Fatti analoghi, di recente, sono già successi in Calabria, in Sardegna e in tante altre regioni d’Italia - continua la nota del Sppe - Ogni anno, lo ricordiamo ancora, i morti per suicidio nelle carceri, le cui notizie sembrano sempre di più un bollettino di guerra, sono 60-70 ed i tentativi di suicidio superano i 1.100. Negli ultimi 20 anni sono stati salvati circa 17.000 detenuti, nonostante le gravi carenze di personale. Mancano - rimarca il sindacalista - 7.500 unità a livello nazionale e 6.500 in Emilia Romagna. Nei prossimi anni perderemo altri 2.500 agenti circa, a causa dei tagli alla spesa pubblica. Speriamo che il nuovo governo ponga tra le priorità anche la questione carceri”. Giustizia: Iacolino (Ppe); riforma carcerazione preventiva sia tra priorità del Parlamento www.lavalledeitempli.net, 27 aprile 2013 “L’insostenibilità delle condizioni in cui versano gli istituti detentivi - dovuto al sovraffollamento, ad episodi di violenza, ad atti di autolesionismo e ad una edilizia penitenziaria degradante - danno la misura di una vera emergenza nazionale che impone una radicale riforma del sistema giustizia - priorità per il nuovo Parlamento nazionale - per assicurare una giustizia più efficiente e veloce e garantire la tutela della dignità della persona, il rispetto dei diritti del detenuto, la sua riabilitazione ed il principio di non colpevolezza, prima della sentenza definitiva di condanna. I dati drammatici sul sovraffollamento - oltre 65 mila detenuti (al 31 marzo 2013) nei 206 istituti di pena italiani, a fronte di una capienza regolamentare di 47 mila posti - fotografano una situazione di per sé inaccettabile resa ancora più drammatica, in alcuni Stati membri, dall’abuso della carcerazione preventiva che per la sua interminabile e imprecisata durata costituisce una violazione del principio di presunzione di innocenza in assenza di una condanna definitiva. Basti pensare che solo in Italia sono quasi 25 mila i detenuti in attesa di giudizio, mentre in Europa soltanto il 25% della popolazione carceraria è in attesa di una sentenza definitiva. In Parlamento Europeo siamo al lavoro per definire una legislazione orientata ad una limitazione del ricorso sistematico alla carcerazione preventiva che - pur rimanendo uno strumento eccezionale - deve poter essere usata in situazioni di assoluta necessità (nel caso di reati come criminalità organizzata e terrorismo, pericolo di fuga o indagini complesse) conciliandola con il rafforzamento delle garanzie inderogabili dell’indagato o imputato sottoposto a custodia cautelare”. Lo ha affermato l’On. Salvatore Iacolino (Ppe-Grande Sud) intervenendo oggi a Palermo al convegno “Sovraffollamento nelle carceri e diritti umani. Prospettive di riforma” svoltosi a Villa Niscemi. Giustizia: il “boss” Provenzano ricoverato in ospedale e poi riportato in carcere a Parma Ansa, 27 aprile 2013 Il boss Bernardo Provenzano, detenuto al 41 bis nel carcere di Parma, è stato ricoverato d’urgenza nell’ospedale della città emiliana. Il capomafia corlonese, avrebbe avuto sbalzi di pressione tali da rendere necessario un suo trasferimento nel nosocomio. Le sue condizioni, però, dopo la terapia non sarebbero gravi. Provenzano è tornato in cella nelle ultime settimane, dopo mesi di degenza in ospedale: in seguito a diverse cadute in carcere, su cui la procura di Palermo ha anche aperto un’inchiesta, fu operato per un ematoma al cervello. Il boss è affetto da Parkinson e da una serie di patologie, tra cui alcune cardiache: per i periti, incaricati dal gip titolare del procedimento sulla trattativa Stato-mafia in cui è imputato, non sarebbe in grado di partecipare coscientemente al processo. Valutazione che ha indotto il giudice a sospendere il procedimento. Il legale del capomafia, l’avvocato Rosalba Di Gregorio, ha chiesto la revoca del 41 bis, ma l’istanza è stata rigettata. Ancora pendente davanti al tribunale di sorveglianza di Bologna invece la richiesta di sospensione dell’esecuzione della pena, fatta per le condizioni di salute del boss. I giudici dovrebbero decidere all’udienza del 3 maggio. Provenzano sta meglio: è tornato in cella Il boss Bernardo Provenzano, che ieri è stato ricoverato d’urgenza in ospedale per uno sbalzo di pressione, è tornato nel carcere di Parma dove è detenuto al 41 bis. Le sue condizioni sarebbero migliorate grazie alla terapia a cui è stato sottoposto. Il capomafia è malato da tempo e per i periti non sarebbe più in grado di partecipare consapevolmente ai processi. Il suo legale, l’avvocato Rosalba Di Gregorio, ha chiesto la revoca del carcere duro e la sospensione dell’esecuzione della pena. Il Guardasigilli ha rigettato la richiesta di revoca del 41 bis, mentre è pendente, davanti al tribunale di sorveglianza di Bologna, la causa che dovrà decidere sulla sospensione della pena per il boss malato. Giustizia: caso Aldrovandi, ai domiciliari Enzo Pontani, uno dei poliziotti condannati Adnkronos, 27 aprile 2013 Ha ottenuto gli arresti domiciliari Enzo Pontani, uno dei quattro poliziotti condannati per omicidio colposo in seguito alla morte di Federico Aldrovandi, il giovane deceduto nel 2005 al termine di un controllo di polizia. “Nessuna meraviglia, l’unica cosa da dire è: finalmente! Ma non avevamo molti dubbi che sarebbe andata così, perché il Tribunale di Sorveglianza di Milano non ha fatto altro che applicare la legge. Finalmente, lo ripetiamo. Rimane, più pesante che mai, il fatto che si trovano ancora dietro le sbarre altre due persone che sono le uniche in Italia entrate in carcere per scontare sei mesi di pena per una contestazione colposa, nonostante quanto previsto nella legge svuota-carceri”, commenta in una nota Franco Maccari, Segretario Generale del Coisp, Sindacato Indipendente di Polizia. “E ad ogni giorno che trascorre -prosegue- si avverte più forte che mai la disparità di trattamento riservatagli solo ed unicamente perché portano una divisa che li ha fatti diventare il bersaglio perfetto di odio, rancore e desiderio di vendetta che nulla hanno a che fare con la giustizia, nè quella codificata nell’ordinamento né, ci sentiamo di aggiungere, con quella suggerita dall’umanità, dalla pietà, dalla ragionevolezza”. A questo punto “restano in cella solo i due poliziotti detenuti a Ferrara, cui il Tribunale di Bologna ha negato le misure alternative”. Lettere: le nostre carceri… di Mattia Feltri La Stampa, 27 aprile 2013 Intanto, se ne sono accorti in pochi, Marco Pannella è di nuovo in sciopero della fame e della sete. A questo proposito riportiamo: “Le carceri italiane rappresentano l’esplicazione della vendetta sociale nella forma più atroce che si sia mai avuta: noi crediamo di aver abolita la tortura, e i nostri reclusori sono essi stessi un sistema di tortura la più raffinata; noi ci vantiamo di aver cancellato la pena di morte, e la pena di morte che ammanniscono a goccia a goccia le nostre galere è meno pietosa di quella che era data per mano del carnefice; noi ci gonfiamo le gote a parlare di emenda dei colpevoli, e le nostre carceri sono fabbriche di delinquenti...”. Non sono parole di Pannella, ma di Filippo Turati alla Camera, 18 marzo 1904. Modena: tragedia alla Casa di Lavoro di Castelfranco, giovane detenuto si toglie la vita www.politicamentecorretto.com, 27 aprile 2013 Nella serata di martedì, un 25enne italiano si è suicidato utilizzando una bomboletta del gas che viene utilizzata per cucinare e riscaldare cibi e bevande. Il giovane era in attesa di scarcerazione per essere ricoverato in casa di cura a causa degli evidenti segni di malessere psicofisico. Sul tragico incidente accaduto alla Casa di Lavoro si è espresso il segretario generale aggiunto del Sindacato autonomo della Polizia Penitenziaria, Giovanni Battista Durante: “Sarebbe opportuno che l’amministrazione provvedesse al più presto a vietare l’uso delle bombolette di gas, considerato che a tutti i detenuti e gli internati viene fornito il vitto”. Dalla sua parte, “Ristretti Orizzonti”, componente dell’Osservatorio permanente sulle morti in carcere è intervenuto sul caso: “Doveva essere scarcerato e ricoverato in una casa di cura, ma l’ordinanza del magistrato non era stata ancora eseguita, il ricovero del giovane, firmato da giorni dal magistrato di sorveglianza non è stato eseguito neppure quando, venerdì scorso, dopo il colloquio con i familiari, il 25enne aveva dato segni evidenti di malessere psicofisico”. La vittima, che è stata trovata senza vita dal suo compagno di stanza, si è soffocata con un sacchetto della spazzatura riempito del gas della bomboletta. Intanto, Giovanni Battista Durante ha voluto parlare anche sui tragici incidenti nei carceri italiani: “Il malessere psichico è diffuso nelle strutture penitenziarie e quello avvenuto a Castelfranco è l’ennesimo suicidio. In media sono 60-70 quelli dei detenuti in Italia ogni anno, circa 1.100 quelli sventati dalla polizia penitenziaria. A questi drammi non si riesce a porre rimedio, anche perché gli agenti sono ora 7mila in meno rispetto al previsto nel nostro Paese. Auspichiamo che il governo metta in agenda la questione carceri e che nomini nuovi vertici dopo che nell’ultimo anno si è perso tanto tempo”. Il commento di Luana Cinti, esponente dell’Italia Dei Diritti È successo mercoledì. Si è tolto la vita con un sacchetto di plastica riempito di gas un giovane di ventiquattro anni, padre di un bimbo di pochi mesi, il quale risiedeva presso la Casa di Lavoro di Castelfranco Emilia, in provincia di Modena. Il suo nome era Denis, e già da alcuni giorni il Magistrato di Sorveglianza aveva disposto il suo trasferimento in una Casa di Cura e Custodia. A renderlo noto sono stati l’Osservatorio permanente sulle morti in carcere e l’associazione Ristretti Orizzonti. Da quanto si apprende, purtroppo, a tale indicazione non era stata data applicazione neppure in seguito all’ultimo colloquio che il ragazzo aveva tenuto con i propri genitori venerdì scorso, quando “aveva dato segni evidenti di malessere psicofisico”. Nonostante i tentativi di rianimarlo in seguito all’allarme dato da un suo compagno, non c’è stato nulla da fare. Dieci giorni fa, Desi Bruno, la Garante regionale per le persone private della libertà, aveva sottolineato la criticità della situazione personale di Denis, e aveva affermato: “Agli internati, in esecuzione della misura di sicurezza della casa-lavoro, non è garantito alcun progetto che metta, come necessario, il lavoro al centro della condizione dell’internamento. Da loro viene una pressante richiesta di occupazione”. Apprendiamo inoltre che gli internati presso questa struttura hanno già scontato la loro pena detentiva e vengono loro affidate mansioni di tipo “domestico” cui segue un riscontro economico di poco conto. Senza contare che diversi giovani qui ospitati sono portatori di un forte disagio psichico. La Garante poi aggiunge: “Molti di loro hanno problemi psichiatrici, alcuni dei quali con doppia diagnosi, potendo contare sull’aiuto di una sola operatrice per un complessivo monte ore di 24 ore al mese”. E la Magistratura di sorveglianza, di fronte all’impossibilità di dar vita a progetti di reinserimento sociale, è spesso costretta, paradossalmente, ad estendere l’obbligo di permanenza nella struttura. Dalle parole della Bruno, dunque, emerge lo sconforto e l’impotenza per il fatto di non poter cambiare nell’immediato la situazione: “Questi posti vanno chiusi. Lo chiedo di nuovo. Bisogna che qualcuno si muova, io non so più come chiederlo”. Luana Cinti, esponente dell’Italia Dei Diritti e vice responsabile per l’Emilia Romagna in merito dichiara: “ Un nuovo tragico episodio attraverso il quale, ancora una volta, possiamo dire che non si è fatto quanto più volte segnalato e a più voci domandato per evitare il peggio, ma si è rivelato più facile chiudere gli occhi fino all’esito drammatico. Associazioni, Garanti, parenti, gli stessi detenuti trovano troppe volte la strada sbarrata di fronte alla richiesta di aiuto concreto, e ancor prima di ascolto. Una sordità che si rivela letale quando le risorse e gli strumenti di protezione riconosciute alla persona in difficoltà, attraverso i quali offrire ad essa l’opportunità di una svolta e di un cambiamento in meglio, si riducono sensibilmente, fino a divenire inconsistenti, inutili e addirittura lesivi della dignità personale, del diritto ad una vita minimante decorosa. L’esistenza di questi ragazzi, internati presso strutture in cui dovrebbero essere promosse attività di recupero per mezzo di semplici progetti lavorativi e di costruttiva socialità, viene di fatto lasciata in sospeso, privata dei mezzi. È un esistenza vuota, o meglio svuotata, cui non si offre margine di prospettiva, per la quale il futuro è inevitabilmente il protrarsi inaccettabile di una routine di per sé già dolorosa, anche per i propri cari. E in questo discorso rientrano ovviamente anche i detenuti delle carceri sparse su tutto il territorio nazionale. Nel caso specifico di Castelfranco Emilia, abbiamo a che fare con giovani fortemente disagiati dal punto di vista psichico e sociale, ragazzi per cui andrebbe promosso un piano di intervento e supporto chiaro, continuativo e su più fronti, da parte di personale appositamente formato e specializzato in tali ambiti. Quindi non un micro pacchetto di ore svilenti del senso stesso del recupero ai fini della reintroduzione in un settore lavorativo, ma una tabella di iniziative strutturate, degne di un luogo che si definisca “Casa del Lavoro”. Èinquietante ascoltare le parole della Garante, che chiede la chiusura di questi centri e si sente impotente, incapace di trovare una soluzione perché priva di sostegno nella propria opera. E ancor più terribile, certamente, l’idea di una Magistratura di Sorveglianza che prolunga la permanenza dei giovani interessati tra le mura di tale edificio poiché non avrebbero altre alternative. Sconvolgente”. Rimini: dossier Casetti… l’infermeria e la sanità dietro le sbarre di Stefano Rossini www.newsrimini.it, 27 aprile 2013 Come scorre la vita all’interno del carcere? Monotona, sempre uguale, alla ricerca di un motivo o di una possibilità di uscire o di vedere qualcuno: un’immobilità che logora nervi e spirito. Non a caso uno dei punti nevralgici della quotidianità carceraria è l’infermeria. Nella casa circondariale di Rimini sono presenti una media di 200 detenuti - il turnover è molto rapido e la maggior parte delle persone rimane per meno di un anno, con un continuo cambiamento. Ogni giorno passano in infermeria tra le 40 e le 50 persone. Questo significa che, considerando chi si presenta tutti i giorni, in media almeno una volta ogni settimana o dieci giorni, tutti i detenuti vengono visitati per qualcosa. Di questi circa la metà - una ventina - va dal medico di base. Oltre ai medici di assistenza primaria (in totale 5, che si dividono i turni per essere presenti 365 giorni all’anno), nell’infermeria del carcere di Rimini ci sono 5 infermieri, un agente di riferimento, il direttore sanitario e alcuni specialisti. In particolare, quelli che si presentano con regolarità sono: il dentista, due psichiatri (uno del Sert e uno del servizio psichiatrico) un dermatologo (per problemi di scabbia e altre malattie della pelle) e un infettivologo (principalmente hiv ed epatite). L’infermeria è un piccolo mondo all’interno del carcere, con le proprie dinamiche e i suoi riti. “C’è chi si presenta tutti i giorni - ci racconta un dipendente - per le cause più varie. Spesso, al di là del problema, l’infermeria è un modo per relazionarsi con qualcuno che non sia i propri compagni di cella, oppure per richiedere dei farmaci per lenire il dolore della carcerazione”. La distribuzione dei farmaci viene decisa dai medici dell’infermeria e dal direttore sanitario, ne consegue che la modalità tende a cambiare quando cambiano i referenti. “Ci sono stati periodi in cui i farmaci per gestire gli stati emotivi si davano con una certa facilità - prosegue il dipendente - Il passaparola tra i detenuti è stato immediato, e venivano in tanti. Quando invece, come ora, le possibilità si sono ridotte, anche le richieste sono diminuite. “Oltre all’uso personale per cercare di sopportare la carcerazione, lo psicofarmaco viene utilizzato come merce di scambio. È una valuta pregiata spesso scambiata con le sigarette”. Come accade che un farmaco possa essere riutilizzato? “Se i detenuti riescono a non deglutirlo, allora poi possono riprenderlo e rivenderlo. Per evitare che ciò accada, si cerca sempre di far prendere i farmaci ai detenuti direttamente in infermeria, e, quando possibile, in gocce”. Ma alcune volte l’astuzia dei detenuti riesce nell’intento. E a quel punto il carcerato è in possesso di un bene. Periodicamente le guardie fanno delle spedizioni nelle celle per controllare. È una lotta continua. “La vera lotta - ci dice ancora il dipendente - è per il medico tra l’ascoltare e venire incontro alle esigenze del detenuto, per cercare di capire, in definitiva, quando dietro la richiesta per un farmaco o per una visita all’esterno c’è un vero disagio, un problema, una malattia, oppure se è solo un tentativo di ottenere qualcosa”. È un gioco da equilibristi. Ci sono notevoli responsabilità per i medici, in bilico tra il rischio di ignorare un problema di salute e quello di scivolare in un gioco in cui il detenuto ottiene un piccolo potere all’interno del carcere. E la linea è sottilissima, perché il malessere della carcerazione spesso può essere lenito in tanti modi, compreso quello di uscire per una visita. Si lavora, insomma, in condizioni di estrema difficoltà, scontrandosi con un modo di fare che tende a manipolare. Con questa mentalità i detenuti sono disposti a manipolare in primis anche la propria salute se questo serve ad ottenere qualcosa, e questo accade in maniera endemica. Dicono o fanno cose anche gravi, come tagliarsi o ingerire le pile/batterie in modo da ottenere altro. “Dormo male, ho sonno, sono imbambolato, sto male - ci racconta un medico - sono le richieste più comuni di chi viene in infermeria, solitamente con la speranza di uscire per una visita o un esame o uscire dal carcere per problemi sanitari. Ma nella quasi totalità di questi casi è questa una chimera: i detenuti vengono autorizzati ad uscire solo per le cose più gravi”. Eppure molti ci provano lo stesso, anche per rompere la monotona routine della giornata, per uscire solo per alcuni minuti da una cella sovraffollata, o per parlare con il medico. Alcuni vanno in infermeria tutti i giorni per prendere il metadone. Sono meno di una decina, su un totale di 80 ex-tossicodipendenti. Di norma il metadone viene dato solo a chi già lo prendeva fuori, non è una prassi che comincia all’interno del carcere. Poi ci sono quelli che devono fare l’insulina. E ancora quelli che vengono per traumi vari, o dovuti alle partite di calcio, oppure per cadute nella doccia. “La caduta nella doccia o il trauma dovuto alla partita di calcio - racconta un medico - è la scusa solitamente usata quando i detenuti fanno a botte. Sia quando le risse sono tra di loro, sia quando intervengono le guardie”. Secondo le testimonianze nel carcere di Rimini non ci sono ordinariamente spedizioni punitive, ma è mai una pratica che non si può completamente escludere dal carcere. Poi ci sono le situazioni estreme, dai transgender che chiedono ormoni, a chi per protesta arriva in infermerie a e comincia a tagliarsi. “Ricordo - dice un dipendente dell’infermeria - una delle prime volte in cui è entrato un detenuto, un uomo di cultura araba, che ha cominciato a tagliarsi. Non so se fosse per ripicca, o vendetta, ma in poco tempo s’era creato un lago di sangue. Sono quasi sempre arabi che fanno dimostrazioni di forza. Come quando, per un’altra protesta, alcuni detenuti si cucirono la bocca con ago e filo”. In generale, al momento, la situazione del carcere è buona - per quanto può essere buona una situazione in carcere - ma col continuo turnover, sono sufficienti tre o quattro persone con problemi psicopatologici gravi per creare un clima pesante. Perugia: delegazione M5S visita il carcere di Capanne “realtà buona ma anche problemi” www.perugia.ogginotizie.it, 27 aprile 2013 Tra i punti negativi gli esponenti del Movimento Cinque Stelle segnalano la carenza di personale e l’assenza di un’ala per la degenza ospedaliera. Una delegazione del M5S, con i deputati Tiziana Ciprini e Filippo Gallinella, ha incontrato a Capanne la direttrice del carcere Bernardina Di Mario e il comandante Andrea Tosoni. Ecco la nota a seguito del confronto: “Capanne è la prima tappa del percorso di conoscenza delle strutture detentive regionali da parte dei cittadini 5 stelle. L’obiettivo che si propongono è impegnarsi a sostenere e promuovere soluzioni per i bisogni di tutto il personale e dei detenuti. Capanne sembra essere una realtà buona soprattutto per la conduzione intelligente e anche umana che la direttrice Di Mario ha attuato. Il patto di responsabilità tra detenuti e amministrazione è un fatto innovativo che dovrebbe essere di esempio per altre realtà carcerarie che vogliono essere virtuose. La dimensione della sussidiarietà orizzontale è forte e presente ma ad essa si contrappone una altrettanto pressante problematica, complessa, perché si tratta di ciò che manca. Occorre personale, occorrono progetti per la riabilitazione e rieducazione dei detenuti, occorrono sostegni agli operatori di supporto psicologico per l’attività fortemente stressante che svolgono, occorre un’ala per la degenza ospedaliera dedicata, quest’ultima in fase di progettazione dal 2004. Alcune attività già sono in atto, il progetto Terre promosso in collaborazione con Gest e con il Comune di Perugia, che prevede sei mesi di lavoro retribuito per costruire spazzole a tazza per le spazzatrici stradali e kit di sacchi per la raccolta differenziata. Ma le persone coinvolte sono troppo poche rispetto alla necessità di un carcere che contiene circa 500 individui detenuti. Inoltre la carenza di personale (223 poliziotti in servizio a fronte di 274 necessari) impedisce che altre attività si possano svolgere in condizioni di sicurezza, per cui non si gioca a calcio nel campo, non si possono fare attività all’aperto come coltivare orti, pur avendo la struttura gli spazi adeguati. Sono queste le richieste degli stessi detenuti che colloquiando con i deputati 5 Stelle a loro hanno rivolto, pagare il debito riabilitandosi con il lavoro anche non retribuito per dare un segno tangibile della volontà di essere di nuovo propositivi e accettati come membri della comunità. Non sarà possibile mai nessun recupero o sfollamento nelle carceri se lo sforzo non sarà quello di investire nel sociale per recuperare la comunità umana. L’esempio del “patto di responsabilità” racconta molte cose e molte possibilità. Lo stato dovrà fare i conti e se li facesse a dovere si accorgerebbe del guadagno che si avrebbe , anche economico nell’investire nella spesa pubblica virtuosa. In ultimo il carcere deve essere il test di un territorio e del suo stato di salute. Il sovraffollamento è certamente un dato che dà molto pensiero e interroga su quanto c’è da fare e sulle responsabilità dei politici che ad oggi hanno messo la testa sotto la sabbia o, peggio, contribuito a questo stato di cose”. Reggio Calabria: detenuti al lavoro, per il completamento del nuovo carcere di Arghillà di Alfonso Naso Gazzetta del Sud, 27 aprile 2013 Lavori a spron battuto nella struttura detentiva portati avanti anche grazie all’impiego dei reclusi che hanno montato e arredato le stanze e le celle. La soddisfazione del commissario per l’iter velocizzato dopo la consegna dell’immobile. A quando l’apertura? Dopo anni bui, uno scandalo della lenta burocrazia, ritardi annosi, annunci sempre caduti nel vuoto, promesse infrante e scambi di accuse: nel nuovo istituto penitenziario di Arghillà si sta tentando il tutto per tutto al fine di far aprire al più presto i cancelli. Per rendere funzionante l’istituto sono state assegnate risorse per circa 300 mila euro per l’arredo stanze detentive, con l’utilizzo di mano d’opera dei detenuti. Un’azione di velocizzazione per il completamento della struttura significativa che ha puntato sia verso il reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti e dall’altro ha velocizzato tutto l’iter di completamento. Il 12 febbraio 2013 sono stati consegnati in anticipo rispetto ai tempi previsti i locali al Ministero della giustizia e il dicastero ha ritenuto che tutti i complessi detentivi in ordine al montaggio potevano essere montati da parte dei detenuti. Gli arredi delle stanze, quindi, sono stati realizzati dagli stessi possibili inquilini. Un ottimo risultato per il commissario per l’emergenza carceri che ha di fatto sbloccato una situazione che rischiava di trascinarsi ancora per diversi anni, aggravando ancora di più la già grave situazione carceraria calabrese e non solo. “Sulla base delle risorse di cassa disponibili di 10,7 milioni di euro per i lavori di completamento e di rifunzionalizzazione è stata rivista dall’Ufficio del Commissario la progettazione dell’intervento, in un’ottica di economia di spesa e riduzione dei tempi di realizzazione. Si è pertanto proceduto ad una revisione progettuale dell’esistente e della parte da edificare che, contemplando anche la realizzazione di stanze detentive all’interno di manufatti preesistenti in origine non adibite a tale uso, ha consentito di ottenere un numero pressoché doppio di posti detentivi. L’intervento, così come rimodulato, ha comportato una economia di spesa di circa 10 milioni di euro”. “L’Ufficio del Commissario straordinario per il Piano Carceri - si legge nella relazione conclusiva dei lavori di completamento del carcere - ha provveduto in data 7 settembre scorso alla formale presa in consegna delle opere relative alla costruzione della nuova struttura di Arghillà dal Provveditorato Interregionale per le Opere Pubbliche Sicilia e Calabria, revocate le funzioni di stazione appaltante precedentemente conferite, e all’affidamento il 6 novembre 2012 delle opere per la realizzazione di 314 posti, mediante procedura negoziata”. Adesso che quasi tutte le operazioni sono state completato, si attende la formale apertura del nuovo istituto. A parte tutti i passaggi di avanzamento. Solo quella potrà essere definita la vera vittoria. La Corte dei Conti è già intervenuta sul tema sottolineando l’assoluta necessità di reperire le forze di polizia penitenziaria necessarie per garantire il corretto utilizzo del carcere. Nuoro: Sdr; Dap nega esecutività ordinanza tribunale sorveglianza su detenuto trasferito Agi, 27 aprile 2013 “Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria non ha dato esecutività a un’ordinanza con la quale il Magistrato di Sorveglianza di Nuoro ha disposto il riesame del trasferimento di un ergastolano. Un gesto di arroganza ancora più grave perché inficia il ruolo di garanzia di un Istituto cui compete far rispettare i principi costituzionali e l’ordinamento penitenziario”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, avendo appreso che “il Giudice di Sorveglianza di Nuoro Riccardo De Vito ha accolto il reclamo del legale di Marcello Dell’Anna contro il trasferimento da Spoleto, in Umbria, a Badu e Carros, in Sardegna, deciso dal Dap nel mese di luglio dello scorso anno”. “Il trasferimento imposto al detenuto - osserva Caligaris - ha determinato un doppio danno al cittadino privato della libertà. Dell’Anna infatti non solo è stato allontanato dalla famiglia, e quindi privato del diritto ad avere rapporti affettivi in quanto la distanza impedisce alla moglie e al figlio di incontrarlo regolarmente, ma anche del diritto allo studio. L’uomo, infatti, aveva conseguito una laurea in Giurisprudenza all’Università di Pisa nel maggio del 2012, due mesi prima del trasferimento forzato, e aveva provveduto a iscriversi nella stessa Università per conseguire il titolo accademico specialistico in Diritto dell’Esecuzione Penale, disciplina peraltro non presente a Sassari, il capoluogo di provincia sardo più prossimo alla Casa Circondariale di Nuoro. Il suo percorso culturale di riabilitazione così come prevede la legge sull’ordinamento penitenziario è stato quindi gravemente compromesso da un’iniziativa unilaterale del Dap”. “Marcello Dell’Anna - sottolinea la presidente di SdR - è stato un esponente di spicco della Sacra Corona Unita ma ha dimostrato con atti concreti di avere intrapreso una strada di riconciliazione con la società espiando la pena secondo quanto prevedono le norme vigenti e partecipando attivamente al percorso rieducativo. Basti pensare che in occasione della laurea a Pisa ha ottenuto un permesso di 14 ore per partecipare alla discussione della tesi e condividere con la moglie e il figlio l’importante traguardo. Al termine delle ore di libertà aveva fatto ritorno in cella”. “La situazione dell’uomo - rileva ancora Caligaris - si è ulteriormente aggravata negli ultimi tempi in seguito alle peggiorate condizioni di salute della moglie affetta da linfonodo neoplasico e da depressione. Di recente inoltre la donna ha subito un intervento chirurgico ricostruttivo della parete addominale, un evento che ha indotto il Tribunale di Sorveglianza di Sassari a concedere a Dell’Anna un permesso di 4 ore per visitare la moglie a Nardò. È assurdo - conclude - che il Dipartimento continui a ignorare disposizioni vincolanti manifestando incomprensibile durezza e negando il senso di umanità oltre che il diritto del cittadino privato della libertà”. Rimini: domani pellegrinaggio “meglio il perdono”, iniziativa Papa Giovanni XXIII e Dap Dire, 27 aprile 2013 Diffondere la cultura del perdono, ricordando l’insegnamento di don Oreste Benzi che “l’uomo non è il suo errore”. Con questo spirito, la Comunità Papa Giovanni XXIII organizza domani la quarta edizione del pellegrinaggio ‘Fuori le Sbarrè: un cammino di preghiera che partirà alle 14 dal piazzale davanti al carcere di Rimini per arrivare, intorno alle 17.30, nel centro storico del capoluogo della Riviera. All’iniziativa, patrocinata dal Dap-Dipartimento amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia, oltre a ex detenuti, operatori e volontari, parteciperanno rappresentanti di alcuni dei movimenti e coordinamenti impegnati in attività a sostegno dei detenuti. In particolare: Rinnovamento dello Spirito, Cl, Comunità di Sant’Egidio, Caritas, Conferenza nazionale volontariato e Giustizia, cappellani nelle carceri. ‘Fuori le sbarrè vuol promuovere la cultura del perdono e della pace, del rispetto della persona e della sua dignità e lo stile del pellegrinaggio non è scelto a caso, dato che è storicamente riconosciuto come uno dei modi con cui il popolo si rivolge a Dio per chiedere il perdono dei peccati commessi sia dalle singole persone, che dalla società, ricorda la Comunità Papa Giovanni XXIII in una nota. “Vogliamo chiedere l’attenzione dell’opinione pubblica sull’attuale drammatica situazione nazionale rispetto al problema del carcere e un sostegno per tutti coloro che, a vario titolo, sono coinvolti nell’universo penitenziario: detenuti e loro famiglie, ma anche agenti di polizia penitenziaria, educatori, direzione carceraria, cappellani, le associazioni e i tanti volontari”, spiegano i promotori del pellegrinaggio pensato come occasione per unire simbolicamente chi sta “dentro” e chi sta “fuori”. L’iniziativa di domani a Rimini ha una caratura nazionale: le carceri italiane saranno invitate ad unirsi alla marcia attraverso la preghiera. Ma anche nei santuari e nei monasteri si pregherà durante il pellegrinaggio che sarà contraddistinto da momenti di preghiera, silenzio, testimonianze. L’iniziativa si concluderà con la messa celebrata alle 17.30 nel Duomo di Rimini dal vescovo Francesco Lambiasi. Secondo la Comunità Papa Giovanni XXIII, la cultura del perdono “dà buoni frutti, non solo spirituali. Lo confermano alcuni dati riferiti alla popolazione carceraria che ha potuto usufruire di programmi di recupero “Fuori le sbarre”: la recidiva, ovvero la percentuale di coloro che usciti dal carcere incorrono nuovamente in reati, a livello nazionale è pari al 70%-80%, ma chi ha svolto “un percorso di recupero, di perdono, in strutture alternative al carcere, ha una recidiva del 10%: solo uno su 10 torna a delinquere”. Per quanto riguarda l’esperienza della Comunità Papa Giovanni XXIII nel sostegno dei detenuti e degli ex carcerati, nel 2012 in provincia di Rimini hanno usufruito di pene alternative 103 persone: gli italiani sono circa il 60% e provengono principalmente da Campania, Sicilia, Emilia-Romagna e Marche. Il restante 40% invece è composto da stranieri arrivati da Albania e Romania. Quasi tutte queste persone provengono direttamente dal carcere e, in media, sono 60 quelle che ogni giorno stanno in comunità piuttosto che in carcere. Il che è anche un risparmio: 8.000 euro al giorno. Allo Stato, infatti, costano ciascuno 200 Euro al giorno. Nel carcere Rimini, a fine aprile c’erano 189 detenuti (110 imputati e 79 condannati), 97 italiani e 92 stranieri (45 provenienti dall’Europa, 36 dall’Africa, tre asiatici, sette dalle Americhe). Dei 189 presenti, 80 sono tossicodipendenti. Larino (Cb): tanti nuovi volontari per assistere detenuti, vento di solidarietà per il carcere www.termolionline.it, 27 aprile 2013 Quando venne annunciato pensammo che l’ambizione sociale di don Benito Giorgetta non aveva davvero limiti. Un’ambizione buona, dettata dall’esigenza di mettere a disposizione dei detenuti del carcere di Larino, (strano a dirsi ma è così anche loro vittime della crisi economica, vista la ristrettezza con cui persino i penitenziari sono costretti a subire dalla spending review) persone che li facessero sentire meno soli e volontari che potessero alleviarne la condizione di restrizione della libertà personale. Invece, come sempre accade, il sacerdote originario di Montemitro ci aveva visto giusto e con la disponibilità e la collaborazione dall’interno del direttore Rosa La Ginestra, ha portato a compimento il primo corso di volontariato per assistere i detenuti. “È da un piccolo passo che iniziano i lunghi cammini”: don Benito Giorgetta ha avviato con queste e altre immagini, l’incontro che ieri sera ha visto consegnati gli attestati agli oltre settanta partecipanti al corso di Volontariato per detenuti che ha avuto luogo durante le scorse settimane. Il parroco termolese della parrocchia di San Timoteo ha voluto anche anticipare che il prossimo 11 maggio, in occasione della festa del Patrono della Diocesi, il vescovo Gianfranco De Luca, al termine della Celebrazione eucaristica, somministrerà il mandato vescovile, a coloro che lo richiederanno, per il ministero di volontariato carcerario di prossima istituzione. Rosa La Ginestra, direttrice della casa circondariale di Larino, ha voluto ringraziare direttamente don Benito per “l’attenzione mostrata ai detenuti e per essere riuscito a creare un’iniziativa lodevole quale il corso appena concluso”. “Vi porto i ringraziamenti anche da parte dei detenuti - ha ricordato la Direttrice - che sono a dir poco entusiasti e non fanno altro che attendere le iniziative che saranno messe in campo adesso che la nostra casa circondariale può contare su così tanti volontari”. A interagire al cinema Oddo, luogo ospitante la formale cerimonia, un nutrito gruppo di partecipanti al Corso che hanno provato subito a lanciare qualche idea in merito alle future iniziative che vedranno impegnati ciascun volontario secondo le proprie peculiarità, dallo sport all’hobby. Tra le anticipazioni che ha voluto consegnare don Benito, è attesissima la “Cena galeotta” che sarà occasione di raccolta fondi, sulla scia del successo e sullo stile della cena di beneficenza organizzata le scorse settimane e tesa alla raccolta fondi per la costruzione di una Casa Famiglia, per consentire ai detenuti l’accesso a corsi di scolarizzazione istituiti in collaborazione con l’Istituto alberghiero di Termoli. Come da prassi di legge, la partecipazione alla “Cena galeotta”, che avrà luogo nell’interno della stessa Casa circondariale larinese, avverrà previo rilascio delle generalità di coloro che vorranno prendervi parte. I “neo insigniti” del titolo di “Volontario del Carcere” avranno l’opportunità nelle prossime settimane di conoscere la realtà carceraria attraverso visite di gruppo. L’attenzione ai detenuta è ampia fin d’ora e consentirà, a circa sette o otto detenuti, di uscire dai luoghi detentivi per lavorare presso la Casa Famiglia in edificazione su iniziativa di don Benito già dai prossimi giorni. Applausi scroscianti per don Benito che a circa due anni dalla sua presa di possesso canonico in quel di San Timoteo, sta consolidando i rapporti con i parrocchiani e avviando tante iniziative riuscendo così a consegnare a tutti la certezza di essere uomo e parroco capace di farsi amare e attento a quanto accade intorno con uno sguardo spiccato alla solidarietà e agli ultimi. Ferrara: anche il presidente Napolitano loda il Teatro Balamòs ed i sui progetti in carcere La Nuova Ferrara, 27 aprile 2013 Dopo il protocollo d’intesa siglato nel gennaio del 2013 tra gli Istituti penitenziari di Venezia (Casa di Reclusione Femminile di Giudecca e Casa Circondariale Maschile di Santa Maria Maggiore), il Teatro Stabile del Veneto e Balamòs Teatro di Ferrara, arriva un altro importante riconoscimento per il progetto teatrale “Passi Sospesi” attivo nelle carceri di Venezia dal 2006. Stavolta l’encomio giunge direttamente a Michalis Traitsis da parte della Presidenza della Repubblica che esprime tra le altre cose “il vivo apprezzamento per l’impegno dell’Associazione Balamòs Teatro rivolto a promuovere attraverso l’arte, il reinserimento nella vita civile dei detenuti. Il Presidente Napolitano, nel formulare i suoi più fervidi auguri per il prosieguo dell’iniziativa, rivolge a lei e a tutti coloro che sono impegnati nel progetto un cordiale saluto”. Traitsis (membro fondatore del Coordinamento nazionale di teatro in carcere) ha scelto di percorrere una linea ben precisa, dalla prevenzione alla detenzione: guardare l’approccio alle tematiche della reclusione e dell’esclusione attraverso lo strumento dell’arte teatrale e in una prospettiva culturale. Sono stati invitati nell’ambito del progetto teatrale “Passi Sospesi” registi, attori, musicisti, scenografi, per condurre incontri di laboratorio o contribuire alla messa in scena degli spettacoli: Davide Iodice, Enzo Vetrano, Stefano Randisi, Cèsar Brie, Fabio Mangolini, Roberto Mazzini, Maria Teresa Dal Pero, Carlo Tinti, Elena Souchilina, Roberto Manuzzi, Fatih Akin, Pippo Delbono, Giuliano Scabia, Mira Nair, ultimo Alessandro Gassman, direttore artistico del Teatro Stabile del Veneto, che incontrerà le donne detenute della Casa di reclusione di Giudecca proprio domani. Il progetto teatrale “Passi Sospesi” è stato presentato in numerose occasioni in rassegne, festival, mostre, incontri, convegni, in Italia e all’estero e ha come obiettivo quello di ampliare, intensificare e diffondere la cultura teatrale dentro e fuori gli Istituti penitenziari di Venezia. Comunicato Stampa Balamòs Teatro Dopo il protocollo d’intesa siglato nel gennaio del 2013 tra gli Istituti Penitenziari di Venezia (Casa di Reclusione Femminile di Giudecca e Casa Circondariale Maschile di Santa Maria Maggiore), il Teatro Stabile del Veneto e Balamòs Teatro arriva un altro importante riconoscimento per il progetto teatrale “Passi Sospesi” attivo nelle carceri di Venezia dal 2006. Questa volta l’encomio giunge direttamente a Michalis Traitsis da parte della Presidenza della Repubblica che esprime tra le altre cose “il vivo apprezzamento per l’impegno dell’Associazione Balamòs Teatro rivolto a promuovere attraverso l’arte, il reinserimento nella vita civile dei detenuti. Il Presidente Napolitano, nel formulare i suoi più fervidi auguri per il prosieguo dell’iniziativa, rivolge a lei e a tutti coloro che sono impegnati nel progetto un cordiale saluto”. Michalis Traitsis (membro fondatore del Coordinamento Nazionale di Teatro in Carcere) ha scelto di percorrere una linea ben precisa, dalla prevenzione alla detenzione: guardare l’approccio alle tematiche della reclusione e dell’esclusione attraverso lo strumento dell’arte teatrale e in una prospettiva culturale. Cultura come informazione, come confronto, memoria, rete nei e dei territori, tutela delle fasce più deboli della società. Cultura della diversità e dell’inclusione sociale. Per questo motivo sono stati invitati nell’ambito del progetto teatrale “Passi Sospesi” registi, attori, musicisti, scenografi, per condurre incontri di laboratorio o contribuire alla messa in scena degli spettacoli: Davide Iodice, Enzo Vetrano, Stefano Randisi, Cèsar Brie, Fabio Mangolini, Roberto Mazzini, Maria Teresa Dal Pero, Carlo Tinti, Elena Souchilina, Roberto Manuzzi, Fatih Akin, Pippo Delbono, Giuliano Scabia, Mira Nair, ultimo Alessandro Gassman, direttore artistico del Teatro Stabile del Veneto, che ha incontrato le donne detenute della Casa di Reclusione di Giudecca venerdì 26 aprile. Molto significativa è inoltre dal 2006 la collaborazione di Balamòs con il Centro Teatro Universitario di Ferrara tramite la quale sono stati realizzati negli anni incontri di laboratorio misti tra studenti e detenuti e l’allestimento di studi teatrali creati in comune (“Eldorado”, “Storie italiane”, “Il lamento di Ismene”, “Sto camminando su un sentiero di luce”, “Appunti Antigone”). Si è inoltre collaborato con alcune scuole di Venezia, attraverso incontri di presentazione del lavoro svolto in carcere, proiezione dei video di documentazione, presenza di studenti agli spettacoli all’interno della Casa di Reclusione Femminile di Giudecca. Per i prossimi anni è prevista una collaborazione ancora più articolata. Il progetto teatrale “Passi Sospesi” è stato presentato in numerose occasioni in rassegne, festival, mostre, incontri, convegni, in Italia e all’estero e ha come obiettivo quello di ampliare, intensificare e diffondere la cultura teatrale dentro e fuori gli Istituti Penitenziari di Venezia. L’apprezzamento del Presidente della Repubblica non rappresenta dunque un punto di arrivo ma uno stimolo a potenziare attività e impegno non solo nel territorio lagunare. Catania: corso vela per giovani detenuti; mancano fondi salta partecipazione a mare libera Ansa, 27 aprile 2013 Si è concluso a Catania per quattro ragazzi provenienti dal circuito penale, il primo mese di attività del progetto Velegalmente, un percorso promosso dal Centro Koros, di inclusione sociale e promozione della legalità attraverso la navigazione a vela. “In questo primo mese - rende noto Koros - i ragazzi hanno scoperto cos’è una barca a vela, stanno imparando come funziona e come manovrarla, ma stanno scoprendo soprattutto un nuovo modo di stare insieme, condividere spazi ristretti, riconoscere un’autorità diversa da quella che, all’interno del loro contesto sociale di riferimento, rispettano. Stanno imparando anche a mettersi in gioco, ad accettare le sfide, collaborare insieme e concentrarsi per il raggiungimento di uno scopo, a rispettare le regole del gioco”. Koros ha però reso noto che “per carenza di fondi” l’equipaggio non parteciperà alla manifestazione Mare Libera, evento nazionale della solidarietà marinaresca organizzato da Unione Italiana Vela Solidale in programma a Livorno il prossimo 29 aprile, sottolineando come la partecipazione ‘avrebbe rappresentato uno dei momenti cardine del progetto Velegalmente”. Il programma delle attività Centro Koros per il mese di maggio prevede sia un weekend di navigazione lungo la costa siciliana, che la partecipazione ad una regata nel porto di Catania con la collaborazione dei partner del progetto ed il patrocinio dell’Autorità Portuale. Imperia: un video realizzato da studenti racconta storia della Casa circondariale Ansa, 27 aprile 2013 Un video sulla storia del carcere di via Don Abbo Il Santo, realizzato dagli studenti dell’Istituto d’Arte, racconta la nascita del vecchio reclusorio a partire dalla metà dell’800, passando attraverso il tragico bombardamento avvenuto durante la seconda Guerra Mondiale, per arrivare fino ai giorni nostri. Il cortometraggio è stato presentato stamani all’Auditorium della Camera di commercio di Imperia all’ottava edizione del “Video Festival”. Dopo la proiezione si è svolto un dibattito moderato dal direttore della Casa circondariale di Imperia Francesco Frontirrè e che ha visto la partecipazione del prefetto di Imperia Fiamma Spena, del provveditore regionale dell’ Amministrazione penitenziaria Giovanni Salamone e del docente di diritto penitenziario presso l’Università di Genova professor Franco Della Casa. Il VideoFestival di Imperia che si chiuderà domani col gran galà ha trattato temi di attualità come l’immigrazione, la crisi economica e la violenza sulle donne. Immigrazione: Avvocati di strada; con “emergenza Nord Africa” boom pratiche migranti Redattore Sociale, 27 aprile 2013 I dati del Rapporto 2012. Oltre 2.500 i casi trattati (+215): 6 su 10 sono di non comunitari. Quasi tutti gli assistiti sono uomini. In calo le cause di diritto penale, ma il 15 per cento riguarda aggressioni o minacce subite da chi è in strada. Aumentano gli italiani travolti dai debiti, o che semplicemente non riescono più a pagare tasse, multe e imposte. Sono sempre di più i problemi di residenza per i senza casa, con i comuni che restringono i criteri di accesso ai servizi sociali e sanitari. Crescono gli immigrati che chiedono aiuto per ottenere permessi di soggiorno e umanitari. È la fotografia scattata dal Rapporto 2012 di Avvocati di Strada, associazione che in tutta Italia conta su 750 avvocati volontari e che offre tutela legale gratuita alle persone senza fissa dimora. Le 50 pagine del rapporto - titolo di quest’anno: “Senza tetto, non senza diritti” - saranno presentate domani (27 aprile) a Roma, nell’Aula Agostini dell’Inmp, in via San Gallicano. I numeri. Sono state 2.575 le pratiche trattate da Avvocati di Strada in tutta Italia nel 2012, 215 in più dell’anno precedente (2360 nel 2011). L’incremento. Sottolinea il rapporto, è “dovuto a fattori diversi, fra cui senza dubbio l’acuirsi della crisi economica, che ha indebolito ulteriormente le categorie più fragili e ne ha create di nuove”. Per ogni 10 pratiche ce ne sono 6 che si riferiscono a cittadini extracomunitari (per la precisione il 64 per cento), 3 agli italiani e le restanti ai comunitari. Quasi tutti gli assistiti (il 70 per cento) sono uomini (rispetto al 2011, stabile il rapporto donne-uomini). Tipologia delle pratiche. A sfogliare il rapporto si nota come ci sia stato un boom di pratiche relative al diritto dei migranti (1149, il 45 per cento del totale. Nel 2011 erano state 887), dovute principalmente all’Emergenza Nord Africa. Nel dettaglio, sono 472 le pratiche relative alle problematiche per il rilascio o il rinnovo dei permessi di soggiorno, 443 quelle per la richiesta di asilo politico e protezione internazionale (supporto per la preparazione all’audizione e il sostegno alle domande depositate presso le Commissioni territoriali, ma anche ricorsi contro il diniego della protezione internazionale), 137 quelle per i decreti di espulsione, 73 quelle per la richiesta di cittadinanza. A seguire le pratiche di diritto civile, che sono state 874 (il 34 per cento del totale) e le pratiche di diritto amministrativo, (298, pari all’11 per cento. Diminuiscono le cause di diritto penale, che nel 2012 sono state 254, pari al 10 per cento del totale: erano state 356 nel 2011. Nello specifico, le pratiche di diritto civile hanno riguardato il diritto alla residenza (191), il diritto del lavoro (licenziamenti, crediti e altro: 132), gli sfratti e le problematiche relative alle locazioni (103), le separazioni e di divorzi (81), la potestà genitoriale (56), il diritto alla casa (54), l’assistenza sociale (53), le pensioni e l’invalidità (49), ecc... I casi di residenza negata, dice il rapporto dell’associazione, non accennano a diminuire. Se nel 2011 erano stati 119 i casi di persone che si vedevano negato dai propri comuni il rilascio della residenza, nel 2012 sono stati - come detto - addirittura 191. Per ciò che concerne le pratiche di diritto amministrativo, 81 sono quelle relative alle sanzioni per mancanza di titolo di viaggio sui mezzi pubblici, ma risaltano soprattutto le 68 relative alle cartelle esattoriali per il mancato pagamento di imposte, tasse e tributi (erano state 48 nel 2011). “I debiti di questo tipo - afferma l’associazione - sono comuni alla maggior parte delle persone che vivono in strada, che non possono pagare e vedono crescere di anno in anno le cifre da loro dovute. Questi debiti sono un ostacolo insormontabile per chi non ha nulla, e molte persone preferiscono rimanere invisibili in strada, senza residenza e senza diritti, per l’impossibilità di pagare questi debiti”. Da segnalare inoltre le pratiche relative ai fogli di vita (59), che obbligano le persone ad allontanarsi dalle città dove vivono, le 41 pratiche relative a persone che nel corso del 2012 si sono rivolte agli avvocati di strada perché erano state multate per aver chiesto l’elemosina, per vagabondaggio o per aver mangiato e dormito per strada. Sanzioni contro la povertà, insomma. Infine, le pratiche di diritto penale. Come detto, hanno rappresentato il 10 per cento dell’attività di avvocato di strada. E - si segnala - il dato che rovescia un pregiudizio che vede le persone senza dimora autori di reato è quello relativo ai casi di procedimenti in qualità di persona offesa. “Chi vive in strada - si afferma - è spesso vittima di aggressioni perché è debole e indifeso e anche perché considerato colpevole di essere povero: ben 38 persone nel 2012 hanno avuto bisogno di una tutela legale perché sono state aggredite, minacciate e derubate”. Si tratta del 15 per cento del totale delle pratiche di diritto penale. Trentuno sono le pratiche per i reati legati agli stupefacenti, 27 quelle per reati contro il patrimonio, 26 quelli contro i pubblici ufficiali. Ma sono sempre molte anche le persone che finiscono in strada dopo un’esperienza detentiva perché privi di legami familiari o amicali e perché in carcere non sono riuscite a intraprendere un percorso di recupero sociale o lavorativo. Nel 2012 sono state 24 quelle che hanno avuto bisogno di un avvocato per ottenere la riabilitazione e 11 quelle che hanno fatto richiesta di pene alternative alla detenzione. “Sabato parleremo di diritto alla residenza anagrafica e al permesso di soggiorno per motivi umanitari, dei migranti del nord Africa e della disoccupazione che sta colpendo duro e che ci porta ad assistere legalmente sempre più italiani - spiega Iacopo Fiorentino di Avvocati di Strada -. A volte i senza tetto hanno paura che prima o poi qualcuno gli chieda di pagare le multe dell’autobus che negli anni hanno accumulato, e per questo sono incerti perfino sulla possibilità di prendere residenza nel Comune dove soggiornano, noi gli aiutiamo a fare domanda, a richiedere l’accesso ai servizi sociali, e a rateizzare i debiti o se possibile annullarli”. Parte del rapporto sarà anche dedicato ai progetti dell’associazione, ad esempio i colloqui fatti con i migranti di Bologna in preparazione all’audizione per il rilascio della protezione internazionale. Altro tema quello delle nuove sedi. Avvocati di Strada è sbarcato anche in Sicilia, con le sedi di Palermo, Siracusa e Catania, e in Liguria. “È un momento importante per la nostra associazione - spiega Antonio Mumolo, presidente di Avvocati di Strada che domani aprirà il convegno. Il 27 si troveranno a Roma per raccontare le proprie esperienze i coordinatori locali degli sportelli dell’associazione, che racconteranno dei tanti progetti che abbiamo messo in campo per la costruzione di una società più giusta, in cui tutte le persone sono davvero uguali davanti alla legge e tutti i diritti sono ugualmente tutelati”. Immigrazione: nel Cie di Modena ancora danni e nuovo tentativo di fuga Gazzetta di Modena, 27 aprile 2013 Ennesima rivolta in giorno di festa al Cie, Centro di identificazione e di espulsione di via La Marmora. Un pretesto qualsiasi e gli ospiti hanno iniziato a rompere mobilia e a fare danni. In quattro hanno cercato di fuggire, ma il tentativo è stato reso vano dall’intervento delle forze dell’ordine. Nel giro di qualche ora la situazione, almeno nel pomeriggio di ieri, è tornata “calma”. Ma la situazione è e rimane preoccupante. Desi Bruno, garante regionale per i diritti delle persone private della libertà, sottolinea come “rispetto all’estate del 2012 si evidenziano nuove criticità, almeno in parte collegate al cambiamento dell’ente gestore, il consorzio Oasi vincitore della gara al massimo ribasso indetta dal ministero degli Interni”. Secondo gli ultimi dati, le presenze all’interno della struttura modenese sono 37, a fronte di una capienza di 60. Oltre alla presenza di stranieri tossicodipendenti o affetti da patologie di dubbia compatibilità con la detenzione amministrativa, all’elevata incidenza di persone provenienti dal carcere e alla non infrequente presenza di persone richiedenti asilo, nelle ultime settimane - fa notare Desi Bruno - c’è un’altra novità negativa: l’interruzione dello sportello di assistenza psicologica. “La psicoterapeuta ha sospeso, infatti, la sua attività per la mancata corresponsione dei compensi dovuti - dice la garante - come previsto dalla convenzione con il consorzio Oasi”. Oltre a chiedere che venga ripristinato il servizio di assistenza psicologica, la Bruno ricorda la necessità di “offrire assistenza legale” ai trattenuti. È ancora in sospeso (manca il via libera della prefettura) l’apertura di uno sportello dedicato così come avvenuto nel Cie di Bologna. “Lo sportello consentirebbe di dare consulenza ai trattenuti che spesso non capiscono perché si trovano reclusi senza aver commesso un reato - spiega la garante. Lo sportello di informazione giuridica agirebbe in sinergia con il Comune di Modena” . Spagna: Manconi (Pd); Italia rinvii estradizione militante basco Fernandez Arrinda Agi, 27 aprile 2013 L’Italia non estradi il militante basco Lander Fernandez Arrinda “prima che possa far valere ancora le proprie ragioni” al Tar e davanti alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo: lo chiede un gruppo di parlamentari italiani con in testa il senatore del Pd, Luigi Manconi. A dare il via libera all’estradizione in Spagna del presunto militante dell’Eta arrestato lo scorso anno a Roma era stata mercoledì la Corte di Cassazione, alla quale Lander aveva fatto ricorso dopo la sentenza di gennaio della Corte d’Appello. L’uomo è sospettato, in particolare, di aver incendiato un autobus il 20 febbraio del 2002 a Bilbao. In quell’occasione non vi furono vittime. Fernandez fu arrestato nel quartiere romano della Garbatella il 13 giugno 2012, il giorno dopo l’emissione di un ordine europeo di cattura emesso dalle autorità spagnole. Trascorse 48 ore dall’arresto, gli vennero concessi i domiciliari. A Lander Fernandez, insiste Manconi, “non è stato imputato alcun reato di sangue”. È “perseguito da un mandato di cattura di un tribunale spagnolo per danneggiamento (un autobus privo di passeggeri parcheggiato in un luogo isolato)”. L’estradizione era prevista per la giornata di oggi, ma un gruppo di senatori e deputati - Valeria Fedeli, Gennaro Migliore, Federica Daga, Sergio Lo Giudice, Stafania Pezzopane, Rosaria Capacchione, Mario Tronti, Celeste Costantino, Daniela Valentini, Giulia Sarti - ha chiesto il differimento della misura di estradizione. Manconi, dopo un lungo colloquio col ministro della Giustizia Paola Severino, ha riferito che il Guardasigilli segue la vicenda con la “massima attenzione” e ha incaricato i propri uffici di studiare ulteriormente il caso”. La fedina penale di Fernandez è consistente. Il 18 novembre del 2003 fu arrestato nella francese Groulhet insieme con il militante dell’Eta Eneko Agiresarrobe Olagoy mentre tentavano di rubare un’auto e per possesso di documenti falsi. Passò cinque anni in carcere, per uscirne, affermano El Mundo e Abc, il 22 gennaio del 2008. Nell’ottobre del 2010 fu condannato a tre anni di carcere per coinvolgimento in banda armata, ma la condanna fu annullata dalla Corte suprema spagnola. Svizzera: a Lugano morto un detenuto, mentre resta in carcere un 89enne malato terminale Reuters, 27 aprile 2013 Un detenuto del carcere “La Stampa” è morto ieri sera all’ospedale Civico di Lugano. Come fa sapere oggi il Dipartimento delle istituzioni, l’uomo, classe 1973, era stato ricoverato nel reparto di terapia intensiva in mattinata ed è deceduto a seguito di un malore improvviso. Sul corpo è stata disposta l’autopsia. Il recluso fu incarcerato nell’agosto del 2007 per, tra l’altro, rapina, furto e lesioni semplici. Fu condannato a una pena di 3 anni con trattamento ambulatoriale. In seguito fu pure condannato per reati commessi dietro le sbarre, fra cui, incendio intenzionale e violenza e minaccia contro le autorità. Revocata la scarcerazione di un 89enne condannato nel 2010 a dieci anni Il più anziano detenuto della Svizzera rimarrà in carcere: la camera penale dei ricorsi di Ginevra ha revocato la scarcerazione di un uomo di 89 anni condannato nel 2010 a dieci anni di reclusione per aver stuprato la figlia adottiva. Il pensionato è all’ultimo stadio di un cancro e soffre di demenza. L’89enne è attualmente ricoverato nell’unità carceraria dell’Ospedale cantonale, “dove beneficia di ottime cure palliative”, rileva la Corte nella sua decisione. Secondo i medici, gli restano da 10 a 18 mesi da vivere. La sua legale non esclude di ricorrere al Tribunale federale dopo aver chiesto un nuovo bilancio medico. La scarcerazione dell’anziano era stata decisa dal Tribunale di applicazione delle pene a metà marzo. Nel suo ricorso, il Ministero pubblico ha sottolineato la pericolosità dell’ultraottantenne, che ha abusato della figlia adottiva sull’arco di dieci anni e sottoposto a sevizie analoghe le figlie naturali. Giappone: eseguite due condanne a morte, sono 130 i detenuti in attesa dell’esecuzione Ansa, 27 aprile 2013 Dopo le tre del 21 febbraio, Tokyo prosegue nella linea “dura” nei confronti di condannati per “crimini feroci e crudeli”. La ripresa delle impiccagioni dopo la nascita del governo conservatore di Shinzo Abe. Due condanne a morte sono state eseguite oggi in Giappone: lo anticipa l’agenzia Kyodo citando fonti vicine al dossier. Le esecuzioni per impiccagione sono il secondo ciclo, dopo quello di tre giustiziati del 21 febbraio, decise sotto il governo guidato dal premier conservatore Shinzo Abe, salito al potere sulla spinta delle elezioni politiche generali ampiamente vinte il 16 dicembre scorso. In base a quanto detto dal ministero della Giustizia, i detenuti giustiziati sono Katsuji Hamasaki (64 anni) e Yoshihide Miyagi (56 anni), affiliati alla yakuza (la mafia nipponica) e giudicati colpevoli dell’omicidio nel 2005 di due uomini legati a un clan rivale, freddati in un ristorante di Ichihara, nella prefettura di Chiba. “Si è trattato di crimini estremamente feroci e crudeli, col rischio di coinvolgimento di gente comune”, ha commentato in conferenza stampa il Guardasigilli, Sadakazu Tanigaki, che ha firmato il decreto d’esecuzione. “Molte persone in Giappone ritengono sia necessaria - ha aggiunto, in merito alla pena capitale -. Quello che dobbiamo fare è esaminare e decidere se un detenuto debba essere giustiziato, in modo prudente”. Attualmente, ci sono oltre 130 condannati nel braccio della morte in attesa del decreto esecutivo. Il Giappone “volta le spalle al mondo” sulla pena di morte data “la prevalenza dell’indirizzo che punta a una società” libera dalla sentenza capitale. È il commento di Hideki Wakabayashi, segretario generale della filiale nipponica di Amnesty International, in merito alle due esecuzioni autorizzate oggi dal ministro della Giustizia, Sadakazu Tanigaki. Il governo nipponico, ha aggiunto Wakabayashi parlando con l’Ansa, “cammina su una via sempre più solitaria nel mondo. Sono cinque le persone giustiziate in appena quattro mesi dalla nascita dell’esecutivo di Shinzo Abe”. Un trend che, a questo punto, tradisce le reali intenzioni del governo che “desidera conservare con convinzione il sistema della pena di morte, intensificandone addirittura il ricorso”. Stati Uniti: carcere duro e Corano sequestrato… a Guantánamo scoppia la rivolta di Vittorio Zucconi La Repubblica, 27 aprile 2013 Lasciata aperta dal tradimento di Barack Obama, la piaga di Guantánamo continua a suppurare e a infettare la coscienza americana. Ora è scoppiata l’epidemia degli scioperi della fame di dozzine di prigionieri intubati e nutriti a forza. Dal 7 febbraio, giorno dopo giorno si è estesa. Non è soltanto colpa del presidente, se cinque anni dopo la promessa di chiudere il lager di tante vergogne aperto da George Bush nella base della Us Navy in territorio cubano, Guantánamo rinchiude ancora 166 detenuti, in gran parte yemeniti, degli 800 originali. La resistenza del Congresso, la legge sulla sicurezza nazionale che subordina la scarcerazione a una impossibile garanzia che i detenuti non commettano più atti di terrorismo, e la totale indifferenza dell’opinione pubblica e dei media, hanno contributo a prolungare l’esistenza del campo di prigionia. Ma l’accidia del presidente, che pure aveva fatto della cauterizzazione di quella ferita uno dei punti del programma elettorale nel 2008, ha permesso che Guantánamo sia ancora aperta e funzionante. Non sono più, e da tempo, le condizioni della prigionia quelle che hanno spinto la metà dei prigionieri, 84 su 166 ad ammutinarsi. Dopo la brutalità iniziale delle stie da polli, degli “interrogatori speciali”, uno dei garbati eufemismi cari alla presidenza Bush per non parlare di torture, e del disprezzo dei carcerieri militari per quelle “raghead” teste di stracci, come lo slang del soldato descrive gli arabi, la condizione degli ultimi prigionieri di Guantánamo si era cronicizzata nella routine di ogni prigionia, certamente non peggiore di altri luoghi di detenzione Quello che ha spinto gli uomini arancione, gli 88 ammutinati, a ribellarsi è l’angoscia frustrante di essere intrappolati in un limbo giudiziario e politico senza uscite. Le agenzie e le reti televisive del mondo arabo, prima fra tutte Al Jazeera, raccontano a centinaia di milioni di spettatori nell’universo mussulmano, di perquisizioni e di piccole angherie su prigionieri che non sono mai stati riconosciuti colpevoli, formalmente ancora “sospetti” e basta, come il sequestro di foto di famiglia, di ricordi personali, che in quelle condizioni divengono privazioni crudeli. Più ancora, gli avvocati difensori americani e i legali della Aclu, l’unione di legali volontari che si appellano alla Costituzione e ai diritti civili, narrano di speciali mancanza di rispetto verso il Corano di proprietà dei detenuti, ben sapendo che il Corano non è una semplice copia del testo sacro, come un Vangelo o una Bibbia per i cristiani, ma è “il” libro sacro in sé. Sembra improbabile che dopo tanti anni, e dopo corsi di sensibilizzazione culturale inflitti ai Marines di Guantánamo i carcerieri siano tanto ottusi da scatenare una rivolta profanando il Libro. Più verosimilmente, come dicono ad Al Jazeera i parenti dallo Yemen, la loro disperazione viene dal fatto che molti sono già stati “cleared”, approvati dai tribunali militari per la liberazione, ma restano in gabbia. Per autorizzarne la partenza, il Parlamento Usa pretende dal Pentagono la certificazione che non si riuniranno a cellule o ad organizzazioni terroristiche. Tra il “Processo” di Kafka e il “Catch 22” di Joseph Heller, le condizioni poste dalla legge non condannano per quanto un sospetto abbia fatto, ma per quello che potrebbe fare in futuro, in una nebbia che essi sperano di dissolvere soltanto con il suicidio. E che eventi come le bombe di Boston infittiscono. Tentativi di impiccagione con le tute arrotolate sono sventati dalle guardie che li tengono sotto sorveglianza giorno e notte, ma non possono costringerli a nutrirsi. A questo devono provvedere i 100 fra medici militari, infermieri (tutti naturalmente maschi) e paramedici in servizio regolare ai quali il Pentagono ha aggiunto ora altri 40 sanitari, nella certezza che l’ epidemia si allargherà. Con 140 medici e infermieri per 166 prigionieri, Guantánamo ha certamente il rapporto più alto fra detenuti e sanitari di ogni carcere o campo di prigionia nella storia. Dopo le solenni promesse, il Presidente ha voltato le spalle alla piaga Guantánamo, nella coscienza che non ci siano dividendi di popolarità per lui in questa battaglia. E la certificazione della futura non nocività degli scarcerati ha subito un colpo mortale quando, Umar Farouk Abdulmutallab, fu fermato nel 2009 dopo il fallito “attentato delle mutande”, sorpreso con esplosivi nella biancheria su un aereo. In Yemen, Abdulmutallabsi era associato ad Aqap, la filiale di al Quaeda nella penisola arabica, fondata proprio da un ex “ospite” di Guantánamo, Said Ali AlShihri. Le famiglie degli ammutinati nutriti a forza gridano che più di 500 detenuti già liberati erano tutti sauditi ed afgani, quindi cittadini di nazioni i cui governi sono coccolati da Washington, per ragioni di ipocrita realpolitik. Il nuovo presidente yemenita, Abdu Rabu Mansur Hadi, ha rapporti molto più caldi con Obama e questo fa sperare. “Il Congresso ha messo molti ostacoli, è vero - riconosce Zachary Katznelson, uno degli avvocati che tenta di rappresentare i detenuti - ma Obama potrebbe fare molto di più, se lo volesse”. Come le guerre sono sempre più facili da cominciare che da finire, così è sempre più facile incarcerare che liberare. Guantánamo non è un blog, di Gianni Minà (Il Manifesto) Yoani Sanchez è la star del Festival di giornalismo di Perugia. Silenzio invece sui diritti negati nel carcere che Obama doveva chiudere. È l’ipocrisia dei media italiani: i dissidenti cubani sì, i prigionieri islamici no. In questi giorni in cui si svolge a Perugia il Festival internazionale di giornalismo (da oggi al 28 aprile la VII edizione, ndr) dove la stella è Yoani Sanchez, la blogger cubana che, come hanno mostrato i documenti di Wikileaks, lavora esplicitamente per il Dipartimento di Stato americano e per le agenzie della Cia, un recluso in attesa di processo da dieci anni, con un magistrale articolo di opinione ospitato sul New York Times, denuncia la perdurante violazione dei diritti umani nella base di Guantánamo da parte dell’Amministrazione nordamericana. Una violazione alla quale il Presidente Obama aveva promesso, nel suo precedente mandato, di porre fine, senza essere riuscito però a mantenere la parola. Anzi, È di questo inizio d’anno la documentata denuncia di Amnesty International che chiede al presidente Obama di rimediare ai fallimenti sui diritti umani del suo primo mandato e lo sollecita a riprendere in considerazione la promessa fatta nel 2009 di chiudere il centro di detenzione e “di impegnarsi a rilasciare i detenuti o a sottoporli a processi equi”. Non ha avuto risposta. Eppure Amnesty ricorda che oggi a Guantánamo vi sono ancora 166 detenuti e che dal 2002 la prigione ne ha ospitati 779, la maggior parte dei quali vi ha trascorso diversi anni senza accusa né processo. Per questo Rob Freer, ricercatore di Amnesty International sugli Stati Uniti ha scritto: “La pretesa del governo di Washington di essere il paladino dei diritti umani non è compatibile con l’apertura del carcere di Guantánamo, le commissioni militari, l’assenza di assunzione di responsabilità e la mancanza di rimedi per le violazioni dei diritti umani commesse da funzionari statunitensi, tra cui la tortura e le sparizioni forzate che costituiscono cri- mini di diritto internazionale”. Parole che pesano, se si considera anche che il presidente aveva ordinato la fine dell’uso delle cosiddette tecniche “rinforzate” d’interrogatorio da parte della Cia (eufemismo per torture come il waterboarding, l’annegamento simulato) e la chiusura dei cosiddetti “siti neri”, centri segreti di detenzione diretti dall’intelligence statunitense. Una realtà inquietante, denunciata dopo l’11 settembre da The Nation, la prestigiosa rivista di geopolitica degli intellettuali progressisti nordamericani, che chiedeva notizie al governo Bush di alcuni cittadini americani di fede musulmana di cui, allora e in seguito, non si è più saputo nulla. Gli Stati Uniti, come abbiamo scritto anche su Latinoamerica, hanno ignorato l’appello di Amnesty ma è palese che non hanno più l’autorità morale (se mai l’hanno avuta) per fare lezione di diritti umani a qualcuno. È evidente, anche, che i mezzi d’informazione occidentali tengono in considerazione i rapporti di Amnesty solo quando servono a trovare un minimo di scusa per attaccare a comando, nella ormai ribelle America Latina, paesi come Cuba, il Venezuela, l’Ecuador, la Bolivia, insofferenti alle pretese dell’economia neoliberale e perfino il Brasile, ormai quinta potenza economica del globo, o l’Argentina che nazionalizza il suo petrolio, riprendendoselo dalla Spagna, e vara una legge sui media, in particolare sulla televisione, così democratica e d’avanguardia da far risultare ridicola la nostra presunta libertà d’informazione. I rapporti di Amnesty sono invece ignorati quando, solitari, mettono in discussione le violazioni dei diritti umani fatte dagli Stati Uniti o da paesi come Colombia e Messico, paladini di ogni politica nordamericana, anche la più discutibile, pur essendo diventati ultimamente dei mattatoi con decine di migliaia di morti e desaparecidos e milioni di desplazados per presunte guerre dei governi al narcotraffico. A tutti i mezzi d’informazione italiana, per esempio, è sfuggito che il 18 dicembre scorso la Corte Interamericana per i diritti umani ha condannato la Colombia per il bombardamento terrorista sul municipio di Santo Domingo (provincia di Arauca), compiuto dalla Forza aerea colombiana (Fac) e in cui morirono 17 persone (fra cui 6 bambini) e 27 rimasero ferite. Questo bombardamento indiscriminato che ricorda quello nazista di Guernica, oltre a ricordare le responsabilità terroristiche del regime colombiano evidenzia le responsabilità e l’omertà dei media internazionali nel coprire determinati crimini di stato. A loro interessa, con molta malafede, occuparsi del dissidente cubano che fa lo sciopero della fame (ma non di quello islamico di Guantánamo) o di concedere le luci della ribalta a Yoani Sánchez (e non ai giornalisti che con il loro lavoro rischiano la vita in paesi filo-Usa come Messico e Colombia). È eticamente accettabile che una superpotenza cerchi, da decenni, con ogni mezzo (perfino il terrorismo) di sovvertire il sistema politico di un altro paese più piccolo, solo perché questo ha scelto un modello di società che non piace e non conviene alla stessa superpotenza? Ed è accettabile che questa prepotenza venga avallata da chi si dice dissidente, ma in realtà ha scelto di farsi comprare? A parti invertite, chi facesse questa scelta sarebbe, negli Stati Uniti (stiamo parlando di questa superpotenza) condannato a decenni di galera per alto tradimento. Ma nel mondo che si autodefinisce democratico i giornalisti non sentono neanche lontanamente questa contraddizione e questa immoralità. I nostri media leggono e rilanciano solo le promozioni messe in piedi da Freedom House, megafono della Cia che ha addirittura la moglie dello zar dell’intelligence Usa John Negroponte fra i sostenitori fissi dell’agenzia, o le campagne portate avanti da Reporters sans frontiéres, sovvenzionata anch’essa da UsAid e Ned (National endowment for democracy), le agenzie di propaganda della stessa Cia. Eppure le malefatte di queste fabbriche di manipolazioni e di menzogne ogni tanto bucano l’omertà e arrivano a metterci davanti a quel valore che chiamiamo etica. Un’azienda americana che forniva traduttori (si fa per dire) all’esercito nordamericano in Iraq, è stata condannata dalla Corte federale di Greenbelt in Maryland, a risarcire con 5,3 milioni di dollari 71 ex prigionieri iracheni, torturati nel carcere di Abu Ghraib e in altri centri di detenzione a conduzione americana. È il primo caso in cui un’azienda privata degli Stati Uniti, la cui sussidiaria è stata accusata di aver collaborato alla tortura dei detenuti ad Abu Ghraib, ha accettato di patteggiare per chiudere la causa. La Engility Holding, che ha sede a Chantilly in Virginia, ha così tacitato le richieste delle 71 vittime rinchiuse tra il famigerato carcere a Baghdad e in altri centri dell’Iraq. Durissimi gli episodi contestati dai legali nelle udienze: finte esecuzioni con pistole puntate alla tempia, prigionieri sbattuti contro un muro fino a perdere i sensi, oppure minacciati di stupro mentre erano incappucciati e incatenati, costretti a bere così tanta acqua da vomitare sangue. Molti ex detenuti accusano di essere stati più volte stuprati, picchiati e tenuti nudi per lunghi periodi di tempo. Dove sono i media italiani ed europei, difensori dei diritti civili e della democrazia, tanto critici con i cubani o con Chávez accusati di “sprecare” il denaro per maestri, medici e ricercatori? Come i nostri lettori ricordano, lo scandalo delle torture ad Abu Ghraib scoppiò nel 2004. Le foto con i prigionieri incappucciati, incatenati o tenuti al guinzaglio da sodati Usa fecero il giro del mondo, scioccando la comunità internazionale. Alcuni congressisti democratici chiesero le dimissioni del segretario alla Difesa Donald Rumsfeld, che dovette più volte rispondere sugli abusi davanti al Congresso. E già all’epoca vennero accusati di tortura anche agenti di sicurezza privati che avevano il compito di “facilitare” (diciamo così) gli interrogatori. Le ricordano queste realtà di Abu Ghraib i giornalisti che blaterano - quasi sempre a sproposito - di diritti umani? Forse sì, ma il coraggio, sosteneva Manzoni, non si può comprare in una bottega. 97 detenuti su 166 in sciopero della fame Si allarga lo sciopero della fame contro le condizioni di detenzione nel carcere speciale di Gunatanamo, dove 97 dei 166 ancora detenuti stanno rifutando il cibo. Lo ha reso noto un portavoce del campo di prigionia americano sull’isola di Cuba, il tenente colonnello Samuel House, precisando che 19 dei detenuti in sciopero sono stati nutriti attraverso delle flebo e altri cinque sono stati ricoverati anche se non corrono rischi per la loro vita. La protesta, secondo quanto hanno riferito gli avvocati dei detenuti, è iniziata lo scorso 6 febbraio, ma le autorità della prigione ne hanno cominciato a parlare solo l’11 marzo confermando lo sciopero della fame di nove detenuti. Casa Bianca: monitoriamo situazione La Casa Bianca monitora la situazione dei detenuti di Guantánamo. E il presidente americano Barack Obama continua a ritenere che il carcere dovrebbe essere chiuso. Lo ha detto il portavoce della Casa Bianca, Jay Carney. Oltre la metà dei detenuti di Guantánamo è in sciopero della fame: complessivamente sono 97, di cui 19 alimentati forzatamente, su un totale di 166 detenuti. Tunisia: i salafiti “conquistano” le carceri, dove detenuti politici e criminali solidarizzano di Diego Minuti Ansa, 27 aprile 2013 Da luogo di espiazione, le carceri tunisine si stanno trasformando in un contenitore di rabbia e disperazione, in cui i detenuti salafiti fanno proselitismo, conquistando alla loro causa criminali che, sino a ieri, con la religione non avevano spartito nulla. Un proselitismo che procede a tappe forzate e sta creando non poca inquietudine nelle autorità tunisine, davanti ad un problema che, oggi in embrione, potrebbe deflagrare quando per i detenuti dei due gruppi si apriranno le porte delle prigioni e torneranno insieme in una società che appare impreparata a fare fronte a questo fenomeno. I segnali di come i salafiti sappiano fare valere la loro forza di convincimento è dato dal moltiplicarsi di casi di sciopero della fame che, dapprima appannaggio solo degli integralisti, è ora usato dai detenuti comuni per reclamare migliori condizioni di detenzione, con una protesta che, dapprima dettata da motivazioni abbastanza scontate, ora appare progressivamente sempre più intrisa delle tematiche care ai salafiti. L’esempio più lampante di questa commistione è dato dalla prigione di Mornaguia, la più grande della Tunisia, con i suoi ottomila ospiti, spesso costretti a dividere celle piccolissime, con i muri che trasudano d’umidità. Quando, a cominciare da circa un anno, sono cominciati ad arrivare i salafiti, la situazione era abbastanza definita, con i detenuti comuni, spesso divisi in clan, a ‘gestirè la vita nel reclusorio. Solo che, forti della comune fede islamica, i salafiti hanno cominciato ad affermare la saldezza dei loro legami e a diventare essi stessi una forza. Cosa che ha fatto presa sui delinquenti che hanno cominciato a mutuare da loro gli atteggiamenti (quelli contro l’amministrazione del reclusorio), a condividerne l’afflato religioso per arrivare anche ad imitarne i segni distintivi (come le barbe). Ed oggi, ha detto il direttore della prigione, Hatem Laabidi, ad un sito on line in lingua araba, la maggior parte dei detenuti comuni s’è fatto crescere la barba, più che per sancire un’alleanza, per farsi passare per salafiti. Poi, ci si sono messe in mezzo le associazioni di volontariato vicine al partito islamico Ennahda che, dopo una battaglia di principio, hanno ottenuto che ad alcuni detenuti - ma è facile pensare che di questo privilegio abbiano poi indirettamente goduto tutti gli altri - avessero dei telefoni cellulari, per segnalare quel che non va nella prigione o eventuali violazioni dei loro diritti. Motivazione socialmente lodevole, ma che, lamenta oggi Labidi, ha consentito ad alcuni detenuti salafiti, riconosciuti come i più influenti della comunità, di avere frequenti contatti con il leader del movimento, Abou Iyadh. Proprio quello che è latitante dal 14 settembre scorso per avere guidato i suoi confratelli nel sanguinoso assalto all’Ambasciata Usa.