Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, si è riunito a Roma il Consiglio Nazionale Comunicato stampa, 21 aprile 2013 Il 19 e 20 aprile 2013 si è riunito a Roma il Consiglio Nazionale CNVG. Tra i temi discussi, il Consiglio ha unanimemente rimarcato la necessità di attivare le associazioni aderenti e di svolgere opera di sollecitazione nelle città per la raccolta delle firme sui 3 disegni di legge di iniziativa popolare “Tre leggi per la giustizia e i diritti” contro la tortura, per la legalità e il rispetto della Costituzione nelle carceri, per la modifica alla legge sulle droghe (www.3leggi.it). Pur prendendo atto dell’attuale situazione politica contrassegnata da grande instabilità, si chiede che il tema del carcere non sia relegato agli ultimi posti e all’interesse di pochi, ma che sia riconosciuto come una delle emergenze più drammatiche ed urgenti del nostro Paese, con conseguenti risposte. Sul tema dell’urgenza delle risposte, la Conferenza pertanto dissente totalmente dalla decisione del Governo di impugnare la sentenza Torreggiani comminata dalla Cedu sulle carceri italiane, ritenendo tale decisione un gravoso e inutile tentativo (che va al pari della proroga di un anno per la chiusura degli Opg) di recuperare un tempo già ampiamente scaduto in termini di dignità della condizione carceraria, che in tal modo può solo aggravarsi. Sul tema dell’attenzione della società al tema del carcere, la Conferenza procede, sul piano nazionale, con l’organizzazione dell’istituzione della giornata nazionale destinata alle scuole sul tema della pena, “A scuola di libertà - La scuola impara a conoscere il carcere” alla quale già decine di istituti di vario ordine e grado hanno aderito per la realizzazione del logo; iniziativa che ha l’obiettivo di creare occasioni di discussione per il contrasto di idee preconcette, di pregiudizi e luoghi comuni sul tema della detenzione. La Conferenza riunirà gli enti e le associazioni aderenti il 7 e 8 giugno in Assemblea Nazionale a Roma, per discutere sui problemi attuali della giustizia e delle situazioni più urgenti da affrontare sul tema del carcere e della pena. Elisabetta Laganà, presidente della CNVG Giustizia: il PG di Venezia Calogero; dobbiamo limitare la custodia cautelare in carcere di Carlo Bellotto Il Mattino di Padova, 21 aprile 2013 “Limitare la custodia cautelare in carcere, che dovrebbe essere l’ultima spiaggia ma viene un po’ troppo abusata. Ricordiamo che il bene sommo di ognuno è la libertà personale”. Sono parole pronunciate ieri dal procuratore generale della Corte d’Appello di Venezia, Pietro Calogero, intervenuto ad un incontro organizzato della giunta dell’Associazione nazionale magistrati del Veneto sul sovraffollamento delle carceri venete e nazionali. L’analisi di Calogero parte da lontano. “Nessuno può essere considerato colpevole fino alla sentenza definitiva” aggiunge il procuratore generale “Tra il 41 e 42 per cento dei detenuti delle carceri italiane sono in attesa di giudizio. E questa è una grande distorsione. Ma come mai avviene questo? C’è l’inviolabilità della libertà personale. La misura cautelare in carcere deve essere applicata quando non siano possibili tutte le altre misure, è l’estrema ratio. Com’è possibile che, invece, sia costantemente il contrario? Noi magistrati abbiamo il dovere dell’umiltà. È giusto sottoporre a verifica i criteri di scelta della misura cautelare. L’idoneità alla misura deve essere valutata attentamente, lo si fa? Ogni misura che si decide dev’essere commisurata al reato commesso. Bisogna valutare attentamente tutte le misure alternative, dall’obbligo di dimora, dall’allontanamento da un luogo, al divieto di frequentare alcune persone. La Corte Costituzionale ha demolito alcune certezze. Per alcuni reati, ad esempio quelli passionali, dove la spinta omicida si esaurisce, basterebbero altre misure. Per i reati associativi, ad esempio quelli mafiosi, è giusto mandare la gente in galera. È poco usato l’obbligo di dimora, che può essere molto simile al carcere”. Per Calogero bisogna invertire il percorso: limitare l’uso del carcere e usare maggiormente il divieto di comunicare, l’obbligo di rimanere in un luogo preciso, i domiciliari. Per questo ci sarà un confronto fra tutti i pubblici ministeri, si stanno raccogliendo tutti i dati, e poi si svolgerà un seminario al quale verranno invitati anche i giudici. Si mira a cambiare l’orientamento proprio di pm e giudici. Il procuratore generale punta a far conoscere di più e a far censire le Comunità alloggio, “Se il pm sa che funzionano, può farne maggiormente ricorso, come alternativa alla reclusione”. È intervenuta quindi Angela Venezia, del Provveditorato regionale amministrazione penitenziaria per il Triveneto. “In Veneto ci sono 3.199 detenuti, di cui 144 sono donne. Del totale, solo 2.166 (tra questi 1.169 sono stranieri) sono condannati definitivamente e solo su di loro si svolgono attività di recupero. Il problema di oggi delle carceri è far capire che sono parte della collettività, com’è la scuola. Noi non abbiamo grande potere di rieducazione, ma possiamo provare a far cambiare il loro modo di vivere”. “Il direttore Pirruccio ci ha oggi riferito che se al Due Palazzi ci fossero solo i detenuti per il quale il carcere è stato progettato, tutti lavorerebbero” ha aggiunto il giudice Marcello Bortolato, del Tribunale di sorveglianza di Venezia. Giustizia: lavoro in carcere; il “caso” della coop Giotto di Padova, un modello da imitare di Nicola Boscoletto Il Mattino di Padova, 21 aprile 2013 In questi giorni mi trovo a Buenos Aires per un simposio su “Il lavoro nel carcere e la recidiva” a cura dell’Unione Europea. L’iniziativa rientra nel progetto EUROsociAL, un programma per la promozione della coesione sociale in America Latina. Sono presenti rappresentanti di tredici paesi latinoamericani, Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Colombia, Costa Rica, Ecuador, Panama, El Salvador, Nicaragua, Perù, Messico e Uruguay, oltre a Italia, Germania, Francia e Spagna. Ma vengono riferite esperienze di tutto il mondo, dalla Cina alla Russia, dalla Norvegia all’Irlanda del Nord, dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna. Il dato che emerge a livello mondiale è uno solo: il fallimento globale del sistema carcere. La recidiva, che oscilla tra il 70 e il 90 per cento, è una costante in tutti gli stati. Costi incontrollati, insicurezza sociale, incremento della popolazione detenuta sono comuni a tutti i continenti. Il Brasile è passato in 10 anni da 236mila a 550mila detenuti. Gli Usa, con due milioni 200mila detenuti, in vent’anni hanno visto crescere del 570 per cento la popolazione detenuta. Poi ci sono le situazioni locali. In alcuni stati sono più sentiti i problemi della carcerazione femminile e dei figli delle donne detenute. In altri l’età media dei reclusi non supera i 30/35 anni. Molti delegati lamentano la corruzione tanto della politica quanto della polizia penitenziaria. In questo quadro desolante brillano alcune esperienze. Ad esempio quella delle Apac in Brasile nello Stato del Minas Gerais, dove la recidiva scende all’8,5%. In queste strutture gestite da civili e da volontari, ma sotto la costante vigilanza dei giudici del tribunale di competenza, non è presente la polizia penitenziaria e il detenuto è chiamato “recuperando”. Sono presenti al simposium anche i rappresentanti della Fondazione Avsi Brasile che fornisce alle Apac assistenza tecnica attraverso un programma del dipartimento dei Diritti Umani della stessa Unione Europea. Anche in Cile ci sono esperienze analoghe come i Cet (Centri di educazione e lavoro). Grande anche l’attenzione per il sistema delle imprese sociali italiane rappresentato dal consorzio sociale Giotto. Il mio intervento ha riguardato proprio il tema “Il lavoro come pilastro del reinserimento, della redenzione del detenuto, il caso Giotto”. Riporto prima di tutto il saluto del capo dell’Amministrazione penitenziaria italiana Giovanni Tamburino e poi racconto l’esperienza della cooperativa Giotto e di tutte le cooperative sociali che da Padova a Milano (in particolare nel carcere di Bollate), da Torino a Roma, dalla Sardegna alla Sicilia danno lavoro a circa 2200 detenuti con una recidiva che arriva a toccare l’1-2%. Un’esperienza che incuriosisce molti. Il Brasile ha chiesto di far partire un progetto pilota per integrare il modello Apac con il modello Giotto/Italia. La medesima richiesta viene dalla Bolivia, dal Cile e dall’Ecuador. Grande curiosità anche per la Catalogna con il suo sistema Cire. Si tratta di un’impresa pubblica del dipartimento di Giustizia per reinserire i detenuti al lavoro. Ci siamo dati appuntamento per visite e approfondimenti reciproci. Le conclusioni e le linee guida di quasi tutti i paesi puntano molto sulle attività produttive. Si ipotizza un modello che rinnovi le attività esistenti e ne avvii di nuove. Un grosso problema è la commercializzazione dei prodotti del carcere. Ormai è chiaro a tutti che il lavoro assistenzialistico o mirato alla mera occupazione non serve a nulla. Occorre portare dietro le sbarre attività lavorative che operino secondo le regole di mercato e siano in grado di competere con il mercato esterno. Produrre solo per il mercato interno al carcere non produce nessun effetto positivo. Forte anche la richiesta di un coinvolgimento delle imprese esterne. Molti hanno chiesto di favorire al massimo il coordinamento tra le amministrazioni penitenziarie e le imprese produttive. Molti chiedono iniziative di formazione degli operatori penitenziari in materia di lavoro, così come la creazione di una rete interistituzionale e internazionale. Il simposium si è chiuso con la visita ad un carcere federale di poco meno di 2000 detenuti ed un carcere per detenute madri assieme ai figli sotto i 4 anni. Non descrivo la tenerezza nel vedere questi bambini. Anche questo un problema comune a quasi tutti i paesi, compreso il nostro. In questi giorni di Buenos Aires ho visto ben poco, senza volerlo l’ultima sera mi sono trovato in mezzo ad una manifestazione pacifica di popolo (forse un paio di milioni) che gridava libertà. uno striscione su tutti recitava: “Abbiamo un Papa Argentino, vogliamo un governo argentino”. L’impressione generale è di un paese bello, ricchissimo di potenzialità e con una sola necessità: essere guidato bene. Come l’Italia. Macomer (Nu): detenuto marocchino suicida col gas… il deputato Pili “carceri al tracollo” Ansa, 21 aprile 2013 Un detenuto marocchino si è tolto la vita durante la notte nel carcere di Macomer (Nuoro), con l’uso di gas. Lo denuncia il deputato sardo del Pdl, Mauro Pili, che parla di “carceri sarde al tracollo”. Pili ha anche annunciato la presentazione di un’interrogazione urgente al Ministro della giustizia Paola Severino. “Mancanza di personale e precarietà del sistema sanitario nelle carceri sono ormai una costante - ha detto Pili - che sta mettendo a serio rischio l’intero sistema carcerario sardo. I fatti di stanotte, che vengono ancora tenuti segreti, sono di una gravità inaudita proprio perché da tempo vengono denunciati senza che nessuno intervenga. Avevo già denunciato mesi fa che durante la notte nel carcere di Macomer c’era un solo agente per braccio. Una situazione che dovrebbe portare il Ministro in persona a trarne le conseguenze - ha proseguito Pili - considerato che niente ha fatto per verificare e rimediare a tale denuncia”. Secondo quanto riferito dal parlamentare sardo, il suicidio è avvenuto intorno a mezzanotte e sarebbe stato riscontrato solo alla conta dei detenuti. Un episodio, conclude Pili, “che rende ancora più evidente la gestione del sistema carcerario sardo. In questo momento sono sotto interrogatorio diversi responsabili della struttura carceraria, ma appare evidente che si tratta di fatti che trovano riscontro in un modello gestionale fatto senza uomini e con una gestione sanitaria al limite dell’indecenza”. E ancora: “Il Ministro venga subito a riferire su questi fatti - ha chiesto Pili . E i vertici dell’amministrazione penitenziaria la smettano di proclamare che tutto va bene. Siamo dinanzi ad un fallimento grave e senza precedenti della gestione carceraria dell’isola. Piante organiche fasulle, carenza d’organico, non possono essere scaricate sugli agenti, qualcuno si deve assumere la responsabilità e non è certo il personale penitenziario e sanitario. Non possono pagare i piccoli, devono risponderne i grandi”. Sassari: continua il processo sulla morte in carcere di Marco Erittu, avvenuta nel 2007 di Elena Laudante La Nuova Sardegna, 21 aprile 2013 “A volte l’allora comandante Santucciu si chiudeva nel suo ufficio con signor Vandi e signor Saba. Io gli dicevo che non andava bene, perché non si possono ricevere più detenuti assieme, magari provenienti da bracci diversi, e senza poi scrivere una relazione. Lui mi rispondeva che tanto era il comandante, e poteva fare come voleva”. Ancora una volta al processo sulla morte del detenuto Marco Erittu (trovato senza vita a San Sebastiano il 18 novembre 2007), dall’aula emerge la figura dominante di Pino Vandi, imputato quale mandante del supposto omicidio. Recluso di peso a San Sebastiano, che incuteva “timore, ma non rispetto” negli altri detenuti, ha spiegato un ispettore oggi in pensione. Vandi è indicato tra i reclusi che arrivavano ad avere rapporti “da amico intimo con l’allora comandante degli agenti” della Penitenziaria, l’ispettore Antonio Maria Santucciu, ora sotto inchiesta per concorso esterno in associazione a delinquere finalizzato al traffico di droga nel penitenziario. È anche quel mondo nascosto dietro le sbarre che ieri l’ex ispettore Renato Soddu ha svelato dal banco dei testimoni, al processo a Vandi, all’agente Mario Sanna e Nicolino Pinna, sospettati di aver voluto eliminare Erittu - attraverso la mano del reo confesso e già condannato Giuseppe Bigella - per tappargli la bocca. In realtà, sarebbe stato Vandi - è finora solo l’ipotesi accusatoria - a temere di essere inguaiato da quello che Erittu, forse, voleva rivelare sulla scomparsa del muratore di Ossi, Giuseppe Sechi (1993). Soddu è l’uomo che spaventò Erittu, nell’agosto 2007, quando l’aspirante collaboratore di giustizia ottenne un colloquio con un finanziere, incontro che doveva restare segretissimo. E invece “Santucciu decise” che quel faccia a faccia doveva svolgersi nell’ufficio dello stesso Soddu - ha confermato ieri - con buona pace del riserbo. E infatti la mattina del 27 agosto 2007, proprio nel momento in cui Erittu stava per parlare al finanziare Michele Condemi, Soddu entrò nel suo ufficio. E spaventò Erittu. Condemi ha confermato: “Quando vide Soddu, Erittu mi disse no capo, basta così, non mi fido”. Il recluso temeva che la sua volontà di collaborare diventasse una condanna a morte. Aveva paura che la voce si diffondesse tra i bracci di San Sebastiano. Che lo punissero per aver fatto la spia contro un detenuto potente come Vandi. Allora alla vista di Soddu quasi tremò. “Non sapevo del colloquio, ma mi spiego perché Erittu avesse paura di me - ha risposto al pm Giovanni Porcheddu - Non ricordava mai il mio nome, forse mi scambiava per qualcun altro”. L’ispettore Soddu era estraneo all’ambiente che terrorizzava Erittu, la zona grigia tra pochi agenti e alcuni detenuti che lo stesso Soddu ieri ha stigmatizzato. “Io non davo molta confidenza a Santucciu, Del Rio, Calvia (agenti imputati nell’inchiesta sullo spaccio in carcere, ndc). Quanto a signor Vandi (lo chiama sempre “signore”, ndc), una volta lo vidi nell’ufficio di Santucciu. C’era pure signor Saba, noto il Conte e un altro che non ricordo. Dopo dissi a Santucciu che non era corretto”. Ma c’è voluta una contestazione del pm, che ha letto un suo verbale, per fargli ricordare che “Santucciu aveva un rapporto particolarmente confidenziale con Vandi e Nicolino Pinna tanto che le altre guardie erano perplesse e scandalizzate. Quei detenuti si rapportavano a lui come a un amico intimo”. Per l’accusa, è la dimostrazione di come Vandi avesse una grande libertà di movimento nel carcere. E una certa facilità nel gestire i suoi affari. “Io lo feci trasferire a Nuoro, ma non so perché il provveditorato lo riportò a Sassari”, ha ricordato Soddu. Altro potere di Santucciu, quello di assegnare i ruoli ai detenuti lavoranti. A Pinna, ad esempio, aveva attribuito quello di scrivano, fondamentale perché consentiva di andare ovunque. “Io non l’avrei mai fatto. Pinna non era adatto”. E i rapporti tra Vandi e Bigella? “Bigella era un affiliato di Vandi”, la risposta. Si continua il 10 maggio. Mantova: Opg Castiglione; Atelier pittura chiuso da spending review, appello per riaprire di M. Antonietta Filippini La Gazzetta di Mantova, 21 aprile 2013 Proprio il gioiello dell’Opg di Castiglione delle Stiviere, simbolo di un ospedale psichiatrico giudiziario che da sempre si pone come obiettivo la riabilitazione dei pazienti, è stata la prima vittima di una spending review un po’ strabica. L’atelier di pittura condotto per 22 anni da Silvana Crescini è stato interrotto all’inizio dell’anno e gli ospiti dell’Opg ancora non si capacitano, passano e ripassano davanti alla porta chiusa. “Io sono la parte lesa” afferma il direttore Ettore Straticò e, pressato dalle domande, auspica che l’azienda Poma, di cui l’Opg fa parte, approfondisca il caso così che i pazienti dello psichiatrico giudiziario tornino a frequentare il corso di pittura e storia dell’arte che negli ultimi due decenni ha dato esiti di straordinaria qualità artistica e di recupero personale dei malati. Quasi una rinascita grazie a stimoli che hanno rimesso in moto meccanismi vitali di autostima e capacità di incanalare le proprie emozioni ed energie. È stato un incontro molto intenso quello che si è svolto alla libreria Coop Nautilus con Adriana Pannitteri che presentava il suo libro “La pazzia dimenticata”, un viaggio negli Opg italiani alla vigilia della loro chiusura (era prevista per il 31 marzo scorso), e conseguente nascita di mini strutture di accoglienza. Questo infatti impone la riforma del febbraio 2012 seguita all’inchiesta della commissione guidata da Ignazio Marino. La giornalista, già autrice di “Madri assassine”, nato da interviste fatte proprio all’interno dell’Opg di Castiglione, è stata introdotta da Carla Nicolini, che si è definita solo libraia, ma sensibile al problema. Insieme all’associazione Oltre la siepe, ha visitato l’atelier e conosciuto i pazienti di Castiglione. Con Pannitteri c’erano, a confrontarsi, i protagonisti mantovani e questo ha reso l’incontro ricco di notizie, passione, problemi e riflessioni. Da Straticò al suo predecessore Antonino Calogero (36 anni all’Opg di Castiglione ), il giudice di sorveglianza, ora in pensione, Luigi Fasanelli, e Giuseppina Nosè, presidente di Oltre la Siepe, che raccoglie amici e parenti e, per la prima volta, veniva chiamata a portare il punto di vista delle famiglie dei malati. Tra il pubblico, il direttore sanitario dell’Asl, Maurizio Galavotti e il vicario del vescovo mons. Paolo Gibelli, che ha chiesto cosa succederà dei pazienti visto che il progetto studiato da Straticò per non disperdere competenze e personale prevede sì ben 6 comunità da 20 ospiti in quello che diventerà l’ex Opg, ma 120 persone sono sempre meno della metà degli attuali degenti “coatti”. In Lombardia, ha aggiunto Straticò, si prevedono altre 8 mini strutture, 2 a Leno (Brescia). Ma gli altri pazienti? Soprattutto le donne che arrivavano a Castiglione da tutta Italia, visto che qui era l’unica sezione femminile. Il dottor Fasanelli ha spiegato che la riforma non ha toccato il codice penale: resta la non punibilità di chi è incapace di intendere e volere, e resta il potere del giudice di ordinare la durata minima delle misure di sicurezza in caso di pericolosità socialmente, e al magistrato di sorveglianza di stabilirne la fine. “Parlare di pericolosità criminale sarebbe più corretto”. Negli altri Opg che, a differenza di Castiglione, sono più carceri che ospedali, si parla di malati entrati per reati da nulla e di inutili angherie. Le stesse cure, dove gli psichiatri sono pochi, si limitano agli psicofarmaci. Questa riforma, pur con i suoi limiti, e il ritmo incalzante dei tempi di esecuzione, impossibili da rispettare, ha comunque un grande pregio, ha detto Galavotti: indietro non si torna. Come con la legge 180, che chiuse i manicomi, questa chiude gli ex manicomi criminali. Uno stimolo in più per migliorare l’assistenza psichiatrica sul territorio coinvolgendo le famiglie. Eppure Mantova non sembra rendersi conto di quello che rischia di perdere con lo smantellamento dell’Opg di Castiglione, certo migliorabile, ma riconosciuto come un’eccellenza in Italia. Invece di buttare il bambino con l’acqua, si è sentito, i politici locali dovrebbero conoscere meglio questa realtà - come hanno fatto Pannitteri, ma anche Nosè e Nicolini - e porsi l’obiettivo di una battaglia di civiltà. Da Mantova può venire un contributo per una riforma davvero moderna, che coinvolga le associazioni di parenti, fondamentali per garantire attenzione anche al punto di vista dei pazienti e controllare che non si creino smagliature rispetto a leggi e buone intenzioni. Calogero osservando che Crescini avrebbe anche proseguito l’Atelier completamente gratis, e che lui stesso è disposto a fare il volontario, ha poi fatto notare un’incongruenza della riforma. I malati assassini, a rischio di recidiva, dovranno comunque restare internati a lungo; a Castiglione avevano palestra, piscina, saloni, l’atelier di pittura. Le mini-strutture saranno al massimo di mille metri quadrati, e per chi deve viverci per anni, è una gabbia. Siamo agli inizi della riforma e queste riflessioni possono essere utili. Tanto più che il primo impegno, ha ricordato Pannitteri, è di far uscire chi è chiuso negli Opg senza aver compiuto delitti (a Castiglione il record di dimissioni, ha ricordato Straticò)e può essere seguito dai servizi psichiatrici territoriali, anche se la dotazione in Italia è a macchia di leopardo. C’è poi il rischio che in questo delicatissimo settore, si risvegli l’interesse dei privati, ha evidenziato Nosè. Alghero: progetto “LiberaStorie”… e i detenuti diventano scrittori di Silvana Porcu La Nuova Sardegna, 21 aprile 2013 Un giorno di semilibertà forse non cambia la vita. Così come, forse, non la può cambiare un libro. Eppure l’incastro di queste due piccole grandi cose ha segnato una svolta per più di una persona all’interno delle carceri sarde. Il progetto “LiberaStorie”, che in questi mesi sta attraversando l’isola, è arrivato anche ad Alghero, dove si è ripetuta la formula costante: prima un incontro nella casa circondariale, poi la presentazione aperta al pubblico. Ma per parlare di che cosa, esattamente? Di libri? Anche. “Evasioni d’inchiostro” (Voltalacarta Editrici) e “La cella di Gaudì” (Arkadia Editore) sono nati da un comune tentativo di aprire idealmente lo spazio di una cella con la forza della narrativa. Quello che c’è in gioco va oltre le parole. Tocca le storie e le persone, il valore dell’accesso all’informazione, il ruolo fondamentale delle biblioteche carcerarie nella ricostruzione di un’esistenza. Basta ascoltare due dei detenuti coinvolti nell’iniziativa e presenti all’incontro: oggi, grazie al potere delle storie, hanno visto cambiare un pezzo della propria vita. “LiberaStorie”, finanziato dalla Regione, è l’evoluzione di un progetto del 2003 nato sulla base di un protocollo d’intesa con il Ministero della Giustizia. La gestione, curata dall’Associazione Italiana Biblioteche, punta a usare la lettura come ponte fra l’interno e l’esterno delle carceri. Perché, come spiega la responsabile del Settore Beni Librari di Sassari, Carla Contini, “più di altri, i detenuti hanno bisogno del diritto di accesso all’informazione”. L’obiettivo è rendere autonome le biblioteche carcerarie, creando legami con le associazioni del territorio. Come aggiunge Sante Maurizi nella presentazione, questi libri mostrano che “attività nate in carcere possono vivere di vita propria”. A raccontare i due volumi sono alcuni degli scrittori coinvolti: Alberto Capitta, Michele Pio Ledda e Giampaolo Cassitta. “Viviamo in una società punitiva - sottolinea Capitta - dove si vorrebbe un carcerato senza diritti. Dobbiamo combattere anche i luoghi comuni”. Fra senso di responsabilità e sfida, i detenuti sono stati scrittori in “Evasioni d’inchiostro”, realizzato a Badu ‘e Carros, e protagonisti di storie per “La cella di Gaudì”, nato nella piccola casa di reclusione di Isili. È qui, a Isili, che dodici scrittori hanno adottato le storie di altrettanti detenuti. Finché non si uniscono le tessere del mosaico, per capire quanto possa valere, in termini umani, una cosa apparentemente semplice come la presenza dei libri - e delle persone che se ne occupano - in carcere. Quei libri sprigionano storie, che a loro volta liberano altre storie. Ed è solo l’inizio. Immigrazione: parte nuova gestione del Cie e Cara di Gradisca, “riassorbiti” i dipendenti di Luigi Murciano Il Piccolo, 21 aprile 2013 Seppure con due anni di ritardo, la nuova gestione del Cie e Cara di Gradisca è infine realtà. Dal 1° aprile, infatti, il consorzio trapanese Connecting People è succeduto a sè stesso nella conduzione delle due strutture per immigrati. Dopo un’infinita guerra a colpi di carte bollate, con i tribunali che avevano giudicato illegittima l’aggiudicazione dei servizi interni all’ex Polonio alla cordata capeggiata dalla società francese Gepsa (tribunali che in separata sede avevano respinto anche il ricorso della coop goriziana Minerva) Connecting People rimane dunque ufficialmente in sella. La cooperativa siciliana si è vista aggiudicare dalla Prefettura di Gorizia una nuova gestione che sarebbe dovuta iniziare addirittura nel 2011 per concludersi nel 2014. Anche se formalmente si tratta di una compagine societaria differente rispetto a quella che gestisce il Cie dal 2008 e il Cara dall’anno successivo, tutti i posti di lavoro esistenti - spiegano dai vertici di Connecting People - sono stati confermati “con contratti a tempo indeterminato”. I lavoratori sono stati tutti riassorbiti dalla “nuova” società. Che prova a tranquillizzare gli operatori anche per quanto concerne la sempre spinosa questione degli stipendi arretrati. “Il pagamento delle retribuzioni - si legge in una nota - è stato regolarmente effettuato fino a gennaio 2013. Esiste dunque solo un mensilità di arretrato. Tale situazione - è la precisazione del cda di Connecting - è da addebitare in toto al ritardo nei pagamenti da parte della Prefettura, che sono fermi a dicembre 2012 e che sono stati decurtati per ben 18 mesi del 20% di quello spettante all’ente gestore per i servizi resi”. La coop siciliana approfitta del suo insediamento anche per chiarire alcuni aspetti gestionali che erano finiti nell’occhio del ciclone dopo una denuncia del Garante dei detenuti del Lazio in merito alle condizioni di alloggio degli ospiti. “Decisioni che - spiega la nota - sono assunte dalla Prefettura su segnalazione della Questura per esigenze di tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza interne. E che vengono assunte in concomitanza di eventi critici che le autorità ritengono di contenere con tali provvedimenti costantemente subiti e non concordati con l’Ente gestore”. Anzi, a detta di Connecting “è stato proprio l’intervento di questo ente a consentire il ripristino dell’utilizzo dei materassi nelle camerate”. Mondo: quei tremila detenuti italiani all’estero lasciati soli… appello a Napolitano di Monica Ricci Sargentini (Associazione Prigionieri del Silenzio) Corriere della Sera, 21 aprile 2013 In Italia esiste un’associazione che si occupa concretamente della tutela dei diritti umani dei nostri connazionali detenuti all’estero, circa 3,100 persone. Si chiama Prigionieri del Silenzio ed è stata fondata da Katia Anedda nel 2008: “La prima volta che mi sono occupata di italiani arrestati all’estero - dice la donna, 46 anni, al Corriere - è stato nel 2004 quando Carlo Parlanti, mio ex convivente fu fermato in Germania per un mandato di arresto emesso dagli Stati Uniti, prima di allora non mi ero mai sognata di fare una ricerca su Google con la chiave italiano detenuto all’estero, siamo il paese del diritto e la prigione ci sembra una cosa che non ci appartiene e quindi inconsciamente pensiamo: se è in prigione qualcosa ha fatto, sino a che la prigione non arriva nelle nostre vite” (nella foto i marò italiani Salvatore Girone, a destra e Massimiliano Latorre). Partendo dal caso dei marò detenuti in India l’associazione ha scritto una lettera appello al presidente Giorgio Napolitano (prima ancora di sapere che sarebbe stato rieletto per un secondo mandato) che è un atto di accusa contro lo Stato italiano reo di aver abbandonato questi suoi cittadini al loro destino. Ne pubblichiamo qui di seguito il testo integrale sperando che il presidente (cui facciamo i nostri migliori auguri) voglia rispondere. Al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano: “I recenti sviluppi del caso dei due Marò detenuti in India rappresentano un pericoloso campanello d’allarme, sul quale è bene che riflettano tutti gli italiani. La speranza che l’intera vicenda si concluda nel migliore dei modi, in nome del Diritto e della civiltà nella pena, non deve impedire al Paese di aprire gli occhi e chiedere alla notra classe dirigente una severa autocritica. I due fucilieri sono solo due tra migliaia di concittadini oggi detenuti in tutto il mondo. Persone abbandonate da uno Stato pigro, impreparato, assente. La condotta delle nostre Istituzioni, Governo e Ministero degli Esteri per primi, di fronte alle sorti dei due militari accusati, ha acceso i fari sull’impotenza di migliaia di cittadini di fronte a un muro di silenzio che spesso circonda e imprigiona altrettante famiglie. Parliamo delle famiglie di oltre 3.100 connazionali che si trovano in stato di detenzione all’estero. Molti di loro stanno già scontando una pena, altri sono in attesa di giudizio. Ogni caso nasce da una storia, un reato, reale o presunto, dove troppe volte è identica l’impossibilità di far valere i propri diritti. Questo accade tanto in sede di processo, quanto nel raggiungimento dei normali diritti che gli stessi trattati internazionali già riconoscono ai detenuti. È qui che l’Italia con le sue Istituzioni, troppe volte scompare e che l’aiuto che ogni familiare vorrebbe dare al proprio caro recluso, si scontra con un’inefficienza inaccettabile. Sedi consolari inadatte ad assistere i connazionali in difficoltà, incapaci di fornire le necessarie informazioni per agevolare una degna assistenza legale. Accade di affrontare oltre al dramma di un arresto, anche il labirinto di burocrazie inaccessibili in lingue incomprensibili. L’assistenza legale di un detenuto all’estero costa decine di migliaia di euro solo nel primo anno. Un peso talvolta insostenibile. Esiste un trattato internazionale, la Convenzione di Strasburgo, siglata ormai 30 anni fa, che troppe volte resta lettera morta. Il nostro Paese non riesce a far sentire il proprio peso nell’applicazione di quelle norme che consentirebbero a un detenuto di scontare in una struttura carceraria italiana una pena acquisita e inappellabile. L’Italia non riesce ad avviare una sistematica rivendicazione delle leggi sovranazionali, nemmeno con quegli Stati con cui lo stesso Trattato è già stato ratificato. Caro Presidente, il percorso verso la libertà, o almeno verso il raggiungimento dei propri diritti, si presenta già come una montagna da scalare. Per gli Italiani detenuti all’estero la situazione è ancor più grave. L’assenza di uno Stato serio, autorevole, efficace, trasforma la montagna in un vulcano. E la ripida salita avviene contro la corrente di un fiume di lava. L’immagine, desolante, è di un Paese impreparato. Gli italiani detenuti all’estero e chiunque voglia offrire loro un aiuto sono persone sole. L’Associazione Prigionieri del Silenzio rivolge a Lei, Presidente Napolitano, queste considerazioni. La Sua esemplare dedizione agli interessi del Paese ha rappresentato un solido approdo nella difficile tempesta internazionale. Una ragione in più perché sia Lei il migliore interprete di un malessere che coinvolge migliaia di persone”. Stati Uniti: a Guantánamo 77 prigionieri in sciopero fame, alimentazione forzata per 17 Ansa, 21 aprile 2013 È salito a 77, sui 166 prigionieri totali, il numero di detenuti attualmente in sciopero della fame nella prigione militare di Guantánamo, 25 in più rispetto a mercoledì. Lo ha reso noto un portavoce della prigione militare americana. Degli scioperanti, 17 sono sotto alimentazione forzata e di questi cinque sono ricoverati, “anche se nessuno è in pericolo”. Lo sciopero della fame è stato indetto dai prigionieri per protestare contro le detenzioni senza accuse formali e speranze di un processo in tempi brevi.