Giustizia: la ministra Severino… “il lavoro, unica salvezza per chi esce dal carcere” di Massimo Martinelli Il Messaggero, 25 aprile 2013 È emozionata lei, perché aveva cominciato pensando alle carceri e finisce qui, in un penitenziario di frontiera. E sono emozionati loro, questi detenuti del penitenziario di Civitavecchia dalla pelle scura, avorio, gialla. Che mai avrebbero pensato di vedere il ministro Guardasigilli commuoversi pensando ai loro diritti negati. Paola Severino ha voluto concludere in questo modo i suoi quasi sedici mesi da ministro della Giustizia, raccogliendo i sorrisi increduli e dei detenuti extracomunitari di Civitavecchia, parlando con loro e tracciando un bilancio di quello che è riuscita a fare in questo scorcio di legislatura. “Questa è la mia ultima visita a un carcere come ministro: non potevo non salutare voi detenuti e gli agenti di polizia penitenziaria”. E aggiunge: “che vorrei tornassero a chiamarsi agenti di custodia perché il loro compito è custodire”. L’atmosfera è diversa da quella formale, celebrativa, delle visite in carcere con il Pontefice. Ma è ugualmente toccante. Paola Severino riceve piccoli doni: fiori realizzati con bottiglie di plastica e un quadro che raffigura una Marilyn dipinta alla maniera di Andy Warhol. Quello di Civitavecchia è il penitenziario ideale per mantenere la prima promessa da ministro di Paola Severino: la carta dei diritti del detenuto. L’aveva annunciata pochi giorni dopo il suo insediamento “perché è giusto che chiunque varchi il portone di un carcere non provi il senso di smarrimento che prova chiunque viene privato della libertà”, spiegò allora. E ieri la Carta dei Diritti del detenuto è stata distribuita per la prima volta ad un gruppo di sette reclusi, tradotta in altrettante lingue: arabo, spagnolo, inglese, francese, romeno e italiano. La Carta, che sarà via via distribuita in tutti gli istituti, indica le regole generali del trattamento penitenziario, fornisce le informazioni indispensabili su servizi, strutture, orari e modalità di colloqui e ricorda quali sono i doveri di comportamento. E ancora, quali sono le regole per la corrispondenza, per le visite mediche, per il vitto e per molti altri momenti della vita dietro le sbarre. I suicidi Non poteva non parlarne, Paola Severino, della piaga dei suicidi nelle carceri. Dovuti alla disperazione, alle condizioni disumane in cui si è costretti a vivere, alla depressione. Non è un caso che il primo dei 34 penitenziari che il ministro Guardasigilli ha visitato in questi mesi, sia quello di Cagliari, dopo l’ennesimo caso di un detenuto che si era tolto la vita: “Li ricordo tutti, i penitenziari che ho visitato - ha commentato ieri Paola Severino - e in tutti ho trovato sempre uno spicchio di umanità”. E poi, a proposito del fenomeno di suicidi in carcere, che solo nel 2013 sono stati ben 17, ai quali si sono aggiunti 58 decessi per altre cause, il Guardasigilli ha aggiunto: “Quando qualcuno si toglie la vita in carcere, questo produce sempre una sensazione di fallimento nella giustizia”. L’emergenza Su un punto il Guardasigilli ha insistito ancora con forza: il lavoro, che è la vera strada per salvare chi esce dal carcere. “Il 98 per cento di voi - ha detto ai detenuti - potrebbe tornare nella società salvandosi se avesse un lavoro, perché così possibilità di una recidiva è al 2 per cento”. Sull’emergenza penitenziari l’ultimo governo ha varato il piano svuota-carceri e ha rifinanziato la legge Smuraglia per il lavoro dei detenuti, ma non è riuscito a far passare il ddl sulle pene alternative alla carcerazione, bloccato al Senato. Una vicenda che ha deluso il ministro, che lo ha ribadito anche ieri: “Ma sono certa che il presidente Napolitano non farà mancare la sua attenzione al problema del sovraffollamento delle carceri e il nuovo parlamento potrà assumere tutte le iniziative che riterrà necessarie, ma le assuma con urgenza. Io, lasciato l’incarico, continuerò a portare questo messaggio”. Continuerò lavoro su questo fronte (Ansa) “Questa è la mia ultima visita a un carcere come ministro: non potevo non salutare voi detenuti e gli agenti di polizia penitenziaria”. È emozionata Paola Severino, ministro della Giustizia uscente, mentre nel teatro del carcere di Civitavecchia incontra i detenuti e gli agenti di polizia penitenziaria, “che vorrei tornassero a chiamarsi agenti di custodia perché il loro compito è custodire”. In dono riceve dei fiori realizzati con bottiglie di plastica e un quadro che raffigura una Marilyn dipinta alla maniera di Andy Warhol. La struttura ospita molti extracomunitari e anche per questo è stata scelta per presentare la Carta dei diritti e dei doveri dei detenuti, consegnata a un gruppo di sette reclusi tradotta in altrettante lingue: arabo, spagnolo, inglese, francese, romeno e italiano. La Carta, che sarà via via distribuita in tutti gli istituti, indica le regole generali del trattamento penitenziario, dà le informazioni indispensabili su servizi, strutture, orari e modalità di colloqui, doveri di comportamento, corrispondenza. Nei 15 mesi del suo mandato, Severino ha visitato in tutto 33 istituti: “Li ricordo tutti e in tutti ho trovato sempre uno spicchio di umanità”, ha detto. La prima visita fu quella a Cagliari, subito dopo il suicidio di un detenuto e “quando qualcuno si toglie la vita in carcere, questo produce sempre una sensazione di fallimento nella giustizia”. Su un punto la Guardasigilli insiste con forza: il lavoro, vera strada per salvare chi esce dal carcere. “Il 98% di voi - ha detto ai detenuti - potrebbe tornare nella società salvandosi se avesse un lavoro, perché così la recidiva si abbassa al 2%”. Sull’emergenza carceri proprio l’ultimo governo ha varato il piano svuota-carceri, ha rifinanziato la legge Smuraglia per il lavoro dei detenuti, ma non è riuscito a far passare il ddl sulle pene alternative alla carcerazione, che al Senato si è bloccato. Una vicenda che ha lasciato delusa il ministro, che lo ha ribadito anche oggi. “Ma sono certa - ha sottolineato - che il presidente Napolitano non farà mancare la sua attenzione al problema del sovraffollamento delle carceri e su questo fronte il nuovo parlamento potrà assumere tutte le iniziative che riterrà necessarie, ma le assuma con urgenza. Io, lasciato l’incarico di ministro, continuerò a portare questo messaggio”. Giustizia: la Carta dei diritti e dei doveri dei detenuti adulti e minori www.giustizia.it, 25 aprile 2013 L’idea di una Carta dei Diritti e dei Doveri dei Detenuti e degli Internati viene alla neo nominata ministro della Giustizia Paola Severino che la espone subito nella sua prima audizione in Commissione Giustizia al Senato: “Una cosa poco costosa, ma molto utile. Un piccolo catalogo, da tradurre in varie lingue, per far sentire meno smarrito chi entra in carcere e non sa cosa gli è vietato fare e per aiutarlo a sottrarsi a forme di approfittamento da parte di chi il sistema lo conosce bene”. Un punto di riferimento per i detenuti, insomma, per “alleviare un po’ lo sconforto iniziale di chi è appena entrato in carcere - sottolinea la guardasigilli - facendogli conoscere cosa può fare e cosa non può fare, a partire dalle cose più elementari come il vestiario o i generi alimentari che si possono ricevere da casa”. Il Dpr che la istituisce viene presentato in Consiglio dei Ministri il 16 dicembre 2011. Con il provvedimento si punta a modificare l’ordinamento penitenziario, così da fornire al detenuto, al momento del suo ingresso in carcere, e ai suoi familiari, una guida in diverse lingue che indica in forma chiara le regole generali del trattamento penitenziario e fornisce tutte le informazioni indispensabili su servizi, strutture, orari e modalità di colloqui, corrispondenza, doveri di comportamento. Il decreto presidenziale recante Modifiche al Dpr 30 giugno 2000, n. 230 in materia di Carta dei diritti e dei doveri del detenuto e dell’internato è datato 5 giugno 2012: la Carta è introdotta nell’Ordinamento Penitenziario per sostituire la mera informazione sui diritti e doveri, disciplina e trattamento prevista dalla normativa vigente, in modo da garantire una maggiore consapevolezza del regime carcerario al quale i detenuti e internati sono sottoposti. Il 5 dicembre 2012, infine, la guardasigilli firma il decreto ministeriale contenente le disposizioni relative a tutto ciò che il detenuto deve conoscere sin dal primo colloquio con il direttore o con un operatore penitenziario. La Carta indica gli aspetti principali che attengono alla gestione della vita quotidiana, ai doveri di comportamento e alle relative sanzioni, all’esercizio del diritto allo studio, alle attività culturali e sportive, alle possibilità lavorative e di formazione offerte dall’Amministrazione penitenziaria, alle norme che regolano i rapporti con i familiari e la società esterna, alle misure alternative alla detenzione ed a quelle premiali, nonché ai regimi di detenzione speciale spettanti a determinate categorie di soggetti. Per assecondare il bisogno di informazione dei detenuti stranieri viene tradotta nelle lingue più diffuse tra la popolazione carceraria. Una copia della Carta viene messa a disposizione anche dei familiari nella sala colloqui di ciascun istituto penitenziario. Analogamente e con identiche finalità è stata redatta la Carta dei diritti e dei doveri dei minorenni che incontrano i Servizi Minorili della Giustizia. Curata dal Dipartimento per la Giustizia Minorile, descrive una completa panoramica dei diritti e dei doveri che interessano i minori che entrano nel circuito penale in relazione alle strutture ed ai servizi minorili dai quali vengono presi in carico; in essa vengono inoltre rappresentati i compiti e l’organizzazione della Giustizia Minorile, dei suoi Servizi e degli operatori che vi operano e propone ai minori in modo semplice informazioni sul procedimento penale minorile. Al suo interno è ricompreso un Glossario sui termini di non facile comprensione per il minore. Sarà tradotta in nove lingue (arabo, cinese, francese, inglese, rumeno, russo, spagnolo, tedesco) per facilitarne la divulgazione ed è stata scritta utilizzando un linguaggio semplice e diretto, pensato per ottenere una più immediata efficacia comunicativa adeguata all’utenza cui è rivolta e dando al minore la possibilità di consultarla in qualsiasi momento, al fine di consentirgli la possibilità di sapere quali siano i suoi diritti ed i suoi doveri. È stata elaborata dal Dipartimento - Direzione Generale per l’Attuazione dei Provvedimenti Giudiziari con il supporto dell’Istituto Psicoanalitico per le Ricerche Sociali (Iprs) e della Casa San Benedetto - Istituto Don Calabria, ed è stata realizzata nell’ambito del progetto CO.S.MI. - Comunicazione sociale e minori stranieri nei sistemi di Giustizia europei, finanziato dal Ministero dell’Interno con il Fondo Europeo per l’Integrazione dei Cittadini di Paesi Terzi 2007-2013 (Fei). Giustizia: Perduca (Radicali); ma ministra Severino non s’è preoccupata dei propri doveri Agenparl, 25 aprile 2013 Dichiarazione di Marco Perduca, co-vicepresidente del Partito Radicale Nonviolento, Transnazionale e Transpartito, già membro della Commissione giustizia del Senato nella XVI legislatura: “È da sperare che quella di oggi sia l’ultima trovata promozionale della Ministro Severino che nei suoi 15 mesi di reggenza del Ministero della giustizia niente ha fatto per andare alla radice del problema della mala-amministrazione della giustizia in Italia. Malgrado confrontata quotidianamente coll’iniziativa politica e nonviolenta di dialogo di Marco Pannella e dei Radicali pel rientro della Repubblica italiana nel pieno rispetto della propria legalità costituzionale e degli obblighi internazionali - denunciati sistematicamente dalla Corte europea dei diritti umani di Strasburgo - la Ministro Severino ha ritenuto non solo insistere su misure cosmetiche e totalmente inefficaci (come l’omonimo decreto del dicembre 2011) ma non ha dedicato un attimo del proprio lavoro alla sentenza Torreggiani del gennaio scorso, la cosiddetta “sentenza pilota”, della Cedu, anzi ha insistito perché il governo facesse ricorso! Chi, come i Radicali, frequenta le carceri da sempre sa perfettamente che i diritti dei detenuti sono contenuti nella Costituzione, a partire dall’articolo 27 che inequivocabilmente recita: “La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte”. La diffusissima carcerazione preventiva, la qualità delle strutture detentive e il più alto tasso di suicidi in carcere in Europa, mettono la nostra Repubblica al di fuori della legalità nazionale e internazionale. La mancanza di rispetto della Carta non può quindi esser riparata con circolari amministrative in più lingue che cianciano di vitto e docce, anche perché la qualità del primo è quella che è e le seconde spesso son fatiscenti e un po’ dappertutto manca l’acqua. Occorre che il Parlamento e il prossimo governo affrontino urgentemente e strutturalmente il tema giustizia amnistiando decenni di illegalità diffusa”. Giustizia: detenuti-operatori sociosanitari diventano assistenti di compagni di cella disabili Redattore Sociale, 25 aprile 2013 Succede nella casa circondariale di Parma, dove 9 detenuti hanno ottenuto la qualifica di operatori sociosanitari e si prendono cura di altri detenuti con disabilità. Facendo esperienza per il loro futuro lavorativo fuori dal carcere. Dietro le sbarre può essere ancora più difficile, di quanto non lo sia già nella vita fuori, rendersi conto che una sedia a ruote nasconde semplicemente una persona. Eppure, il lavoro che con pazienza sta portando avanti la casa circondariale di Parma va proprio in questa direzione: formare detenuti come veri e propri operatori sociosanitari in grado di assistere altri detenuti con disabilità, mettendo al centro soprattutto la relazione, quella capacità di interagire che senza dubbio giova sia a chi la mette in pratica sia a chi la riceve. “Ho capito che fare questo lavoro vuol dire anche sapersi relazionare”, ha affermato a fine corso uno dei nove detenuti coinvolti nella formazione di base da operatori assistenziali, promossa dall’Asl di Parma in collaborazione con il centro “Forma Futuro” e finanziata dalla Fondazione Cariparma. L’articolo è stato pubblicato sul numero di aprile del mensile “SuperAbile Magazine”, edito dall’Inail. L’azione rientra nel progetto generale “Benessere psicofisico negli istituti penitenziari”, elaborato dalla Asl per offrire ai detenuti, inclusi quelli disabili, risorse, dignità, autostima, crescita, una forza conquistata dentro con l’obiettivo di spenderla fuori. “Il carcere è di per sè un luogo di disagio, per il fatto stesso di limitare la libertà - sottolinea Francesco Ciusa, dirigente medico presso la Asl, direttore del programma Salute all’interno del penitenziario -. Per restituire abilità alle persone occorre togliere una certa dose di sofferenza, in modo che ciascuno possa diventare padrone della propria riabilitazione”. In questa logica fioriscono una serie di singole azioni: dal sostegno psicologico ai laboratori, dal gruppo di educazione sanitaria all’assistenza ai detenuti con disabilità, prevedendo una specifica formazione. La casa circondariale maschile di via Burla ospita un centro clinico, reparto in cui sono ricoverati detenuti non necessariamente disabili, con patologie che necessitano di cure intensive tali da non poter essere eseguite in cella. Il reparto paraplegici invece accoglie nove persone in sedia a ruote, alcune con un bisogno di assistenza 24 ore su 24, mentre nella sezione minorati fisici vivono 50 detenuti con impedimenti e difficoltà di diverso genere e diversa gravità. Due delle nove persone che hanno seguito il corso da operatore assistenziale sono state intanto avviate al lavoro presso il centro clinico, le altre avranno la precedenza nel prestare servizio accanto ai detenuti disabili nel momento in cui la direzione del carcere andrà a sostituire gli operatori attualmente presenti. “All’esterno un corso da operatore sociosanitario si compone di molte ore -precisa Katia Boni, operatrice sociale, referente del progetto Asl ‘Benessere negli istituti penitenziarì -. Qui abbiamo elaborato una versione ridotta di 40 ore con principi di base sia dal punto di vista teorico che da quello pratico, con l’intento di fornire crediti e opportunità da spendere all’uscita dal carcere”. Un percorso verso orizzonti nuovi che i partecipanti - in buona parte stranieri, selezionati attraverso colloqui e sotto il profilo motivazionale - hanno scelto volontariamente con uno sguardo concreto a un domani, per alcuni vicino e per altri meno. A impartire la formazione, figure professionali: uno psicologo, un operatore della sicurezza e un’operatrice sociosanitaria, con l’intenzione di fornire una visione d’insieme che abbracci più competenze. Le lezioni e le ore di tirocinio? Su igiene, movimentazione e relazione personale. “Assistere significa aver cura dell’igiene della persona ma anche dell’ambiente - spiega Boni -, agevolare la deambulazione, favorire gli spostamenti dal letto alla sedia a ruote in condizioni di sicurezza, supportare nell’alimentazione, dato che alcuni detenuti necessitano di ausili artificiali. Significa anche lavorare sulla relazione tra una persona e l’altra, sui rapporti che si vanno a instaurare. Si tratta di processi lunghi in un contesto complesso, che devono maturare e da monitorare costantemente. È già un risultato, comunque, che chi ha seguito il corso abbia in sé ora un margine di consapevolezza e di autonomia rispetto alle proprie mansioni. Vedremo man mano che inizieranno a lavorare”. Anche le parole hanno il loro peso: chi presta assistenza non è un piantone, come vuole il gergo carcerario, ma un operatore sociosanitario a tutti gli effetti. Nella sezione alta sicurezza altri detenuti stanno svolgendo un corso di formazione base. E uno dei nove partecipanti del corso ha usufruito della misura alternativa, in base all’articolo 21, e sta frequentando una formazione completa da operatore sociosanitario con un monte ore ridotto, perché può avvalersi dei crediti maturati dentro. In fondo, il carcere è un pezzo di territorio, come fuori. “Qualcosa si muove - conclude la referente del progetto, ma il vero obiettivo è portare nel penitenziario la metodologia dell’assistenza sanitaria territoriale. E farla funzionare”. Giustizia: Bambinisenzasbarre Onlus… “Non un mio crimine, ma una mia condanna” Comunicato stampa, 25 aprile 2013 “Non è un mio crimine, ma una mia condanna” è il grido dei 100.000 bambini che ogni giorno entrano nelle 213 carceri italiane per incontrare il proprio papà o la propria mamma detenuti. Ogni giorno varcano il portone degli Istituti penitenziari per incontrare il proprio genitore, per mantenere il legame affettivo fondamentale per crescere. Ogni giorno sostengono il peso dell’emarginazione, dei pregiudizi, delle difficoltà economiche, della vergogna. La detenzione del proprio genitore li coinvolge, ne trasforma la quotidianità, rendendoli fragili sul piano psicologico. Sono emarginati a scuola, nel quartiere dove vivono, nel gruppo sociale di appartenenza poiché sono figli di genitori detenuti. Sono bambini a grave e continuo rischio di discriminazione ed esclusione sociale. “Non un mio crimine, ma una mia condanna” è la Campagna di raccolta fondi di Bambinisenzasbarre Onlus. L’Associazione da oltre dieci anni, cura, sostiene e difende il diritto dei bambini alla continuità delle relazioni familiari e affettive con il proprio genitore durante la detenzione, così come sancito dall’articolo 9 della Convenzione Onu dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. La Campagna sostiene - con l’invio al 45507 di un sms da 2 Euro da cellulare e 2 o 5 Euro da telefono fisso - il consolidamento, la prosecuzione e l’estensione negli Istituti penitenziari del Modello d’accoglienza Spazio Giallo, che comprende un percorso d’accesso dedicato e il luogo integrato socio-educativo, in carcere, per le famiglie e i bambini che si preparano insieme alle psicologhe, psicopedagogiste e arte-terapeute di Bambinisenzasbarre all’incontro con il genitore detenuto; la possibilità di attivare la sensibilizzazione del personale penitenziario e l’avvio di un servizio nazionale di Telefono Giallo per rispondere alle famiglie di persone in una situazione di detenzione e per sostenere le difficoltà dei bambini. Ancora molti Istituti penitenziari in Italia, in una condizione di sovraffollamento e di grave precarietà, non accolgono adeguatamente questi bambini, non vi è un tempo sufficiente per il colloquio col genitore tale da garantire il mantenimento del legame affettivo. Questa situazione può determinare la cancellazione della genitorialità stessa. Una sparizione che spesso viene attuata anche dai figli all’interno della propria rete sociale, portandoli a nascondere fino a negare la stessa personale storia familiare. “Lo sguardo, tuttavia, dei bambini può trasformare ed umanizzare il carcere, costretto a prendere in considerazione la loro presenza, se pure paradossale, e ad attrezzarsi per accoglierli. - ha sottolineato Lia Sacerdote, Presidente di Bambinisenzasbarre - Il Modello d’Accoglienza Spazio Giallo non è solo un modello per il sistema penitenziario, ma lo è anche per il “sistema città” di cui il carcere è parte ed occupa un posto cruciale in termini di legami e scambi relazionali, soprattutto, per i bambini coinvolti e da cui non devono sentirsi separati. Il modello, che Bambinisenzasbarre sta estendendo sul territorio nazionale partendo dagli istituti in Lombardia, si è rivelato decisivo per le ricadute in termini di trasformazione dei comportamenti sociali sul territorio, riducendo il disagio delle persone e della società e avviando un processo di inclusione sociale. Non ultimo effetto, auspicato a lungo termine, di questo processo di accoglienza delle famiglie e dei bambini, l’adeguamento del sistema penitenziario ai dettami europei ed al superamento della condanna dell’Italia dalla Corte europea dei Diritti Umani di Strasburgo.” Finalità della Campagna è sensibilizzare il grande pubblico sull’importanza del riconoscimento e visibilità di questi bambini e dei loro bisogni senza per questo stigmatizzarli, nel pieno rispetto del diritto di ogni bambino di essere tale. Al contempo, si intende far comprendere come la continuità e il rafforzamento del legame affettivo, agisca in termini di prevenzione sociale: per il figlio che non rischia di ripetere l’esempio del padre da cui è forzatamente separato e, a causa dell’improvvisa “scomparsa”, ne idealizza il comportamento ma, al contrario, ne comprende le debolezze e gli errori e, quindi, è in grado di scegliere un diverso stile di vita; mentre per il genitore detenuto il figlio con cui riesce a mantenere un legame diventa la motivazione forte per non ripetere il reato e ritornare ad essere per lui un modello. Una volta di più, l’intera comunità è chiamata a mettere in atto tutte quelle pratiche positive che permettano a questi bambini di subire il minor danno possibile da questa difficile situazione e, al contempo, garantire loro il diritto all’infanzia. Bambinisenzasbarre, liberiamo i bambini. Bambinisenzasbarre Onlus, membro della direzione della rete europea Eurochips con sede a Parigi, da oltre 10 anni è presente sul territorio italiano con attività di formazione e di ricerca in collaborazione con le Università e il Ministero di Giustizia. È attiva nelle tre carceri milanesi - S. Vittore, Bollate e Opera - e in rete operativa sul territorio regionale e nazionale per la estensione del Modello di accoglienza Spazio Giallo. Giustizia: Sappe; sono 23mila detenuti stranieri, devono scontare pena nel Paese di origine Redattore Sociale, 25 aprile 2013 Il sindacato di polizia penitenziaria individua una soluzione per “ridurre, seppur parzialmente, il sovraffollamento”. In cella oltre 23 mila immigrati: 9 mila da paesi europei, 11 mila dall’Africa, mille da Asia e Americhe. Sono 23.436 i detenuti stranieri oggi in Italia, una percentuale pari al 36 per cento degli attuali 65.831 ristretti nelle oltre 200 carceri del Paese. “Di questi, 9.499 arrivano da Paesi europei, 11.203 dall’Africa, 1.252 dall’Asia, 1.463 dalle Americhe”, spiega Donato Capece, segretario generale Sappe, Sindacato autonomo polizia penitenziaria. Per il 56 per cento si tratta di detenuti definitivi, che scontano una pena. I primi sei Paesi esteri per numero di detenuti presenti sono Marocco (4.463), Romania (3.700), Tunisia (2.927), Albania (2.888), Nigeria (1.010) ed Algeria (616). E l’elevata presenza di stranieri tra i detenuti accentua inevitabilmente le criticità con cui quotidianamente si devono confrontare le donne e gli uomini della polizia penitenziaria”. Il Sappe rileva che “pochissimi sono stati negli ultimi due anni i detenuti espulsi dall’Italia a titolo di misura alternativa: 896 nel 2011 e 920 nel 2012”. Per questo il Sappe torna a sollecitare “il ministro della Giustizia ed il governo a favorire la circolarità degli stranieri detenuti in Italia, a cominciare da quelli comunitari, facendo scontare loro la pena nelle carceri dei Paesi di provenienza, attraverso accordi bilaterali tra gli Stati aderenti all’Unione Europea favoriti dalla Commissione Europea. Questo potrebbe essere un primo segnale per ridurre concretamente, seppur molto parzialmente, il sovraffollamento penitenziario in Italia”. Per favorire questo percorso, il Sappe ha in programma a breve anche incontri in sede istituzionali quali la Commissione Europea. Giustizia: processo per morte di Stefano Cucchi; parlano i difensori di medici e infermieri Agi, 25 aprile 2013 Stefano Cucchi arrivò il 17 ottobre 2009 all’ospedale Sandro Pertini, dove sarebbe morto cinque giorni dopo, con un codice verde e quasi per caso. Fu, infatti, il medico del Pronto Soccorso del Fatebenefratelli, dopo aver inviato 40 fax ad altrettanti ospedali in cerca di un posto letto, a ricordarsi della struttura protetta del Pertini e a indirizzarlo lì. Non solo. Al momento del suo arresto per droga, il 16 ottobre, il geometra 31enne pesava 52 kg, come risulta dal diario clinico di Regina Coeli: non era, dunque, in stato di magrezza patologica, come sarà alla sua morte, dopo giorni trascorsi senza cibo né acqua. Ecco la verità di Rosita Caponetti, la dottoressa del Pertini che per prima visitò Cucchi. La Caponetti è imputata per favoreggiamento personale, omissione di referto, abuso d’ufficio e falso, a differenza degli altri cinque medici che rispondono anche di abbandono di incapace: secondo l’accusa, si sarebbe prestata - indotta dal funzionario del Prap, Claudio Marchiandi, assolto in appello - a nascondere il pestaggio subito dal giovane, accogliendolo in una struttura ritenuta dai pm non idonea perché normalmente destinata a ricevere pazienti “non acuti”. Stando ai pm, la dottoressa - che vide il geometra solo il 17 ottobre, data del ricovero - avrebbe falsamente indicato in cartella clinica, in contrasto con quanto rilevato dai medici del Fatebenefratelli, che Cucchi presentava condizioni generali “buone”, stato di nutrizione “discreto”, “decubito indifferente”, apparato muscolare “tonico trofico”. Mentre invece, sostiene l’accusa, era un paziente “allettato in decubito obbligato, cateterizzato, impossibilitato alla stazione eretta e alla deambulazione e con apparato muscolare gravemente ipotonotrofico”. Una ricostruzione che la Caponetti contesta radicalmente, a partire dalle condizioni di Cucchi il giorno del suo arresto, 24 ore prima di giungere al Pertini. “Il peso di Cucchi è stato preso a Regina Coeli e si attestava sui 52 kg”, spiega all’Agi l’avvocato della Caponetti, Massimiliano Auriemma. “Anche volendo togliere la tara dei vestiti e delle scarpe, è comunque intorno ai 48-49 kg. Come la perizia della Corte ha dimostrato, il giovane calò di una decina di kg nei giorni in cui fu ricoverato al Pertini. Mentre nel momento della morte poteva ben definirsi un soggetto cachettico, non lo era al momento dell’ingresso al reparto protetto; e ricordiamo che dalla pesata all’arrivo al Pertini passano circa 24 ore. È dunque infondata la descrizione del pm che definisce Cucchi in stato di cachessia fin dal giorno dell’arresto”. Inoltre, i medici del Pronto Soccorso del Fatebenefratelli - dove Cucchi si recò il 16 e 17 ottobre e dove gli furono diagnosticate una “frattura del corpo vertebrale di L3 sull’emisoma sinistro e della prima vertebra coccigea” - assegnarono al giovane un codice verde, che generalmente indica uno stato poco critico, con prestazioni differibili. “Tutti i medici del Fatebenefratelli hanno dichiarato sia alla Corte d’Assise che alla commissione Marino che Cucchi era in condizioni generali buone, che aveva valori pressoché nella norma, che le fratture riportate richiedevano semplicemente di stare a letto e che il paziente era in condizioni stabili; una situazione, peraltro rimasta immutata il giorno successivo, come risulta dal secondo verbale di pronto soccorso. La mia assistita ha semplicemente certificato quello che altri medici prima di lei avevano certificato”, sottolinea il legale. Secondo Auriemma, è la stessa sequenza degli eventi a smontare la teoria del “complotto” per nascondere il pestaggio di Cucchi per mano della polizia penitenziaria, con conseguente ricovero in una struttura protetta, lontano dagli occhi dei familiari. “È il medico del Fatebenefratelli, il dottor Claudio Bastianelli, che dopo aver inviato quaranta fax ad altrettanti ospedali in cerca di un posto letto, si ricorda della struttura protetta del Pertini e la contatta, ritenendola un posto idoneo a ricevere il giovane”, puntualizza l’avvocato. “Non è, dunque, il personale della Penitenziaria che decide di trasferire Cucchi al Pertini per nasconderlo. Semplicemente, il medico del Pronto Soccorso si attiva per evitare che il ragazzo rimanga su una barella”. Infine, l’idoneità della struttura protetta del Pertini a ospitare Stefano Cucchi. Protocollo organizzativo alla mano, Auriemma fa notare che il regolamento prevede non solo il “ricovero programmabile” per patologie mediche e chirurgiche ma anche quello di pazienti “in situazioni di acuzie, dopo le valutazioni effettuate in Pronto Soccorso” ed escluse le situazioni che richiedano interventi di rianimazione e/o terapia intensiva: esattamente ciò che avvenne nel caso del geometra 31enne, fa notare il legale. Del resto, conclude l’avvocato, “esiste un’ampia casistica di polifratturati ricoverati nella struttura protetta del Pertini; Cucchi non è stato affatto l’unico, prima di lui ne erano arrivati oltre cento”. Difesa infermieri: lo curarono nonostante suo rifiuto (Ansa) “Le accuse mosse nel capo di imputazione contro gli infermieri sono del tutto schizofreniche. Sia Giuseppe Flauto che Domenico Pepe si sono adoperati per garantire a Stefano Cucchi una assistenza sanitaria nonostante il suo atteggiamento oppositivo”. È quanto sostenuto oggi in aula, a Rebibbia, dall’avvocato Diamante Ceci nel corso del processo per la morte del geometra di 21 anni deceduto nell’ottobre del 2009 nel reparto protetto dell’ospedale Sandro Pertini ad una settimana dal suo arresto per stupefacenti. Nei confronti degli infermieri Flauto e Pepe la procura ha sollecitato una condanna a 4 anni di reclusione per l’accusa di abbandono di persona incapace. “La perizia - ha proseguito il penalista - ha escluso qualsiasi responsabilità dei miei assistiti nel decesso di Cucchi. I due infermieri (imputati assieme ad un altro collega, sei medici e tre agenti della polizia penitenziaria) si sono spesi nel tentare di fornire un aiuto concreto nei confronti del giovane nonostante il suo comportamento che era di chiusura”. Nel corso dell’udienza ha preso la parola anche l’avvocato Massimo Mauro, difensore dell’agente di polizia penitenziaria Antonio Domenici nei confronti del quale la procura ha sollecitato una condanna a 2 anni per lesioni. Per il penalista, nel corso del processo non è stata fornita alcuna prova sul fatto che le lesioni riportate da Cucchi siano state provocate quando si trovava nelle celle del tribunale di Roma, in attesa dell’udienza di convalida del fermo. Secondo il difensore anche le parole del super testimone gambiano Samura Yaya non hanno fornito elementi certi. Il processo è stato aggiornato al prossimo 6 maggio. Umbria: dalla Regione un accordo con la Toscana per chiusura Opg Montelupo Fiorentino Asca, 25 aprile 2013 Una sinergia per il superamento dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo Fiorentino e l’accoglienza dei soggetti ristretti con problemi di salute mentale, in strutture individuate dalla Regione Toscana nel proprio territorio. Sono gli obiettivi dell’accordo tra Regione Umbria e Regione Toscana approvato dalla Giunta umbra e che verrà siglato a maggio dalla Governatrice Catiuscia Marini. “Dal 2008 è stato avviato un percorso che attribuisce alle Regioni la tutela intramuraria della salute mentale delle persone ristrette in istituti penitenziari - ha spiegato l’assessore alla sanità, Franco Tomassoni. Di conseguenza, le funzioni sanitarie relative agli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) sono trasferite alle Regioni che dovranno farsi carico dei pazienti attraverso programmi terapeutici e riabilitativi finalizzati all’inserimento nel contesto sociale di appartenenza. Successivamente - ha aggiunto - in seguito ad un accordo tra il Governo e le Regioni, sono state definite specifiche aree di collaborazione e gli indirizzi di carattere prioritario sugli interventi negli ospedali psichiatrici giudiziari e nelle case di cura e custodia, nonché i bacini di utenza regionale di ciascuno degli Opg, assegnando l’utenza delle Regioni Toscana, Liguria, Sardegna e Umbria, all’Opg di Montelupo Fiorentino”. Tra i vari adempimenti delle Regioni è previsto il definitivo superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari entro la data del primo aprile 2014, prevedendo che, in ciascuna Regione, a decorrere dal 15 maggio 2013, le misure di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario e dell’assegnazione a casa di cura e custodia, siano eseguite esclusivamente all’interno di apposite strutture sanitarie residenziali deputate ad accogliere i soggetti, tenendo presente la possibilità di stipulare accordi con altre regioni. “Visto il numero esiguo degli internati umbri ritenuti ancora socialmente pericolosi, che ad oggi risultano 7 - ha precisato l’assessore - la Regione Umbria ha stipulato una convenzione con la Regione Toscana per poterli ospitare in una struttura extra ospedaliera in Toscana. Resta fermo - ha concluso - l’impegno reciproco di favorire la dimissibilità, con presa in carico da parte dei Dipartimenti di salute mentale del territorio di provenienza, delle persone che avranno cessato di essere socialmente pericolose”. Modena: internato suicida in Casa Lavoro di Castelfranco Emilia, doveva essere liberato Ristretti Orizzonti, 25 aprile 2013 Denis Ronzato, 25 anni, si è suicidato ieri notte nella Casa di Lavoro di Castelfranco Emilia, dove era internato, nonostante da alcuni giorni fosse stato disposto il suo ricovero in una “Casa di Cura e Custodia”. Il ricovero, firmato da giorni dal Magistrato di Sorveglianza, non è stato eseguito neppure quando, venerdì scorso, dopo il colloquio con i famigliari, Denis aveva dato segni evidenti di malessere psicofisico. Il giovane si è soffocato con un sacchetto della spazzatura infilato in testa e riempito di gas: lo ha trovato un compagno di stanza al rientro dalla “socialità”, era steso sulla branda e privo di sensi. Ha provato a rianimarlo, insieme all’agente di turno in sezione, ma non c’è stato nulla da fare. È il 18esimo detenuto che si toglie la vita dall’inizio dell’anno, mentre il totale dei morti in carcere del 2013 sale a 59. Macomer (Nu): continuano le polemiche dopo la morte del detenuto tunisino La Nuova Sardegna, 25 aprile 2013 Non si placano le polemiche suscitate dalla morte nel carcere di Macomer di un detenuto tunisino causata dall’inalazione del gas di una bomboletta. Il segretario regionale dell’Ugl Polizia penitenziaria, Salvatore Argiolas, ha diffuso una nota nella quale invita i vertici dell’Amministrazione penitenziaria ad assumersi le loro responsabilità. “Il decesso del giovane detenuto - si legge - è l’ennesima dimostrazione della difficile situazione in cui versano le carceri della Sardegna. Basti pensare che durante il turno di servizio in cui è accaduto il dramma del decesso del giovane detenuto erano in servizio solo quattro agenti a fronte delle 8-10 unità necessarie. Anche nell’occasione la polizia penitenziaria ha agito con enorme abnegazione, capacità professionale, sacrificio e prontezza”. Per Argiolas le responsabilità vanno cercate altrove, “e attribuite - conclude - ai veri responsabili onde evitare che fatti di tale gravità, purtroppo non unici, abbiano a ripetersi nel prossimo futuro”. Nella vicenda interviene anche il segretario regionale aggiunto della Fns-Cisl, Giovanni Villa. “Il detenuto - scrive in una nota - è deceduto a seguito dell’inalazione di gas e non è un suicidio. I colleghi hanno fatto il possibile ma, nonostante l’intervento tempestivo, non c’è stato nulla da fare. Ci convinciamo sempre di più che le dichiarazioni del deputato Pili (Pdl) non rispecchiano la realtà dei fatti, e di certo non si può scaricare la responsabilità su una fantomatica cattiva gestione del sistema penitenziario, che in questi anni è solo migliorata, certamente non grazie a Pili”. Catanzaro: detenuto tenta suicidio nel carcere minorile, salvato dalla polizia penitenziaria Agi, 25 aprile 2013 Un giovane detenuto italiano, rinchiuso nell’istituto penale per minori di Catanzaro ed in attesa di giudizio, ha tentato di togliersi la vita impiccandosi utilizzato le lenzuola. Il personale della Polizia Penitenziaria in servizio è prontamente intervenuto scongiurando conseguenze estreme. Il fatto si è verificato nella notte tra lunedì e martedì. “Dopo quello della casa circondariale di Castrovillari avvenuto nei giorni scorsi - affermano in una nota Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe e Damiano Bellucci, segretario nazionale, che hanno reso noto l’episodio - questo dell’Istituto Penale per Minori di Catanzaro è il secondo tentativo di suicidio avvenuto in Calabria in pochi giorni. Ciò mette in evidenza ancora una volta le difficoltà operative e le criticità in cui si trova ad operare il personale di Polizia Penitenziaria della Calabria e di tutta l’Italia, compreso quello assegnato agli Istituti Penali per minori. Ricordiamo che in Italia mancano oltre 7000 unità di personale di polizia penitenziaria, numeri destinati a crescere nei prossimi anni, a causa dei tagli alla spesa pubblica che non consentono di assumere più del 35% circa del personale che ogni anno va in pensione, cioè circa 1.200 unità. Nonostante queste gravi carenze ogni anno la polizia penitenziaria salva la vita a circa 1.100 detenuti che tentano il suicidio. Negli ultimi venti anni - fa sapere il Sappe i detenuti salvati sono stati circa 17.000”. Cosenza: un detenuto malato di tumore chiede aiuto al Movimento Diritti Civili www.giornaledicalabria.it, 25 aprile 2013 Il leader del movimento Diritti Civili, Franco Corbelli, denuncia “il dramma umano e rivolge un appello alle autorità preposte per un detenuto calabrese L.C., che sconta una condanna in un carcere del Lazio, malato di tumore, in fin di vita, attualmente ricoverato in un ospedale laziale, che chiede, di poter ottenere, prima di morire, gli arresti domiciliari e far ritorno nella sua casa in Calabria”. Corbelli spiega che “quest’uomo dal letto dell’ospedale ha trovato la forza e il coraggio di scrivermi una lettera per chiedere aiuto”. Dottor Corbelli - si legge nella lettera - la mia vita dal 28 novembre del 2012 è diventata un inferno. Mi è stato diagnosticato un tumore, un linfoma con grandi cellule, per il quale ho già fatto 12 cicli di chemioterapia, devo fare un altro ciclo, per completare, e poi iniziare subito la radioterapia. Mi è stato detto che sono in pericolo di vita. Staziono 24 ore su 24 in una stanza dell’ospedale nel reparto di medicina protetta, non vedo e non parlo con nessuno; una volta al mese vedo i mie familiari che vengono dalla Calabria a trovarmi. Insomma sono lasciato da solo a morire. Quello che chiedo, per il mio grave stato di salute, che è assolutamente incompatibile con il regime carcerario, come hanno certificato la direzione sanitaria del carcere e dell’ospedale, sono gli arresti domiciliari. La prego di aiutarmi ad esaudire questo mio ultimo desiderio”. Corbelli afferma: “Ancora una volta dall’inferno delle carceri viene fuori il dramma umano di un detenuto gravemente malato. Non conosco questo recluso, né la sua vicenda processuale. So solo che il suo disperato e accorato grido di aiuto non può e non deve cadere nel vuoto. Un Paese civile, uno Stato di diritto ha il dovere di rispettare i diritti delle persone recluse. Quel detenuto malato di tumore e in fin di vita non può e non deve restare in carcere o recluso in un ospedale, deve ottenere immediatamente gli arresti domiciliari. Vorrei ricordare a certi magistrati calabresi, procuratori capi e sostituti-e, che si preoccupano solo di apparire sui giornali e nelle televisioni, con inchieste, in diversi casi, solo mediatiche, che chi entra in carcere non perde certo i suoi diritti. Soprattutto se è malato di tumore e rischia di morire in cella. Abbandonarlo, dimenticarlo in carcere e lasciarlo morire è un fatto disumano, indegno di un paese civile”. Roma: nasce “Sigillo”, prima agenzia nazionale di imprenditorialità delle donne detenute 9Colonne, 25 aprile 2013 Nasce Sigillo, prima agenzia nazionale di coordinamento dell’imprenditorialità delle donne detenute. Obiettivo dell’agenzia - che sarà presentata la mattina del’8 maggio al Museo Criminologico di Roma - sarà quello di curare le strategie di prodotto, comunicazione e posizionamento sul mercato di quanto realizzato dalle donne detenute presso alcuni dei più affollati Istituti penitenziari. A firmare il progetto presentato al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e frutto di 3 anni e mezzo di ricerca e conoscenza dell’effettivo stato dell’arte all’interno delle sezioni femminili, sono 5 cooperative sociali che negli anni hanno saputo distinguersi per le proprie capacità imprenditoriali. Alla presentazione dell’8 maggio interverranno Luigi Pagano e Calogero Roberto Piscitello, rispettivamente vicecapo e direttore generale Detenuti e Trattamento del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria; Luisa Della Morte, presidente cooperativa sociale Alice di Milano e direttore generale dell’agenzia; Caterina Micolano, direttore area comunicazione e marketing Agenzia Sigillo; Silvia Venturini Fendi - Presidente AltaRoma ed Aldo Cibic, architetto e designer Cibic Workshop. Firenze: in vendita alla Mostra dei fiori le rose coltivate dai detenuti di Sollicciano Redattore Sociale, 25 aprile 2013 Domani faranno il loro esordio alla Mostra dei fiori di Firenze, ospitata fino al primo maggio al Giardino dell’Orticoltura. Sarà il primo di una serie di appuntamenti che si svolgeranno a maggio nei mercati di tutta la provincia. Le rose di Sollicciano, coltivate e curate dai detenuti del penitenziario fiorentino grazie a un progetto della cooperativa sociale Ulisse, sono pronte a uscire dal carcere. Domani, giovedì 25 aprile, faranno il loro esordio alla Mostra dei fiori di Firenze, ospitata fino al 1 maggio al Giardino dell’Orticoltura (pressolo stand dei Vivai Valleverde). Sarà solo il primo di una lunga serie di appuntamenti che nel mese di maggio porterà i fiori dei “detenuti - vivaisti” a colorare le piazze e i mercati di tutta la provincia. Il primo maggio, ad esempio, le rose di Sollicciano si metteranno in mostra a San Salvi in occasione della kermesse “Calendimaggio”, organizzata dall’associazione Chille della Balanza (dalle 16 in poi). Sabato 4 e domenica 5 maggio invece approderanno al Mercato dei fiori di Greve in Chianti (piazza del Comune). Il 4 maggio saranno presenti anche ad un’esposizione ospitata dalla Cooperativa Agricola di Legnaia a Ponte a Greve (via Baccio da Montelupo, ore 9-13), per poi replicare sabato 11 maggio. Il ricavato delle vendite delle rose dei detenuti andrà a sostenere il progetto di botanica promosso all’interno del carcere fiorentino dall’assessorato all’agricoltura della regione Toscana e gestito dalla cooperativa sociale Ulisse. Acquistando un fiore dei detenuti si potrà dunque favorire il reinserimento sociale dei carcerati, offrendo loro l’occasione di imparare un mestiere che potrà aiutarli una volta che avranno scontato la pena. L’iniziativa, entrata nel vivo a fine marzo con l’acquisto di alcune centinaia di esemplari di rose rifiorenti, per il momento dà infatti lavoro a tre detenuti (due ospiti di Sollicciano, uno dell’istituto Gozzini), che per l’intera durata del progetto (3 anni) saranno assunti a tutti gli effetti dalla cooperativa Ulisse, con il compito di coltivare e allevare le piantine in una struttura messa a loro disposizione all’interno del carcere dall’amministrazione penitenziaria di Sollicciano. Roma: arrestato poliziotto penitenziario, portava a detenuti schede telefono e informazioni La Repubblica, 25 aprile 2013 Assistente Capo della Polizia Penitenziaria di Rebibbia portava schede telefoniche e informazioni in carcere in cambio di due “finanziamenti” da 35 mila e 50 mila euro. In cambio di “finanziamenti” - dai 35 ai 50mila euro - un agente della penitenziaria di Rebibbia portava schede telefoniche, corrispondenze “vietate” e informazioni riservate su fascicoli ai detenuti. Il processo per corruzione nei confronti di due carcerati (Gianluca Di Giovanni e Nello Muzzi), un assistente capo della Polizia Penitenziaria (A.G.) e un avvocato (Vincenzo Chiusolo) è iniziato ieri nell’aula 7 del tribunale di Roma. L’inchiesta, portata avanti dal pubblico ministero Luca Tescaroli, è cominciata grazie all’intercettazione di un colloquio tra il detenuto Di Giovanni (peraltro coinvolto nella stessa identica situazione, replicata, due anni dopo, dopo il trasferimento nel carcere sardo di Badu ‘e Carros) e il suo avvocato Chiusolo. Dietro quella conversazione si è scoperto un vero e proprio sistema in cui il poliziotto, stretto nella morsa dei debiti, si era messo a disposizione dei carcerati. Tra i “privilegiati” spunta anche il nome di Sergio Orsi (l’imprenditore dei rifiuti condannato nel processo in cui è finito anche Nicola Cosentino per aver favorito le infiltrazioni della camorra nella gestione della spazzatura di Santa Maria Capua Vetere) che però non è indagato in questo procedimento. “Quando monta in Sezione, A. G. si presta a tutto quello che gli chiediamo”, si dicono i detenuti in conversazioni telefoniche intercettate. E infatti è proprio così. L’agente infedele si affanna per portare nella cella di Di Giovanni schede telefoniche vergini in modo tale che lui possa comunicare tranquillamente con l’esterno e proseguire nella sua attività. Per un cumulo pena che va dalla truffa al riciclaggio Di Giovanni deve restare in carcere fino al 2018, ma, grazie al poliziotto, riuscì comunque a portare avanti i suoi affari. Tramite A.G. riceve anche lettere inviate da Domenico Pagnozzi, “Ò Professore”, personaggio di grossissimo spessore criminale, appartenente al clan della camorra. Tutto questo in cambio di 50mila euro, prelevati da un conto in Svizzera del detenuto, da restituire con rate mensili da 500 euro senza interessi. Ancora: il poliziotto di Rebibbia per un altro finanziamento da 35.000 euro ha spulciato il fascicolo di Nello Muzzi negli archivi della casa circondariale e trovato preziose informazioni. “Fai denuncia per l’arresto subìto - gli dice al telefono non sapendo di essere ascoltato dai carabinieri - che è illegale la tua detenzione. Il tuo nome l’ha fatto qualcuno del tuo quartiere, qualcuno se l’è cantata, ma le prove a tuo carico sono presunte, puoi chiedere l’oblazione, la cancellazione del reato”. E anche a lui cadeaux in schede telefoniche pulite per ottenere quel prestito e chiudere i conti con le finanziarie che lo tenevano, pure loro, sotto scacco. Termoli (Cb): corso di volontariato per detenuti, domani si consegnano gli attestati www.termolionline.it, 25 aprile 2013 Domani, venerdì 26 aprile alle ore 18 nel Cinema “Oddo" a conclusione del “Corso di volontariato per i detenuti”, saranno consegnati ai partecipanti gli attestati che li abiliteranno a svolgere opera di volontariato presso la casa circondariale di Larino. Il corso, organizzato dalla direzione del carcere e dall’associazione “Iktus Onlus”, ha avuto un lusinghiero riscontro per l’alto numero di partecipanti (oltre 70), per la pertinenza e la competenza degli argomenti trattati e, soprattutto, per la soddisfazione degli aderenti che hanno auspicato ulteriori nomenti di aggregazione e di condivisione. A consegnare gli attestati saranno il Direttrice del carcere, Rosa la Ginestra e il presidente dell’associazione “Iktus Onlus” Benito Giorgetta parroco di san Timoteo. Torino: proiezioni Oltre il Muro… così dentro un carcere si può riprendere a vivere di Carlo Griseri www.linkiesta.it, 25 aprile 2013 Nei giorni scorsi ho avuto il piacere di essere invitato a un evento tanto raro quanto prezioso: l’Associazione Museo Nazionale del Cinema e Videcommunity hanno organizzato a Torino una doppia proiezione all’interno della Casa Circondariale Lorusso e Cutugno. L’occasione era la presentazione di due lavori legati strettamente al mondo del carcere, uno in particolare a “quel” carcere specifico: il documentario “Art.27” di Laura Fazzini, Elia Agosti e Luca Gaddini e il mediometraggio di finzione “L’ultima notte” di Mattia Temponi. Due lavori profondamente diversi tra loro: il primo è un viaggio doveroso e importante all’interno di quattro istituti penitenziari italiani (Milano Bollate, Venezia Giudecca, Roma Rebibbia e Palermo Ucciardone) per definire un quadro della situazione italiana relativamente all’articolo 27 della Costituzione Italiana, e a quel comma 3 che definisce il diritto a un percorso di reinserimento per ogni carcerato. Una realtà troppo poco raccontata e troppo spesso dimenticata: troppo spesso i carcerati - che già devono affrontare numerose altre problematiche, prima tra tutte quella del sovraffollamento - vengono lasciati a loro stessi (per mancanza di fondi o per miopia delle istituzioni) e inevitabilmente il loro destino, una volta usciti, diventa molto più complicato. Chi ha trovato lavoro in un piccolo orto interno al carcere, o in un laboratorio tessile, o in una lavanderia, ha invece (spesso) ritrovato sé stesso e il proprio posto nel mondo. “Ci siamo accorti - hanno detto gli autori - che molte delle persone che abbiamo visto in carcere erano come noi, gente “normale” che ha fatto un errore: può succedere a tutti, ed è quindi dovere di tutti fare in modo che il sistema penitenziario diventi più “umano”, in tutti i sensi”. “L’ultima notte” di Mattia Temponi è invece un progetto decisamente particolare, voluto da alcuni giovani membri della Società Filosofica Italiana per - parole loro - “portare la filosofia nei luoghi in cui è assente”. L’ultima notte del titolo è quella di Socrate alla vigilia della sua condanna a morte, combattuto tra la possibilità di fuggire negando però i propri principi o restare e andare incontro a morte certa. Ambientato dentro il carcere e realizzato grazie agli stessi detenuti (i ruoli principali sono affidati ad attori professionisti, ma i ruoli minori e buona parte della troupe tecnica sono stati reperiti “in loco”), il mediometraggio riesce nel suo intento e regala anche alcuni momenti molto riusciti. Il carcere - e i carcerati soprattutto - non sono un mondo alieno e “altro” rispetto alla società civile, anzi. Il cinema italiano (come sottolineato qualche settimana fa sempre su queste pagine) sembra essere, almeno in questo caso, qualche passo avanti rispetto al resto del paese nel considerarlo soggetto attivo e vitale, grazie a numerosi e apprezzati lavori che hanno saputo parlare del carcere, far parlare i carcerati, nascere dentro le carceri o entrarvi dentro, e restituendo al pubblico un’esperienza umana e sociale da non trascurare. Libri: “Cucinare in massima sicurezza”, a cura di Matteo Guidi Ristretti Orizzonti, 25 aprile 2013 “Cucinare in massima sicurezza” è un manuale da cucina ideato e sviluppato con persone detenute nelle sezioni di Alta Sicurezza delle carceri italiane. Il testo riporta i metodi utilizzati all’interno delle celle per cucinare con le poche risorse alle quali si ha accesso. Ogni ricetta, prima della lista degli ingredienti, fornisce quella degli strumenti per realizzarla. Utensili da cucina che nei ricettari restano solitamente omessi, poiché è scontato esserne in possesso, diventano qui il filo rosso dell’intera opera, nella quale si descrive, e s’illustra, sia la costruzione che l’utilizzo. Un manico di scopa diventa un matterello, i lacci delle scarpe legano la pancetta arrotolata per la stagionatura, o il televisore che, grazie al suo calore, viene impiegato per la lievitazione del pane o della pizza negli ambienti freddi delle celle, fino a strumenti più elaborati come l’armadietto o lo sgabello, che possono diventare un valido forno. Gli autori Matteo Guidi è artista con una formazione in comunicazione visiva ed etno-antropologia. MoCa collective è il nome scelto (con Matteo Guidi) da un gruppo di persone della sezione di Alta Sicurezza della casa di reclusione di Spoleto che nel 2008 hanno partecipato a un ciclo di laboratori di comunicazione visiva. MoCa è l’acronimo di Mondo Carcerario e prende nome dalla caffettiera (moka), che - oltre a produrre la miscela scura che accompagna i momenti di socialità - nelle carceri è uno degli oggetti dalle maggiori funzioni. Ragioni di vendita Un libro che è più di un manuale per riscoprire ricette semplici, casalinghe, perché parla del carcere - dell’ergastolo per di più - passando per la cucina: se il cibo è comunicazione, qui c’è il tentativo di aprire una porta attraverso un canale inaspettato, e per ciò tale da destare curiosità. Nel ricettario gli ergastolani riuniscono formule invocate per dare corpo all’illusione di una normalità inseguita ma impossibile. Sono però loro a insegnarci, attraverso i ritmi del cucinare, il tempo della pazienza, qui tutto particolare: la pazienza “obbligata” e “necessaria” per sopravvivere. Libri: “La nostra Odissea”, fumetto realizzato da 22 detenuti in Alta Sicurezza a Sulmona www.rete5.tv, 25 aprile 2013 “La nostra Odissea” si chiama il fumetto dove 12 detenuti del reparto di alta sicurezza 1 (boss delle organizzazioni mafiose e criminali) e 10 di quello AS 3 (affiliati alle organizzazioni malavitose) hanno affidato ricordi, sogni e speranze di una vita dietro le sbarre. Più della metà dei detenuti che ha realizzato il fumetto, curato dal Centro territoriale permanente per l’educazione degli adulti, è condannata all’ergastolo ostativo, la pena più rigida del regime carcerario. Una condanna che in Italia ha colpito 800 detenuti, 60 dei quali ospitati nella casa di reclusione di Sulmona. “In un paese civile è necessario dare a queste persone un barlume di speranza, con iniziative come questa - è intervenuto il direttore del carcere di Sulmona e di quello di Lanciano Massimo Di Rienzo oggi in conferenza stampa - ma auspico anche dei passi in avanti della legislatura nei confronti di queste persone condannate a morire nella stessa stanza e nello stesso letto, dopo più di trent’anni di reclusione”. Per tre mesi, i 22 ospiti della casa di reclusione, seguiti da vicino dagli insegnanti dei corsi di lettura e da quelli del Centro permanente, hanno lavorato al fumetto, che per ora resta una pubblicazione non diffusione. Gli insegnanti che hanno curato il progetto in prima persona sono: Fiorella Ranalli e Bice Del Signore, coadiuvate dagli esperti Maria Luisa Esposito e Lino Gorlero (che ha curato la realizzazione del fumetto). Una storia in 24 pagine, dove il mito di Ulisse, spiegato anche attraverso le varie opere figurative ad esso dedicate nei secoli, viene traslato in chiave umoristica nella vita carceraria, sempre uguale giorno dopo giorno, dove il tema del viaggio assume un valore simbolico, fatto di una partenza, di un percorso con diversi ostacoli e infine di un ritorno. Un viaggio circolare, quindi, che diventa metafora della vita e occasione per aprirsi al mondo e per una più approfondita conoscenza di sé, dopo un percorso di cambiamento e rinnovamento. Che è poi, in sostanza, anche il reinserimento educativo che il carcere dovrebbe garantire ai detenuti, o almeno a quelli che non hanno scritto sul foglio di condanna fine pena mai. Si è complimentato coi docenti e col personale Enea Di Ianni, all’epoca dell’avvio del progetto dirigente dell’istituto comprensivo Lombardo Radice, da cui dipende il Ctp. Libri: “Nirvana”… per sbirciare nelle carceri italiane meglio leggere fumetti di Carlo Gubitosa L’Espresso, 25 aprile 2013 Le carceri più stipate dell’Unione Europea sono quelle del “Bel Paese”: per scoprirlo basta leggere i rapporti annuali dell’Associazione Antigone, che nell’edizione più recente segnalano un tasso di affollamento del 142,5% (oltre 140 detenuti ogni 100 posti) con una media europea del 99,6%. Il 40,1% dei detenuti - segnala Antigone nel suo ultimo rapporto - non sconta una condanna definitiva ma è in carcere da “presunto innocente” per provvedimenti di custodia cautelare, il 35,6% è straniero, il 41,2% ha meno di 35 anni e il 33,2% ha praticato atti di autolesionismo, tra cui spiccano i tentativi di suicidio messi in atto dal 12,3% dei detenuti. L’articolo 27 della nostra Costituzione prevede che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, ma la distanza abissale tra questo principio e il collasso delle carceri italiane trova difficilmente spazio nella grande stampa, lasciando il problema nel recinto degli “addetti ai lavori”: i volontari di Antigone, i pannelliani, le associazioni che cercano di portare un po’ di umanità tra le sbarre. Per fortuna c’è il fumetto a portarci un po’ di realtà in casa, anche quando queste realtà sono troppo scomode e “invisibili” per essere maneggiate da una televisione in cerca di audience e da una politica in cerca di consensi. Ad aprire uno squarcio sul dramma quotidiano dei detenuti è stato il fumetto più maleducato, politicamente scorretto, cialtrone e irriverente che si possa trovare attualmente nelle edicole: quel “Nirvana”, del duo Pagani/Caluri già noto ai fan del “Vernacoliere” per la saga anticlericale di “Don Zauker”. Dal numero di aprile di “Nirvana” non aspettatevi grandi analisi o studi sociologici approfonditi sul problema del carcere, ma solo un rapido squarcio su una realtà intrisa di violenza, e una tra le più intense pagine di fumetto che abbiano mai affrontato negli ultimi anni il tema del suicidio in carcere, con immagini che raddoppiano la loro forza proprio per il contesto comico e surreale nel quale sono immerse. Sono immagini che nell’economia del racconto hanno un peso modesto: in fin dei conti si tratta di un fumetto fatto per ridere e irridere. Ma stavolta ci ha fatto anche pensare, a conferma che oggi come ieri il fumetto è uno dei pochi generi di racconto capace di illuminare le zone d’ombra della società. Tra una situazione paradossale e l’altra, il collegamento tra l’episodio di Nirvana “nella mia ora di libertà” e la vergogna delle carceri italiane sta tutto in quell’empatia che i “Paguri” (l’acronimo/soprannome dell’accoppiata di autori) riescono a creare tra il lettore e il detenuto immigrato gay che accompagna le vicende del protagonista per alcune pagine. E il nostro dispiacere (vero) per il dramma di questo personaggio (finto) può darci speranza in un futuro dove questo problema uscirà dall’ombra, e l’umanità di un carcere finalizzato alla rieducazione non sarà più un’astratta utopia costituzionale. Immigrazione: Commissione “Fiorella” per abrogazione reato immigrazione clandestina di Antonio Maria Mira Avvenire, 25 aprile 2013 Eliminare il reato di immigrazione clandestina, “una norma penale del tutto inefficace e simbolica”. È una delle proposte contenute nel piano di depenalizzazione messo a punto dall’apposita commissione incaricata dal ministero della Giustizia nel novembre 2012, che, presieduta dal professor Antonio Fiorella, ha presentato ieri le conclusioni dei propri lavori, che hanno riguardato anche la riforma della prescrizione, per garantire tempi più certi ai processi. Introdotto dal pacchetto-sicurezza del 2009, il reato di immigrazione clandestina, sottolinea la commissione, “prevede un regime sanzionatorio irrazionale, in quanto alla pena principale, di carattere pecuniario, che sicuramente il soggetto non sarà in grado di pagare, viene sostituita la sanzione dell’espulsione più grave della pena principale”. Dunque, sostengono i tecnici incaricati dal ministro della Giustizia, Paola Severino, “a garantire la disciplina dei flussi in ingresso è sufficiente il procedimento amministrativo di espulsione, presidiato anche dalla sanzione penale”. Nessun “retro pensiero ideologico”, ha assicurato il ministro, la proposta è legata solo alla “irrazionalità” di tali norme. La filosofia di fondo delle proposte di depenalizzazione è quella del carcere come extrema ratio. Ma alcune materie, come ambiente, territorio e paesaggio, salvo alcune eccezioni, sono state espressamente escluse dall’opera di depenalizzazione in ragione dell’importanza dei beni coinvolti. Per quanto riguarda la riforma della prescrizione, mette in campo una diversa modalità di calcolo dei termini, che sia un “giusto punto di equilibrio tra le esigenze di accertamento dei reati e il diritto del cittadino a vedere celebrato in termini ragionevoli il processo”. Col ritorno a un sistema di determinazione della prescrizione per fasce di gravità di reati e il mantenimento del raddoppio dei termini per reati di mafia e terrorismo. Proposte che non cozzano contro il lavoro dei “saggi” nominati dal Capo dello Stato, che, spiega il ministro, “è, come ha detto anche il Presidente della Repubblica, un lavoro aperto, che dovrà essere integrato, uno spunto su un tema importante”. Altre proposte presentate ieri, quelle relative all’auto riciclaggio, elaborate dal Gruppo di lavoro coordinato dal procuratore aggiunto di Milano Francesco Greco. Due le indicazioni alternative avanzate. Una ipotizza un’unica fattispecie che comprenda riciclaggio e auto riciclaggio. L’altra prevede la costruzione di un’autonoma fattispecie di auto riciclaggio, circoscrivendo il suo ambito di applicazione soltanto ad alcune delle condotte oggi punibili a titolo di riciclaggio. Entrambe prevedono il mantenimento dell’attuale cornice sul piano delle pene, con la reclusione da 4 a 12 anni, con aumento della multa. Tutte proposte, sottolinea il ministro, che “verranno consegnate, seppure idealmente, al prossimo ministro che potrà fare liberamente le sue valutazioni se in esse vi sia materiale utile o no”. Amnesty: bene proposta abrogazione reato immigrazione clandestina (Agenparl) Amnesty International ha espresso apprezzamento per la proposta di abrogazione del cosiddetto reato d’immigrazione clandestina, annunciata il 23 aprile dal ministro della Giustizia Paola Severino e avanzata da una commissione ministeriale di studio sulla depenalizzazione dei reati minori. La commissione ha rilevato le conseguenze connesse all’obbligo di denuncia dello straniero e ha espresso dubbi sulla sua compatibilità del suddetto reato con la Costituzione, proponendo la sua trasformazione in illecito amministrativo. Sin dalla sua adozione con il “pacchetto sicurezza” del 2009, Amnesty International ha ritenuto che il reato di “ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello stato” fosse incompatibile con gli obblighi internazionali dell’Italia in materia di diritti umani. Una ricerca svolta da Amnesty International, le cui conclusioni sono state pubblicate nel dicembre 2012, ha dimostrato che la criminalizzazione dell’immigrazione irregolare crea ostacoli all’accesso alla giustizia da parte degli immigrati irregolari, anche in caso di violazioni dei diritti umani. Poiché l’ingresso e soggiorno illegale è un reato, una situazione migratoria irregolare innesca automaticamente l’obbligo di ogni pubblico officiale di denunciare alle autorità giudiziarie o di polizia ogni reato di cui ha avuto notizia. I migranti irregolari che vogliano denunciare abusi rischiano di essere denunciati a loro volta, accusati del reato di “ingresso e soggiorno illegale” o addirittura detenuti ed espulsi. Di conseguenza, molti migranti irregolari hanno paura di contattare le autorità ed evitano di iniziare procedimenti giudiziari, anche quando ne avrebbero diritto. Amnesty International Italia ha incluso l’abolizione del cosiddetto reato d’immigrazione clandestina nella sua Agenda in 10 punti per i diritti umani in Italia, sottoposta nel gennaio 2013 ai leader candidati alla guida del governo e a tutti i candidati al parlamento, 106 dei quali (su un totale di 117 eletti) si sono detti favorevoli al punto contenente tale richiesta. L’Agenda chiede a tutte le forze politiche un preciso impegno sulle seguenti richieste: garantire la trasparenza delle forze di polizia e introdurre il reato di tortura; fermare il femminicidio e la violenza contro le donne; proteggere i rifugiati, fermare lo sfruttamento e la criminalizzazione dei migranti e sospendere gli accordi con la Libia sul controllo dell’immigrazione; assicurare condizioni dignitose e rispettose dei diritti umani nelle carceri; combattere l’omofobia e la transfobia e garantire tutti i diritti umani alle persone Lgbti (lesbiche, gay, bisessuali, transgender e intersessuate); fermare la discriminazione, gli sgomberi forzati e la segregazione etnica dei rom; creare un’istituzione nazionale indipendente per la protezione dei diritti umani; imporre alle multinazionali italiane il rispetto dei diritti umani; lottare contro la pena di morte nel mondo e promuovere i diritti umani nei rapporti con gli altri stati; garantire il controllo sul commercio delle armi favorendo l’adozione di un trattato internazionale. Amnesty International Italia, notando il progresso in atto verso la formazione di un nuovo governo, ha auspicato che, a prescindere dalle sue caratteristiche e dalla durata prevista, coloro che ne faranno parte e tutto il parlamento considerino in via prioritaria le pressanti necessità del paese in materia di tutela dei diritti umani. Immigrazione: la Garante regionale chiede assistenza legale e psicologica per Cie Modena Ansa, 25 aprile 2013 La situazione all’interno del Centro di Identificazione e di Espulsione di Modena suscita forte preoccupazione in Desi Bruno, Garante regionale delle persone sottoposte a misure limitative della libertà personale. Rispetto all’estate 2012, si evidenziano nuove criticità, almeno in parte collegate al cambiamento dell’ente gestore, il Consorzio Oasi vincitore della gara al massimo ribasso indetta del Ministero degli Interni; si tratta di una valutazione critica che la Garante condivide con il Sindaco di Modena, Pighi, ed espressa prima della “rivolta” del 7 aprile. Secondo gli ultimi dati, le presenze all’interno della struttura sarebbero 37, a fronte di una capienza teorica di 60: si riscontra una sensibile diminuzione, dalle 48 presenze del 7 aprile. Tuttavia, oltre alla presenza di stranieri tossicodipendenti o affetti da patologie di dubbia compatibilità con la detenzione amministrativa, all’elevata incidenza di persone provenienti da uno stato di detenzione in carcere e alla non infrequente presenza di persone richiedenti asilo, nelle ultime settimane si registra una novità negativa: l’interruzione dello sportello di assistenza psicologica. Infatti, la psicoterapeuta ha sospeso la sua attività per la mancata corresponsione dei compensi dovuti, come previsto dalla convenzione con il Consorzio Oasi (la Garante ne è stata informata direttamente, nella lettera si fa cenno a vani quanto ripetuti solleciti). Infine, resta ancora in sospeso la più volte sollecitata apertura dello sportello legale, in attesa di un via libera della Prefettura, organo cui compete di concedere il permesso. Lo sportello legale è stato sperimentato all’interno del Cie di Bologna e, secondo Desi Bruno, consentirebbe di dare consulenza ai cittadini trattenuti, che spesso non capiscono perché si trovano reclusi senza aver commesso un reato. Lo sportello di informazione giuridica agirebbe in sinergia con il Comune di Modena, come auspicato dall’assessora alle Politiche sociali, Francesca Maletti, e con il volontariato che in queste settimane muove i primi passi all’interno del Cie. Stati Uniti: a Guantánamo sempre più detenuti in sciopero della fame, 92 su 166 Tm News, 25 aprile 2013 Aumenta il numero di detenuti del carcere di Guantánamo in sciopero della fame. Secondo un portavoce del centro di detenzione, citato dall’Huffington Post, altri otto prigionieri avrebbero scelto di protestare: ora, in tutto, sarebbero 92 su 166 quelli in sciopero della fame; diciassette quelli nutriti a forza. Le autorità hanno rafforzato la presenza di personale medico nel centro di detenzione per affrontare la protesta. I vertici militari hanno ammesso, nelle scorse settimane, che la frustrazione e la rabbia tra i detenuti è aumentata negli ultimi tempi, dopo la promessa mancata del presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, di chiudere Guantánamo. Sono “devastati” per questo motivo, ha ammesso un generale, perché Obama “non ha detto nulla nel suo discorso inaugurale, non ha detto nulla nel discorso sullo stato dell’Unione, non ha detto proprio nulla sulla chiusura del carcere” ha sottolineato John Kelly, comandante dello U.S. Southern Command, responsabile delle attività militari statunitensi in Centro e Sud America. Inoltre, “non ha riassegnato l’incarico di inviato speciale per la chiusura del campo di detenzione (Daniel Fried ha ricevuto un altro incarico, lasciando scoperto il posto, ndr)”. Questo, agli occhi dei prigionieri - e non solo - dimostra che Obama ha ormai accantonato l’idea di chiudere la prigione, come invece promesso dopo il suo ingresso alla Casa Bianca. Nonostante i tagli alla spesa, Washington non sembra intenzionata a risparmiare su Guantánamo, già considerata la prigione più cara (pro capite), con un budget operativo per il 2013 di circa 177 milioni di dollari; questo significa che i contribuenti statunitensi pagano più di un milione di dollari per ognuno dei 166 detenuti. Il progetto al vaglio del Pentagono prevede una spesa di quasi 200 milioni di dollari: 150 per la ristrutturazione e 50 per costruire un nuovo carcere per i detenuti più importanti, come Khalid Sheikh Mohammed, la mente degli attentati dell’11 settembre 2001. Obama, creando il ruolo di inviato speciale per Guantánamo, nel 2009, si era posto l’obiettivo di chiudere la prigione - nata dopo l’11 settembre 2001 per detenere i presunti terroristi - come sancito dall’ordine esecutivo 13492, il quarto firmato dal suo insediamento alla Casa Bianca. Ma il rimpatrio o il trasferimento in altri Paesi dei detenuti, dopo le restrizioni imposte dal Congresso - firmate da Obama - è stato reso quasi impossibile, annullando di fatto le possibilità di chiudere la prigione: oltre a impedire il trasferimento dei detenuti negli Stati Uniti per i rischi alla sicurezza - nonostante il parere opposto di un’agenzia del Congresso - il Parlamento statunitense ha posto il veto anche su quello verso diversi Paesi “instabili”. “L’unica ragione per cui sono ancora qui è che il presidente Obama si rifiuta di rimandare i detenuti in Yemen. Tutto questo non ha senso. Sono un essere umano, non un passaporto, e merito di essere trattato come qualsiasi altra persona” ha raccontato pochi giorni fa uno dei detenuti, Samir Naji al Hasan Moqbel, al New York Times. “Sono detenuto a Guantánamo da 11 anni e tre mesi. Non sono stato accusato di alcun crimine. Non ho subito un processo”. Iran: 5 impiccati per reati di stupro e narcotraffico Aki, 25 aprile 2013 Sono stati impiccati nel carcere centrale della città di Mashad, nel nordest dell’Iran, due giovani di 22 e di 26 anni di cui al momento non si conosce l’identità. Lo riferisce il sito d’informazione Iran Press News, spiegando che i due erano stati condannati a morte dal Tribunale di Mashad con l’accusa di stupro. Secondo il sito attivo nell’ambito dei diritti umani Herana, sempre oggi altre tre persone sono state impiccate nel carcere di Bam, nella regione centrale del Paese perché colpevoli di traffico di droga. I tre erano stati condannati a morte per spaccio di cinque chili di eroina. La pena di morte nei loro confronti era stata confermata dalla Corte Suprema. Secondo il rapporto pubblicato da Iran Human Rights, nel 2012 oltre 580 persone sono state impiccate in Iran, la maggior parte per reati legati al traffico di droga. In Iran, a partire dalla rivoluzione del 1979 vige il diritto penale islamico sciita che prevede la pena di morte per una serie di reati, tra i quali il traffico di droga e lo stupro. Brasile: polemiche sullo “Statuto della gioventù”, che prevede meno carcere e più aiuti La Gazzetta di Modena, 25 aprile 2013 Si accende il dibattito in Brasile di fronte all’imminente votazione che si terrà in Senato dello Statuto della gioventù, proposta di legge, in discussione al Congresso dal 2004, che dovrebbe definire le principali linee guida di una politica pubblica a favore dei giovani, di prevenzione e tutela degli adolescenti e dei loro diritti. Nonostante il sostegno di numerosi movimenti giovanili allo Statuto, oggetto di discussione in particolare è la proposta di queste settimane, presentata dal governatore di San Paolo, Geraldo Alckmin e sostenuta anche da un grande movimento di opinione pubblica, di ridurre l’età minima per essere trattatati giuridicamente come adulti e quindi ottenere un inasprimento delle pene per i giovani, dati i frequenti casi di violenza che coinvolgono i bambini sotto i 18 anni nella capitale dello Stato. Dati recenti indicano infatti che il 95% dei detenuti nelle carceri brasiliane sia composto da giovani maschi al di sotto dei 30 anni, detenuti che sono aumentati nell’ultimo anno: solo a San Paolo se ne contano circa 181mila, un dato allarmante che indica un aumento della violenza e dei crimini, dovuto soprattutto alla mancanza di un istruzione adeguata per la fascia giovanile e di prospettive per il futuro. Lo Statuto della gioventù dovrebbe quindi beneficiare proprio i ragazzi compresi nella fascia di età dai 15 ai 29 anni, considerando anche lo Statuto già esistente del Bambino e dell’adolescente, che definisce adolescenti le persone fino ai 18 anni di età, ma diverse proposte chiedono di ridurre questa soglia, con il rischio però che in futuro, anche bambini e ragazzi che compiono atti illegali possano essere giudicati allo stesso identico modo di una persona adulta e con l’obbligo di scontare le medesime pene. Una gestione della violenza nel paese che si basa sull’intensificazione dei controlli e della repressione, piuttosto che sul tentativo di affrontare il problema da un punto di vista sociale e attraverso politiche di recupero rivolte ai tanti ragazzi che vivono prevalentemente per strada e la cui unica possibilità è spesso la via della criminalità. A parlare di violenza e minori è Padre Francesco Capponi, parroco di Montese che è impegnato nella diocesi del Goias a Itaberaì. “Perché la violenza è così in aumento? - risponde Capponi - La risposta non è difficile. Prendiamo San Paulo che é divisa in 96 distretti. La maggior parte ha più di 100 mila abitanti. Molti di questi distretti sono privi di piazze e parchi, di centri sportivi e culturali. Secondo la associazione “Rede Nossa São Paulo”, 60 distretti non hanno nessun centro culturale (teatro, cinema, sala per feste o conferenze) 56 distretti non hanno nessuna attrezzatura sportiva pubblica, 44 non hanno biblioteca pubblica, 38 non hanno nemmeno un parco e in 20 non c’ è una sede di polizia. 1,3 milioni di persone abitano in favelas. 250 mila giovani tra 15 e 19 anni non vanno a scuola. 181 mila giovani dai 15 ai 24 anni sono disoccupati. 98 mila bimbi non hanno posto all’asilo. Il paulistano passa, in media, 2 ore e 23 minuti al giorno nel traffico. Il trasporto pubblico è precario, tanto che la polizia deve controllarne l’ accesso nelle ore di punta. In media, per una visita medica pubblica, si aspetta 52 giorni; per esami di laboratorio più di 65 giorni, e per chirurgie 146 giorni. Così è San Paolo: ma la sua situazione di malessere rispecchia quella di tutto il Brasile e dell’ America Latina in generale”. Al contrario ciò che emerge è un aumento degli investimenti per la realizzazioni di prigioni, acquisto di armi e nei settori della pubblica sicurezza e della giustizia, che vengono invece a mancare nei confronti delle politiche sociali a difesa della fascia giovanile, che potrebbero invece intervenire a favore dei giovani, offrendo percorsi di emancipazione, di riabilitazione e alternativi alla criminalità. Israele: nessuna incriminazione per il suicidio di Ben Zygier, il "prigioniero X" Ansa, 25 aprile 2013 La morte di Ben Zygier, il "prigioniero X" (ex agente del Mossad) deceduto in un carcere israeliano, e' stata resa possibile dalle mancanze dei funzionari del Servizio penitenziario. Lo indica un rapporto della Pretura di Rishon Lezion (Tel Aviv), citato dai media. Nonostante il risultato dell'inchiesta, il ministero della giustizia ha fatto sapere che non procederà in giudizio contro nessun funzionario del Servizio o contro altri, responsabili della sicurezza del prigioniero stesso. La decisione, firmata dal procuratore capo Moshe Lador, indica che la questione, pur in presenza di mancanze riscontrate nei confronti di Zygier, sarà rimessa al Servizio penitenziario che, a sua discrezione, potrà o meno decidere di avviare misure disciplinari al suo interno. Zygier, un ebreo israelo-australiano al servizio del Mossad, fu incarcerato nel 2010 nella prigione di Ayalon (Ramle, presso Tel Aviv) per motivi che ancora devono essere del tutto chiariti, e là si suicidò qualche mese dopo. La sua reale identità era stata mantenuta ignota agli agenti di custodia per i quali egli era un "prigioniero X". Secondo il magistrato di Rishon Lezion uno psichiatra che visitò molte volte in carcere Zygier gli riscontrò uno stress emotivo di livello B. Inoltre, secondo il rapporto, il giorno della morte, Zygier ricevette alle 11.00 di mattina la visita della moglie e del figlio, accompagnati da un ufficiale del Servizio Penitenziario. Quando questi tornò dopo un'ora per accompagnarli fuori trovòil prigioniero piangente, arrabbiato e disturbato per aver ricevuto, come dopo si seppe, cattive notizie. Malgrado la presenza di telecamere a corto circuito nella cella, Zygier identificò nella doccia un loro angolo morto e si impiccò così ad una sbarra. Quando i guardiani si resero conto dell'accaduto, era ormai troppo tardi Stati Uniti: gang di detenuti controllava tutto e spacciava nel carcere di Baltimora Ansa, 25 aprile 2013 Un’inchiesta su una gang che opera all’interno del carcere di Baltimora ha portato all’incriminazione di 25 persone, tra cui 13 agenti penitenziari che avrebbero aiutato i detenuti a comandare nel carcere. Al centro di questa inchiesta federale c’è Tavon White, uno dei leader della Black Guerrilla Family (BGF), una banda afro-americana che, nata in una prigione della California, si rifa al marxismo originario. Questo detenuto intrattiene “relazioni sessuali da molto tempo” con delle impiegate della prigione, così come fa sapere un comunicato stampa del Dipartimento di Giustizia del Maryland. White sarebbe anche diventato padre di cinque bimbi da quando è stato imprigionato nel 2009 al Baltimore City Detention Center. Secondo alcune intercettazioni, a gennaio avrebbe detto “È la mia prigione, lo capisci questo? (....) Tutto passa attraverso me”. “Alcuni impiegati della struttura carceraria sarebbero implicati nell’attività dei detenuti della Bgf, fatto che va contro la direzione del carcere”, ha detto il procuratore federale Rod Rosenstein in questo comunicato. Le 25 persone sonno accusate di “complotto per distribuzione e possesso ai fini di spaccio di droghe”. Tra di loro, 20 sono accusati anche di riciclaggio di denaro. Gli agenti penitenziari sono accusati di averli aiutati ad avere dei telefonini e della droga. Inoltre, sette detenuti e cinque complici sono anche stati incriminati per essersi fatti coinvolgere nelle loro attività criminali. “In questa vicenda, i detenuti hanno letteralmente preso il controllo del centro di detenzione che è diventato un paradiso di pace per la Bgf”, ha detto l’agente Fbi incaricato dell’inchiesta, Stephen Vogt. Le autorità hanno sottolineato come la Black Guerrilla Family è presente in diverse prigioni di Baltimora e dei suoi dintorni. Situata a nord id Washington, Baltimora è una città industriale relativamente povera, dove le gang sono particolarmente attive. Il comandante della autorità penitenziarie dello Stato, Gary Maynard, si è addossato le responsabilità di questa situazione nell’ambito di una conferenza stampa. “Sono io il responsabile, e non cerco scuse”, ha detto promettendo di migliorare il controllo degli impiegati del centro di detenzione. Ucraina: su caso Tymoshenko sentenza Corte europea dei Diritti umani il 30 aprile Tm News, 25 aprile 2013 La sentenza sul caso Tymoshenko, condannata per corruzione a sette anni di reclusione da un tribunale ucraino e detenuta dall’11 ottobre 2011, sarà emessa dalla Corte europea dei Diritti dell’Uomo di martedì prossimo 30 aprile, durante un’udienza pubblica che inizierà alle 10.30 a Strasburgo. Yulia Tymoshenko, 53 anni, leader del partito Batkivshchyna, fu Primo ministro tra il mese di dicembre 2007 e marzo 2010. Dopo la sconfitta elettorale, nel mese di aprile 2011 fu aperta un’inchiesta contro di lei per interesse privato in un contratto relativo all’importazione di gas. Il 5 agosto fu arrestata e disposta la sua custodia cautelare nel carcere di SIzo, a Kiev. L’11 ottobre dello stesso anno la condanna. Il 29 agosto scorso la sentenza di appello confermava i sette anni di detenzione, che diventava, così, definitiva. Nel ricorso presentato alla Corte europea dei Diritti dell’Uomo Yulia Tymoshenko contesta la legittimità della detenzione e della condanna. In questi anni la Tymoshenko è stata reclusa prima nel carcere di Kiev e poi al Carcere correttivo Kachanivska di Kharkiv. Lo scorso anno l’ex Premier denunciava maltrattamenti da parte delle guardie carcerarie. Così, in seguito all’insorgere di problemi di salute, la Corte europea emise un provvedimento provvisorio che indusse le autorità ucraine a trasferire la detenuta in ospedale. Ma, contestando le cure mediche inadeguate che le somministravano, la Tymoshenko iniziò uno sciopero della fame. La magistratura ucraina aprì un’inchiesta a carico dei medici e degli agenti di custodia, ma non rilevò alcuna infrazione di comportamento. Fu disposto, quindi, il trasferimento della detenuta nuovamente in carcere. Tuttavia, a causa del deperimento conseguente allo sciopero della fame, il 9 maggio 2012 l’ex primo ministro fu destinata di nuovo all’ospedale di Kharkiv, dove iniziò un trattamento medico sotto la supervisione di un neurologo tedesco di sua fiducia. Terminò, così, lo sciopero della fame. La Tymoshenko, però, lamentò l’impossibilità di effettuare telefonate alla sua famiglia e ai legali e anche la diffusione di notizie riservate da parte delle autorità relative al suo stato di salute. Nel ricorso presentato alla Corte europea, oltre alla contestazione della condanna, Tymsohenko denuncia violenze in carcere, sorveglianza esagerata e continuata. Chiede, pertanto, un risarcimento che si basa principalmente sulla violazione degli articoli 3 (divieto di trattamenti degradanti), 5 (diritto alla libertà e alla sicurezza), 8 (diritto alla vita privata) e 18 (limitazione dell’uso delle restrizioni ai diritti). Il ricorso dell’ex Premier ucraina è stato depositato il 10 agosto 2011 alla Cancelleria della Corte europea, che il 14 dicembre dello stesso anno ha deciso di concedere il provvedimento di urgenza. Il caso si concluderà con la sentenza prevista, appunto, il 30 aprile prossimo.