Giustizia: reportage dal carcere di Bollate, dove le pene non si scontano a “porte chiuse” di Antonietta Demurtas www.lettera43.it, 1 aprile 2013 Celle aperte e iniziative culturali. Fra i 1.200 detenuti c’è chi lavora all’esterno e chi è tornato a studiare. Una struttura-simbolo di reclusione rieducativa. E non solo punitiva. Per uscire e non ritornare. Una mano apre una cella. Nel carcere di Bollate si vuole dare un senso alla pena. Porte aperte a Bollate, il carcere che prevede la rieducazione del detenuto. All’interno del carcere di Bollate i detenuti possono studiare per prendere un diploma. Il carcere di Bollate offre corsi per diventare operatore di rete. Per il detenuto che ama leggere, Bollate offre una ricchissima biblioteca. All’interno del carcere di Bollate i detenuti possono svolgere anche attività teatrali. Per rendere più “lieti” i colloqui con i figli, a Bollate c’è una saletta con cucina. Squadre, martelli e spatole: nel carcere di Bollate i detenuti lavorano il vetro. Tra i corridoi di Bollate c’è profumo di giornalismo: ogni mese esce “Carte Bollate”. Una mano apre una cella. Nel carcere di Bollate si vuole dare un senso alla pena. Porte aperte a Bollate, il carcere che prevede la rieducazione del detenuto. All’interno del carcere di Bollate i detenuti possono studiare per prendere un diploma. Il carcere di Bollate offre corsi per diventare operatore di rete. Per il detenuto che ama leggere, Bollate offre una ricchissima biblioteca. All’interno del carcere di Bollate i detenuti possono svolgere anche attività teatrali. Per rendere più “lieti” i colloqui con i figli, a Bollate c’è una saletta con cucina. Squadre, martelli e spatole: nel carcere di Bollate i detenuti lavorano il vetro. Tra i corridoi di Bollate c’è profumo di giornalismo: ogni mese esce “Carte Bollate”. Una mano apre una cella. Nel carcere di Bollate si vuole dare un senso alla pena. Porte aperte a Bollate, il carcere che prevede la rieducazione del detenuto. All’interno del carcere di Bollate i detenuti possono studiare per prendere un diploma. Il carcere di Bollate offre corsi per diventare operatore di rete. Per il detenuto che ama leggere, Bollate offre una ricchissima biblioteca. All’interno del carcere di Bollate i detenuti possono svolgere anche attività teatrali. Per rendere più “lieti” i colloqui con i figli, a Bollate c’è una saletta con cucina. Squadre, martelli e spatole: nel carcere di Bollate i detenuti lavorano il vetro. Tra i corridoi di Bollate c’è profumo di giornalismo: ogni mese esce “Carte Bollate”. Una mano apre una cella. Nel carcere di Bollate si vuole dare un senso alla pena. Porte aperte a Bollate, il carcere che prevede la rieducazione del detenuto. All’interno del carcere di Bollate i detenuti possono studiare per prendere un diploma. Il carcere di Bollate offre corsi per diventare operatore di rete. Per il detenuto che ama leggere, Bollate offre una ricchissima biblioteca. All’interno del carcere di Bollate i detenuti possono svolgere anche attività teatrali. Per rendere più “lieti” i colloqui con i figli, a Bollate c’è una saletta con cucina. Squadre, martelli e spatole: nel carcere di Bollate i detenuti lavorano il vetro. Tra i corridoi di Bollate c’è profumo di giornalismo: ogni mese esce “Carte Bollate”. Una mano apre una cella. Nel carcere di Bollate si vuole dare un senso alla pena. Porte aperte a Bollate, il carcere che prevede la rieducazione del detenuto. All’interno del carcere di Bollate i detenuti possono studiare per prendere un diploma. Il carcere di Bollate offre corsi per diventare operatore di rete. Per il detenuto che ama leggere, Bollate offre una ricchissima biblioteca. All’interno del carcere di Bollate i detenuti possono svolgere anche attività teatrali. Per rendere più “lieti” i colloqui con i figli, a Bollate c’è una saletta con cucina. Squadre, martelli e spatole: nel carcere di Bollate i detenuti lavorano il vetro. Tra i corridoi di Bollate c’è profumo di giornalismo: ogni mese esce “Carte Bollate”. Una mano apre una cella. Nel carcere di Bollate si vuole dare un senso alla pena. Porte aperte a Bollate, il carcere che prevede la rieducazione del detenuto. All’interno del carcere di Bollate i detenuti possono studiare per prendere un diploma. Il carcere di Bollate offre corsi per diventare operatore di rete. Per il detenuto che ama leggere, Bollate offre una ricchissima biblioteca. All’interno del carcere di Bollate i detenuti possono svolgere anche attività teatrali. Per rendere più “lieti” i colloqui con i figli, a Bollate c’è una saletta con cucina. Squadre, martelli e spatole: nel carcere di Bollate i detenuti lavorano il vetro. Tra i corridoi di Bollate c’è profumo di giornalismo: ogni mese esce “Carte Bollate”. Una mano apre una cella. Nel carcere di Bollate si vuole dare un senso alla pena. Porte aperte a Bollate, il carcere che prevede la rieducazione del detenuto. All’interno del carcere di Bollate i detenuti possono studiare per prendere un diploma. Il carcere di Bollate offre corsi per diventare operatore di rete. Per il detenuto che ama leggere, Bollate offre una ricchissima biblioteca. All’interno del carcere di Bollate i detenuti possono svolgere anche attività teatrali. Il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni, scriveva nel 1866 Fëdor Dostoevskij. Se fosse così, quella italiana sarebbe tra le più incivili. E la condanna della Corte europea dei diritti umani di Strasburgo arrivata a gennaio nei confronti dell’Italia “per trattamento inumano e degradante” di sette carcerati detenuti nel carcere di Busto Arsizio e in quello di Piacenza, ne è l’ennesima prova. Per capire però che un altro modello di carcere è possibile basta andare alla periferia Nord di Milano e visitare la casa di reclusione di Bollate. 1.200 carcerati in una struttura aperta Nato nel 2000 come istituto a custodia attenuata per detenuti comuni, oggi Bollate ospita 1.200 carcerati, che vivono insieme in una struttura aperta: le porte delle celle si chiudono solo la sera e durante il giorno tutti possono girare liberamente da una sezione all’altra. Qui, a differenza della maggior parte delle carceri italiane, non ci sono problemi di sovraffollamento: 12 educatori e un tipo di vigilanza dinamica permettono alla polizia penitenziaria di gestire l’istituto con poco più di 400 unità. “Nessuno miracolo”, spiega subito il direttore del carcere Massimo Parisi prima di aprire le porte della struttura a Lettera43.it. “Il nostro progetto rispetta semplicemente la Costituzione italiana, che prevede la funzione di rieducazione e reinserimento del carcere”. Dare un senso alla pena Per questo sin dall’inizio Bollate “è stato concepito con una vocazione trattamentale”, continua Parisi. “Bisogna dare un senso alla pena, perché solo così si migliora anche la credibilità dello Stato”. Nel carcere c’è una commissione cultura costituita dal personale, dagli educatori e dagli stessi detenuti che propongono iniziative culturali, attività lavorative e sociali. “Bollate non certo è un paradiso”, puntualizza il direttore, “ma delle disfunzioni se ne parla al tavolo con i detenuti, che hanno anche forme di rappresentanza interna. Così i problemi non sfociano mai in episodi di protesta, ma si risolvono attraverso il dialogo”. “Un carcere diventa duro non perché ci sono le sbarre, ma per le persone” Per rendersene conto basta camminare lungo i corridoi delle varie sezioni dove i detenuti si fermano a chiacchierare, passano per andare a lavorare, scherzano con le guardie o passeggiano insieme con i parenti che sono andati a trovarli. Per alcuni di loro c’è anche la possibilità di trascorrere alcune ore nella “casetta”: un ambiente arredato come fosse una casa, dove i detenuti accolgono i loro figli, mangiano e giocano insieme, cercano di recuperare il legame affettivo, anche se solo per il tempo di una visita. Ricostruire i legami affettivi Perché chi commette un reato e sconta la propria pena non solo perde la libertà ma spesso anche l’amore dei propri cari. “Un carcere diventa duro non perché ci sono le sbarre, ma perché le persone lo rendono tale: tutto dipende dai carcerati e dal rapporto con la sorveglianza, che qui per fortuna è ottimo”, racconta a Lettera43.it Gualtiero Leone. Milanese, in carcere dal ‘94, deve scontare ancora 20 anni di reclusione e di prigioni ne ha viste tante: Marassi, San Vittore, Opera. “Contesti più duri nei quali stavo bene perché allora rispecchiavano il mio modo di essere”, spiega. Una palestra per prepararsi al futuro Col tempo però anche Gualtiero ha iniziato a mettersi in gioco, a capire. “Questo è un carcere innovativo che ti prepara al futuro, a far parte della società di cui magari non abbiamo mai fatto parte, perché non abbiamo voluto o perché ci si è trovati nel posto sbagliato al momento sbagliato”, spiega. “Qui però ti danno un’altra possibilità, perché noi siamo parte della società anche se la gente non lo vuole accettare”. A Bollate Gualtiero lavora: fa parte della commissione cultura ed è iscritto al terzo anno di Scienze dell’educazione: “Lo studio aiuta ad aprire gli orizzonti, a riconoscere gli altri e prima di tutto se stessi”. “Certo”, ammette, “cambiare è difficile: sono sempre la persona di prima ma con pensieri diversi, perché sono convinto che siamo ciò che pensiamo e facciamo ciò che pensiamo”. Le spese di mantenimento da pagare E qui lo strumento fondamentale per agire e pensare nel migliore dei modi è il lavoro “che permette di far percepire meglio le regole”, dice Parisi. Ma anche perché aiuta gli stessi detenuti ad auto-sostenersi. Ogni mese devono infatti pagare circa 56 euro di spese di mantenimento che vengono riscosse a fine pena attraverso una procedura tributaria. “Se invece hanno una busta paga i soldi sono recuperati mensilmente e quando escono non hanno alcun debito con lo Stato”, spiega il direttore. Oggi a Bollate sono quasi in 300 a lavorare per aziende o cooperative, che assumono i detenuti con le stesse retribuzioni che fanno all’esterno e in cambio ottengono locali in comodato d’uso e alcuni sgravi contributivi. Inoltre ci sono anche 150 articolo 21, ovvero detenuti che ogni giorno escono per lavorare o studiare e tornano la sera. Tra questi non c’è solo Renato Vallanzasca, di cui hanno tanto parlato le cronache, ma anche Santo Tucci che il lavoro se l’ha creato da solo: in carcere ha un laboratorio artigianale e fuori vende i prodotti nel suo negozio che si chiama Il passo ed è ospitato in uno spazio del Comune. Il detenuto vetraio e scultore La cooperativa sociale nata quattro anni fa a Bollate occupa oggi tre detenuti e altre quattro persone esterne. “Sono un vetraio, ma ora facciamo anche sculture in luce e bigiotteria, così possiamo far lavorare più persone. Bollate è questa”, racconta Tucci mentre mostra i suoi lavori, “ti offre la possibilità di vedere la pena in maniera più costruttiva”. Per chi invece non può usufruire dell’articolo 21, è possibile lavorare anche in carcere dove c’è un call center della Telecom, uno della Tre, uno della polizia municipale del Comune di Milano, uno della Cafebon e uno della compagnia petrolifera Gulf. Anche una compagnia teatrale C’è un servizio di catering, la compagnia teatrale Estia con detenuti assunti come attori e una cooperativa che lavora per l’Expo. C’è la cascina Bollate che si occupa del verde e un’associazione sportiva che si prende cura dei cavalli sequestrati e aspira a diventare un vero e proprio maneggio. A lavorare non sono solo gli uomini ma anche le 90 detenute, che oltre ai call center, nella loro sezione femminile hanno una piccola bottega di bigiotteria gestita dall’associazione no profit Impronte, l’atelier sartoriale Alice e un laboratorio che si occupa del controllo di guarnizioni per elettrodomestici. Un carcere operoso dove “si cerca di sfruttare il tempo della pena eliminando l’ozio e preparando il detenuto per l’uscita”, dice Parisi. E i risultati confermano la bontà del progetto: secondo le statistiche “dall’apertura a oggi, su 10 detenuti, una volta scontata la pena, otto non sono più rientrati”, vanta soddisfatto il direttore. Senza dimenticare che però c’è anche una parte che non è riuscita a reggere la misura alternativa pur non commettendo reato: “Sono soprattutto tossicodipendenti o alcolisti che a Bollate sono quasi 500”. Per loro c’è anche un Sert (servizio territoriale per la tossicodipendenza e l’alcolismo) all’interno. Così come ci sono psicologi, seppur pochi, che per legge devono seguire i 380 sex offender (ossia coloro che sono accusati di reati sessuali). L’allarme per la riduzione dei fondi Insomma i servizi non mancano, ma la riduzione dei fondi, soprattutto sulle forniture igienico sanitarie, ha toccato anche il carcere di Bollate. Che però, grazie alle donazioni di privati come Leroy Merlin, Decathlon, la fondazione Monzino, riesce a garantire attività e laboratori. E così la palestra, le sale di musica, la scuola alberghiera - che per il 2013 funziona con i privatisti e dal 2014 sarà un istituto a tutti gli effetti - sono attività rese possibili grazie a risorse private a fondo perduto, che permettono così allo Stato di spendere appena 500 mila euro all’anno, stipendi esclusi, per mantenere Bollate e allo stesso tempo offrire ai carcerati una qualità della vita migliore. Sala musica e radio Ma al di là dei costi e dei risultati, basta parlare con i detenuti per capire come un carcere possa davvero “cambiare musica”. A partire dalle Officine musicali freedom sounds. Un progetto che permette di suonare ogni giorno in una sala musica dotata di tutti gli strumenti. “Una volta ci siamo anche esibiti a Milano per la raccolta dei fondi per i terremotati dell’Emilia”, racconta Marco Caboni, detenuto, mentre mostra orgoglioso un cd autoprodotto dal titolo augurante Tutti fuori. Anche se per ora è solo la loro musica ad attraversare le sbarre e andare in onda ogni domenica su Radio Popolare durante la trasmissione Jailhouse rock. Biblioteca aperta E quando non sono le note musicali, ci sono i libri a portarli fuori dal carcere, anche solo con l’immaginazione: dal 4 marzo i detenuti potranno entrare in biblioteca da soli, non più accompagnati. “Un’occasione per responsabilizzarli, saremo molto rigidi e se sbagliano la chiudiamo, qui non si fuma neanche alla finestra”, spiega il bibliotecario che gestisce lo spazio insieme con 9 carcerati. I libri che vanno per la maggiore sono i gialli, “a partire da Wilbur Smith”, racconta il bibliotecario da 40 anni in servizio nelle carceri lombarde. “A Opera andavano più i libri di filosofia”, ricorda, “ma in generale in carcere la cultura è bassa, qui c’è gente che non sa né leggere né scrivere”. Circa 150 detenuti fanno le superiori e una settantina frequentano le medie, “quindi non puoi chiedere a uno di leggere se non ha mai preso un libro in mano, però che importa, impareranno qui”. Parisi: “Prima o poi i detenuti escono dal carcere. Noi cerchiamo di prepararli” Ma qui c’è anche chi ha già il diploma e fa l’università: Arben Mulan, albanese, in carcere da quattro anni e sei mesi, dopo San Vittore e Opera è arrivato a Bollate per scontare gli ultimi quattro anni di pena e qualche settimana fa ha dato i suoi primi esami in Scienze dei servizi giuridici. “Qui puoi studiare e fare attività che ti preparano per trovare un lavoro quando esci”. Un corso per operatore di Rete Arben è iscritto a un corso Cisco per diventare operatore di rete: “Facciamo gli esami online”, spiega. Bollate è infatti l’unico carcere al mondo che si collega con la sede centrale dell’accademia a San Josè in California. Arben partecipa anche al gruppo della trasgressione dove detenuti e universitari si incontrano per confrontarsi e ragionare sulle varie forme della trasgressione. “Nelle altre prigioni dove sono stato non c’era spazio per fare tutte queste cose e alla fine con gli altri detenuti si parlava solo di delinquenza, di quello che avevi fatto tu o loro. Invece qui ti danno davvero un’altra possibilità”. Le critiche al carcere Un modello quello di Bollate che spesso ha destato non poche polemiche proprio per le attenzioni e i servizi offerti ai detenuti. “Il nostro obiettivo non è essere paternalistici”, precisa Parisi, “ma costruire un ponte tra dentro e fuori e garantire un clima di vivibilità all’interno, niente di più”. Secondo il direttore, invece, spesso “l’orientamento dell’opinione pubblica è umorale, perché il carcere viene visto più nel suo aspetto sanzionatorio e punitivo, quando invece sappiamo benissimo che la Costituzione pone l’accento su quello rieducativo. E noi come istituzione dobbiamo dimostrare e lavorare affinché le persone una volta rientrate nella collettività non commettano reati”. Oltre la punizione l’aiuto Un modus operandi che “sappiamo essere soggetto a critiche, ma dobbiamo dimostrare che l’istituzione non è solo punitiva, ma cerca anche di aiutarti”, conclude Parisi. “Tutti devono capire che i detenuti possono essere delle risorse. E soprattutto che prima o poi devono uscire dal carcere. Noi cerchiamo semplicemente di prepararli”. Cascina Bollate si occupa del vivaio, dei balconi, terrazzi e giardini Il lavoro nobilita l’uomo. E mai come dentro il carcere di Bollate, sin dalla sua apertura nel 2000, questa massima è diventata una mission. “Cerchiamo di sfruttare il tempo della pena preparando il detenuto per l’uscita”, racconta a Lettera43.it il direttore Massimo Parisi, “perché quando una persona entra in prigione per tutti diventa solo l’autore di un crimine, mentre noi vogliamo far emergere la sua personalità, non solo il reato”. Al lavoro 300 detenuti Nella casa di reclusione alla periferia Nord di Milano, quasi 300 detenuti lavorano per aziende o cooperative, ricevono uno stipendio e riescono non solo a pagare allo Stato la quota di sostentamento mensile (circa 56 euro), ma anche a mantenere le proprie famiglie fuori dall’istituto. In cambio, le aziende che operano nel carcere non pagano l’affitto per i locali e usufruiscono di alcuni sgravi contributivi fiscali. Non è volontariato “Il lavoro che si fa in carcere non è volontariato”, precisa a Lettera43.it il presidente della cooperativa Susanna Magistretti, che cinque anni fa ha deciso di lasciare la libera professione e creare la cooperativa. “Qui dentro vieni solo se stai sul mercato e paghi i detenuti. Insomma, è un business”. E ora più che mai: “La legge Muraglia che dava le gambe all’articolo 27 della Costituzione è stata rifinanziata in minima parte e così l’impresa perde anche il vantaggio del credito d’imposta”. Cascina Bollate ha in comodato d’uso gratuito la serra e il terreno, ma il motore che spinge un’azienda a entrare in carcere non può essere solo il profitto: “Per me è stata fondamentale l’adesione a un progetto ideale, che ti porta a pensare a questo Paese in un modo migliore. Facendo il tuo lavoro, naturalmente”. Coltivate 100 mila piante Su un ettaro, i dipendenti di Cascina Bollate coltivano 100 mila piante. Oltre al presidente lavorano sei detenuti a tempo pieno, due giardinieri liberi professionisti, uno part time, un ex detenuto e circa 20 volontari a turno. Il core business è dato dal tipo di piante coltivate: fiordalisi, papaveri ormai introvabili perché decimati dall’uso dei diserbanti, zigne (fiori da tavolo dell’800), piante vagabonde. Insomma piante che nel mass market non si trovano, perché “se facessimo ciclamini avremmo già chiuso”, spiega Magistretti. E il sistema funziona. A confermarlo, sono i risultati: nel primo anno di vita, il 2008, la cooperativa fatturava 40 mila euro, nel 2012 è arrivata a 170 mila euro. La dimostrazione che un altro carcere è possibile: “Questo modello va ampliato a macchia d’olio”, dice Magistretti. Da 10 anni, nel carcere di Bollate l’obiettivo è creare un ponte tra i detenuti e la vita fuori dalle sbarre, soprattutto attraverso il lavoro. Ed è quello che sta provando a fare anche l’Associazione sportiva dilettantistica Asom (Associazione salto oltre il muro) nata sei anni fa. “Nel gergo tecnico dell’atletica, il muro è l’ostacolo più alto e il record è quello di 2 metri e 47”, spiega a Lettera43.it Claudio Villa, detenuto e coordinatore dell’Associazione, “e qui dentro il salto da fare è quello oltre il muro del disagio”. Un salto oltre il muro Come tutte le iniziative, Asom è nata come attività formativa e ora è l’unico maneggio in Europa all’interno di un carcere. “Stiamo costruendo tutta la scuderia con materiale di recupero, un grosso impegno anche per i detenuti che ci stanno lavorando”, spiega Villa, “ma non abbiamo mezzi quindi su 10 persone fisse che lavorano, due sono stipendiati a mezza giornata, gli altri volontari”. Nel maneggio del carcere, ci sono 19 cavalli che vengono da attività sportive, quattro sequestrati “e altri che sono stati portati qui perché sono a fine carriera o perché hanno avuto incidenti e non possono più gareggiare”, racconta Villa, appassionato di cavalli. Animali liberi “Vogliamo creare una struttura che operi come qualsiasi maneggio”, dice, “per ora facciamo corsi di formazione per i detenuti e ci prendiamo cura degli animali”. E, ironia della sorte, “i cavalli che stanno in carcere sono liberi, quelli in galera sono invece quelli che stanno fuori, nei maneggi”. Per ora, “stiamo aspettando la definizione di un accordo con il comune di Milano per diventare la sede del reparto a cavallo dei vigili”, aggiunge entusiasta, “perché l’esempio di un corpo della polizia che lavora all’interno di un carcere gestito dai detenuti, sarebbe un segnale molto forte”. Di progetti l’Asom ne ha tanti, a partire dall’idea di lavorare con gli esterni: organizzare corsi di aggiornamento e formazione e “sfruttare le potenzialità della relazione uomo cavallo, dall’ippoterapia fino alle attività assistite con gli animali”, conclude Villa. Giustizia: “Carcere disumano”, detenuto per mafia chiede di uscire, deciderà la Consulta di Fabio Abati Il Fatto Quotidiano, 1 aprile 2013 Tre persone in 9 metri quadri, una brandina per letto, bagno maleodorante. Per questo Emanuele Greco, in cella a Monza per 416 bis, fa richiesta per una pena alternativa. Ma la legge non riconosce le cattive condizioni carcerarie come motivo per ottenerla. E il Tribunale di sorveglianza di Milano investe la Corte costituzionale. Resta drammatica la situazione nelle carceri italiane. E mentre la neo-eletta presidente della Camera, Laura Boldrini, ha di recente dichiarato che la riforma del sistema carcerario “non si può rimandare” e che bisogna “trovare misure alternative alla detenzione”, per rimediare ai ritardi della politica ecco che la magistratura si mette in modo di sua iniziativa. Il Tribunale di Sorveglianza di Milano ha accolto il ricorso di un detenuto del carcere di Monza San Quirico riportando nella sentenza quanto denunciato dallo stesso, ovvero “che la detenzione si starebbe svolgendo con modalità disumane equiparabili a tortura”. Emanuele Greco, 40 anni, originario di Caltanissetta, arrestato nel 2010 a San Giuliano Milanese, in provincia di Milano, deve scontare 15 anni di carcere per diversi reati, tra cui l’associazione mafiosa. Convinto dal suo legale, viste le condizioni carcerarie in cui si trova, ha deciso di presentare ricorso per trovare “differenti forme detentive”. S’è appellato all’articolo 147 del Codice penale che questo tipo di cambiamento lo prevede; ma non se il carcere è disumano: solo, per esempio, se il detenuto si trova in cattive condizioni di salute, non compatibili con la cella. A questo punto, per non cestinare oggettive e legittime lamentele, il Tribunale di Sorveglianza ha deciso di presentare ricorso presso la Corte costituzionale contro il succitato articolo 147. Esso non contemplando la possibilità di trovare altre forme che non il carcere, quando la detenzione è simile alla tortura, va contro - tra gli altri - all’articolo 27 della Costituzione, dove si afferma che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. È da tempo che vengono denunciate le condizioni di invivibilità del carcere di Monza. Qui Greco è costretto a stare in una cella di circa nove metri quadrati dimensionata per due detenuti, mentre vi sono sistemate tre persone. Tenendo poi conto delle suppellettili presenti in quello spazio angusto: un letto a castello, la terza branda, l’armadio per i vestiti, comunque insufficiente per gli indumenti di tre persone che pertanto vengono sistemati sotto il letto; e ancora: i tre sgabelli, un tavolino, delle cassette posizionate una sopra l’altra che fungono da dispensa e un frigorifero con sopra il televisore, i tre detenuti non hanno spazio e quindi non possono scendere dal letto contemporaneamente. Nella sentenza del Tribunale di Sorveglianza, datata 12 marzo, è specificato poi che “il bagno non è arieggiato e pertanto è maleodorante e non è fornito di acqua calda; che ai muri vi sono muffe di diversi colori, spazio e ampiezza; che il detenuto istante, in quanto più giovane degli altri, deve dormire su una brandina pieghevole, troppo corta per la sua altezza e sistemata necessariamente sotto la finestra e dunque deve sopportare gli spifferi d’aria; che i due suoi compagni di cella sono anziani e malati e nessuno di loro va all’aria e pertanto la cella è sempre occupata e maleodorante”. La situazione carceraria è drammatica non solo a Monza. Il 15 marzo scorso c’è stato l’ennesimo suicido dietro le sbarre; s’è impiccato nel carcere di Opera, alle porte di Milano, Domenico Antonio Pagano, 46 anni, camorrista al 41bis (il carcere duro ndr) considerato il boss degli scissionisti di Scampia. È il sesto suicidio nel mese di marzo avvenuto nelle carceri italiane, dove dall’inizio del 2013 sono morte in tutto 44 persone (14 per essersi tolte volontariamente la vita). Come Milano, anche un altro Tribunale di Sorveglianza, quello di Venezia, di recente ha presentato ricorso alla Corte Costituzionale contro le limitazioni legislative che non permettono di “svuotare le carceri”. A questo punto la via per risolvere il problema del sovraffollamento potrebbe non segnarla il Parlamento, ma la Consulta. Giustizia: caso Aldrovandi; dal Coisp ancora polemiche “chi è in divisa ha meno diritti?” Agi, 1 aprile 2013 “Paolo e Luca restano in carcere... Tre persone continuano a restare in carcere anche se non dovrebbero starci, perché è la legge a stabilire che non debbano starci. Ora se ne discuterà?”. Franco Maccari, segretario generale del Coisp, sindacato indipendente di Polizia, interviene così dopo la nuova pronuncia del Tribunale di Sorveglianza di Bologna che ha respinto le istanze di concessione di misura alternative al carcere avanzate nei confronti di Paolo Forlani e Luca Pollastri, due dei quattro poliziotti condannati per eccesso colposo per la morte di Federico Aldrovandi. “Scemata la violenza del tifone mediatico scatenatosi su assunti fasulli e strumentalizzazioni della nostre iniziative - prosegue - adesso almeno si discuterà del perché tre persone sono in carcere, diversamente da quanto stabilito dalla legge? Chi è sempre giustamente in prima linea per difendere i diritti altrui ritiene che anche queste tre persone abbiano dei diritti oppure no? I diritti dei poliziotti sono affievoliti perché portano la divisa?”. “Parte della politica fortunatamente - rileva ancora - ha deciso di rifiutare ogni ipocrisia, di uscire allo scoperto e puntare chiaramente sull’argomento principe delle nostre iniziative, raccogliendo con onestà l’invito a discutere. Maccari fa notare che per una terza persona, Monica Segatto, “il Tribunale di Sorveglianza di Padova ha invece accolto la medesima istanza, concedendole i domiciliari, in virtù delle norme contenute nel cosiddetto svuota-carceri in base alle quali le pene da scontare a meno di 18 mesi di carcere, devono essere scontate fuori dagli istituti di pena” e aggiunge che “quando si discuteva del decreto in questione si è ritenuto evidentemente che chi è stato condannato a pene di quell’entità dovesse uscire dal carcere, evidentemente perché la riprovazione sociale che la pena sottintende non fosse tale in quei casi da giustificare la permanenza in cella. Perché questo adesso non vale per i poliziotti?”. “Una legge è una legge, sempre e per tutti, o no? Sappiamo che tanti si stanno facendo questa domanda - conclude Maccari - comprendendo le nostre reali intenzioni al di là di questioni dalle quali siamo lontani anni luce e che mai ci sogneremmo di tirare in ballo. Tanti, anche fra quelli che in pubblico hanno dovuto attaccarci per non finire nel tritacarne mediatico che ha voluto con prepotenza e del tutto ingiustamente creare un muro che dividesse i buoni dai cattivi. Noi facciamo sindacato con l’onestà e l’indipendenza che riteniamo indispensabili e non sacrificabili quando si assume un compito talmente difficile e delicato, e non possiamo che continuare a ripetere, finché avremo fiato, anche in questo giorno di Pasqua che speriamo porti a tutto il Paese un po’ di quella pace di cui tanto c’è bisogno, che tre persone sono ancora in carcere per una contestazione a titolo di colpa e per una pena rispetto alla quale la legge non prevede che ci stiano”. Sardegna: organico Polizia Penitenziaria aumenta di oltre 500 unità, Sindacati soddisfatti Ansa, 1 aprile 2013 Con il decreto firmato il 22 marzo scorso dal ministro della Giustizia, Paola Severino, l’organico nelle carceri sarde è destinato ad aumentare di 510 unità, passando dalle attuali 1.324 persone a 1.834. Soddisfatti i sindacati della polizia penitenziaria di Cisl, Cisl, Sapp, Osapp e Sinappe. “La vecchia pianta organica - spiegano - non rispecchiava le esigenze del sistema penitenziario isolano e mai ci siamo arresi alle scelte dell’amministrazione che abbiamo sempre segnalato essere inadeguate. Un risultato ottenuto anche grazie all’impegno delle segreterie nazionali e del Provveditore regionale delle carceri che hanno sempre sottolineato l’accentuata carenza di personale. Ora - concludono i sindacati - attendiamo l’incontro dove discutere la ridistribuzione del personale nei vari istituti dell’Isola”. Padova: la Casa Circondariale ha 98 posti; 370 detenuti, più della metà tossicodipendenti di Alberta Pierobon Il Mattino di Padova, 1 aprile 2013 Il consigliere regionale Pietro Ruzzante e la neo deputata Giulia Narduolo in visita tra guardie carcerarie e detenuti: l’emergenza è al limite, crolla perfino il muro di cinta. Venticinque metri quadrati, nove letti impilati in castelli di tre, si sta in piedi a turno. E può capitare che a terra venga piazzato un materasso per un decimo detenuto. Permanenza media, da quattro mesi a due anni, uomini stipati che manco l’aria trova strada, sovraffollamento perfino nella sala incontri: ci sono 12 posti, i detenuti hanno diritto a due visite di due ore la settimana, ma devono alternarsi. E quel tempo, prezioso come l’oro, viene per forza decurtato a tutti. E ancora, la Regione ha tagliato i pochi fondi, quindi niente più corsi, altra risorsa indispensabile a rendere umana la detenzione, a uscire da quelle celle dove dovrebbero stare in tre e invece stanno in nove e da dove non si esce (a parte le quattro le ore “di passeggio” al giorno, sei d’estate): deserta la saletta con i computer, niente più cineforum. Qualcosa c’è ancora, si fa l’orto e qualcuno impara a suonare la chitarra: tutto frutto di volontariato. Sono 35 le celle nel circondariale Due Palazzi, dovrebbero contenere 98 persone ma in media ne ospitano 230. Con picchi di 270 come in dicembre. Ieri erano in 206. Oggi il numero sarà già cambiato: in un anno il turn over raggiunge le mille persone. Solo 30 i detenuti che lavorano all’interno: cucina, pulizie, manutenzione. Presi dalla strada e sbattuti in carcere, quei ragazzi, quegli uomini per l’80% stranieri (25 le nazionalità) portano in cella l’emergenza da cui arrivano e con la quale convivono: tossicodipendenza (il 50-60% dei detenuti), alcolismo, malattie (Aids, epatiti, tubercolosi, sifilide), disagi psichiatrici. Un infimo ambulatorio, dove privacy vuol dire quattro pazienti alla volta, è la sanità in carcere: tra Sert (il metadone è più prescritto dell’aspirina), infermieri e medici, è garantita una presenza quasi costante. Il circondariale di Padova, uno dei più sovraffollati d’Italia, un’emergenza di tali proporzioni deve affrontare con il lavoro di 168 guardie carcerarie “teoriche”. Ché il numero è parametrato sulla capienza prevista di 98 detenuti e non sulla realtà di 230, e diminuisce a 119 effettivi togliendo gli amministrativi in forza al Provveditorato e pure gli sportivi delle Fiamme Gialle. Ancora, scandalo nello scandalo, quel padiglione, ristrutturato, pronto ad accogliere un centinaio di detenuti. Vuoto. Non agibile per ragioni di sicurezza. Ovvero, il muro di cinta del carcere, sotto il quale sarebbero previsti i “passeggi” della rinnovata struttura, i collegamenti esterni, è pericolante. Anzi, cade a pezzi. Torrette di guardia comprese, e infatti la guardia non si fa più. Anche il cortile che ospitava i gazebo per i colloqui è in abbandono, abitato da una pasciuta colonia di gatti che pigramente tira sera. Sono giorni di attenzione per la popolazione detenuta e l’emergenza carceri italiana, pesantemente denunciata e sanzionata dall’Europa: il giovedì santo di papa Francesco al minorile di Roma, i sit-in dei radicali anche a Padova. E ieri mattina, al circondariale, la visita di Piero Ruzzante, Pd, consigliere regionale, che al Due Palazzi ha fatto 25 anni di volontariato e non ha mai smesso di occuparsene. Con lui Giulia Narduolo, 28 anni, neo deputata Pd, tra i firmatari di un progetto di legge “Per ridurre il sovraffollamento carcerario e garantire la finalità rieducativa della pena”. “Una visita che dedichiamo alla memoria di monsignor Giovanni Nervo, sempre attento ai poveri, agli ultimi”, spiega Ruzzante. A fare da Cicerone, Elena Vetrano, 40 anni, da un mese comandante del circondariale: entrata nel ‘96 nell’amministrazione carceraria, lavorando si è laureata in legge. Due anni “sul campo” e ora l’incarico. Antonella Reale è la direttrice del carcere. Hanno visitato la palazzina da cima a fondo, raccogliendo voci di detenuti e di guardie: “un lavoro molto stressante, con alto tasso di assenteismo perché, se non sei in buona forma, non lo puoi fare. Vuol dire per otto ore sentirti chiamare da tutte le celle, ogni detenuto con una richiesta. Vuol dire affrontare emergenze continuamente”, racconta la comandante, persona spiritosa e appassionata, a Ruzzante e Narduolo. Nei corridoi dove si affacciano le celle chiuse, mani e visi spuntano dalle sbarre. C’è il nigeriano che chiede a gran voce di essere trasferito con altri nigeriani, perché dei sei marocchini con cui è in cella non ne può più. “È uno dei grossi problemi, tutto vorrebbero stare con i connazionali ma noi cerchiamo di non creare ghetti”, spiega Elena Vetrano. E c’è il detenuto macedone che, dopo due anni, uscirà a giorni: disegna progetti di ville in legno e vetro, una arrampicata sui rami di un albero. Carta e tre matite colorate: la sua fuga. “Qui si vive peggio che allo zoo”, grida un giovane magrebino; “non sono razzista, ma gli stranieri hanno altre abitudini, e in spazi così è dura sopportarsi”, attacca un italiano. “Aspetto da mesi la visita a un occhio, non ci vedo”, grida infuriato un albanese: la prenotazione c’è, in ospedale, ma i tempi d’attesa sono giurassici. Lui ancora non lo sa. “Qui non è come al penale, dove i detenuti passano lunghi periodi, ci tengono alla cella e cercano di andare d’accordo. Qui arrivano dalla strada, di solito non per reati gravi, si trovano ammonticchiati e si creano tensioni”, racconta la comandante. “Anche aprendo la nuova struttura, dopo 6 mesi sarebbe sovraffollata”, spiega Ruzzante “il problema è l’uso eccessivo della custodia cautelare”, sul che la comandante Vetrano è più che d’accordo; “Basta pensare ai tossicodipendenti che riempiono il carcere: piccoli spacciatori o beccati con qualche dose. Non è questo il posto per recuperarli”. Venezia: nominato il Garante comunale dei detenuti, è lo psichiatra Sergio Steffenoni Notizie Radicali, 1 aprile 2013 Dopo un lungo e complesso percorso giunge finalmente ad termine l’iter per la nomina del garante dei detenuti a Venezia. Ieri il Sindaco Giorgio Orsoni ha firmato l’atto di conferimento dell’incarico a Sergio Steffenoni, psichiatra, attualmente in pensione, che da anni si occupa delle tematiche relative al carcere. Molte e sicuramente complesse le problematiche che dovrà affrontare il neo garante, come lui stesso ha affermato nelle prime dichiarazioni dopo la nomina: “Mi impegnerò parecchio anche perché, soprattutto nel carcere di Santa Maria Maggiore, i problemi sono numerosi. Mi riferisco al sovraffollamento che ha raggiunto livelli davvero elevati e per certi versi drammatici. In ogni caso essendo il mio un ruolo nuovo sarà necessario inventarsi il percorso collaborando con le cooperative”. In questo momento in cui sempre più drammatica è la situazione di illegalità del sistema giudiziario nel nostro paese, la figura del garante diventa fondamentale per tenere alta l’attenzione sul tema delle carceri e consentire quell’opera di conoscenza indispensabile per far crescere il livello di consapevolezza di quanto non sia più rinviabile una forte ed efficace azione che sappia riportare il sistema nel solco della legalità costituzionale. Come Associazione Veneto Radicale inviamo i più sinceri auguri di buon lavoro a Sergio Steffenoni nella speranza di poterlo incontrare quanto prima. Cagliari: detenuto di Buoncammino appicca un incendio alla cella, salvato dagli agenti Ansa, 1 aprile 2013 Nella serata di ieri un detenuto ha appiccato un incendio doloso nel piccolo reparto di osservazione del Centro clinico del carcere di Buoncammino, a Cagliari, dove si trovava in stato di osservazione. Il gesto non ha avuto un epilogo drammatico grazie al tempestivo intervento dei baschi blu, guidati nelle operazioni dal coordinatore della sorveglianza generale. “Il detenuto ha appiccato l’incendio nella propria camera detentiva - ha spiegato il coordinatore di Cagliari della Uil Penitenziari, Roberto Todde - atto che poteva portare a risvolti tragici. Ma il coraggio degli Agenti in servizio nel Centro clinico ha permesso di mettere in salvo l’autore dell’incendio, gli altri detenuti e contrastare le fiamme prima che il fumo potesse rendere l’aria irrespirabile. Si tratta del quarto incendio doloso messo in atto nel repartino di osservazione psichiatrica dell’istituto cagliaritano. Malgrado questo dato allarmante l’Amministrazione sembra ancora non accorgersi che Buoncammino non ha la possibilità di gestire detenuti con gravi problemi psichiatrici. Occorre considerare che la sorveglianza del Centro clinico viene assicurata negli orari serali e notturni da un solo agente, mentre nelle rimanenti fasce orarie il collega del secondo piano del Centro viene spesso impiegato nei servizi di perquisizione dei detenuti nuovi giunti o in altri servizi simili. Di recente, inoltre, i baschi blu con una brillante operazione hanno evitato l’intrusione di un quantitativo ingente di sostanze stupefacenti”. “Crediamo - ha concluso Todde - che l’Amministrazione non possa ignorare ulteriormente il fatto che il carcere cagliaritano non sia idoneo ad ospitare detenuti con caratteristiche di ingestibilità”. Borgomanero (No): in aprile un calendario di eventi per riflettere sul tema delle carceri www.corrieredinovara.it, 1 aprile 2013 “Tu sai di un posto chiamato prigione?”. Per rispondere a questo interrogativo e per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla condizione dei detenuti in Italia, un gruppo di borgomaneresi ha coinvolto ben sette associazioni impegnate a vario titolo sul tema, con il patrocinio del Comune. Il sottotitolo dell’iniziativa è “Essere liberi… vale la pena”. “Ne è nato - spiega uno dei promotori, l’ex assessore comunale Sergio Vercelli, che recentemente è stato il primo tra gli eletti nel nuovo Consiglio Pastorale della Parrocchia di San Bartolomeo - un calendario di iniziative varie e interessanti che per tutto il mese di aprile terranno viva in città l’attenzione su un argomento così delicato, difficile e controverso. Il primo appuntamento è martedì 2 aprile nella sala espositiva al piano terra di Palazzo Tornielli, dove verrà allestita la mostra fotografica dal “Mai più bambini in carcere” che potrà essere visitata sino a domenica 7 (ingresso libero). “Da venerdì 5 a domenica 7 - prosegue Vercelli - verrà invece attrezzata in piazza San Gottardo una vera e propria cella di dimensioni reali, con tutti i “comfort” che il luogo offre: sarà possibile visitare ed entrare “in prigione” per qualche minuto per farsi un’ idea concreta della condizione effettiva dei detenuti nel nostro paese”. Giovedì 11 alle 21 all’auditorium “Don Gianni Cavigioli”, presso l’Oratorio Parrocchiale di via Dante, si terrà invece una conferenza sul tema “Un carcere possibile oltre le sbarre”: per parlare di rapporto tra restrizione carceraria e misure alternative alla detenzione interverranno il Magistrato di Sorveglianza di Novara Lina Di Domenico, il presidente della Camera Penale di Novara, avvocato Fabrizio Cardinali, gli operatori della Comunità di Sant’Egidio, Paolo Lizzi e un esponente della Comunità Papa Giovanni XXIII. La serata si concluderà con l’intervento di un ex detenuto che porterà la propria testimonianza. Gli organizzatori hanno pensato di esportare anche in un istituto penitenziario lo spirito che li ha animati. “È nata così l’idea - dice l’ex assessore - di proporre una rappresentazione teatrale presso una casa circondariale, l’istituto “San Michele” di Alessandria, dove il 27 aprile la compagnia teatrale dell’Oratorio di Borgomanero, Musical Box, si esibirà ne “La leggenda di Arturo”, parodia di Re Artù e dei Cavalieri della Tavola Rotonda. Siamo convinti - conclude Vercelli - che la circolazione di idee e notizie sulle carceri possa stimolare riflessioni sul senso della pena. Una pena fine a se stessa che non tenda, come vollero i Costituenti, alla rieducazione del condannato è solo un costo economico e sociale privo di “benefici” concreti per la società dei liberi”. Oltre a Vercelli, all’iniziativa hanno collaborato Chiara Bonetti, Massimiliano Cerutti, Federico Celano, Alberto Esopi, Matteo Ferretti, Patrizia Ferro, Edoardo Mora e Rosy Russo. Enna: Franco Corbelli (Diritti Civili), detenuto non vede figlio e madre malati da due anni Ansa, 1 aprile 2013 Un uomo di 33 anni, detenuto nel carcere di Rossano, da due anni e mezzo non riesce ad incontrare il figlio di 10 anni e la madre, entrambi malati. La vicenda è stata denunciata dal leader del Movimento diritti Civili, Franco Corbelli, che ha ricevuto una lettera dal detenuto. “Ho ricevuto una lettera - ha detto Corbelli - dal detenuto che chiede di poter vedere suo figlio, dato in affidamento provvisorio ad una famiglia calabrese, che non vede da oltre due anni e mezzo e la madre che vive ad Enna, che per le sue gravi condizioni di salute non può venire in Calabria per incontrare il figlio recluso. L’uomo racconta la sua disperazione per non poter vedere il figlio, né di poterlo sentire al telefono, teme di perdere la potestà genitoriale. Lamenta di non avere alcuna risposta alle sue numerose istanze, denuncia l’assenza degli assistenti sociali, che ha visto una sola volta da quando è in questo carcere (dal 3 giugno 2011), e la violazione dei suoi diritti di detenuto e di padre”. Corbelli chiede che “a quest’uomo venga consentito di poter vedere il proprio figlio e la madre, nel rispetto della legge e dei diritti della persona umana che non possono certo essere cancellati dallo stato di detenzione”. Palermo: deputato Pd Franco Ribaudo visita l’Ucciardone “si lavori su riforma carceri” Live Sicilia, 1 aprile 2013 Il deputato del Pd Franco Ribaudo si è recato nel giorno di Pasqua in visita al carcere dell’Ucciardone di Palermo dove ha incontrato la direttrice dell’istituto Rita La Barbera. Il deputato Franco Ribaudo si è recato nel giorno di Pasqua in visita al carcere dell’Ucciardone di Palermo per partecipare alla messa celebrata dal cardinale Paolo Romeo. A margine del rito religioso, il parlamentare del Pd ha incontrato la direttrice dell’istituto Rita La Barbera, con la quale ha parlato delle criticità della casa circondariale palermitana e del sistema carcerario in generale. “In un contesto di emergenza che investe tutti i penitenziari italiani - ha detto Ribaudo, ho potuto riscontrare la sensibilità di chi dirige la struttura e la professionalità del personale che vi lavora, ai quali va il mio plauso. Anche la chiesa palermitana e i gruppi di volontariato sono molto attivi all’interno della struttura. Ritengo molto utili i corsi formativi con funzione rieducativa e le numerose iniziative volte al reinserimento dei detenuti nella società”. “È chiaro - ha aggiunto il sindaco di Marineo - che occorre lavorare in Parlamento per una riforma strutturale del sistema carcerario, che vada oltre al provvedimento di amnistia, che tutti auspichiamo per alleviare la situazione disumana in cui si trovano molte persone. Dobbiamo però anche impegnarci per una riforma seria volta alla riduzione della popolazione carceraria, prevedendo misure alternative alla detenzione per i reati minori”. Mondo: 3.103 gli italiani detenuti all’estero… ecco la mappa www.tgcom.it, 1 aprile 2013 Turisti, residenti, lavoratori, semplici cittadini: sono 3103 i nostri connazionali che vivono lo stesso dramma dei marò. Nei panni dei marò, ma senza la divisa. Turisti, residenti, lavoratori, semplici cittadini italiani detenuti all’estero. Ognuno con la sua storia, un capo d’imputazione o una condanna, e migliaia di famiglie che, da lontano, vivono un dramma a cui spesso assistono impotenti. A Tgcom24 vi mostriamo la mappa dei nostri connazionali nei guai con la legge oltre i nostri confini. Dati della Farnesina che saranno pubblicati a giugno, e che vi proponiamo in anteprima. Partiamo da un dato complessivo: sono 3103 gli italiani detenuti in tutto il mondo. Di questi solo 677 hanno già ricevuto una condanna, quasi 2400 è in attesa di giudizio, mentre 32 aspettano un provvedimento di estradizione. Quasi tre quarti di queste persone è in arresto nei paesi dell’Unione europea, 494 nelle Americhe, 129 negli stati dell’Europa dell’est, o comunque fuori dall’Unione, 76 in Asia, 64 in Medio Oriente e solo 17 in Africa. Ma vediamo la situazione continente per continente. Se in Europa la presenza in Germania di ben 1115 connazionali detenuti rispecchia la folta presenza di una comunità italiana, seguita da Spagna e Belgio, non va così altrove. Nelle Americhe il maggior numero di italiani in carcere si trova in Brasile: 83 persone, 81 in Venezuela, 76 in Perù e 69 negli Stati Uniti, dove vive il maggior numero di connazionali e dove si reca il maggior numero di turisti. non mancano casi di piccoli paesi, poco visitati, come l’Honduras, dove risulta un italiano in prigione. Tra Asia e Africa spiccano i casi di Congo e Tanzania, mentre 24 italiani si trovano ad oggi in stato di detenzione in Australia. Si arriva quindi ai 17 connazionali detenuti in India: sette sono stati già condannati, 10 sono in attesa di giudizio come Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, i due marò: oppure Tomaso Bruno ed Elisabetta Boncompagni, in carcere da tre anni per l’accusa di aver ucciso il loro compagno di viaggio, Francesco Montis. Accusa sempre respinta. Anche loro chiedono di tornare al più presto a casa. India: inchiesta giornale su italiani condannati ergastolo, traccia parallelo con caso marò Ansa, 1 aprile 2013 Della vicenda di Tomaso Bruno e Elisabetta Boncompagni condannati all’ergastolo e in carcere a Varanasi (Benares), nell’India del nord, si occupa l’ultimo numero del settimanale Outlook oggi in edicola. In due pagine intitolate “The Other Italians” il reporter Debarshi Dasgupta traccia un parallelo tra il caso dei due marò e quello della coppia condannata in relazione alla morte del loro compagno di viaggio Francesco Montis nel febbraio del 2010. “A differenza del grande scalpore suscitato dai due militari, il caso di Tomaso e Elisabetta non ha sollevato l’attenzione dei media” scrive il giornalista che ha incontrato a Varanasi i genitori dei due. Con una punta di polemica precisa anche che i due hanno votato in carcere, mentre ai marò è stato concesso di andare in Italia per le elezioni di febbraio. Il settimanale ricostruisce i dettagli della notte del presunto delitto, della doppia autopsia e dell’impossibilità di provare che il ragazzo di Albenga e la sua amica uscirono dalla stanza che condividevano con la vittima alle quattro di notte per vedere l’alba sul Gange. La registrazione della telecamera dell’hotel poteva forse provare l’alibi ma stranamente non è stata presentata durante il dibattimento. Dasgupta riporta poi le parole di Marina Maurizio, madre di Tomaso, che fa notare come i due avrebbero potuto fuggire in quanto avevano il passaporto invece di portare l’amico all’ospedale nel tentativo di salvarlo. Francesco morì durante il tragitto. I genitori di Tomaso e il padre della torinese Elisabetta sono stati a Varanasi per una visita ai loro ragazzi che stanno bene e continuano ad avere fede nella giustizia come cita l’articolo che è corredato da una grande foto dei tre all’uscita del penitenziario e da una rara immagine dei due carcerati. I genitori sostengono che Francesco è morto per cause naturali dovute al fatto di essere un forte fumatore e per una infezione che aveva contratto prima del viaggio in India scrive il giornalista. Outlook riporta anche che le famiglie hanno speso 24 milioni di rupie (circa 344 mila euro) per le spese del processo, dell’appello all’Alta Corte di Allahabad e per il ricorso alla Corte Suprema che si pronuncerà agli inizi di settembre come fissato nell’udienza del 4 febbraio. Kuwait: tre impiccagioni per omicidio, le prime esecuzioni dal 2007 Ansa, 1 aprile 2013 Tre uomini condannati per omicidio sono stati impiccati in Kuwait. Le ultime esecuzioni nell’emirato risalivano al 2007. L’agenzia Kuna riferisce che le condanne a morte sono state eseguite nella prigione centrale, ma non fornisce altri dettagli. Secondo la stampa, i condannati impiccati sono un pachistano per l’omicidio di una coppia di kuwaitiani, un saudita colpevole di avere ucciso un connazionale, mentre il terzo, definito un apolide arabo, era stato riconosciuto colpevole di avere ucciso una donna e i suoi cinque bambini. Nel braccio della morte delle carceri del Kuwait ci sono almeno 44 condannati. Da quando l’emirato ha introdotto la pena di morte nel 1960 sono stati giustiziati 69 uomini e tre donne. Iraq: eseguire quattro condanne a morte comminate per terrorismo Adnkronos, 1 aprile 2013 Il ministero della Giustizia iracheno ha annunciato che sono state eseguite le condanne a morte comminate all'ex leader di al-Qaeda a Baghdad, Munaf Abdul Raheem al-Rawi, e ad altri tre detenuti accusati di terrorismo. 'Le esecuzioni dei quattro terroristi sono state portate a termine per impiccagione, sono state eseguite per il loro ruolo nella guida di gruppi terroristici che hanno pianificato e sferrato un gran numero di attacchi criminali contro la popolazione in varie province', si legge in una nota del ministero di Baghdad. Al-Rawi era stato arrestato nella capitale irachena nel marzo di tre anni fa ed e' stato condannato a morte per la pianificazione di una serie di attacchi contro ministeri, alberghi, ambasciate e luoghi di culto islamici e cristiani. Francia: morto “Thierry”, ex-capo presunto dell’Eta, era detenuto in Francia dal 2008 Asca, 1 aprile 2013 È morto a Parigi, Javier Lopez Pena, detto “Thierry”, ex-capo presunto dell’Eta, detenuto in Francia dal 2008, è morto nella notte tra venerdì e sabato scorsi in un ospedale di Parigi all’età di 54 anni. Lo riferiscono fonti concordanti di polizia e dell’associazione “Exerat” di sostegno ai prigionieri baschi, precisando che il decesso è avvenuto a seguito di un ictus cerebrale. Detenuto presso il carcere Fleury-Merogis, nei pressi di Parigi, ‘Thierry’ era stato ricoverato l’11 marzo in un ospedale della periferia parigina e successivamente trasferito presso un alto nosocomio della capitale francese. “Abbiamo arrestato l’uomo con più peso politico e militare all’interno del gruppo terrorista” disse commentando l’arresto di “Thierry” nel 2008 l’allora ministro dell’Inteno spagnolo, Alfredo Perez Rubalcaba.