Giustizia: le nazioni hanno il volto della propria giustizia… di Valter Vecellio Notizie Radicali, 19 aprile 2013 “Le nazioni hanno il volto della propria giustizia”, scriveva Albert Camus, su “Combat” del 5 gennaio 1945. Che volto ha il nostro paese? Che volto mostra, da anni, all’Europa e al mondo, l’Italia? Basterebbe fare una semplice operazione d’archivio: prendere le relazioni in occasione dell’apertura dell’Anno Giudiziario dal 2000 a oggi. Cambiano i Procuratori Generali, ma il contenuto delle relazioni, nell’essenza, dicono sempre le stesse cose, denunciano la stessa, grave situazione. Distratti come siamo dal toto-Quirinale, le mille manovre e camarille che si sviluppano e consumano dietro e attorno all’elezione del successore di Giorgio Napolitano, dall’attentato a Boston, dalla strage in Texas, passa sotto traccia la notizia che nel 2012 la Corte europea dei Diritti dell’Uomo ha disposto risarcimenti a persone riconosciute vittime di violazioni per 176 milioni di euro. Di questa rispettabile cifra, circa il 70 per cento (120 milioni di euro), sono a carico dell’Italia. Al secondo posto la Turchia, con 23 milioni: e poi la Russia, con 7 milioni di euro. Si tratta di cifre ufficiali contenute nel “Rapporto del Consiglio d’Europa sull’esecuzione delle sentenze della Corte” (Supervision of the execution of judgments and decisions of the European Court of Human Rights. 6th Annual Report of the Committee of Ministers). Milioni di euro, e ovviamente chi paga è il contribuente. A causa delle sentenze inapplicate il nostro paese è inoltre nel gruppo di testa dei “sorvegliati speciali” dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa. I 120 milioni di euro di indennizzo che l’Italia è condannata a pagare sono la cifra più alta mai pagata da uno dei 47 Stati membri del Consiglio d’Europa. L’Italia resta anche nel 2012 lo Stato membro del Consiglio d’Europa con il più alto numero di sentenze emesse dalla Corte di Strasburgo ancora da eseguire: ben 2.569. Dietro il nostro paese ci sono la Turchia con 1.780 sentenze non eseguite, e la Russia con 1.087. Il “Piano Carceri” risale al giugno del 2010; poi è stato rivisto e attualizzato nel 2011, dal Comitato di indirizzo e controllo. Si prevedeva la programmazione di risorse per 675 milioni di euro e la conseguente realizzazione di 11 nuovi istituti (secondi padiglioni per complessivi 9.150 posti detentivi). “Piano”, a quanto pare, abortito, comunque mai partito. Il Cipe ha tagliato i fondi e rimodulato il piano senza valutare l’urgenza che attiene al trattamento penitenziario. Inoltre sono stati eliminati i finanziamenti per la sopravvivenza degli istituti esistenti. Emblematico quanto denuncia la Uil Penitenziari Sicilia: “Nel 2012 la polizia penitenziaria siciliana ha effettuato 18.230 servizi di traduzione per un totale di 45.064 detenuti tradotti per un costo complessivo che si può prefigurare tra i 4 e i 4,5 milioni di euro”. Una movimentazione di carcerati enorme: più di quattro al giorno, domeniche e feste comprese. “Detenuti tradotti per motivi sanitari 7.566, per permessi con scorta 4.595. Le traduzioni con autoveicoli 17.374, quelle per via aerea 606, per via mare 171, pedonali 87. I detenuti tradotti classificati comuni o a media sicurezza sono stati 30.398, quelli classificati ad Alta Sicurezza 13.739, i detenuti tradotti e sottoposti al 41-bis, 17, i collaboratori di giustizia o loro familiari 117, gli internati 810”. A fronte di questo colossale via-vai, le unità di polizia penitenziaria impiegate in servizi di scorta sono state 77.168: una media di 1,2 unità di polizia penitenziaria per detenuto tradotto. Non solo: circa l’60 per cento degli automezzi destinati alle traduzioni sono fuori uso, un altro 30 per cento è da considerarsi illegale perché privo dei collaudi di affidabilità o perché quei collaudi non sono stati superati: insomma in tutta la regione su 140 mezzi destinati, ne funzionano solo 50. Appunto: “Le nazioni hanno il volto della propria giustizia…”. Giustizia: se il “grado di civiltà si misura dalle carceri”, il nostro non è neanche misurabile di Concetta Distefano Il Giornale, 19 aprile 2013 “Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri perchè da esse si misura il grado di civiltà di un paese” (Voltaire). Stando al criterio di valutazione di Voltaire il nostro grado di civiltà non è neanche misurabile. La situazione carceraria in Italia è in perenne emergenza. Il problema che dovrebbe avere una soluzione politica invece viene molto trascurato. L’art 27 della Carta Costituzionale sancisce il principio di umanità della pena e il valore rieducativo della stessa. Invece le nostre carceri risultano sovraffollate e per gli operatori è impossibile approntare percorsi rieducativi per ogni singolo detenuto. Il difficile percorso rieducativo diventa poi drammatico se a questo si somma il pregiudizio sociale per gli ex detenuti. Rieducazione e reinserimento sono due principi molto disattesi. Il carcere diventa efficace risposta dello Stato solo se la pena è rapportata al reato ed è prevista come difesa per reati gravi. Soltanto per questi infatti si dovrebbero prevedere dei percorsi di correzione dei comportamenti e una rieducazione, per i reati minori si dovrebbero prevedere misure alternative al carcere, al fine di contenere il numero dei detenuti e garantendo percorsi di recupero. L’amnistia e i condoni non possono rappresentare una soluzione, allargano le possibilità d’uscita dal carcere ma non regolano l’ingresso. La politica ha la responsabilità di volere rinchiudere nelle carceri fenomeni sociali che non riesce a controllare, rinchiude e non reinserisce. I dati del Consiglio d’Europa ci dicono che in Italia il tasso di carcerizzazione è tra i più bassi dell’Europa eppure le nostre carceri detengono il doppio delle persone che potrebbero contenere. Molti dei detenuti risultano essere recidivi o psicopatici. Il recidivo commette nuovamente il reato perchè non adeguatamente sostenuto? Forse puntando sulla qualità della rieducazione le carceri sarebbero un pò più vuote. Per quanto riguarda le psicopatie invece, la ricerca in Italia dovrebbe orientarsi nello studio dei soggetti davvero meritevoli di pena, cioè dei soggetti davvero pericolosi per la società. La questione diventerà ancora più esplosiva con la chiusura degli ospedali giudiziari psichiatrici. Le dimissioni dei “folli autori di reati” crea non pochi problemi, anziché potenziare il sistema dei servizi di salute mentale, si sceglie di creare strutture speciali su base regionale, non abbandonando dì fatto la logica manicomiale. Tradendo la Riforma Basaglia, che con la legge 180, chiudendo i manicomi aveva restituito dignità alle persone malate di mente. Di tutta la materia e di tutte le implicazioni, lo Stato dovrebbe farsi carico cominciando da una riforma moderna e adeguata del codice penale, se è vero che siamo un paese civile non si può ancora dilazionare i tempi. Giustizia: Spigarelli (Ucpi); introdurre il reato di tortura nel Codice penale è una priorità Ansa, 19 aprile 2013 Introdurre nell’ordinamento italiano il reato di tortura deve essere una priorità. A ribadirlo sono gli avvocati penalisti: “i numerosi gravi episodi di abusi e violenze da parte delle forze dell’ordine che, da Bolzaneto ai casi Aldrovandi, Cucchi e Uva, hanno scritto pagine tra le più nere delle cronaca recente, confermano la necessità di introdurre il reato di tortura nel nostro codice penale”, ha dichiarato il presidente dell’Unione delle camere penali italiane Valerio Spigarelli a margine dell’incontro organizzato oggi alla Camera dall’associazione A Buon Diritto, al quale hanno preso parte, tra gli altri, Patrizia Moretti, Ilaria Cucchi e Lucia Uva. “Ecco perché - ha detto Spigarelli - colmare questo vulnus, che peraltro vede l’Italia inadempiente rispetto ai trattati internazionali, dovrà rappresentare una priorità per il parlamento non appena superata l’attuale fase di stallo”. Le Camere penali, ha ricordato il leader dell’Ucpi, sono attualmente impegnate, insieme a numerose altre organizzazioni, nella raccolta firme sui tre disegni di legge di iniziativa popolare che, oltre all’introduzione del reato di tortura, prevedono la modifica della normativa sulle droghe e il “ripristino della legalità” nelle carceri. Giustizia: Corte di Cassazione troppo buona con i pm? ma qualcuno avrà pure sbagliato! di Carlo Federico Grosso La Stampa, 19 aprile 2013 Dopo Amanda Knox e Raffaele Sollecito, anche Alberto Stasi è inciampato, in Cassazione, nell’annullamento della sentenza d’appello che lo aveva assolto. Con una peculiarità non da poco: nel suo caso, a differenza di quanto era accaduto nei confronti di Amanda e Raffaele, c’era stata una doppia assoluzione. Si erano trovati d’accordo sia il giudice di primo grado, sia quello di secondo. In punto di diritto ciò significa che il giudice di legittimità ha ritenuto, nella sostanza, che sia i primi sia i secondi giudici di merito hanno errato nel motivare la decisione presa: hanno deciso senza spiegare in maniera adeguata, ovvero motivando in modo palesemente contraddittorio o illogico. Tutto è possibile, ovviamente. E confido che i consiglieri che ieri mattina hanno depositato il dispositivo della sentenza dì annullamento sapranno spiegare in maniera convincente, nel redigere la stessa, le ragioni del loro annullamento. Ciò che è accaduto induce tuttavia qualche, doverosa, riflessione. Innanzitutto, il ripetersi di inchieste e di processi per omicidio volontario che si protraggono per anni con alterne vicende e sovente fra polemiche, e che, giunti in Cassazione, incappano nelle censure del giudice di legittimità non può’ non destare sconcerto nella gente comune e gettare, in un modo o nell’altro, ombre sul funzionamento della nostra giustizia penale. Qualcuno, infatti, dovrà pure avere sbagliato: il pubblico ministero che non ha saputo impostare in modo adeguato l’inchiesta, o i consulenti che non hanno saputo maneggiare con sufficiente perizia le prove scientifiche, o i giudici che non hanno saputo ricostruire i fatti, accertare la verità, valutare adeguatamente le prove. O, addirittura, la stessa Cassazione che, magari, si è lasciata trascinare in valutazioni di fatto che dovrebbero esserle inconferenti o non ha considerato con sufficiente ponderazione che, se non c’è prova certa di responsabilità penale, il giudice deve necessariamente assolvere. Proprio con riferimento a quest’ultimo profilo, il caso Stasi rivela aspetti che meritano una particolare attenzione. La Cassazione non è giudice “del fatto”, non può, cioè, censurare le valutazioni operate dai giudici di merito opponendo alla loro ricostruzione una sua diversa valutazione. In quanto giudice di legittimità essa può, soltanto, rilevare eventuali “violazioni di legge” o censurare vizi di motivazione, individuabili nella “mancata assunzione di una prova decisiva” ovvero nella “mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione”. Poiché gli avvocati, pur di procrastinare l’esecuzione penale nei confronti dei loro clienti, non rinunciano mai a ricorrere in Cassazione, e quando non hanno altri argomenti cercano di contrabbandare comunque per illogicità o contraddittorietà ciò che è, semplicemente, diversa valutazione dei fatti, la Corte è, di regola, molto rigorosa nel censurare gli sconfinamenti. Nei loro confronti fioccano pertanto, giustamente, le valutazioni di inammissibilità dei ricorsi e, quindi, le conferme delle condanne. Non vorrei che, quando a ricorrere siano i pubblici ministeri (contro le sentenze di assoluzione), le valutazioni divengano tuttavia più elastiche, più “comprensive”. I dubbi mi sono venuti leggendo, ieri, le cronache della requisitoria del Procuratore Generale: pur centrata, ovviamente, sui concetti della “illogicità” e della “incongruenza”, nonché della “mancata assunzione di prove decisive”, essa mi è comunque parsa zeppa di riferimenti ai fatti e alle valutazioni dei fatti (il movente, il panico, la bicicletta, il capello trovato nella mano sinistra, i primi due gradini della scala, ecc.), profili che dovrebbero, in teoria, esulare dalle discussioni davanti al giudice di legittimità. Si tratta, ovviamente, soltanto di dubbi, magari infondati. In casi di questo tipo, coltivare dubbi mi sembra, in ogni caso, un utile contributo al, doveroso, controllo sulla correttezza dell’esercizio dell’attività giudiziaria. Giustizia: Alberto Stasi, Amanda Knox e Raffaele Sollecito… nel limbo delle non-sentenze di Michele Ainis Corriere della Sera, 19 aprile 2013 Politica e giustizia, alle nostre latitudini, sono come cane e gatto. Litigano su tutto, perfino sull’esistenza stessa del litigio. C’è una caratteristica, però, che accomuna entrambi i contendenti: l’incapacità d’assumere qualsivoglia decisione. Ne è prova lo stallo che ha paralizzato il Parlamento, il governo, a quanto sembra pure il Quirinale. E sul fronte giudiziario, ne è prova una doppia sentenza, o meglio non-sentenza, della Cassazione. Che il 26 marzo ha annullato il verdetto d’assoluzione, reso dopo due gradi di giudizio, per Amanda Knox e Raffaele Sollecito. Insomma tutto da rifare, a distanza di 5 anni e 5 mesi dall’omicidio di Meredith Kercher. E che adesso ha concesso il bis sul delitto di Garlasco. Annullando l’assoluzione di Alberto Stasi, benché decretata da due diversi tribunali. Ordinando un nuovo processo d’appello. E lasciando perciò nel limbo vittime e colpevoli, 68 mesi dopo l’omicidio di Chiara Poggi. Domanda: ma c’è una logica in questo ping pong giudiziario? C’è ancora giustizia in quest’attesa perenne di giustizia? La risposta si legge in una massima della Corte suprema americana, dettata nel 1999: “Justice delayed, justice denied” (giustizia tardiva, giustizia negata). E noi italiani, sui ritardi giudiziari, non siamo in ritardo su nessuno. Tanto che la Banca mondiale ci colloca al 160º posto (su 185 Paesi) per la tutela giurisdizionale dei contratti. Che la durata media dei processi d’appello, nel 2011, è lievitata da 947 a 1033 giorni. Che quelli in primo grado, nel 2012, impegnavano 463 giorni. Più nel dettaglio, significa che in Italia un processo per sfratto si prolunga in media per 630 giorni (in Canada 43), mentre un contenzioso per incassare assegni a vuoto si conclude dopo 645 giorni (in Olanda dopo 39). Senza dire, per l’appunto, dei giudizi penali, come quelli in cui sono imputati Amanda Knox o Alberto Stasi. A forza di tirarla per le lunghe, prima o poi scatta la mannaia della prescrizione (130 mila casi l’anno scorso), e chi s’è visto s’è visto. Sulla lumaca giudiziaria pesa indubbiamente l’arretrato, che ha ormai raggiunto la cifra formidabile di 5,4 milioni di processi pendenti. Pesa la litigiosità degli italiani, che ogni anno innescano 180 mila nuove cause per baruffe condominiali. Pesa la lobby degli avvocati (236 mila, 5 volte in più rispetto alla Francia): più pende e più rende, come si suol dire. Pesa il costume di rinviare ogni processo alle calende greche, e infatti i rinvii colpiscono quotidianamente 7 processi su 10. Ma pesa inoltre, o forse soprattutto, un difetto strutturale, quello che consente d’appellare qualunque decisione, e poi d’aggiungere all’appello il contrappello. Una garanzia, almeno sulla carta. Però l’eccesso di garanzie si converte nel suo opposto, diventa privilegio per i ricchi, torto per i deboli. E in ultimo lascia la vittima a mani vuote, senza giustizia, senza risarcimento per l’offesa subita. Ecco perché l’appellabilità delle sentenze non è affatto una regola di ferro. In materia civile, la Spagna ne permette l’uso in casi circoscritti, e sempre che il valore della causa ecceda i 150 mila euro. Funziona così, più o meno, anche nel Regno Unito, in Germania, in Francia, negli Usa. Dove il giro di vite è ancora più stretto nella materia penale, perché soltanto i condannati a morte hanno diritto a una revisione automatica del giudizio. Gli altri possono richiederla soltanto a certe condizioni, sicché ne beneficia un imputato ogni 170. Mentre la Corte suprema riceve 80 casi l’anno, quando la nostra Cassazione ne assorbe 80 mila. Morale della favola: siamo il Paese del bicameralismo perfetto, del ricorso imperfetto. E in entrambi i casi c’è una norma costituzionale a proteggere l’ossimoro. Quanto alla giustizia, la contraddizione alberga nell’art. 111 della Carta, scritto nel 1947 ma riformulato dal centrosinistra nel 1999. Perciò adesso vi si legge, da un lato, che ogni processo deve avere una durata ragionevole; dall’altro, che ogni sentenza penale può venire impugnata in Cassazione. Come diceva Camus, l’assurdo è un peccato senza Dio. Giustizia: Franceschi fa proseliti tra i detenuti, nemmeno il carcere ferma il venetismo di Alessandro Cavallini Rinascita, 19 aprile 2013 Neanche il carcere assopisce lo spirito indipendentista del profondo Veneto. Luciano Franceschi, il noto militante indipendentista arrestato qualche mese fa dopo aver sparato al direttore della sua banca per avergli rifiutato un prestito, è stato trasferito dal carcere di Padova a quello di Treviso. Il motivo? Il consenso ottenuto tra gli altri detenuti, in particolar modo tra quelli extracomunitari. E siccome la situazione di degrado nelle carceri italiane è ben nota, il direttore temeva che un personaggio così carismatico potesse creare dei grossi fastidi nella gestione della struttura penitenziaria. Secondo le parole del fratello Enzo, in effetti la stima nei confronti di Franceschi era molto elevata: “Mi ha detto di aver trovato in carcere un ambiente accogliente e la solidarietà delle persone con le quali vive. Sono in 9 in una cella 4x4, hanno un bagno e una doccia e devono fare i turni. Se usa il bagno, deve prendere il numerino. Per i pasti si sono organizzati, perché fra i 9 in attesa di giudizio vi sono due cuochi professionisti. Fanno cassa comune acquistando nel negozio del carcere, ognuno mette 25 euro la settimana”. Solo che sembra che la stessa situazione si sia verificata anche nel carcere di Santa Bona a Treviso; sono già molti i detenuti ad aver dimostrato amicizia e solidarietà nei confronti di questo “leone in gabbia”. Anche perché è successo un fatto che ha portato ulteriore consenso a Franceschi. Dopo aver subito un attacco di angina pectoris ed essere stato ricoverato, una volta dimesso e rientrato in carcere ha deciso, per protesta, di rifiutarsi di assumere i farmaci che gli erano stati prescritti. Immediata è partita la solidarietà degli altri detenuti, che gli si sono stretti attorno in questa ennesima battaglia. E già si vocifera di un ennesimo cambio di destinazione per l’indipendentista veneto. Ma, date queste premesse, abbiamo grossi dubbi che si riuscirà a trovare una sede adatta a sbollire i suoi ardori. E, in un mondo come l’attuale, caratterizzato dalla più totale apatia e piattezza di valori, l’esempio di Franceschi non può che darci coraggio. Pur non condividendo le sue idee, apprezziamo il fatto che in Italia vi siano ancora uomini liberi pronti a lottare ed a subire angherie per difenderle. Ecco perché, idealmente, ci sentiamo anche in noi in dovere di appoggiare, almeno nello spirito, la protesta di Franceschi. Franceschi in carcere è un capopopolo giudicato pericoloso (Il Mattino di Padova) È bastato qualche giorno di detenzione nella cella numero 4 dell’”hotel 5 stelle” in via Due Palazzi 25/a - come lui stesso aveva scritto al Mattino di Padova il 20 febbraio scorso - e Luciano Franceschi era già un leader, un capopopolo, un carismatico e autorevole “compagno” seguito e considerato dai colleghi detenuti sia italiani (una minoranza) che stranieri (la stragrande maggioranza). Ecco perché il commerciante di Borgoricco è stato trasferito nel carcere di Treviso. La situazione nella struttura penitenziaria padovana - la casa circondariale dove si trovano i detenuti in attesa di giudizio o ancora sotto inchiesta - è al limite, con problemi di sovraffollamento che rendono le condizioni di vita insopportabili o quasi. Per accendere la “miccia” di una rivolta o di una protesta, basta un niente: la presenza di un personaggio come Franceschi - il cinquantatreenne finito dietro le sbarre per sequestro di persona e tentato omicidio con l’aggravante della premeditazione nei confronti del direttore della sua Banca Padovana di Credito Cooperativo di Campodarsego - non era una garanzia di tranquillità. Tutt’altro. Nonostante sia un indipendentista amico di Bepin Segato (il defunto esponente dei Serenissimi saliti sul campanile di San Marco a Venezia) e i pensieri “patrioti (è una sua definizione) siano sempre rivolti al Veneto, terra natale, la sua capacità di parlare al cuore degli altri detenuti anche extracomunitari è stata sorprendente. Ed è stata ritenuta “pericolosa”. A fine febbraio il fratello Enzo Franceschi, al quale Luciano aveva chiesto dei libri di Segato per farli studiare ai compagni, ha raccontato: “Mi ha detto di aver trovato in carcere un ambiente accogliente e la solidarietà delle persone con le quali vive. Sono in 9 in una cella 4x4, hanno un bagno e una doccia e devono fare i turni. Se usa il bagno, deve prendere il numerino. Per i pasti si sono organizzati, perché fra i 9 in attesa di giudizio vi sono due cuochi professionisti. Fanno cassa comune acquistando nel negozio del carcere, ognuno mette 25 euro la settimana”. A fine febbraio Franceschi arriva nel carcere Santa Bona di Treviso. E anche qui, con la sua personalità e la comunicativa, miete sentimenti di amicizia e di solidarietà che preoccupano e non escludono altri “traslochi” visto che non c’è struttura penitenziaria dove le condizioni di detenzione siano accettabili. È nel capoluogo trevigiano che Luciano viene colpito da un attacco di angina pectoris e ricoverato in ospedale. Tornato in cella, la sua protesta si manifesta con il rifiuto ad assumere farmaci, suscitando la stima degli altri detenuti. Intanto si avvia verso la chiusura l’inchiesta del pubblico ministero padovano Marco Peraro a carico di Franceschi che, la mattina dell’11 febbraio scorso, si presentò nell’ufficio del direttore generale per rinegoziare il suo fido. Richiesta impraticabile per il direttore Pier Luigi Gambarotto: allora lui impugnò una pistola calibrò 7.65 e sparò due colpi durante una colluttazione. Il direttore aveva reagito di fronte al tentativo del cliente di prenderlo in ostaggio. Giustizia: caso Aldrovandi, silurato il questore di Ferrara di Luigi Spezia La Repubblica, 19 aprile 2013 Il ragazzo morto a seguito di un controllo delle volanti. Dopo le polemiche sul sit-in dei poliziotti il ministro Cancellieri aveva inviato gli ispettori: scatta il trasferimento. La protesta del piccolo sindacato di polizia Coisp sotto l’ufficio della madre di Federico Aldrovandi costa caro al questore di Ferrara. Luigi Mauriello viene trasferito a Roma, all’ufficio ispettivo del Dipartimento della Pubblica Sicurezza. Non è il primo questore che se ne va nella bufera. La stessa sorte capitò al questore di allora, Elio Graziano, dopo aver assicurato che i suoi agenti avevano agito con correttezza, nonostante la morte del ragazzo di 18 anni fermato con la forza la notte del 25 settembre 2005. Dal Dipartimento, hanno fatto sapere che quello di Mauriello è “un normale avvicendamento all’interno di una serie di rotazioni di dirigenti”. Ma al di là delle forma, pesa la manifestazione del 27 marzo scorso nel centro di Ferrara, sotto il municipio dove la madre di Federico, Patrizia Moretti, lavora. A Ferrara, lo sanno tutti che è lì il suo ufficio. Ed è proprio lì che gli agenti del sindacato Coisp hanno piantato un presidio, regolarmente segnalato in questura, dalla quale non è giunta alcuna disposizione o limitazione. Una tappa di un tour in furgone organizzato dal sindacato, per chiedere la concessione delle misure alternative ai quattro colleghi condannati in Cassazione a 3 anni e 6 mesi, finiti in carcere con un duro provvedimento del Tribunale di Sorveglianza di Bologna. Intervenne il sindaco di Ferrara Tiziano Tagliani, ci fu una baruffa con un europarlamentare del Pdl. La madre rattristata e offesa scese giù in piazza, mostrò una gigantografia del figlio morto per reagire alla provocazione. Il ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri, che il 22 aprile verrà a Bologna a concedere a Patrizia Moretti la cittadinanza onoraria, disse che quel manipolo di agenti “non rappresentano la Polizia” e che, pur nel rispetto dei diritti sindacali, quella manifestazione era “moralmente condannabile”. Il ministro inviò tre ispettori alla questura di Ferrara per accertare “le responsabilità della manifestazione e di chi ha concesso lo spazio”. L’ispezione non ha mosso accuse formali a Mauriello, ma ragioni di opportunità avrebbero dovuto far ritenere che quella iniziativa, in quelle condizioni ambientali, non sarebbe stato il caso di farla, almeno non in quel modo. La madre di Federico, alla notizia del trasferimento del questore, ha detto ieri di essere “soddisfatta che ci siano controlli all’interno delle forze dell’ordine. Mi rendo conto che era solo una questione di opportunità, però anche questo è un elemento molto importante nei rapporti fra le persone, ancor di più quando ci sono di mezzo le istituzioni”. Patrizia Moretti raccontò che dopo il presidio, il questore Mauriello la chiamò, per garantirle che si era trattato solo di “un equivoco”, che il sindacato non sapeva davvero che lì vicino ci fosse il suo posto di lavoro. Reagisce in senso contrario il Coisp: “Sarebbe gravissimo - dice il segretario Franco Maccari - se lo spostamento del questore fosse collegato al comportamento che ha tenuto in occasione della manifestazione. Il suo è stato un comportamento istituzionalmente corretto”. Il Coisp, isolato, non si dà vinto. Rivendica la giustezza della sua manifestazione “per chiedere parità di trattamento per i colleghi” Firenze: il Garante dei detenuti Margara; chiusura Opg di Montelupo non più rinviabile Ristretti Orizzonti, 19 aprile 2013 Dalle sale del consiglio regionale un appello a fare in fretta. Entro il 15 maggio le regioni Liguria, Sardegna e Umbria dovranno decidere le sorti di 50 persone che si trovano all’Ambrogiana. Chiudere gli ospedali psichiatrici giudiziari, fra cui quello toscano di Montelupo Fiorentino, è una scelta non più rinviabile. Non bisogna tornare indietro e tantomeno ricorrere a soluzioni “gattopardesche”: non avrebbe senso ricreare manicomi più piccoli, limitandosi a cambiare le etichette e i luoghi dove ospitare le persone. Questo è il messaggio emerso, in maniera unanime, dalle tante voci di esperti e addetti ai lavori che si sono confrontati oggi nell’ambito del convegno “Le persone, gli spazi”, svolto in Consiglio regionale. Organizzato dal Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale Alessandro Margara, in collaborazione con la Fondazione Giovanni Michelucci e il Centro Franco Basaglia, l’appuntamento aveva l’obiettivo di sollecitare con un impegno collettivo la rapida chiusura dell’Opg di Montelupo fiorentino e l’adozione di percorsi di assistenza alternativi. Come ha sintetizzato in apertura Bruno Benigni, presidente del centro Franco Basaglia, “il problema è così complesso che nessuno può risolverlo da solo. Siamo qui per confrontarci, cooperare e creare integrazione fra le varie realtà”. Il 25 marzo scorso, lo ricordiamo, è arrivata con decreto legge del governo nazionale una nuova proroga di un anno (il primo termine era il 2008) per la chiusura degli Opg: la data è stata fissata al 1 aprile 2014. Ma come hanno spiegato gli addetti ai lavori, adesso finalmente esistono tutte le condizioni, dopo cinque anni, per il superamento di queste realtà: ci sono le normative, i finanziamenti, le tipologie assistenziali e i vincoli. È importante dunque che le Regioni, a cui sono passate le competenze, provvedano concretamente a programmare soluzioni alternative rispettando la nuova scadenza. È previsto che tutte, senza eccezioni, programmino i rientri degli internati nei loro territori di provenienza con progetti di fattibilità da presentare al Ministero entro il prossimo 15 maggio. Da Montelupo Fiorentino, che oltre a cittadini toscani ospita internati provenienti da Liguria, Sardegna e Umbria, circa cinquanta persone devono rientrare nelle regioni di provenienza, mentre i toscani ricoverati sono quaranta. Come ha ricordato Bruno Benigni, “i progetti di guarigione si svolgono nell’ambito delle relazioni; per questo deve essere attivata una rete di servizi in cui le persone possano ritrovare il senso di vivere. Non è pensabile ricreare manicomi in veste più piccola”. Bisogna quindi partire dall’ambito territoriale del paziente, senza sottovalutare però un grave rischio, come è stato evidenziato dal Garante dei detenuti della Toscana Alessandro Margara e dal presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze Antonietta Fiorillo: quello di “doppi binari” e destini diversi per i cittadini toscani e quelli di altre regioni. Margara, che ha concluso nel pomeriggio il convegno, ha voluto sottolineare che “è necessario lavorare in due direzioni, creare progetti alternativi per i cittadini toscani e attivarsi per l’effettivo rientro, in condizioni analoghe, degli internati di Montelupo che provengono da Sardegna, Liguria e Umbria”. Anche secondo Carmelo Cantone, provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria della Toscana, è necessario appoggiare con forza il percorso di chiusura, pur non mancando le preoccupazioni che si arrivi “ad avere più proroghe qui che per la legge Merli”. Dagli organizzatori del convegno è stato sottoscritto un documento, dal titolo “Per una scelta di civiltà giuridica e umana: la chiusura dell’Opg di Montelupo”, che pone alcuni punti fermi: il rispetto della dignità della persona, i principi che l’ambito territoriale costituisce la sede privilegiata per affrontare i problemi di salute, di cura e di riabilitazione, che il diritto alla salute e il diritto alla sicurezza non devono essere in contrasto tra loro, che il progetto della Regione deve essere ispirato alla massima trasparenza e pubblicità. Quanto al progetto della Regione Toscana, Simone Siliani, dell’Ufficio di gabinetto del Presidente della Giunta, ha delineato obiettivi e priorità: rientro nella rete dei servizi territoriali con percorsi riabilitativi personalizzati e ricorso temporaneo a strutture che facilitino il reinserimento; individuazione, per i casi necessari, di strutture a più forte protezione come ricoveri transitori, strutture extra ospedaliere con sorveglianza parziale organizzate per Aree vaste. Le alternative all’Opg, in definitiva, non solo sono doverose, ma sono possibili e sono già state sperimentate. A questo è stata dedicata tutta la seconda parte del convegno: a far conoscere, attraverso la proiezione del documentario di Stefano Dei “Itinerari. Da internati in Opg a cittadini” e le testimonianze di addetti ai lavori (fra gli altri Mario Iannucci responsabile della residenza “La Querce” di Firenze, Vito D’Anza direttore del dipartimento di salute mentale di Pistoia, Mario Serrano del dipartimento di salute mentale di Livorno, Alessandro Guidi della residenza Tiziano di Aulla, Asl 1) sulle esperienze realizzate. In contemporanea al convegno è rimasta visitabile fino alle 19 la mostra fotografica di Franco Guardascione “Internauti - Viaggio fotografico all’interno degli ospedali psichiatrici giudiziari”. Una galleria di immagini che, come ha spiegato il direttore della Fondazione Giovanni Michelucci, Corrado Marcetti, è frutto di un lavoro durato quattro anni e testimonia, come già nel 1969 le celebri immagini di Gianni Berengo Gardin, un’Italia da molti dimenticata. Nuoro: chiusura degli Opg; l’Asl 3 è stata la prima in Italia a riportare i pazienti “a casa” di Valeria Gianoglio La Nuova Sardegna, 19 aprile 2013 “C’è voluto un anno e mezzo, ma alla fine siamo riusciti a riportarli tutti a casa, ovvero nella nostra provincia. Siamo stati la prima Asl in Italia, a farlo”. Severino Casula e Gianfranco Seddone, i due psicologi del dipartimento di salute mentale dell’Asl sono giunti al termine di un percorso costato impegno e fatica ma ricco anche di mille soddisfazioni. “Ora - spiegano - i nostri pazienti sono finalmente usciti dagli Opg e sono ricoverati nelle comunità terapeutiche di Lanusei, Ghilarza e Uta. Ora seguiranno un periodo di prova stabilito dal tribunale, al termine sarà lo stesso tribunale a stabilire se sono pronti a tornare nelle loro case”. “Gli Opg - lo psicologo Casula lo aveva spiegato anche nel corso di un recente convegno - dal 1975 sono stati e sono tutt’ora manicomi sopravvissuti allo smantellamento del sistema che era stato disposto dalla legge Basaglia. Ma in tutti questi anni, purtroppo, nessuna di queste strutture ha rispettato lo spirito per il quale era nata la legge Basaglia”. Il caso di Giovanni Carta In sei anni, a girare per l’Italia da un ospedale psichiatrico giudiziario e l’altro, per raggiungere il figlio Giovanni e portargli un po’ di aria di Sardegna insieme a qualche foglio di pane carasau, mamma Margherita Carta, orunese trapiantata a Nuoro, ne ha viste di tutti i colori. Ma quella che le è rimasta più sul groppone, ce l’ha ancora stampata in testa anche se ormai ha imparato a prenderla con filosofia. “Qualche settimana prima della visita - racconta - avevo mandato via posta un pacco a Giovanni. Dentro avevo messo anche un bel paio di scarpe da tennis, di quelle che piacciono a lui, erano un paio di Nike ultimo modello, e per personalizzargliele ancora di più, gli avevo scritto il suo nome “Giovanni” su un fianco. Qualche tempo dopo sono andata in visita da Giovanni, all’Opg, entro nella sala dove si ricevono i familiari, e gli chiedo “Giovà, e le scarpe non ti sono arrivate?”. “No”, mi ha detto lui. “Strano” gli ho detto. Dopo un minuto mi giro e, allibita, ho visto una delle guardie dell’ospedale giudiziario con indosso le scarpe di mio figlio. Gliele aveva prese dal pacco”. In sei anni di continui pellegrinaggi da un ospedale psichiatrico giudiziario e l’altro, per inseguire il suo adorato figlio Giovanni, mamma Margherita ha visto sparire un consistente mucchio di oggetti, dai pacchi che inviava oltre Tirreno. Una volta spariscono le Nike, una volta i dolcetti, una volta, con la scusa ai confini del ridicolo che “i pazienti ci si possono tagliare”, sparisce persino il pane carasau. Ci ride un po’ su, mamma Margherita. Adesso che finalmente è tutto finito, riesce a raccontarlo persino con un po’ di distacco. Adesso che la sua personale odissea tra gli Opg di mezza Italia costata un mucchio di soldi, dolore e fatica, è conclusa, può abbracciare Severino Casula e Gianfranco Seddone, i due psicologi del dipartimento di salute mentale dell’Asl che in questi lunghi anni l’hanno seguita con professionalità e affetto, e sorridere. Il suo Giovanni - chiuso in un Opg dal 2006, in seguito a un terribile raptus finito con la morte del padre Stefano, nella casa del rione di Pred’istrada - è stato uno dei 14 nuoresi che l’Asl numero 3, prima in Italia, è riuscita a far uscire dagli ospedali psichiatrici giudiziari sparsi nella Penisola e riportare a casa, in una delle comunità di recupero della Sardegna. “Chi non ha vissuto questa esperienza, non può capire cosa sia un Opg - dice mamma Margherita, insieme ai due psicologi dell’Asl, Severino Casula e Gianfranco Seddone - perché mio figlio, in questi anni, avrebbe dovuto affrontare un percorso di cura e recupero, e invece, in sostanza, tranne brevi visite, non ha ricevuto alcun sostegno, se non qualche farmaco che lo sedava o stordiva. Per questo sono contenta che queste strutture siano tutte sulla via della chiusura. Perché io, in questi sei anni, ne ho viste troppe”. Giovanni e il suo bel faccione da ragazzo che ha ancora tanta voglia di crescere sono usciti dall’Opg di Reggio Emilia qualche giorno fa. E sono usciti dal retro. “È stata una scena emozionante e inaspettata - raccontano Margherita Carta e i due psicologi - siamo andati a Reggio a prenderlo, lo aspettavamo da un ingresso e lui è uscito da un altro. Aveva un carrello e un paio di buste nere con tutta la sua roba dentro. Come ci ha visto, ci ha fatto un sorriso grande così e ci ha abbracciato. Lo hanno fatto uscire con indosso i vestiti che aveva qualche settimana prima. Tant’è che abbiamo dovuto comprarne altri sul momento. Sino all’ultimo, dunque, gli hanno rubato le cose dai pacchi. È stata solo la classica goccia di una lunga esperienza tra gli Opg. Li ha girati tutti, Giovanni, e ogni volta che lo spostavano - dice mamma Margherita - lo sapevo solo grazie a un sacerdote che mi avvisava, padre Pippo. Ma adesso, per fortuna, è tutto finito”. Teramo: detenuto 35enne morto in cella per un malore, il pm chiede i certificati medici Il Centro, 19 aprile 2013 Detenuto morto in carcere per un malore: la procura fa acquisire tutta la documentazione sanitaria che lo riguarda presente nei carceri in cui l’uomo è stato detenuto. Non solo Teramo, manche Pescara e Regina Coeli. Prosegue, dunque, l’inchiesta aperta dal pm Stefano Giognoni sulla morte di Vincenzo Fabiano, il 35enne pescarese stroncato in cella da un edema polmonare acuto causato da probabili scompensi cardiaci. L’obiettivo del magistrato è quello di accertare se nelle strutture penitenziarie siano stati presi tutti gli accorgimenti possibili dovuti alle condizioni di salute dell’uomo. Secondo i suoi familiari le precarie condizioni del giovane, che sarebbero state attestate da numerosi certificati, imponevano da tempo il ricovero in una struttura sanitaria. Una decisione che il tribunale di sorveglianza avrebbe dovuto prendere qualche giorno dopo la morte dell’uomo. Il caso di Fabiano è stato più volte portato all’attenzione dell’opinione pubblica dai radicali. E gli stessi radicali ne torneranno a parlare, nell’ambito della questione del sovraffollamento delle carceri, durante la due giorni di convegno in programma domani e domenica a Giulia-nova alla presenza, tra gli altri, di Marco Pannella e Emma Bonino. Il tema dell’incontro sarà “Governare la crisi della giustizia italiana: primo l’amnistia”. Interverranno Pannella, Giovanni Legnini deputato Pd, Paolo Tancredi deputato PdL, Maurizio Turco, Sergio D’Elia, Vincenzo di Nanna, Berardo Rabbuffo, consigliere regionale Fli, Giampiero Cordoni segretario regionale Sinappe, Giuseppe Rossodivita, Rita Bernardini, e il giudice Giovanni Cirillo. Trani: Sindaco conferisce cittadinanza onoraria a tutti i lavoratori e detenuti delle carceri www.radiobombo.com, 19 aprile 2013 “Un’iniziativa senza precedenti”. Lo ha rivelato nel castello svevo il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Giovanni Tamburino, nel corso della cerimonia di conferimento della cittadinanza onoraria di Trani agli istituti penitenziari maschile e femminile presenti in città. Dunque, un gesto inedito e che lo stesso capo del Dap ha qualificato come “un atto d’amore”, citando persino la parabola di quel buon samaritano “che non si volge dall’altra parte e, invece, decide di assistere il prossimo. Questa - ha affermato Tamburino - è una scelta di solidarietà sia verso chi nelle carceri lavora, sia nei confronti della stessa popolazione dei detenuti, il vero fine del nostro lavoro”. Il sindaco, Gigi Riserbato, ha a sua volta posto in risalto il fatto che “questo riconoscimento è nato e si è sviluppato senza alcuna mediazione istituzionale, in un clima di piena condivisione che ne ha reso naturale ogni passaggio. Il nostro - ha detto il primo cittadino - è un debito di gratitudine, la vostra adesso, sarà un’assunzione di responsabilità verso una città che vi accoglie a braccia aperte”. Presenti, inoltre, Margherita Pasquale, direttore del castello, Vincenzo Paccione, comandante della Polizia penitenziaria di Trani, Salvatore Bolumetti, direttore dei penitenziari cittadini, Giuseppe Maralfa, sostituto procuratore di Trani, Maria Giuseppina D’Addetta, presidente del Tribunale di sorveglianza di Bari, Giuseppe Martone, Provveditore regionale, Francesco Ventola, presidente della Bat, Carlo Sessa, Prefetto. La manifestazione è stata la diretta conseguenza della delibera approvata dal consiglio comunale, all’unanimità, il 29 ottobre 2012. “Perché il carcere ha sempre conservato - è la motivazione - una funzione di grande rieducazione della pena. Dobbiamo, quindi, credere che questa istituzione, presente a Trani da tanti anni, sia un’assoluta ricchezza della nostra città e meriti questo gesto simbolico della cittadinanza onoraria”. L’istituzione del carcere a Trani risale addirittura al 1509, quando la prima destinazione fu data al Castello svevo. Ma essa durò brevemente. Nel 1844, invece, la sede federiciana divenne definitiva e durò, come dicevamo, fino al 1974, data in cui il carcere maschile si trasferì presso la sede di via Andria. L’altra casa di reclusione, quella di San Domenico (già convento carmelitano), fu impiegata quale luogo di espiazione femminile a partire dalla seconda metà del 1800. Ascoli: i detenuti di Marino del Tronto preparano le spiagge per i ponti di maggio Ristretti Orizzonti, 19 aprile 2013 Spiagge pulite grazie al lavoro dei detenuti del carcere di Marino del Tronto. Con la primavera, tornano le Eco-Day per i ragazzi della Casa Circondariale e la prima giornata della stagione si è svolta ieri nel comune di Grottammare (AP), organizzata dall’assessorato alle Politiche sociali in collaborazione con la direzione e il comando dell’Istituto, la redazione del periodico del carcere “Io e Caino”, il servizio Manutenzioni e la Picenambiente Spa. L’iniziativa ha visto impegnati sei detenuti accompagnati dalla direttrice Lucia Di Feliciantonio, da agenti della polizia penitenziaria e dal direttore del giornale, Teresa Valiani, e dà concretezza ai contenuti dell’accordo di programma firmato nel dicembre 2011 tra il Comune e la direzione della casa circondariale per la realizzazione di attività di reinserimento di soggetti detenuti in attività di volontariato finalizzate alla restituzione sociale. La giornata è iniziata alle 9 con la pulizia della spiaggia e si è conclusa alle 18 sui viali della zona collinare. Durante la pausa pranzo il gruppo è stato ospite dello chalet “Da Mario” che ha offerto il pasto. “Abbiamo approfittato di questa collaborazione per preparare le nostre spiagge ai ponti festivi del 25 aprile e del primo maggio”, afferma l’assessore alle politiche sociali, Daniele Mariani. “Con piacere ricordo che questa è la terza giornata ecologica, dopo la firma del protocollo di intesa avvenuta il 10 dicembre 2011 con la direzione del carcere. Questa iniziativa è un modo per rafforzare l’attenzione sulle problematiche di inclusione sociale, per dare una possibilità in più alle persone ristrette ed è a costo zero per l’ente, anzi, colgo l’occasione per ringraziare i giovani gestori del ristorante chalet Da Mario, che ci hanno ospitato con grande cordialità”. Varese: nasce un progetto per sostenere la funzione genitoriale dei padri detenuti www.laprovinciadivarese.it, 19 aprile 2013 Questo il progetto che a maggio partirà all’interno del carcere Miogni di Varese, rivolto a un gruppo di 10 carcerati con figli di età compresa tra i 3 e i 9 anni e con una durata di pena, ancora da scontare, superiore a un anno. Spesso, mantenere una relazione costruttiva nei confronti dei propri figli se si è detenuti in carcere non è cosa semplice. Soprattutto, perchè alcuni dei detenuti non ha la possibilità di condividere la quotidianità con i propri figli, perchè incarcerati ancor prima della loro nascita. Così, la Consulta Femminile Provinciale si è attivata per promuovere un’iniziativa che vuole supportare le relazioni famigliari a beneficio dei minori e dei detenuti. Attraverso un percorso psico terapeutico, il genitore detenuto avrà la possibilità di capire come meglio rapportarsi al proprio figlio e, di conseguenza, anche alla compagna durante gli incontri bisettimanali a loro concessi per gestire al meglio questo tempo a disposizione. Ma anche di ricercare nuove modalità di relazione, nel caso quelle preesistenti siano risultate disfunzionali. “Mantenere i rapporti con la propria famiglia - spiega Maria Mongello, responsabile delle attività educative in carcere - costituisce una tappa di vita importante nel percorso riabilitativo e risocializzante del detenuto”. All’interno della Consulta Femminile Provinciale sono state numerosissime le associazioni che si sono spese per raccogliere fondi per finanziare il progetto e per recuperare giocattoli e cartoleria di vario genere destinati ai figli dei carcerati che verranno utilizzati per facilitare la relazione durante i momenti di visita. “Questo progetto - conclude Gianfranco Mongello, direttore del carcere - si inserisce nella cornice di iniziative messe in campo dal personale del Miogni per cercare di rendere il più accogliente possibile lo spazio dedicato alle visite con i propri figli e far sì che il momento della visita possa essere di beneficio per entrambi”. Pistoia: clienti Coop fanno spesa per il carcere, raccolti e donati generi di prima necessità Il Tirreno, 19 aprile 2013 Significativa raccolta di generi di prima necessità nei giorni scorsi al punto vendita Unicoop di viale Adua. Soprattutto prodotti per l’igiene e la cura della persona, sono stati raccolti e destinati ai detenuti del carcere di Pistoia: dentifrici e spazzolini da denti, bagno schiuma e shampi, saponi, saponi da barba, rasoi usa e getta e pennelli per la barba, carta igienica, spugne, asciugamani, fazzoletti di carta, guanti in gomma, cenci per pulire i pavimenti, rotoli di carta da cucina, piatti di plastica, biancheria, ma anche uova e colombe pasquali. Tutti prodotti acquistati da clienti del supermercato interessati a contribuire all’iniziativa dal titolo “Oggi penso anche a te”, evento promosso da sezione soci Coop di Pistoia, presieduta dalla professoressa Dora Donarelli, dalla direzione della Casa circondariale “Santa Caterina in Brana”, dal Garante delle persone private della libertà personale del Comune Antonio Sammartino, e dalla cooperativa sociale Il Delfino, con il coinvolgimento di studenti di scuole secondarie superiori pistoiesi che si sono occupati dell’acquisizione del materiale presso il punto di raccolta appositamente allestito. Qui i cittadini partecipanti hanno ricevuto un elenco dei prodotti non alimentari acquistabili e di maggior uso da parte della popolazione detenuta. “Anche a causa del provvedimento di spending review per la Casa circondariale è più difficile approvvigionarsi dei beni di prima necessità, come quelli per l’igiene della persona, ed in tempi ragionevoli - dichiara il direttore, Tazio Bianchi - per questo l’istituto ha pensato a rapportarsi con il territorio locale ed abbiamo individuato in Unicoop Firenze e nella sua sezione soci di Pistoia interlocutori sensibili alla questione. Il materiale raccolto è stato valutato dal nostro servizio Ragioneria, facendone un resoconto, e poi fornito ai detenuti indigenti che purtroppo sono molti”. Il direttore Tazio Bianchi è stato anche presente personalmente presso il punto di raccolta alla Coop in uno dei giorni nei quali si è tenuta l’iniziativa. Hanno seguito l’iniziativa Marcello Degl’Innocenti per la sezione soci , mentre per la Casa circondariale Liliana Lupaioli funzionaria pedagogica, Carmela Scano contabile e Rosalba Sciarretta educatrice. Reggio E.: indagini su presunto pestaggio detenuto; indagati 11 agenti, che negano addebiti di Tiziano Soresina La Gazzetta di Reggio, 19 aprile 2013 È già battaglia legale sulla delicata indagine che vede 11 agenti di polizia penitenziaria indagati per il pestaggio - all’interno del carcere della Pulce - di uno dei ladri georgiani (il 19enne Guran Shatirishvili) accusato e già condannato in primo grado per concorso nel tentato omicidio di un poliziotto nelle cantine del complesso residenziale di via Mantegna. Il pm Maria Rita Pantani - che coordina l’inchiesta della Mobile sulle botte in carcere - ha chiesto al gip un incidente probatorio che coinvolge tutti gli indagati messi di fronte al giovane georgiano per il riconoscimento e la specificazione dei vari ruoli relativamente ai due episodi (del 9 e 10 luglio scorso). Una richiesta a cui i tre difensori delle guardie carcerarie - cioè gli avvocati Liborio Cataliotti (assiste tre agenti), Federico De Belvis (ne tutela quattro) e Donata Cappelluto (ne assiste tre) - si sono opposti presentando altrettante memorie. Sul punto - l’incidente probatorio viene utilizzato per “cristallizzare” le prove in vista di un eventuale processo - il gip non si è ancora espresso. “Gli agenti di polizia penitenziaria negano totalmente e fermamente la fondatezza delle accuse, totale estraneità ai fatti”: è la replica dei difensori al capo d’imputazione (lesioni pluriaggravate in concorso, con l’aggiunta di tutta una serie di aggravanti: l’aver agito per futili e abietti motivi, l’aver commesso il reato con abuso di autorità, ma anche approfittando dello stato d’inferiorità della vittima che è incarcerata). Sui motivi dell’opposizione all’incidente probatorio si sofferma l’avvocato Cataliotti: “Non esistono i requisiti d’urgenza, perché il 19enne in questi mesi in carcere ha avuto modo di focalizzare le immagini, inoltre non c’è il pericolo che sparisca, perché è detenuto a Modena e non uscirà certo a breve (è stato condannato a 8 anni e 8 mesi di reclusione, ndr)”. Gli fa eco l’avvocato De Belvis: “Non c’è il pericolo di dispersione della memoria, perché la presunta vittima è giovane, non è un 80enne. Questa è una prova che tutt’al più deve essere realizzata a processo”. L’inchiesta del pm Pantani è volta ad accertare se, come ha raccontato, per almeno due volte il 19enne Guran Shatirishvili, sia stato picchiato in un corridoio, quindi fuori dalla cella, durante la sua permanenza alla Pulce. Siamo di fronte a una sorta di solidarietà manesca fra poliziotti che hanno voluto farla “pagare” al giovane georgiano, arrivando al punto di fratturargli una costola? Si tratta di una sorta di vendetta fra colleghi contro chi ha rischiato concretamente di uccidere un poliziotto? Sono gli interrogativi a cui ora gli investigatori e la procura stanno cercando di trovare una risposta e le indagini sono partite quando, in carcere, venne intercettato un colloquio fra il 19enne e la madre. Gli inquirenti cercavano di “captare” i nomi dei complici sfuggiti alla cattura in via Mantegna, invece sentirono la donna chiedere al figlio: “Ma ti picchiano ancora?”. Malorni (Sappe): solidale coi colleghi, in vent’anni mai fatti simili “Sono vent’anni che lavoro nel carcere della Pulce, ma non sono mai venuto a conoscenza di fatti simili. Quest’indagine? L’ho appresa leggendo la Gazzetta”. Michele Malorni - segretario provinciale del Sindacato autonomo della polizia penitenziaria (Sappe) - pesa le parole, ma sostanzialmente è solidale con i colleghi ora indagati per le botte al detenuto georgiano. “Ho la massima fiducia nell’operato della magistratura perché so che valuterà col giusto equilibrio la vicenda. Penso che alla fine tutti gli appartenenti al corpo verranno prosciolti”. Il segretario del maggior sindacato di categoria parla di grande professionalità della polizia penitenziaria. “In carcere a Reggio - prosegue Malorni - gli agenti si sono distinti negli anni per aver affrontato situazioni non facili come disordini fra detenuti o tentativi di suicidio, agendo nel rispetto delle norme, garantendo ordine, disciplina e sicurezza”. Interventi professionali, in un contesto a dir poco difficoltoso, come dicono i “numeri” riepilogati dal sindacalista. “Il nostro organico è carente di una cinquantina di unità - conclude il segretario reggiano del Sappe - fra agenti, ispettori e sovrintendenti. Non è davvero facile operare in una cronica carenza di personale, a fronte di una popolazione carceraria di circa duecento fra detenuti della casa circondariale e internati dell’ospedale psichiatrico giudiziario”. Sassari: la Garante Cecilia Sechi; il detenuto belga voleva morire ed essere sepolto qui La Nuova Sardegna, 19 aprile 2013 Jacques Deker, il detenuto belga di 66 anni, morto di recente, non si è mai voluto sottoporre a quegli accertamenti specialistici che avrebbero cambiato la sua detenzione. Specie se fosse emerso che le sue condizioni di salute fossero incompatibili con il regime carcerario. Lo sostiene Cecilia Sechi, garante dei detenuti, che insieme agli operatori del carcere di San Sebastiano e al magistrato di sorveglianza, si è occupata spesso della complessa vicenda. “Il detenuto è morto all’ospedale Santissima Annunziata di Sassari - ha raccontato Cecilia Sechi - dove era ricoverato da una settimana dopo il trasferimento dal centro clinico del carcere. Il decesso, secondo i medici, è stato causato da un infarto intestinale a seguito di una complicazione acuta. Da quello che risulta, non gli era mai stato diagnosticato un tumore al pancreas, e nonostante le sollecitazioni non aveva voluto sottoporsi a un intervento per la biopsia. Neppure quando era stato trasferito in un centro clinico a Verona”. Padre di quattro figli, da due matrimoni diversi, l’uomo - che stava scontando una condanna a 12 anni e 4 mesi per traffico di droga - secondo il garante non ha mai voluto lasciare Sassari, anche se aveva manifestato il desiderio di incontrare i due ragazzi in Belgio. “Tra il 2011 e il 2012 - ha spiegato Cecilia Sechi - aveva avuto anche il differimento della pena per un anno circa. Per un po’ era andata bene, veniva anche regolarmente in carcere per i colloqui con la seconda moglie, detenuta anche lei. Poi non aveva rispettato alcune prescrizioni e il beneficio era stato revocato”. Il garante ha anche ricordato che la vicenda di Jacques Deker non è mai stata sottovalutata, come forse può emergere dalla complessità della vicenda che - dentro un carcere - si porta dietro una massa di difficoltà aggiuntive. “È vero che il suo desiderio era di incontrare i figli rimasti in Belgio - ha concluso Cecilia Sechi - ma è altrettanto vero che Deker, nel periodo in cui si è aggravato, ha espresso la volontà di morire a Sassari. Di questo sono stati informati i figli che, infatti, sono arrivati in città e hanno partecipato ai funerali. Deker aveva comunicato alla moglie la decisione di essere sepolto a Sassari. La sua volontà è stata rispettata”. Bolzano: Artioli (Lega); carcere degradato va chiuso, pericolo per salute agenti e detenuti Ansa, 19 aprile 2013 Elena Artioli, consigliere regionale della Lega Nord Suedtirol, chiede al governatore Luis Durnwalder e all’assessore Richard Theiner di chiudere, per degrado, il carcere di Bolzano. “Sono a rivolgermi cortesemente a Voi - dice - per sollecitarvi, in quanto detentori delle supreme cariche istituzionali riguardanti la protezione civile e la sanità della nostra Provincia, ad intervenire urgentemente per far fronte al degrado insostenibile del carcere di Bolzano. Ci sono - denuncia Artioli - zecche e topi, pareti di muffa, celle sovraffollate, agenti in malattia a causa delle zecche, scarsa pulizia, l’igiene lascia a desiderare. La salute di chi sta lì dentro, siano essi detenuti, o guardie carcerarie, è in pericolo. La struttura è fatiscente. Sono assenti tutte le più moderne infrastrutture che garantiscono la sicurezza del personale e il non contatto con i detenuti. Aggiungiamoci poi gli annosi problemi della struttura: mancanza di attrezzature, di finanziamenti per interventi di manutenzione, perfino della cancelleria. Insomma, è una situazione di emergenza”. Reggio Emilia: Sappe; 47 grammi eroina sequestrati in cella, serve supporto unità cinofile Ansa, 19 aprile 2013 47 grammi di eroina, già tagliata e pronta per essere spacciata all’interno del carcere, sono stati sequestrati in un’operazione della polizia penitenziaria nella casa circondariale di Reggio Emilia. Lo ha reso noto Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto Sappe (Sindacato autonomo polizia penitenziaria). “Un agente in servizio nel settore imputati, dove erano ristretti detenuti per fatti di droga - spiega Durante - dopo un’attenta operazione di vigilanza e osservazione si è accorto che un detenuto di origine magrebina ha tentato di lanciare un mandarino da una cella all’altra. L’agente ha avvisato il comandante che, insieme ad altri operatori, si è recato nel reparto ed ha coordinato una perquisizione in due celle, nelle quali erano ristretti quattro detenuti di origine tunisina, due dei quali per reati riguardanti fatti di droga e altri due per omicidio e rapina. Durante la perquisizione sono stati rinvenuti i 47 grammi di sostanza, rivelatasi poi eroina”. I quattro detenuti sono stati denunciati all’autorità giudiziaria e subito dopo trasferiti dal Provveditorato regionale in altre carceri della regione. “L’operazione - aggiunge il sindacato - ha ingenerato malumore tra i detenuti, uno dei quali ha posto in essere atti di autolesionismo, motivo per il quale è stato trasferito in ospedale, per le cure del caso. Al personale di polizia penitenziaria va il nostro plauso per l’encomiabile lavoro svolto”. Il Sappe ricorda che in Emilia-Romagna i detenuti tossicodipendenti sono 842, pari al 24,27% dei presenti. Nella casa circondariale di Reggio Emilia la percentuale sale al 29,37%, pari a 74, per un totale di oltre 250 detenuti presenti. “Bisogna altresì ricordare - dice Durante - che la polizia penitenziaria dell’Emilia-Romagna opera ancora senza l’ausilio delle unità cinofile, previste dal 1995 e mai realizzate. In Italia sono presenti solo in sei regioni”. Castrovillari (Cs): Sappe; detenuta tenta suicidio, salvata da polizia penitenziaria Ansa, 19 aprile 2013 Una detenuta italiana, ristretta nel carcere di Castrovillari ed in attesa di giudizio, ha tentato il suicidio nel pomeriggio di oggi. È stata soccorsa dal pronto intervento del personale di polizia penitenziaria e viene adesso sottoposta alle cure del caso nell’ospedale di Castrovillari. Lo ha reso noto Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe, il Sindacato autonomo di polizia penitenziaria. “Ancora una volta - ha sostenuto - il personale di polizia penitenziaria, anche libero dal servizio, si è distinto sia per la tempestività del primo intervento che per il successivo ricovero in ospedale. L’Istituto penitenziario di Castrovillari ospitava al 31 marzo scorso 270 detenuti di cui 37 donne a fronte di una capienza regolamentare di 146 posti. I condannati erano 167, mentre gli imputati 103. L’organico del personale di Polizia penitenziaria è inadeguato e risalente al 2001, quando nella struttura non vi era presente neanche il reparto femminile. La carenza di personale obbliga a turnazioni di servizio di otto ore anziché delle sei previste, il locale Nucleo operativo, come tutto il Reparto è soggetto ad un consistente carico di lavoro con un parco macchine e risorse economiche inadeguate. Nello scorso anno - ha concluso Durante - nelle carceri della Calabria si sono registrati 13 atti di autolesionismo a Reggio Calabria, 8 a Rossano, 10 a Paola, 5 a Locri, 3 a Palmi, 11 a Cosenza, 7 a Castrovillari, 8 a Catanzaro, 1 a Vibo Valentia e Crotone e Lamezia. Venti i tentativi di suicidio sventati dalla polizia penitenziaria (4 a Reggio, 2 a Rossano, Paola e Castrovillari, 3 a Cosenza, 5 a Catanzaro e 1 a Palmi e Lamezia Terme), 3 i suicidi (2 a Catanzaro ed 1 a Vibo Valentia) e 3 i decessi per cause naturali”. Cagliari: Sdr; donna incinta 5 mesi detenuta a Buoncammino, è una giovane rom Agenparl, 19 aprile 2013 “Una giovane donna, S. J., 26 anni, di etnia rom, incinta al quinto mese di gravidanza, è ristretta da qualche giorno nel carcere cagliaritano di Buoncammino. Nata a Roma, la donna deve scontare una pena definitiva di circa 2 anni per alcuni furti. Lo stato di gravidanza tuttavia ne sconsiglia la permanenza all’interno dell’Istituto di Pena. Del resto la norma relativa alle gestanti è inequivocabile: solo “per esigenze cautelari di eccezionale rilevanza” possono essere ristrette”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, richiamando ancora una volta la “necessità di individuare e rendere operativa una struttura alternativa alla custodia in carcere per madri con bimbi di età non superiore ai 6 anni e donne incinte, qualora sia necessaria la loro permanenza in stato di detenzione”. “Occorre ricordare - osserva Caligaris - che tra l’altro in Sardegna non c’è un carcere femminile, data l’esiguità delle donne che commettono reati. Ciò tuttavia comporta che esista, come a Buoncammino, una sezione destinata alle detenute. La ristrettezza degli spazi, con un’area ridotta per l’ora d’aria, insieme alle caratteristiche della struttura non permettono di garantire a una donna incinta le condizioni più adatte al delicato periodo della gestazione. Proprio per questa ragione la legge prevede che l’esecuzione penale sia differita nei confronti di donne incinte o di madri di piccoli con meno di un anno”. “Nonostante i medici e le Agenti della Polizia Penitenziaria si impegnino per offrire cura e assistenza, occorre - conclude la presidente di SdR - far prevalere il buon senso oltre che la norma. L’auspicio è che l’immediato intervento del Magistrato di Sorveglianza possa offrire una migliore condizione di vita alla donna e alla sua creatura”. Bari: aggressione in carcere, detenuto con problemi psichici ferisce un poliziotto www.baritoday.it, 19 aprile 2013 L’episodio, denunciato dalla Uil penitenziari, è avvenuto durante il trasferimento del recluso da una sezione all’altra. L’agente avrebbe riportato la frattura del femore e varie ferite. Un agente di polizia penitenziaria aggredito da un detenuto nel carcere di Bari: a denunciare l’episodio è il segretario generale della Uil penitenziari, Eugenio Sarno. Secondo quanto riferito dal sindacalista, il recluso, affetto da problemi psichici, avrebbe aggredito e picchiato il poliziotto durante il trasferimento da una sezione all’altra, provocando all’agente una sospetta frattura del femore e varie ferite. “Quelle delle aggressioni in danno al personale in servizio negli istituti penitenziari - sottolinea il sindacalista - costituisce una delle problematiche più cogenti della difficile quotidianità penitenziaria. Il corpo di polizia penitenziaria paga un tributo salatissimo, tanto che nell’ultimo triennio sono più di 1800 le unità che hanno riportato ferite conseguenti ad aggressioni”. “Per quanto riguarda la gestione dei detenuti e detenuti psicopatici - conclude - non possiamo non rivolgere ai vertici dell’amministrazione penitenziaria l’invito che nell’ambito della realizzazione dei circuiti penitenziari vengano individuate e predisposte aree detentive nelle quali oltre ad un percorso custodiale possa affiancarsi un adeguato sostegno e trattamento sanitario”. Sassari: convegno sul tema “Sistema carcerario in crisi, puntare sulle pene alternative” La Nuova Sardegna, 19 aprile 2013 “Il grado di civiltà di una società si misura dalle sue prigioni” diceva lo scrittore russo Dostoevskij. Se avesse vissuto in epoca contemporanea, non avrebbe esternato questa riflessione in quanto si sarebbe purtroppo contraddetto. È innegabile che la situazione dietro le sbarre sia particolarmente critica ormai da tempo, colpa delle scelte di politica criminale attuate negli ultimi anni, o forse per colpa della mancanza di strutture atte ad accogliere lo straripante numero di persone che necessitano di un trattamento rieducativo. Se ne è parlato nei giorni scorsi durante il convegno “Dal carcere alla società” , promosso dal Rotary Club di Sassari, Alghero, Sassari Nord, Porto Torres e Sassari Silki, in collaborazione con la camera Penale di Sassari “Enzo Tortora” e con il patrocinio dell’Ordine Forense di Sassari. “Nell’isola - ha detto il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria della Sardegna, Gianfranco De Gesu - la situazione delle carceri è meno grave rispetto al resto della nazione con un sovraffollamento mediamente inferiore alle strutture presenti nelle altre regioni”. De Gesu ha sottolineato quali sono le caratteristiche del sistema detentivo isolano: “Abbiamo un’alta percentuale di condannati e stranieri - ha detto - ma siamo soddisfatti perché registriamo tassi molto alti di detenuti lavoranti”. Interessante la relazione offerta da Gabriele Satta, presidente della sezione di Sassari della camera Penale che suggerisce una valida alternativa alla detenzione carceraria. Meglio il volontariato sociale, suggerisce il penalista, o l’assistenza negli ospedali svolta dai condannati. Forse il vero problema è la tendenza a fingere di non vedere piuttosto che guarire, o limitarsi a usare medicine inadatte per una malattia ormai cronica. Ma cosa si è cercato di fare negli ultimi anni per risolvere la difficile situazione in cui versa il sistema carcerario? “I provvedimenti più recenti - spiega Riccado De Vito magistrato del Tribunale di Sorveglianza di Sassari - hanno tentato di risolvere il problema più urgente e notevole: il sovraffollamento. L’indulto del 2006 ad esempio, alleggerì gli istituti penitenziari italiani di ben 25.694 detenuti con condanne sotto i tre anni, 22.477 dei quali vennero liberati nel solo mese di agosto di quell’anno. Per ultimo il recentissimo Decreto Legge del 22 dicembre 2011, n. 211 (convertito in Legge 17 febbraio 2012, n. 9) recante “Interventi urgenti per il contrasto della tensione detentiva determinata dal sovraffollamento delle carceri”. Cinema: “L’ultima notte” di Socrate, film con gli ergastolani del carcere di Torino La Repubblica, 19 aprile 2013 “Una pena per essere giusta deve avere un inizio e una fine” scrive Davide Ravarelli, quarantunenne ex grafico milanese, nella sua petizione contro “fine pena mai”. Condannato all’ergastolo per omicidio, ha già scontato sette anni e si trova ora recluso alle Vallette, nel padiglione E, con altri ergastolani come lui. È uno dei sei detenuti del corso di laurea dell’Università del carcere (tra le attività del padiglione anche la squadra di rugby) che hanno partecipato al progetto “L’ultima notte”, mediometraggio del regista Mattia Temponi, scritto con Federico Chiara e Giovanni Dissegna della Società Filosofica Italiana, presentato ieri mattina nella Casa Circondariale Lorusso e Cutugno (replica per il pubblico stasera alle 21 al Cecchi Point) in una proiezione speciale organizzata dall’Associazione Museo Nazionale del Cinema e Videocommunity, in collaborazione con la Fondazione della Comunità di Mirafiori. Nel programma anche il documentario “Art. 27” di Laura Fazzini, Elia Agosti e Luca Gaddini, viaggio all’interno di quattro istituti di pena: Bollate, Giudecca, Rebibbia e Ucciardone per una fotografia drammatica della situazione delle carceri italiane, dove si moltiplicano i suicidi. Il titolo rimanda alla Costituzione, quando ricorda che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Sul tema della pena anche “L’ultima notte”, protagonista Bob Marchese con Eleonora Gusmano e Mattia Mariani, che racconta le ultime ore trascorse da Socrate in carcere prima di morire. Nei dilemmi etici del filosofo ateniese (che, pur accusato ingiustamente, accetta la condanna fino alle estreme conseguenze per fedeltà alle regole della polis), un richiamo all’attualità di un’Italia che sembra aver smarrito il senso di responsabilità civile, l’amore per le leggi e per la patria intesa come Stato. Il film, girato alle Vallette nel maggio dello scorso anno con il contributo della Società Filosofica Italiana e del Rotary, ha ricevuto il sostegno del Miure sarà proiettato nelle scuole superiori. È prevista una pubblicazione del dvd con i testi platonici da cui è tratto. “Il primo impatto con i detenuti è stato scioccante - racconta il regista Mattia Temponi. La prima cosa che pensi è: a vederli sono come me, dunque anch’io potrei diventare un assassino. Al termine dell’esperienza, però, la riflessione è un’altra: proprio perché sono come me, sono esseri umani e hanno diritto alla riabilitazione. Nel carcere a vita c’è poco di umano”. Musica: la band di Danilo Sacco e Rigo Righetti nella Casa Lavoro di Castelfranco Emilia Gazzetta di Modena, 19 aprile 2013 “Lo scopo di eventi come il concerto organizzato giovedì 11 aprile non è solo quello di portare un momento di aggregazione e svago a detenuti e internati, ma soprattutto quello di mettere in luce la condizione di queste persone”. Così inizia il racconto dell’educatrice Fedora Matini sul concerto che lo scorso 11 aprile ha portato Danilo Sacco, ex voce dei Nomadi, Rigo Righetti e la loro band all’interno della casa di reclusione di Castelfranco. Lo spettacolo è stato accolto con entusiasmo dai detenuti e rientra nel progetto “Collaborando”, che mette in rete le associazioni di volontariato modenesi impegnate nei carceri cittadini, tra cui il Csi. “Uno scambio in entrambe le direzioni: la vita esterna entra nella struttura di detenzione con la sua normalità, la realtà interna esce invece dalla sbarre e incontra le persone normali, che la maggior parte delle volte non conoscono quale sia la condizione di chi vive all’interno di quelle mura. Una cassa di risonanza per una situazione spesso dimenticata. Quella di Castelfranco è una realtà diversa rispetto ad un carcere, qui detenuti e internati (più di cento con una forte prevalenza di internati) non conoscono il termine della propria pena e vivono in un’attesa che si può protrarre per anni. Si tratta di persone a cui la misura di sicurezza viene assegnata in base ad un giudizio di pericolosità sociale, la cui soluzione richiede il reperimento per gli stessi di una casa o di un lavoro. Una ricerca che spesso necessita di tantissimi anni e che porta ad una frustrazione indescrivibile per i soggetti coinvolti. Per questo sono solita dire che per molti casi non si parla più di pericolosità sociale, ma di deriva dovuta ad un sistema che non riesce a trovare una risposta a tale realtà”. “Quando aderiamo a queste iniziative siamo noi ad arricchirci, siamo noi che usciamo con un messaggio da portare al mondo”, commentano i musicisti Danilo Sacco e Rigo Righetti. “Noi ci limitiamo a portare ai detenuti la nostra musica e tutte le volte ci rendiamo conto di quale sia il suo potere, la sua capacità di far volare lontani anche nelle situazioni più difficili”. A soli due giorni di distanza, il 13 aprile, “Collaborando” ha fatto segnare in calendario un altro appuntamento: lo spettacolo Pit Bull, inscenato presso la chiesa della Beata Vergine Addolorata, frutto dell’attività laboratoriale dell’O.p.g. di Reggio Emilia. Con la regia di Monica Franzoni e Riccardo Peterlini, lo spettacolo ha portato sul palco la realtà dell’ospedale psichiatrico giudiziario attraverso una metafora e una domanda: “È possibile rieducare il Pit Bull? È possibile reinserirlo all’interno della società civile? Ciò che emerge con evidenza è come il Pit Bull non nasca cattivo, ma come la sua aggressività non sia altro che il frutto di maltrattamenti - spiega Ermido Lerose, volontario Csi Modena. Il parallelo è calzante con la condizione dei malati che vengono rinchiusi nelle Opg e gli spunti di riflessione si susseguono”. Immigrazione: Fulvio Vassallo Paleologo; no alla proliferazione illimitata dei Cie Redattore Sociale, 19 aprile 2013 Critico il docente di Diritto d’asilo dell’università di Palermo sul documento programmatico del Viminale. La proposta più preoccupante è quella di creare “moduli idonei a ospitare persone dall’indole non pacifica” “Al fallimento sembrano destinate le proposte partorite dagli esperti del ministero dell’interno sui Cie”. A sostenerlo è Fulvio Vassallo Paleologo, docente di Diritto d’asilo all’università di Palermo. “Se si traducessero in norme - spiega - renderebbero ancora più conflittuale la situazione nei centri di detenzione e porterebbero immediatamente l’Italia, ancora una volta, sul banco degli imputati davanti ai tribunali internazionali”. “In una fase nella quale non è certo neppure se si riuscirà a costituire un governo o se si andrà a nuove elezioni - dice -, sarebbe assai importante, intanto, che si eliminassero attraverso i referendum proposti dal partito radicale alcune norme del Testo unico 286 del 1998”. “Le proposte referendarie presentate dal Partito radicale sono aperte ad una condivisione più ampia da parte delle forze politiche, sindacali e delle associazioni mentre le proposte contenute nel documento ministeriale sui Cie vanno nella direzione di una proliferazione illimitata dei CIE su tutto il territorio nazionale con un inasprimento delle condizioni di trattenimento”. Su molti punti del documento del ministero sui Cie il docente appare critico. Secondo Paleologo, “il rapporto ministeriale parte già da una premessa errata ricollegando alla ‘Primavera Arabà l’aumento della presenza degli immigrati nei Cie, mentre invece appare a tutti evidente, come la maggior parte degli immigrati trattenuti nei centri siano provenienti dal circuito carcerario o siano immigrati presenti da anni in Italia, che si sono trovati nella condizione di irregolarità a seguito della perdita del posto di lavoro”. “Nel rapporto inoltre - continua Paleologo - si prende atto che i centri operano con capienza ridotta a causa del danneggiamento dei locali, senza riferire però che alcune strutture sono parzialmente vuote per carenze di personale e per problemi insorti con gli enti gestori a seguito del forte ribasso dei corrispettivi previsti dalle convenzioni, come nel caso del Cie di Milo a Trapani”. Il rapporto prende atto che il tempo medio di permanenza nei Cie nel 2012 “è stato di 38 giorni a fronte di un 50,6 di espulsi dopo il trattenimento”, dato che lo stesso ministero riconosce “non completamente indicativo della situazione reale”, ma che comunque costringe anche la commissione all’ovvia constatazione della inutilità della detenzione amministrativa fino a 18 mesi. “La proposta contenuta nello studio del ministero - prosegue il docente - corrisponde a quanto già anticipato mesi fa dal ministro dell’interno Cancellieri, e consiste nella riduzione della durata massima della detenzione amministrativa a dodici mesi, una proposta che non modifica certo la situazione insostenibile dei Cie italiani, e non corrisponde neppure alla attuazione della Direttiva comunitaria sui rimpatri del 2008”. Inoltre, “a fronte dei numerosi casi di autolesionismo che si verificano nei Cie, individuati dal ministero dell’interno come atti preordinati al ricovero in strutture sanitarie esterne - sottolinea ancora il docente, il documento propone un rinforzo dei presidi sanitari organizzati all’interno dei Cie allo scopo evidente di ridurre i casi di ricovero in ospedale. È facile immaginare con quali conseguenze e con quale indipendenza di giudizio, anche alla luce dei frequenti contrasti già riscontrati da anni tra le rilevazioni dei medici interni, convenzionati con l’ente gestore e con la prefettura, ed i medici indipendenti che operano nelle strutture ospedaliere che rilevano spesso patologie e traumi ignorati all’interno dei Cie”. L’aspetto forse più preoccupante dell’intero rapporto riguarda la “Tutela della pacifica convivenza all’interno dei Centri”, in quanto secondo il rapporto “non infrequenti risultano gli episodi di sedizione e rivolta che si registrano all’interno dei Centri” con “condotte violente ed antisociali da parte di alcuni ospiti, che spesso sfociano in danneggiamenti severi delle strutture, con conseguente perdita di ricettività delle stesse o, a volte, necessità di chiusure temporanee per provvedere al ripristino”. “Si ripropongono anche in questo caso misure già sperimentate - afferma Paleologo, come il trasferimento in altre strutture di trattenimento, oppure la creazione, all’interno di ogni Cie, di moduli idonei ad ospitare persone dall’indole non pacifica. Si prevedono così trattamenti detentivi di rigore per quelle persone che le autorità di polizia definiscono “dall’indole non pacifica”. Allo stesso riguardo il rapporto sembra contraddittorio anche quando precisa che “poiché la totale assenza di attività all’interno dei Centri, che si sostanzia in un ozio forzato, comporta un aumento di aggressività e malessere tra immigrati trattenuti e forze dell’ordine, modalità di trattenimento distinte ed una diversa suddivisione degli spazi permetterebbero agli ospiti di trascorrere il tempo in maniera costruttiva con la possibilità di svolgere, in un contesto più armonico e gradevole, attività ricreative e sportive”. Però si osserva subito dopo che occorre limitare l’utilizzo degli impianti sportivi all’aperto e si prevede “la predisposizione di un sistema di difese passive all’interno di ogni Cie, in modo da scongiurare sul nascere i tentativi di fuga, attualmente assai frequenti”. Il rapporto incide anche sulla libertà di comunicazione con l’esterno prevedendo nuove limitazioni, anche queste già sperimentate nella pratica, per l’uso dei telefoni cellulari, in particolare se dotati di videocamera. “Rimane la forte preoccupazione dice Paleologo - che l’uso dei telefoni sia vietato del tutto e che le schede telefoniche non consentano quella libertà di comunicazione con l’esterno che è garantita dalla legge e dal regolamento di attuazione n.394 del 1999”. Altre perplessità insorgono al docente quando è evidente “il tentativo suggerito dal rapporto di trasferire all’ente gestore il ruolo di ‘intercettare le situazioni di disagio e di canalizzarle in modo costruttivo, attraverso l’ascolto, il dialogo e la mediazione, allo scopo di prevenire il sorgere di situazioni conflittuali”. “Si ignora però la vera radice dei conflitti ricorrenti all’interno dei Cie - dice - e ciò appare in contrasto con l’abbattimento dei costi delle convenzioni, che in molte strutture sta comportando proprio l’effetto opposto, con la rarefazione del personale degli enti gestori e con una sovra utilizzazione delle forze di polizia, al punto che alcune strutture funzionano a capienza limitata proprio per le carenze di personale”. Svizzera: carceri sovraffollate, c’è bisogno di mille nuove celle www.cdt.ch, 19 aprile 2013 Il problema del sovraffollamento nelle carceri svizzere, specialmente in Romandia, tornato alla ribalta nella recente Conferenza dei direttori cantonali di giustizia e polizia (sono necessari da 900 a 1.000 nuove celle nel Paese, è stato detto, per risolvere la questione), riguarda, ciclicamente, anche il Ticino. Nel carcere giudiziario della Farera (concepito all’inizio per ospitare 57 detenuti in attesa di giudizio) è stata necessaria, qualche anno fa, la posa di alcuni letti a castello che permettono di aumentarne la capienza a 78 posti. Considerato il numero crescente di incarcerazioni (nel 2012 sono state oltre 2.000 e nei primi tre mesi di quest’anno si è già arrivati a quota 582) è stato però recentemente deciso, spiega il direttore delle strutture carcerarie ticinesi, Fabrizio Comandini, l’installazione di altri nuovi dieci letti a castello. Altrimenti vi sarebbe il rischio di mettere dei materassi sul pavimento. A questo punto la struttura sarà in grado di accogliere al massimo 88 persone, “ma un carcere giudiziario - ricorda Comandini - non deve mai essere occupato totalmente, per poter far fronte ad eventuali nuove incarcerazioni”. Israele: premier Peres concede grazia a detenuto palestinese in gravissime condizioni salute Ansa, 19 aprile 2013 Il presidente israeliano Shimon Peres ha concesso la grazia per ragioni di salute a un detenuto palestinese che nel 2012 aveva fatto due lunghi scioperi della fame. “Il presidente, su raccomandazione del ministro della Giustizia Tzipi Livni e in accordo con i responsabili della sicurezza ha firmato il rilascio del prigioniero Mohammad Rafiq Kamal al-Taj, che ha scontato i due terzi della sua condanna”, afferma il testo che precisa che l’uomo era stato condannato nel 2003 a 14 anni di carcere. “Questa decisione è stata presa per ragioni umanitarie, poiché il prigioniero era gravemente malato”, precisa la presidenza. Non appena liberato, Mohammad al-Taj, militante del fronte di Liberazione della Palestina, è stato immediatamente ricoverato in ospedale a Ramallah, in Cisgiordania. Libia: attacco contro convoglio penitenziario, ucciso un detenuto, altre persone ferite Tm News, 19 aprile 2013 Uomini armati hanno attaccato un convoglio che trasportava prigionieri a Tajoura, periferia est di Tripoli, provocando un morto e alcuni feriti tra i detenuti. Lo ha annunciato il ministro della Giustizia libico. “Uomini armati a bordo di tre veicoli hanno attaccato una vettura della polizia giudiziaria e una pattuglia incaricata di scortare il trasporto dei detenuti verso un carcere di Tajoura”, ha indicato Salah al Marghani. “L’attacco ha provocato la morte di una persona e dei feriti gravi”, ha aggiunto, spiegando inoltre che uno dei detenuti è stato sequestrato. Il ministro ha denunciato un “atto criminale finalizzato a destabilizzare la sicurezza e a ritardare la costruzione dello stato di diritto”. Filippine: fuga di gruppo per 13 detenuti, evasi dalla prigione provinciale di Sagay City 9Colonne, 19 aprile 2013 Evasione di gruppo nella Filippine, dove un gruppo di 13 detenuti ieri è riuscito a fuggire dalla prigione provinciale di Sagay City. Come in un pellicola hollywoodiana, i fuggitivi sono riusciti ad utilizzare un’arma da fuoco, introdotta furtivamente nel carcere, e coltelli improvvisati per immobilizzare alcuni agenti della polizia penitenziaria. Come riporta il Times of India, gran parte degli evasi stava scontando condanne per omicidio. La polizia locale è alle prese con una massiccia caccia all’uomo, che al momento non ha però sortito alcun effetto. Le evasioni sono particolarmente frequenti nelle Filippine, a causa della carenza di sicurezza nelle carceri e del decadimento delle strutture. Per questo motivo, il sistema carcerario dell’arcipelago asiatico è largamente considerato uno dei meno sicuri al mondo.