Giustizia: l’indulto e il futuro dell’antiberlusconismo di Nando Mainardi Il Fatto Quotidiano, 17 aprile 2013 L’Italia vive di continue illusioni ottiche, in parte determinate dal berlusconismo e in parte dall’antiberlusconismo. Categorie che parevano destinate a scomparire una volta per sempre, e che invece le forze politiche presenti in Parlamento stanno contribuendo efficacemente a mantenere in vita. Una delle illusioni ottiche per eccellenza è la seguente: chi non sta con Berlusconi è un progressista, di sinistra, distante da qualsiasi destra. Berlusconi porta questo ragionamento all’estremo: chi non è con me è un comunista, un nemico dell’impresa e del libero mercato. Poi, quando capita che Berlusconi perde le elezioni o non ha il sostegno del Parlamento, e uno schieramento differente o un governo diverso conquistano la maggioranza, emerge la triste verità: è cosa complicata, analizzando le politiche concrete, capire dove stia la diversità, cosa distingua nel concreto, nei fondamentali politici e culturali, l’antiberlusconismo dal berlusconismo. Ho pensato questo, quando qualche giorno fa ho letto su Il Fatto Quotidiano la replica di Marco Travaglio a Luigi Manconi. Manconi, dalle colonne de Il Foglio, aveva tacciato Travaglio di moralismo e di giustizialismo, associandolo ad altri personaggi della politica italiana oggi esclusi dal Parlamento (Ingroia, De Magistris, Di Pietro): un “classico”. Non penso affatto che il problema principale di questo Paese siano i “moralisti” antiberlusconiani, perciò il ragionamento di Manconi non mi ha suscitato alcun moto di simpatia, ma devo dire di essere rimasto molto colpito dalla risposta di Travaglio, in quanto attacca l’esponente del Pd poiché “tifoso dell’indulto 2006 che fece perdere milioni di voti al centrosinistra”. Non pensavo e non penso che il problema di quel centrosinistra sia stato aver sostenuto l’indulto, ma l’aver disatteso le ampie aspettative popolari sul terreno delle politiche economiche e sociali. Continuo a pensare che sia una vergogna non solo che uno come Berlusconi sia un intoccabile, ma che migliaia e migliaia di donne e di uomini siano stati sbattuti in galera a causa di leggi incivili e liberticide, come la Bossi-Fini e la Fini-Giovanardi. Mi colpisce che ci sia una giustizia classista, debolissima con i forti e armata di bazooka contro gli ultimi. Possiamo discutere del merito di quell’indulto, certo, e di come siamo molto bravi nel mettere in fila interventi che lasciano inalterato il quadro di leggi repressive che segna la nostra legislazione. Ho però come l’impressione che la critica all’indulto non vada in questa direzione. Travaglio non si è fermato qui, e ha aggiunto che Manconi è “un po’ come i bravi ragazzi di Lc che additavano nomi e indirizzi dei nemici da abbattere e quando finivano sprangati o ammazzati, come il commissario Calabresi, scappavano”. Quando Lotta Continua si è sciolta, nel lontano 1976, io avevo quattro anni: non ho appartenenze o storie personali da difendere. Non nutro neppure una simpatia di ritorno verso quel gruppo. Ma rappresentarlo, di fatto, come un gruppo para terroristico mi sembra una modalità collocabile nelle corde della riscrittura di storia e cronaca, ad uso e consumo dei vincitori. Un po’ come quando ci raccontano che gli anni Settanta sono stati soltanto anni di piombo, per di più sovente rappresentandoli in un’unica direzione, e non anche anni di lotte, di grandi conquiste sul terreno dei diritti e dell’emancipazione. E poi, immancabilmente, spunta la notizia che in una qualche scuola superiore, secondo la maggioranza delle ragazze e dei ragazzi, alla stazione di Bologna o a Piazza Fontana la bomba l’hanno messa quelli delle Br. Che è un po’ come dire, in questo quadro svarione chiama svarione, che ce l’hanno messa i comunisti. O quelli di Lotta Continua. Io penso che Berlusconi, in tutti questi anni, abbia vinto anche grazie a questo meccanismo revisionista. E penso che la via d’uscita non stia certo nel berlusconismo, ma neppure in questo antiberlusconismo. Giustizia: meno carcere preventivo e più depenalizzazioni, ma qui di lager non ce n’è di Bruno Ferraro (Presidente Aggiunto Onorario Corte di Cassazione) Libero, 17 aprile 2013 Ciclicamente il problema carcerario sale all’attenzione del mondo politico e dei media. Le analisi si succedono, le prognosi un po’ meno, le proposte arrivano numerose e da molteplici direzioni. Si ha comunque l’impressione che molto incidano gli umori del momento e che si passi troppo velocemente da un’ottica punitiva a una permissiva. La verità è che si scontrano due contrapposte esigenze: quella di reagire conia “segregazione” nei confronti di chi, commettendo reati, ha messo in discussione la sicurezza collettiva; e quella di chi, con un approccio sociologico, insegue l’obiettivo dell’emenda, cioè della conversione del colpevole per rieducarlo al ritorno nella co -munita. La nostra Costituzione ha sposato entrambi gli approcci, pur indicando che la pena de -ve tendere alla rieducazione. E allora, senza alcuna pretesa miracolistica, forte dell’esperienza maturata alla direzione di tutto il personale penitenziario nel periodo 1987-1989 ma soprattutto della lunga esperienza professionale nel settore penale, provo ad enunciare una mia personale “ricetta”. Cauzioni come in America Sì alla riduzione dei reati sanzionati con il carcere, attraverso una strategia di ulteriore depenalizzazione, anche perché la concretezza della sanzione pecuniaria vale spesso più di una pena detentiva minacciata, inflitta, ma di frequente non espiata. Sì alla drastica riduzione del carcere preventivo (ben 21.093 persone ristrette nel 2010 per un periodo massimo di tre giorni), che non conviene a nessuno in termini di costi, utilizzo delle risorse umane, deterrenza. Meglio, a mio avviso, prevedere una maggiore libertà ma su cauzione, a somiglianza dell’ordinamento americano, rinunziando al facile pregiudizio del danno a carico del povero che non può pagare (siamo sicuri che sia sempre così?). E meglio anche moltiplicare le ipotesi di espulsione dello straniero, non essendo concepibile che la comunità, dopo essere stata offesa con il reato, debba farsi carico dei costi per il mantenimento dei detenuti di “importazione”. È invece un falso problema quello della ridotta ricettività degli istituti di pena. Se tutto dipendesse da ciò, dovremmo depenalizzare furti, truffe e reati contro il patrimonio: la società sarebbe disposta ad accettarlo? Se, come mi sembra logico, la risposta è negativa, non vi è altro rimedio se non quello di “riservare” le carceri all’esecuzione delle pene, riducendo e mandando altrove il numero dei detenuti in attesa di giudizio. Non c’è bisogno, come qualcuno ipotizza, di ammettere casi di espiazione di pene all’esterno, se non si vuole ridurre pericolosamente la percezione di fiducia della comunità. Operiamo invece per migliorare la qualità della vita all’interno degli istituti, mantenendo alla pena quel carattere afflittivo che deve possedere per giustificare la propria ragion d’essere. E, per favore, smettiamola di considerare il nostro sistema carcerario una “discarica sociale” e le nostre carceri come lager. Non lo erano già nell’epoca precedentemente citata e, ne sono certo, non lo sono oggi: oggi in cui si entra difficilmente e si esce facilmente; oggi in cui esiste una magistratura di sorveglianza che si occupa da vicino del trattamento penitenziario; oggi in cui abbondano benefici e sconti di pena; oggi in cui esiste una carta dei diritti del detenuto. Premi ai detenuti meritevoli Per concludere, un suggerimento. La pena in carcere deve servire come momento di riflessione sul male arrecato e come occasione di, ancorché minimo, risarcimento della comunità. E allora, ben vengano iniziative virtuose sperimentate all’estero (vedi Brasile): quattro giorni di carcere in meno per ogni libro letto; un giorno in meno per ogni tre giorni di pedalate finalizzate alla produzione di energia elettrica; coinvolgimento di pubblico e privato nella gestione del carcere, riservando alla prima sfera gli aspetti criminali e disciplinari. Da noi, invece, la legge penitenziaria prevede 45 giorni di sconto in ragione di anno, subordinando il beneficio alla semplice “regolare condotta” dell’internato. Giustizia: lezioni di libertà contro il carcere preventivo di Renato Quadrato (Docente di Diritto Romano nell’Università di Bari) Gazzetta del Mezzogiorno, 17 aprile 2013 La campagna “Tre leggi per la giustizia e i diritti”, promossa da varie associazioni e dall’Unione Camere Penali (la notizia è nella Gazzetta del Mezzogiorno di domenica 7 aprile) è un’iniziativa che suscita vivo interesse e plauso. Perché tra le proposte prevede, prima fra tutte, l’introduzione nel Codice Penale del reato di tortura: una figura di illecito ancora assente nel nostro ordinamento sebbene la proibizione della tortura sia espressamente contemplata nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea del dicembre 2000, all’articolo 4: “Nessuno può essere sottoposto a tortura, né a pene o trattamenti inumani o degradanti”. È auspicabile che sulla scia di questa lodevole mobilitazione si intervenga anche sulla carcerazione preventiva: uno strumento disciplinato, come si sa, dal Codice di Procedura Penale, utilizzabile quando sussiste pericolo di inquinamento probatorio o di fuga o di reiterazione del reato (art. 274). È una misura grave, che incide su un diritto protetto dalla Costituzione qual è la libertà personale (art. 13) e sul principio della presunzione di innocenza fino alla sentenza di condanna definitiva (art. 27; ma anche art. 11 della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo del 1948 e art. 48 della Carta europea dei diritti del 2000), e che implica eccezionalità, cioè la sua applicazione soltanto ove risulti assolutamente necessaria, e gradualità, con riferimento sia alla durata che al contenuto. Di qui l’esigenza di un uso non avventato, rispettoso anche dell’art. 9 della Dichiarazione del ‘48: “Nessun individuo potrà essere arbitrariamente arrestato, detenuto o esiliato”. La carcerazione è già di per sé una misura dolorosa perché priva una persona della libertà, relegandola in un luogo che la esclude dalla comunità. Ma è una condizione ancora più angosciosa, talora drammatica, quando la “custodia” (come dal 1948 la si suole qualificare con un termine adatto più alle cose che alle persone) è preventiva: imposta com’è all’imputato a scopo “cautelare”, si dice, prima del processo e in pendenza del giudizio. Un provvedimento che per le sue conseguenze andrebbe adottato con ponderazione, oculatezza: come pare raccomandare la nostra Costituzione quando, dopo aver affermato che “la libertà personale è inviolabile”, ha cura di prescrivere che “non è ammessa forma alcuna di detenzione... né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dall’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge”, e prevede “limiti massimi della carcerazione preventiva” (art. 13, commi 1,2,5). Sono regole di alto valore, principi di civiltà giuridica perché attengono alla condizione dell’essere umano, investono la tutela della sua dignità e libertà: una garanzia che emerge pure dalla “costituzionalizzazione” della persona (l’immagine di S. Rodotà, Il diritto di avere diritti): una sorta di habeas corpus (“che tu abbia il tuo corpo”: espressione che nel diritto anglosassone designa i provvedimenti diretti ad evitare le carcerazioni illegali), che è guarentigia della libertà personale del cittadino. È in gioco, insomma, la libertà: a proposito della quale lo scrittore spagnolo di origini basche, Miguel de Unamuno (1864-1936), scrive che “se di essa non godono tutti, non saranno liberi neppure coloro che si reputano tali”. La libertà è un bene prezioso. È, “fra tutte le cose”, la più importante, la più gradita, la “più favorita”: libertas omnibus rebus favor abilior est si legge in un passo del Digesto di Giustiniano (50.17.122). Frase di un giurista romano, Gaio, un aforisma di portata rivoluzionaria, che ricorda l’esaltazione della libertà fatta dal filosofo greco di formazione stoica, Epitteto (50-115 d.C), che in una delle sue Diatribe, la quarta, la descrive come una cosa “grande”, “nobile”, un diritto che “scaturisce dalla natura”, la quale non discrimina gli uomini ma li fa “nascere liberi tutti”(4.1.1; 4.1.54). Idea che si trova anche nel Digesto (“per diritto naturale tutti nascono liberi” e “vengono chiamati uomini con un solo nome naturale”: D.1.1.4). È un principio che a distanza di tantissimi secoli si trova consacrato nell’art. 1 della Dichiarazione del ‘48: “Tutti gli uomini nascono liberi ed eguali in dignità e diritti”. È assai bello questo inno alla libertà che viene dalla cultura antica, e di cui non devono godere soltanto gli uomini ma anche gli “animali, della terra del mare e del cielo” (D.41.1.3.5-7): soprattutto gli uccelli, i quali, come scrive ancora Epitteto, “non sopportano la cattura fino a lasciarsi morire di fame piuttosto che tollerare una tale esistenza” e che, “ove mai riescano a trovare un qualche spiraglio, scappano subito via, tale è la loro aspirazione alla libertà naturale” (Diatr. 4.1.26-27). Giustizia: condanna Ue sulle carceri affollate, il governo italiano prende tempo di Daniele Biella Vita, 17 aprile 2013 Chiesto il riesame della sentenza anti-sovraffollamento della Corte europea per i diritti umani: “una probabile mossa dilatoria”, spiega l’avvocato Osti. Intanto il tribunale di sorveglianza di Venezia indica una via d’uscita Abbiamo bisogno di consigli contro il sovraffollamento carcerario. A chiederlo, di fatto, è il governo italiano, che lo scorso 11 aprile ha chiesto alla Corte europea dei diritti dell’uomo il riesame della sentenza Torreggiani, con la quale i giudici di Strasburgo l’8 gennaio 2013 avevano condannato l’Italia per trattamento inumano e degradante verso sette carcerati, costretti a vivere in pochissimi metri quadrati la loro detenzione, in violazione dell’articolo 3 della Cedu, la Convenzione europea dei diritti umani. La notizia ufficiale è pubblicata nella sezione Ufficio contenzioso del sito ufficiale del governo, ma a oggi non è ancora disponibile il testo completo dell’azione governativa. Cosa succede ora? “Prima di tutto, il riesame non è un vero e proprio ricorso, quanto una richiesta di individuare soluzioni alternative, che evidentemente il nostro governo non riesce a trovare”, spiega l’avvocato Alessandra Osti, ricercatrice di Diritto costituzionale presso l’Università degli studi di Milano, specializzata in giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che per Vita.it aveva già commentato la sentenza Torreggiani. “L’esecutivo chiede quindi che si esprima la Grande Camera della Corte, in plenaria, dato che la sentenza è stata emessa da una camera semplice, composta da sette giudici”, illustra Osti. “Ma questa manovra è irrituale e particolare, perché al suo fondamento non ci sono questioni complesse o eticamente controverse da discutere: la violazione della carta è palese, sembra piuttosto un’azione dilatoria, per prendere tempo”. Dello stesso avviso è anche Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone, che ha definito il tutto “Un escamotage da azzeccagarbugli”. Nel frattempo, in attesa dell’ammissibilità o meno della richiesta di riesame del nostro governo, c’è una notizia che invece va in tutt’altra direzione: “Il tribunale di sorveglianza di Venezia, ha chiesto alla Corte costituzionale di valutare l’illegittimità dell’articolo 147 del nostro codice penale che non fa rientrare il sovraffollamento tra le cause di rinvio dell’esecuzione della pena”, specifica Osti, “è la prima volta che accade, ed è importante perché il giudice del Tribunale nella sua richiesta si appella proprio all’articolo 3 della Carta europea dei diritti dell’uomo. Indicando proprio nel rinvio della pena una possibile soluzione al contrasto del sovraffollamento”. Ora si rimane in attesa della risposta della Corte costituzionale. Nel frattempo, naturalmente, l’emergenza rimane. Giustizia: Protocollo Anci-Dap per reinserimento detenuti, 50 Comuni pronti ad adesione Agenparl, 17 aprile 2013 “Un’idea positiva e già apprezzata, sia dai detenuti che dai direttori dei penitenziari. Un progetto che porta con sé enormi potenzialità per il concreto reinserimento sociale di chi sta scontando una pena in carcere”. Così il Sindaco di Padova e delegato Anci alla Sicurezza Urbana, Flavio Zanonato, commenta il secondo incontro del Comitato di Gestione del protocollo tra Anci e Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria del Ministero della Giustizia), finalizzato proprio al reinserimento lavorativo dei detenuti. L’incontro, avvenuto ieri nella sede del Dap a Roma, è stato occasione per mettere a frutto le esperienze già avviate in fase sperimentale, ma soprattutto per definire un piano che da qui a giugno sarà in grado di coinvolgere i primi 50 Comuni nei progetti di reinserimento. Il caso scuola presentato oggi è proprio quello di Padova, alla luce del quale Zanonato afferma che “l’idea è stata molto apprezzata soprattutto dai detenuti: nessuno, tra coloro a cui è stata proposta la possibilità di lavorare fuori dalle mura del carcere, ha rifiutato”. Allo stesso tempo Zanonato non nasconde che “esistono una serie di problemi, sia dal punto di vista procedurale che dal punto di vista burocratico , che potrebbero limitare la possibilità dei Comuni di aderire in forma compiuta al progetto”. Tra questi, sicuramente, il blocco delle assunzioni imposto agli Enti locali e i vincoli del Patto di stabilità. Proprio alla luce di queste criticità il Comitato ha stilato una serie di linee guida per i Comuni e un modello standard di adesione, che serviranno a guidare le amministrazioni nelle procedure. Al contempo l’Anci ha già registrato la disponibilità di 50 Comuni a presentare progetti di adesione al protocollo. La realtà patavina insegna Il secondo incontro tra il Dipartimento amministrazione penitenziaria del Ministero della Giustizia e l’Associazione nazionale comuni italiani svoltosi nella capitale ha fatto brillare Padova sul piano dei reinserimenti lavorativi per i carcerati. Reinserimento lavorativo dei detenuti. È stata questa la finalità del secondo incontro del Comitato di gestione del protocollo tra Anci (Associazione nazionale comuni italiani) e Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria del Ministero della Giustizia) avvenuto nella sede di Roma. Un’occasione per mettere a frutto le esperienze già avviate e per definire un piano che da qui a giugno sarà in grado di coinvolgere i primi 50 Comuni nei progetti di reinserimento. Il piano padovano nella forma della convenzione tra il Comune e il carcere Due palazzi in piccoli lavori di manutenzione eseguiti dai detenuti ha riscosso successo, stando a quanto dichiarato dal sindaco patavino Flavio Zanonato nonché delegato Anci alla Sicurezza urbana . “Molto apprezzato soprattutto dai detenuti - ha commentato lo stesso sindaco di Padova - i quali hanno ben accolto l’idea di lavorare fuori dalle mura carcerarie”. Nonostante questo però persistono problemi di tipo procedurale e burocratico che potrebbero limitare i Comuni nell’adesione totale al progetto: uno fra tutti, il blocco delle assunzioni imposto agli Enti locali dal patto di stabilità. Necessario quindi, durante l’incontro, tracciare un sentiero di riferimento. A tal fine, il Comitato ha stilato una serie di linee guida per i Comuni e un modello standard di adesione, che serviranno a guidare le amministrazioni nelle procedure. Al contempo, inoltre, le disponibilità dei 50 Comuni nel presentare progetti di adesione al protocollo sono state già registrate dall’Anci. Giustizia: carceri minorili, al via i Corsi di orticoltura biologica organizzati dall’Aiab di Ilaria Sesana Avvenire, 17 aprile 2013 Il riscatto comincia dalla terra. Da quelle delicate piantine che, con l’estate, porteranno frutti, profumi e sapori all’interno di sei carceri minorili italiani. Sono circa 70 i ragazzi che, in questi giorni, stanno iniziando i corsi di orticoltura biologica organizzati da Aiab (Associazione italiana agricoltura biologica) all’interno degli istituti di Palermo, Roma, Pontremoli (Mc), L’Aquila, Airola (Bn) e la comunità Borgo Amigo di Roma. “Prendersi cura delle piante aiuta a prendersi cura di sé - spiega Anna Ciaperoni, responsabile agricoltura sociale di Aiab. E questo è particolarmente importante per persone soggette alla restrizione della libertà, soprattutto nella fase formativa dei minori”. L’iniziativa rientra nel progetto di Aiab “Ricomincio dal Bio” che coinvolge giovani minori sottoposti a misure penali. Tramite la pratica dell’orticoltura biologica e grazie all’apprendimento sul campo e l’affidamento di precise responsabilità nella cura delle piante, l’obiettivo è quello di offrire ai ragazzi un’opportunità in più di formazione, responsabilizzazione e reinserimento sociale. All’interno di ciascun istituto di pena verrà avviato un piano colturale specifico, per valorizzare la biodiversità dei singoli territori. Si coltiveranno ortaggi e piante officinali e aromatiche di varietà antiche e autoctone, messi a disposizione di aziende dell’associazione o di banche dei semi. I giovani detenuti dell’istituto penale di Palermo, ad esempio, dedicheranno cure e attenzioni a varietà rare di peperoncini piccanti, mentre a L’Aquila si coltiveranno piante autoctone come la cicerchia, il fagiolo di Onna, la patata rossa della Maiella. Giorno per giorno, a ciascun ragazzo verranno assegnati precisi compiti per la gestione degli orti. E tutto il lavoro fatto verrà poi condiviso attraverso la compilazione quotidiana di un diario. Niente banchi di scuola, ma lezioni sul “campo”. E al termine del corso ai ragazzi verrà rilasciato un attestato e un piccolo riconoscimento economico. Un progetto pensato per far nascere una passione e per far apprendere i rudimenti di un nuovo mestiere, che difficilmente viene preso in considerazione da un adolescente che si sta affacciando alla vita adulta: “Può sembrare strano che un ragazzo di 18 anni si appassioni all’agricoltura. E invece, in diverse occasioni, abbiamo riscontrato un buon interesse”, sottolinea Anna Ciaperoni. Giustizia: caso Cucchi… “se non ci fosse stato pestaggio nelle celle non sarebbe morto” di Paolo Montalto Ansa, 17 aprile 2013 Quello di Stefano Cucchi, il geometra arrestato il 15 ottobre 2009 per droga e morto una settimana dopo all’ospedale Sandro Pertini di Roma, fu “un vero e proprio calvario”, fu “torturato, morì per il dolore. Se non ci fosse stato quel pestaggio feroce nelle celle del tribunale, non sarebbe morto”. È stato il passaggio più duro dell’intervento dell’avvocato Fabio Anselmo, al processo che vede imputati sei medici, tre infermieri e tre agenti penitenziari, per accuse che, a vario titolo e a seconda delle posizioni, vanno dall’abbandono d’incapace, all’abuso d’ufficio, favoreggiamento, falsità ideologica, lesioni e abuso di autorità. Secondo l’accusa - che ha chiesto per gli imputati pene tra i sei anni e otto mesi di reclusione, e i due anni di carcere - Stefano fu “pestato” nelle celle del tribunale, dove si trovava prima dell’udienza di convalida dell’arresto, caddero nel nulla le sue richieste di farmaci, e in ospedale reso incapace di provvedere a se stesso e “abbandonato” da medici e infermieri. L’avvocato Anselmo, al processo, rappresenta Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano costituita parte civile. Oggi, l’attaccò ai risultati della perizia disposta dalla Corte, e secondo la quale Stefano morì di inanizione. “Una perizia così importante meritava una cura e una precisione diversi - ha detto Anselmo. C’è un’insufficiente studio delle carte; è piena di affermazioni che sono tanto perentorie quanto scientificamente sbagliate”. Per il legale di parte civile “quella di Stefano non fu una morte improvvisa, ma una morte cardiaca provocata dal dolore atroce per i traumi subiti e anche dal dimagrimento. Respingiamo con forza quello che è stato dato in pasto in maniera subdola e cioè che si sia suicidato. Stefano è stato letteralmente torturato, è morto per il dolore”. Non solo; per Anselmo, “l’accusa nei confronti dei medici è ipertrofica. Le responsabilità di medici e infermieri sono molto gravi, ma vanno circoscritte nell’ambito di una colpa e non in quello di un atteggiamento doloso. Una situazione di abbandono come quella configurata si fa fatica a raffigurarla”. E sulle cause della morte, il messaggio è chiaro: “L’inanizione non è una diagnosi facile; le morti di questo tipo sono rare ed appartengono ad epoche molto lontane. L’imbarazzo di tutti è che Stefano muore in 5 giorni e mezzo, mentre la morte da inanizione per la letteratura interviene dopo 21 giorni. Su questo tema, i periti hanno rifiutato il dialogo; e questo è un segnale di debolezza. Per i periti, i traumi subiti non hanno avuto influenza, e questo non è possibile”. Insomma, per l’avvocato Anselmo, esaminando quanto scritto nella perizia, “gli imputati andrebbero tutti assolti; ma non sarebbe giusto. Se Stefano non fosse stato arrestato, ed è stato giustamente arrestato, sarebbe ancora vivo. Era una persona normale, andava messo in galera per quello che gli contestavano; ma non andava ucciso”. Domani, nuova udienza; la parola passa alle difese. A fine maggio, la sentenza. Giustizia: caso Uva; prosciolti 2 medici, Csm archivia esposti sul pm, verità resta lontana di Elisabetta Reguitti Il Fatto Quotidiano, 17 aprile 2013 Altri due medici sono stati scagionati” esclama Lucia Uva quando Giuseppe Fazio, il gup di Varese, proscioglie dall’accusa di omicidio colposo Matteo Catenazzi ed Enrica Finazzi. Altri due innocenti che hanno rischiato di diventare colpevoli oltre allo psichiatra Carlo Fraticelli, già assolto in primo grado dalla stessa accusa. La vicenda giudiziaria sulla morte di Giuseppe Uva, avvenuta cinque anni fa, sembra un procedimento ad esclusione. Nello stesso giorno dell’udienza preliminare, il Csm ha archiviato i procedimenti a carico del pm di Varese Agostino Abate titolare dell’inchiesta. “Gli atti sono stati trasmessi ai titolari dell’azione disciplinare, il ministro della Giustizia e il Pg presso la Cassazione” scrive l’organo di autogoverno dei magistrati, secondo cui “non esistono i presupposti per il trasferimento d’ufficio” di Abate. Intanto in dieci giorni la famiglia Uva ha sborsato 2mila euro per portarsi a casa una valigia di fotocopie di atti e centinaia di cd con registrazioni, tra cui molte neppure inserite nell’inchiesta. “Devo ringraziare chi ha lanciato e aderito alla sottoscrizione promossa dal giornalista Filippo Vendemmiati e da Articolo21 - racconta la donna. I soldi sono stati usati per ritirare chili di prove. Vorrei solo sapere perché Giuseppe è morto e quali sono state le sue ultime parole”. Fuori dal tribunale, associazioni come la tavola della Pace di Val Brembana insieme a tanti cittadini, così come Ilaria Cucchi e Domenica Ferulli. Quest’ultima attende per il 23 aprile l’inizio del processo (4 agenti rinviati a giudizio) per la morte del padre Michele. In aula Lucia Uva non si è mai seduta. Ha ascoltato il suo legale: “Perché i pantaloni, le scarpe di Giuseppe Uva erano così abbondantemente imbrattate di sangue nonostante negli atti ci sia scritto che aveva modeste escoriazioni sulle gambe? Poi l’accostamento con un altro caso giudiziario simile: “Così come Federico Aldrovandi, anche per Giuseppe Uva è stato scritto che era in preda ad uno stato di agitazione psicomotoria. Semplicemente chiedo di sapere l’origine di tale stato di agitazione”. In aula anche Angela De Mi-lato, figlia di Lucia, che ha presentato una denuncia contro Abate per favoreggiamento e abuso di atti d’ufficio. Ieri in aula lo stesso pm titolare dell’inchiesta ha esordito così: “Gli interventi che ho ascoltato sino ad ora fanno parte di un processo alle intenzioni del pm, del tutto arbitrario”. Assoluzione dei medici imputati, insomma, e Gup che ieri ha chiesto conto ad Abate delle gravi accuse mosse da Lucia Uva contro poliziotti e carabinieri. Il pm ha dichiarato che sono indagati. Le carte però dicono il contrario. Lettere: un uomo ombra italiano e uno albanese si scrivono Ristretti Orizzonti, 17 aprile 2013 Due ergastolani che scontano la loro pena senza possibilità di ottenere benefici penitenziari, e che quindi sono destinati ad un reale fine pena mai, si scambiano lettere da un carcere all’altro. Fino a qualche mese erano vicini di cella, uniti nonostante la grande diversità; ora uno di loro è stato trasferito, ma la vicinanza è sempre forte e sono le lettere a sopperire in qualche modo agli incontri e agli scambi d’opinione. Ecco un loro dialogo scritto: “Caro fratello diavolo, spero che questa lettera ti trovi bene. Leggo con attenzione tutto ciò che scrivi, mi piace molto il tuo diario, sei grande! A casa come stanno, bene? Mi auguro di sì, tanti saluti alla tua famiglia. Abbiamo atteso tanto le votazioni, ma qui nessuno riesce a combinare nulla. Preghiamo l’universo e il cosmo che le cose cambino. Essere pessimista è facile e molto sicuro a volte, ma l’ottimismo è una virtù e la vita già di per se è una tragedia. Io sono sicuro che qualcosa cambierà, se vorrà cambiare. Se no, fratello diavolo, chi se ne frega? Peggio di così! Eppure chi ci tiene in questo stato non capisce che è un criminale con le belle maniere. È una lotta sporca la nostra contro l’ergastolo e, di solito, si è soli quando combatti contro un sistema politico che fa e vive sulla paura. Questa gente ha paura, quindi, sono insicuri e non coraggiosi. Qui mi hanno chiamato per la cella, perché le vogliono fare tutte a due. Io ho detto: lasciatemi finire la scuola se no io non accetto e mandatemi pure dove volete. Queste non sono persone serie. Dopo 12 anni non è facile stare con qualcuno. Fratello, lo sai che non sono d’accordo sullo sciopero della fame, ma ti aiuterò lo stesso. Non so! Ho forti dubbi! È una protesta estrema e inutile in questo paese che è tutto parole ed ho paura che ti faranno morire di fame. Sei troppo ingenuo a non capire la mentalità del tuo popolo. Ascolta, questa storia della cella mi sta innervosendo, non ti lasciano neppure fare la galera in pace. Fratello, sei nel mio cuore e ti stimo tanto. Salutami tutta la tua famiglia, tante parole non servono fra noi, tu lo sai. Ti salutano tutti e tutti mi chiedono di te. Che la forza e l’amore sia sempre nel tuo cuore. Caro fratello diavolo, mi auguro che questa lettera ti trovi come il tuo cuore desidera. Per la cella, purtroppo ci trattano come animali, abbi pazienza, usa la calma e chiedi tempo fin quando non finisci gli studi. Per il resto, lo sai, dentro l’Assassino dei Sogni è meglio non credere e non avere fiducia di nessuno. Riguardo all’idea dello sciopero collettivo di tutti gli uomini ombra per l’abolizione della “pena di Morte Viva in Italia”, lo sai che per noi ergastolani non c’è nessuna compassione, né speranza. Fratello diavolo, per noi non c’è niente. C’è solo sofferenza per l’eternità. Forse Dio nell’aldilà sarà più misericordioso di questi uomini che ci hanno condannati a essere murati vivi per sempre. Fratello diavolo, abbiamo una forza che nessun altro prigioniero ha:, la forza della disperazione. Forse alcuni di noi moriranno di fame perché altri abbiano una pena con un inizio e una fine.. Siamo destinati a morire in carcere, ma se mostriamo agli altri la via, forse alcuni ci seguiranno. E se non lo faranno, sarà peggio per loro. Fratello diavolo, comunque vada faremo tutti un affare, noi smetteremo di vivere per nulla e la società smetterà di mantenere (c’è la crisi finanziaria) dei morti che camminano. Fratello diavolo, abbiamo la possibilità che possiamo morire come essere umani e non come zombi. E quando sarà il mio momento, penserò alle parole che Platone fa dire a Socrate: “È giunta, ormai, l’ora di andare, io a morire, voi a vivere. Chi di noi vada a miglior sorte, nessuna lo sa, tranne il Dio”. Fratello, che la forza e l’amore sia sempre nel tuo cuore. Gerti Gjenerali, carcere di Spoleto Carmelo Musumeci, carcere di Padova Liguria: insediata Commissione regionale per i controlli sanitari negli istituti penitenziari www.ivg.it, 17 aprile 2013 Lorenzo Pellerano (Liste civiche per Biasotti presidente) ha illustrato un’interrogazione relativa ai controlli sanitari negli istituti penitenziari. Il consigliere ha ricordato che il decreto del Governo del 1 aprile 2008 sulle “Modalità e criteri per il trasferimento al Servizio Sanitario Nazionale delle funzioni sanitarie dei rapporti di lavoro, delle risorse finanziarie e delle attrezzature e beni strumentali in materia di sanità penitenziaria” all’articolo 5 prevede il trasferimento alle Regioni delle funzioni sanitarie afferenti agli ospedali psichiatrici giudiziari ubicati nel territorio delle medesime. Pellerano ha sottolineato, inoltre, che con la delibera 364 del 30 marzo 2012 vengono stabilite le indicazioni per un modello organizzativo omogeneo nel Servizio Sanitario Regionale per realizzare un sistema integrato per la salute in carcere e delle persone del circuito penale e ha aggiunto che le persone detenute accedono alle prestazioni del Servizio Sanitario Regionale attraverso i Dipartimenti Aziendali per le cure primarie, le prestazioni assistenziali destinate a chi ha problemi legati a patologie psichiatriche o di dipendenza, le prestazioni collegate a funzioni di controllo e sorveglianza delle malattie infettive, vaccinazioni, medicina legale. Infine Pellerano ha ricordato che “il 6 dicembre 2011 è stato approvato un ordine del giorno in cui si impegnava la Giunta a disporre che le Asl effettuassero ispezioni semestrali nelle carceri per monitorare le condizioni sanitarie dei detenuti, le condizioni igienico - sanitarie delle celle che li ospitano ed, infine, le condizioni di vivibilità all’interno delle celle, di fatto di gran lunga sovraffollate”. Il consigliere, infine, ha chiesto alla giunta “se sia stata istituita la Commissione regionale per la salute in carcere e delle persone inserite nel circuito penale, così come stabilito nella delibera 364 del 2012; se siano diventate attuative le indicazioni organizzative previste dalla delibera; se la Giunta abbia dato seguito all’impegno previsto dall’ordine del giorno n. 290, approvato il 6 dicembre 2011 e, quindi, se siano state eseguite le ispezioni semestrali e quali sia stato l’esito di dette ispezioni”. Per la giunta ha risposto l’assessore alla salute Claudio Montaldo: “La commissione si è insediata il 14 gennaio scorso e ha definito il programma dei lavori che ha come obiettivo predisporre una proposta alla giunta del programma triennale per la salute in carcere. Tutte le Asl hanno recepito la delibera regionale del 30 marzo 2012 e la giunta ha dato seguito alle ispezioni nelle carceri. Nell’ispezione dell8 giungo 2011 presso la casa circondariale di Sanremo sono state rilevate alcune situazioni di rischio fra “improbabile” e “moderato” e sono state indicate le misure di sicurezza da adottare. Una analoga ispezione è stata programmata il 28 febbraio 2013 nel carcere di Imperia, ma la relazione non è ancora disponibile. L’11 dicembre 2012 è stato effettuato un sopralluogo nella casa circondariale di Savona dove è stato evidenziato il permanere di carenze igienico sanitario di cui alcune rimediabili con interventi di ordinaria manutenzione e altre con interventi straordinari. Asl 3 ha svolto sopralluoghi nelle carceri di Marassi e Pontedecimo e il prossimo controllo è previsto entro giugno. Nel 2012 è stato effettuato un controllo nella casa circondariale di Chiavari dove è stata rilevata una non conformità igienico-sanitaria per la quel sono stato chiesti i necessari interventi di adeguamento. La casa circondariale della Spezia è stata oggetto nel 2011 e nel 2012 di varie ispezioni da parte della commissione sanitaria e questo intervento si inseriva in un progetto di ristrutturazione del carcere che ha permesso di realizzare ambulatori moderni: sii prevedono interventi con offerta vaccinale, screening tubercolare e del colon retto. Quindi - ha concluso - anche se con molta fatica, stiamo andando a regime con un servizio nuovo per la sanità e che richiede un coordinamento con l’amministrazione penitenziaria, che è molto buono”. Pellerano (Liste Biasotti) ha replicato ricordando che garantire la sanità in carcere è un dovere morale, che la prevenzione è importante in un luogo dove si concentrano molte patologie e ha ricordato come un’emergenza sanitaria sia rappresentata anche dalla presenza di tanti detenuti tossicodipendenti. Emilia Romagna: a Reggio progetto per l’edificazione della struttura che sostituirà l’Opg Ansa, 17 aprile 2013 “Entro l’1 aprile 2014, quindi con una proroga di un anno rispetto alla scadenza stabilita dalla legge 9/2011, saranno soppressi i sei ospedali psichiatrici giudiziari esistenti in Italia (uno in Emilia Romagna: Reggio Emilia) e sostituiti da 21 Residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza sanitaria (Rems), una per ogni Regione”. L’ha spiegato l’assessore alla Sanità dell’Emilia-Romagna, Carlo Lusenti, oggi in commissione regionale Politiche per la salute e politiche sociali, presieduta da Monica Donini. “Entro il 15 maggio ciascuna Regione - ha rilevato Lusenti - dovrà presentare un progetto per la realizzazione di queste strutture che saranno esclusivamente di tipo sanitario. La Regione Emilia-Romagna ha già presentato il progetto per l’edificazione ex-novo della struttura che sarà realizzata nel comune di Reggio Emilia, in zona agricola, di proprietà dell’Ausl. La struttura prevede 36 posti, divisi in due moduli di 18 posti letto e garantirà la continuità dei servizi di presa in carico, con personale esclusivamente sanitario e non ci sarà all’interno della struttura, eccetto il perimetro esterno, personale di polizia”. Attualmente, da atti dell’assessorato, nell’Opg di Reggio Emilia sono presenti 165 ospiti (la capienza è di 100), rispetto ai 300 accolti in passato: 92 di bacino (di cui fanno parte cinque regioni: 25 dell’Emilia-Romagna) e 56 di altre regioni; i restanti sono classificati come senza fissa dimora. Diversi i consiglieri intervenuti per chiarimenti. Liana Barbati (Idv) ha sollevato alcune preoccupazioni per la delicata fase di passaggio. Marco Carini (Pd) si è soffermato sulla preoccupante situazione del carcere di Piacenza. La presidente Monica Donini ha auspicato modifiche al Codice penale per quanto riguarda determinate pene. Giuseppe Pagani (Pd) ha tenuto a sottolineare il meritevole lavoro svolto dalle associazioni di volontariato e dai servizi socio-sanitari nell’Opg di Reggio Emilia. Marche: Università per i detenuti… verso il diritto di studio nelle carceri marchigiane di Chiara Nardinocchi www.uniurb.it, 17 aprile 2013 Urbino guida gli atenei marchigiani per garantire il diritto allo studio anche ai detenuti nelle carceri. A questo proposito il rettore Stefano Pivato ha dato il via alle procedure amministrative per l’approvazione della convenzione tra Università e il garante dei diritti civili delle Marche. La bozza della convenzione dovrà essere approvata da tutti gli atenei della regione che la dovranno firmare di concerto con l’Ombudsman marchigiano. Una situazione che è stata sbloccata dall’incontro tra Pivato con il Garante Italo Tanoni, l’Università di Urbino è ottimista e spera che presto anche le Marche potranno essere annoverate tra quelle regioni che in Italia garantiscono il diritto all’istruzione universitaria ai detenuti. Molti però sono i problemi da fronteggiare. In primis il problema economico. Infatti, stando all’articolo 44 del Dpr 230/2000, le Università dovrebbero facilitare economicamente i detenuti e il personale della Polizia penitenziaria che volessero continuare la propria formazione universitaria. Un altro problema da affrontare è l’istruzione dei detenuti della 41bis, ovvero il “regime di carcere duro” previsto per i criminali più pericolosi. Per far convivere la limitata possibilità di comunicare con l’esterno con la necessità di seguire lezioni e fare esami, l’Università e il Garante stanno valutando l’idea di potenziare la teledidattica, ossia lezioni via web. Si stanno valutando metodi per favorire la formazione dei reclusi più pericolosi ed evitare che il canale universitario sia usato per comunicare in modo illecito con l’esterno. Un primo passo per le Marche dunque, che così metteranno in pratica l’art. 14 della Legge Regionale 23/2008 che dice che l’Ombudsman della Regione “assicura alle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale che siano erogate le prestazioni inerenti la tutela della salute, l’istruzione e la formazione professionale e altre azioni finalizzate al recupero, alla reintegrazione sociale e all’inserimento nel mondo del lavoro secondo quanto previsto dalla normativa regionale vigente”. Le procedure sono state avviate sulla falsa riga di quelle regioni italiane che hanno un polo universitario degli istituti penitenziari. Infatti in Veneto, Emilia Romagna e Toscana il diritto allo studio universitario nelle carceri è già garantito. Lazio: intitolato a Leda Colombini il “nido” del carcere romano di Rebibbia Femminile Il Velino, 17 aprile 2013 È stato intitolato a Leda Colombini il nido del carcere romano di Rebibbia Femminile. Scomparsa nel dicembre del 2011, la Colombini, con l’associazione “A Roma insieme”, si era battuta per garantire una vita migliore ai bambini da 0 a 3 anni reclusi con le loro mamme. In ricordo della Colobini è stata apposta una targa, in ceramica e mosaico, realizzata dal Liceo Artistico Statale “Enzo Rossi” indirizzo arti figurative per la pittura e per la scultura. Progetto ed inserti in ceramica sono stati realizzati dalle detenute/allieve che frequentano la sezione staccata dell’Istituto all’interno della Casa Circondariale, mentre il mosaico è stato realizzato dagli allievi della sede centrale della Scuola. Il Liceo “Enzo Rossi” diretto da M. Grazia Dardanelli, è presente da anni a Rebibbia Femminile. Il carcere è parte del territorio della scuola e l’Istituto ha deciso di farsi simbolicamente carico della struttura, aggiungendo ai diritti fondamentali delle detenute quello allo studio, con la consapevolezza che l’attivazione dei corsi possa essere utile anche in vista del ritorno alla libertà. I laboratori artistici presenti sono stati attivati per fornire risorse spendibili come forma di reinserimento sociale. La creatività diventa un mezzo per assicurare l’approccio alla cultura, favorire la crescita integrale della persona, sviluppare spontaneità e desiderio di comunicare. Fra i numerosi progetti realizzati in collaborazione tra studentesse detenute e allievi della sede centrale, i mosaici nelle stazioni S, Maria del Soccorso e Rebibbia della linea B della metropolitana di Roma. Figura di primissimo piano del Pci e, negli ultimi anni, strenuo difensore dei diritti delle mamme detenute e dei loro figli costretti a vivere in carcere, la Colombini è deceduta in seguito ad un malore che l’ha colpita nel carcere di Regina Coeli, dove stava svolgendo la sua quotidiana opera di volontariato. Nata nel 1929 a Fabbrico di Reggio Emilia, a 14 anni entrò nei Gruppi di difesa delle donna per l’assistenza ai partigiani e partecipò alla lotta di Liberazione. Da militante del Partito Comunista, nel 1948, chiese di poter partecipare a un corso di formazione perché i suoi studi arrivavano solo alla quinta elementare. Agli inizi degli anni Cinquanta arrivò ai vertici della Federbraccianti e, quasi contemporaneamente, negli organismi direttivi del Partito. È stata in Parlamento per due legislature e, più volte, Consigliere e Assessore alla Regione Lazio. Nel volontariato in carcere, come presidente dell’associazione “A Roma Insieme” ha promosso numerosi progetti a favore delle mamme detenute e, soprattutto, per i bambini fino a tre anni reclusi nel carcere di Rebibbia con le loro madri. Sicilia: Padua (Pd); no a chiusura delle Case circondariali di Modica, Mistretta e Nicosia Agenparl, 17 aprile 2013 “No alla chiusura delle case circondariali di Modica, Mistretta e Nicosia prevista dal Ministero di Giustizia”. Lo ha detto la senatrice del Pd Venera Padua intervenendo oggi nell’Aula del Senato. “Non si può cancellare con un taglio di forbice - ha proseguito la senatrice - un modello esemplare che ha diritto di diventare patrimonio e conoscenza del nostro Paese. Pur in presenza di oggettive ragioni che hanno spinto il Ministero ad una simile determinazione ho potuto constatare, in una recente visita presso la Casa circondariale di Modica, l’attenzione alla persona realizzata in maniera straordinaria presso questa struttura”. “È importante - ha continuato Padua, che sul tema ha annunciato un’interrogazione urgente - che venga rispettata la finalità costituzionale di recupero sociale e civile delle persone detenute che, in queste strutture trova piena attuazione, per la piena collaborazione tra Direzione, Polizia Penitenziaria e tutti gli altri soggetti che vi operano. I soggetti detenuti in questa struttura con il loro lavoro di manovali, idraulici, elettricisti, hanno reso dignitosi l’intera struttura carceraria, le celle che li ospitano, pulito gli arenili di Modica e, con un progetto della sovrintendenza ,stanno per iniziare l’apertura della struttura monumentale”. “Da qui un forte appello al Senato ed al Governatore - ha concluso la senatrice Padua - affinché sia garantire la speranza di recupero per queste persone anche attraverso l’esistenza di queste strutture positive”. Viterbo: Sappe; sparato colpo di fucile contro muro penitenziario… è un brutto segnale Adnkronos, 17 aprile 2013 “Il colpo di fucile contro il muro di cinta del carcere di Viterbo è sicuramente un brutto segnale che giunge agli uomini e alle donne della Polizia penitenziaria”. È quanto afferma Donato Capece, segretario generale del Sappe, sindacato autonomo di Polizia Penitenziaria. “Deve far riflettere - aggiunge Capece - coloro che vogliono stringere patti di responsabilità con i detenuti in carcere. È la filosofia del capo del Dap Tamburino e del suo vice Pagano, che tendono ad abbassare i livelli di sicurezza degli istituti attraverso la vigilanza dinamica, mettendo a rischio l’incolumità dei baschi azzurri”. Il Sappe “auspica quanto prima di avere un ministro della Giustizia con cui interloquire per fare chiarezza su un’Amministrazione penitenziaria completamente allo sbando”. Quanto accaduto a Viterbo - prosegue Capece - dimostra emblematicamente la crescente tensione che si registra nelle carceri del Paese, già caratterizzate da un elevato numero di aggressioni ad appartenenti alla Polizia Penitenziaria e da una altrettanto considerevole serie di suicidi e tentativi di suicidio di detenuti”. “Ignoti - ricorda il leader dei baschi azzurri del Sappe - sono arrivati a sparare un colpo di arma da fuoco colpendo la postazione della sentinella del muro di cinta, l’avamposto - primo filtro per l’accesso in carcere. Per fortuna, nessuno è rimasto ferito ma non è stato possibile risalire all’autore della grave, violenta e inaccettabile intimidazione. Nonostante non si siano registrati incidenti - conclude il Sappe - riteniamo sia il caso di tenere alta l’attenzione, intensificando le misure di sicurezza, al fine di garantire l’incolumità di quanti operano all’interno del carcere, ma anche dei cittadini”. Sarno: Uil-Pa; attentato legato ad antagonismo politico “Sono in corso le indagini, ma dalle prime informazioni pare che l’atto intimidatorio, meglio l’attentato, sia riconducibile alla presenza di detenuti legati all’area dell’antagonismo politico”: è quanto dichiara il segretario generale della Uilpa penitenziari, Eugenio Sarno, in merito al colpo di carabina stato sparato ieri verso una delle garitte del muro di cinta del carcere Mammagialla a Viterbo. ‘È solo grazie alla blindatura del vetro della garitta - dice Sarno - che non commentiamo una tragedia. Abbiamo ragione di credere che il colpo sia stato sparato per attentare alla vita dell’agente in quel momento all’interno della garitta, considerato che è stato sparato ad altezza d’uomo”. La Ui-Pa chiede dunque alla direzione e al provveditorato regionale di “attivare un percorso di confronto per esaminare i migliorativi da apportare all’attuale organizzazione del lavoro per garantire maggiore sicurezza, anche in relazione a precedenti atti intimidatori quali buste con proiettili, pacco bomba e altri. I circa 200 detenuti classificati ad alta sicurezza e i circa 50 sottoposti al 41 bis sono più che una buona ragione - conclude Sarno - per trovare una sintesi condivisa per migliorare le condizioni complessive della sicurezza del carcere viterbese”. Milano: domiciliari in convento per ex cappellano carcere accusato di violenze su detenuti Tm News, 17 aprile 2013 Passa dal carcere di Bollate agli arresti domiciliari in un convento don Alberto Barin, il cappellano di San Vittore finito in manette il 21 novembre scorso per concussione e violenza sessuale in relazione a 6 episodi poi diventati 11 ai danni di detenuti. Nel frattempo le presunte vittime di don Barin erano state sentite con la formula dell’incidente probatorio al fine di cristallizzare la prova. Per cui le esigenze cautelari si sono attenuate e il gip Enrico Mazi ha accolto l’istanza del difensore Mario Zanchetti, nonostante il parere “nettamente contrario” della procura di Milano. Don Barin comunque ha il divieto di intrattenere qualsiasi rapporto con l’esterno del convento in cui attenderà la chiusura dell’indagine ormai prossima e la richiesta di rinvio a giudizio alla quale dovrebbe seguire un processo con rito abbreviato. Il cappellano secondo l’accusa approfittava del suo ruolo per costringere i detenuti a prestazioni sessuali in cambio di favori relativi alla vita carceraria e piccoli regali. Secondo la difesa i rapporti invece erano consenzienti. Catania: poliziotto penitenziario arrestato con l’accusa di “favori” a detenuti mafiosi Agi, 17 aprile 2013 Per soddisfare la propria “passione” per i videogiochi, venendo meno ai propri doveri di pubblico dipendente, avrebbe fornito un “concreto, consapevole e volontario contributo all’associazione mafiosa Santapaola, agevolando la conservazione ed il rafforzamento delle capacità operative dell’associazione, all’interno delle mura carcerarie”. È l’atto d’accusa del gup Giuliana Sammartino nei confronti di Giuseppe Seminara, assistente Capo della Polizia penitenziaria in servizio nel supercarcere di “Bicocca”, finito tra i 75 arrestati dell’operazione “Fiori Bianchi Tre” contro il clan Santapaola. Ad accusare Seminara è il pentito Gaetano D’Aquino che ha indicato il “poliziotto penitenziario del carcere di Bicocca”, affermando che “si prestava a fare favori” al clan “Santapaola” e, in particolare, “faceva entrare telefoni, champagne ed altro”. Agli atti dell’inchiesta è finita pure la valutazione del comportamento in servizio di Seminara, definito dalla direzione del carcere “non particolarmente brillante”. E stamane nell’ambito dell’operazione antimafia “Fiori Bianchi” si è costituito nella caserma del comando carabinieri di piazza Verga, Giuseppe Bosco di 35 anni, sfuggito ieri alla cattura. Torino: Sappe; detenuto con telefonino, ci serve strumentazione adeguata per impedirlo Adnkronos, 17 aprile 2013 “Nel carcere di Torino l’attenta vigilanza di un nostro poliziotto ha scoperto il tentativo di cessione da un detenuto all’altro di un telefono cellulare”. È quanto afferma Donato Capece, segretario generale del Sappe, sindacato autonomo di Polizia Penitenziaria. “Quanto avvenuto - aggiunge - ci impone di tornare a chiedere al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria interventi concreti come ad esempio la dotazione ai reparti di Polizia Penitenziaria di adeguata strumentazione tecnologica per contrastare l’indebito uso di telefoni cellulari o altra strumentazione elettronica da parte dei detenuti nei penitenziari italiani”. “Non a caso - fa notare Capece - in più occasioni il Sappe ha richiamato l’attenzione delle autorità dipartimentali in ordine ad alcune situazioni che con una certa frequenza interessano gli Istituti penitenziari e in particolare sull’indebito uso di telefoni cellulari e altra strumentazione elettronica da parte dei detenuti per le comunicazioni con l’esterno. Mi auguro che dopo il ritrovamento del telefono cellulare all’interno del carcere di Torino, si faccia concretamente qualcosa per contrastare questo grave fenomeno”. Torino: il 20 aprile “Giustamente, un viaggio nelle carceri italiane”, con Pepino e Mellano Prima Pagina, 17 aprile 2013 Il 20 aprile al Liceo Norberto Rosa di Bussoleno (To) ci sarà un doppio appuntamento. Alle 9.30 Livio Pepino e Bruno Mellano incontrano gli studenti ai quali presentano “Giustamente - viaggio nelle carceri italiane”, video inchiesta prodotta da fainotizia.it e Radio Radicale; a seguire verranno rese note le opere vincitrici del XVII concorso Valsusa Filmfest. Il titolo di questa XVII edizione del Filmfest è “Donne e Libertà” in quanto, oltre ai temi consueti della memoria storica e della salvaguardia dell’ambiente, vengono riservate sezioni di concorso ed eventi speciali dedicati alle donne, con una particolare attenzione ai crescenti casi di femminicidio, e a vicende legate a conquiste e privazioni di libertà individuali o collettive, con approfondimenti particolari sui casi delle carceri. Al tema delle carceri è stato dedicato anche il progetto “Corti Dentro” ideato in collaborazione con le associazioni Sapori Reclusi e Rete del Caffè Sospeso, con il quale si è portato il Valsusa Filmfest all’interno della Casa di Reclusione Santa Caterina di Fossano (Cn) costituendo una giuria mista per la sezione di concorso “Cortometraggi”, composta dalla giuria del festival e da una selezione di detenuti. Le opere sono state proiettate contemporaneamente il 13 aprile dalle ore 15.30 nel cinema di Condove (To) e nel carcere con collegamenti via skype autorizzati dal Ministero dell’Interno. Una bellissima serata che ha registrato un’ottima partecipazione di pubblico Livio Pepino (12 dicembre 1944) è un magistrato italiano. Dal 2006 al 2010 è stato membro del Consiglio Superiore della Magistratura, l’organo di autogoverno dei giudici. In passato ha ricoperto i ruoli di consigliere di Cassazione, sostituto procuratore generale a Torino e presidente di Magistratura Democratica. È direttore di Questione Giustizia (Franco Angeli), rivista bimestrale promossa da Magistratura Democratica e co-direttore di Narcomafie (Gruppo Abele Editore), mensile “redatto in stretta collaborazione con Libera”. È co-direttore scientifico di Diritto, immigrazione e cittadinanza (Franco Angeli), rivista trimestrale promossa da Asgi e da Magistratura Democratica. Bruno Mellano (Fossano, 21 settembre 1966) è un politico italiano, attivista del Partito Radicale e dei Radicali Italiani. Come tale si è distinto, negli anni, per la grande quantità di iniziative politiche intraprese in Piemonte in favore dei diritti civili e politici e per il sostegno a tutte le battaglie Radicali in favore dei diritti umani dei popoli oppressi, soprattutto per la libertà del popolo tibetano. Attualmente fa parte dell’Assemblea federale degli Ecologisti e reti civiche - Verdi Europei, del board dell’Associazione Nessuno tocchi Caino e del Comitato della Regione Piemonte per l’affermazione dei valori della Resistenza e dei principi della Costituzione repubblicana. “Giustamente - viaggio nelle carceri italiane” video inchiesta, prodotta da Fainotizia.it e Radio Radicale, sullo stato delle carceri italiane, autorizzata dal Ministero di Giustizia con testimonianze da 8 carceri diverse, ma emblematiche della realtà penitenziaria generale: Messina, Sassari, Brescia, Roma, Milano, Napoli, Favignana (Trapani) e Palermo. Durante i mesi di agosto, settembre e ottobre 2011 gli autori sono entrati in otto diversi istituti di pena per raccogliere testimonianze e dare voce a detenuti, direttori, agenti, educatori, psicologi, cappellani e altri operatori: tutti membri di una comunità penitenziaria sofferente e tutti prigionieri di un sistema ormai al collasso. È nato così “Giustamente”. Non una semplice video-inchiesta, ma un viaggio esclusivo all’interno di alcune tra le realtà più problematiche del pianeta carcere; in angoli remoti, in cui nessuna telecamera era mai entrata prima, dove vivono stipate migliaia di persone, confinate oltre i limiti della legalità costituzionale, tra miseria e solitudine, ai margini di una società per lo più ignara del dramma che ogni giorno si consuma nelle nostre galere. Bari: “E-visioni”… quando il film entra in carcere di Vito Attolini La Gazzetta del Mezzogiorno, 17 aprile 2013 L’ex Palazzo delle Poste ha ospitato in questi giorni una interessante mostra, “eVisioni - il carcere in pellicola, collage e graffiti”, allestita attingendo al ricco archivio della Mediateca Regionale, da poco risorta a nuova vita dopo una lunga inattività. La manifestazione è nata dall’impegno profuso dall’associazione “Antigone Piemonte Onlus”, finanziata dalla Regione Puglia - Assessorato al Mediterraneo, Cultura e Turismo, e realizzata in collaborazione col Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Bari, il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Torino, la Mediateca Regionale Pugliese, il Centro studi dell’Apulia Film Commission, il Museo della Memoria Carceraria - La Castiglia di Saluzzo (Cn), il Ministero della Giustizia - Casa circondariale di Bari e l’associazione “Sapori Reclusi”. La mostra comprende una raccolta di manifesti cinematografici relativi a film carcerari ovvero al prison movie, uno dei più appassionanti e longevi fra i generi cinematografici (nato nel cinema americano, dove ha la sua “sede” d’elezione, agli inizi del sonoro, come naturale quanto complementare prosecuzione del gangster movie). Pur spettando al cinema hollywoodiano la primogenitura di tale genere, esso si è esteso dopo ad altre cinematografie, soprattutto europee, la cui filmografia non manca di opere di grande rilievo. Come sottolineato dai curatori Claudio Sarzotti e Guglielmo Siniscalchi, la mostra spazia dai primi anni Trenta del secolo scorso fino ai giorni nostri, e in essa si colloca l’esposizione dei collage eseguiti dall’artista Agnese Purgatorio con le detenute della Casa Circondariale di Bari per il “Centro di Documentazione e Cultura delle Donne”, nonché delle fotografie di graffiti carcerari, a cura di Davide Dutto, realizzate presso l’ex carcere della Castiglia di Saluzzo, luogo che ospiterà tra qualche mese il primo museo in Italia dedicato interamente alla storia del carcere. La mostra rientra in un più ampio programma che, iniziato giorni fa si conclude oggi con un seminario, “Inside carceri”, il cui filo conduttore è l’istituto carcerario nel suo complesso, con particolare attenzione alle distorsioni e ai limiti - di cui le cronache di tanto in tanto ci riferiscono - che ne compromettono la funzionalità e i fini. La giornata odierna, sempre all’ex Palazzo delle Poste, prevede alle ore dieci la proiezione del documentario Inside carceri, cui seguirà un dibattito organizzato dalla Associazione “Radicali Bari” al quale partecipano il professor Claudio Sarzotti della Associazione Antigone, Rita Bernardini ex deputata Radicale ed ex membro della Commissione Giustizia, l’avvocato Michele Mea della Associazione “Prospettiva Legale”. Il documentario è un reportage di “Next New Media” e degli attivisti di “Osservatorio Antigone”, associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale, i quali hanno visitato 25 istituti in tre mesi per attestare la situazione delle carceri italiane mediante interviste a detenuti e operatori penitenziari, da cui emergono violazioni dei diritti nonché situazioni di vita insostenibili: celle senza finestre, stanze sovraffollate nonostante vi siano reparti costruiti e mai aperti. Un paradosso tutto italiano. Brindisi: lunedì “Autoritratti dal carcere”, con l’Associazione Namastè e Vito Alfarano Comunicato stampa, 17 aprile 2013 L’Associazione Namastè, in collaborazione con Vito Alfarano, presenta “Autoritratti dal carcere”. L’evento si svolgerà a Brindisi lunedì 22 aprile alle ore 20.30 nella sede dell’associazione in Piazza delle Orchidee presso l’ex scuola materna quartiere La Rosa. Dal 2008 al 2010, da un’idea del danzatore e coreografo brindisino Vito Alfarano, nasce il progetto “Oltre i confini”, laboratorio artistico teso a fornire ai detenuti gli strumenti di socializzazione per l’educazione alla “conoscenza di sé nel gruppo” e alla “interrelazione con gli altri” attraverso la pratica dei linguaggi teatrali, di movimento e musicalità seguendo uno specifico percorso formativo. L’artista, che nel 2000 inizia la sua attività professionale da freelance, presenterà questo progetto svolto con i detenuti del carcere di Rovigo. Il dibattito sarà accompagnato dalla visione video di alcuni lavori realizzati nel triennio da un team di esperti e prodotti dall’associazione Balletto città di Rovigo compagnia Fabula Saltica in collaborazione con la Casa Circondariale di Rovigo e il Ministero della Giustizia: Il rumore dell’amore, Dietro al ritratto e Il mio grido. Il rumore dell’amore, realizzato nel 2008, è uno spettacolo di danza ispirato a Paolo e Francesca e agli innamorati contemporanei. L’innamoramento è il tema conduttore, con tutti i suoi “rumori”, a volte sono suoni delicatissimi altre volte fragori tempestosi. La danza di Paolo e Francesca è commovente e si contrappone alla freddezza dei rumori delle carceri dove, attraverso il laboratorio con i detenuti, sono state raccolte immagini, parole, canzoni, lacrime e sorrisi. Ecco allora le storie degli innamorati contemporanei, siano essi detenuti o liberi. Nel 2009 è stato realizzato “Dietro al ritratto”. Un documentario backstage che testimonia l’attività laboratoriale per la preparazione di Autoritratti dal carcere, video istallazione proiettata sugli edifici di un luogo centrale della città, in cui dodici detenute/i seduti davanti ad un “muro di domande” parlano di sé. Nel 2010 il laboratorio Oltre i confini III ha portato alla realizzazione de Il mio grido, un videoclip sul grido interiore, latente nell’uomo, pronto ad esplodere quando la solitudine e l’impossibilità di comunicare si tramutano in disagio dell’anima. Sette minuti in cui la nudità esprime potenza, ma allo stesso tempo fragilità e lo sfondo bianco elimina qualsiasi possibilità di collocamento nello spazio. Il rumore dell’amore con le coreografie di Vito Alfarano e la regia di Luigi Marangoni, è stato presentato anche a Roma nel teatro del Carcere di Rebibbia nel gennaio del 2012. Dietro al ritratto di Alessandro Gasperotto è stato selezionato al Med Film Festival 2011 (Festival del cinema del Mediterraneo) mentre Il mio grido ha ricevuto una menzione speciale al Premio Letterario Nazionale “Carlo Castelli” per la solidarietà (2012). Hanno lavorato al progetto: Vito Alfarano, responsabile del progetto, coreografo e danzatore; Alessandro Alfonsi, musicista e percussionista, Alessandro Gasperotto, video maker; Ludovico Guglielmo, operatore video; Giulio Cesare Grandi, foto reporter; Luigi Marangoni, attore e regista; Simone Pizzardo, compositore e tecnico del suono e Camilla Ferrari, attrice e cantante. Svizzera: morto detenuto in sciopero fame da gennaio, ha rifiutato cure “come suo diritto” Apcom, 17 aprile 2013 Un carcerato è morto martedì nell’ospedale di Baar, dov’era stato ricoverato dopo aver intrapreso uno sciopero della fame, sciopero che durava da gennaio. Nel dare la notizia, le autorità del Cantone Zugo hanno precisato che l’uomo, uno svizzero di 32 anni in pieno possesso delle sue facoltà mentali, aveva intrapreso la protesta per ottenere la liberazione. Richiesta impossibile da assecondare. In prigione dal 2009, era stato condannato per aver attentato alla vita altrui. Il detenuto ha rifiutato qualsiasi cura volta a salvargli la vita, desiderio che è stato rispettato, avendone diritto. Siria: attivisti; l’avvocato Al Saqqal morto sotto tortura dopo arresto Ansa, 17 aprile 2013 “In coincidenza con l’illusoria amnistia” concessa per i reati comuni dal presidente Bashar al Assad, il Centro per la documentazione per le violazioni dei diritti umani in Siria (Vdc) denuncia la morte sotto tortura in carcere di un avvocato e attivista per i diritti umani, Mohammad Burhan Ahmad al Saqqal. “L’avvocato Al Saqqal - scrive il Vdc in un comunicato ricevuto dall’Ansa - era stato arrestato il 12 ottobre 2012 e di lui non si era più saputo niente fino ad oggi, quando la sua famiglia ha ricevuto una telefonata dalla polizia militare di Damasco in cui la si invitava ad andare a prendere il suo cadavere”. Al Saqqal, sposato e padre di cinque figli, era stato arrestato una prima volta nell’agosto del 2011 e poi rilasciato. Il legale, sottolinea il Vdc, aveva mostrato i segni delle torture subite ai colleghi dell’ordine degli avvocati, ciò che “non ha fatto muovere un dito. In seguito le forze di sicurezza avevano fatto un’incursione nella sua casa - aggiunge il Centro di documentazione - prima del suo secondo arresto, nell’ottobre scorso”. Israele: oggi la “Giornata del prigioniero palestinese”, tra proteste e polemiche Ansa, 17 aprile 2013 Circa 3.000 detenuti palestinesi nelle prigioni israeliane hanno rifiutato stamattina la colazione in adesione alla “Giornata del prigioniero palestinese”. Lo riferisce il sito Ynet che riporta anche la notizia che attivisti hanno tagliato la recinzione intorno al carcere di Ofer, che si trova in Cisgiordania, vicino Ramallah. Fonti palestinesi - citate dal sito - hanno detto che l’esercito israeliano e le forze di sicurezza di frontiera sono intervenuti per disperdere i manifestanti. Giorno del Prigioniero, Barghouti contro Fatah (Nena News) Il leader detenuto accusa l’Anp: “Non fate abbastanza per liberarmi”. Il Ministero dei Prigionieri annuncia: “Non pagheremo più le multe dei detenuti a Israele”. Manifestazione in corso a Ramallah per la Giornata del Prigioniero Palestinese. Una folla di circa 300 persone si è radunata in Piazza dell’Orologio. Dal palco la madre di Samer Issawi ha fatto appello al presidente dell’Anp Abbas e alla comunità internazionale perché intervengano subito per salvare la vita del figlio. Intanto nelle carceri israeliane, circa tremila detenuti palestinesi sono in sciopero della fame per protestare contro le politiche detentive israeliane. Nella Giornata del Prigioniero Palestinese, celebrata ogni anno il 17 aprile, in solidarietà con le migliaia di detenuti palestinesi nelle carceri israeliane, la società civile organizza commemorazioni e i vertici politici fanno polemiche. Gli ultimi mesi sono stati intensi sul fronte del movimento dei prigionieri politici: due morti e quattro scioperi della fame, due dei quali finiti con l’esilio. Il 18 febbraio Arafat Jaradat, 30enne di Hebron, è morto dopo una settimana di detenzione nel carcere di Megiddo, probabilmente ucciso dalle torture. Il 2 aprile, a morire è stato il 64enne Maysara Abu Hamdiya, malato terminale di cancro a cui Israele non ha fornito le necessarie cure. Resta in carcere e prosegue lo sciopero della fame Samer Issawi, 33 anni, residente nel quartiere di Issawiya a Gerusalemme: negli ultimi giorni il detenuto è stato sottoposto a forti pressioni da parte delle autorità israeliane perché accetti la deportazione nella Striscia di Gaza o all’estero in cambio del rilascio. Issawi continua a rifiutare: “O libero a Gerusalemme o preferisco morire”, a più volte ripetuto. Ieri proprio a Gaza sono stati i più piccoli a celebrare i prigionieri palestinesi: centinaia di bambini hanno lanciato in aria palloncini colorati che hanno portato i loro messaggi, scritti su piccoli pezzi di carta. Si muovono anche i vertici politici: il ministro per gli Affari dei Prigionieri dell’Autorità Palestinese, Issa Qaraqe, ha fatto sapere che Ramallah non intende più pagare le multe imposte dalle corte militari israeliane ai detenuti palestinesi e non rimborserà quelle già pagate dalle famiglie dei prigionieri. Per ragioni politiche: “Le multe imposte ai prigionieri sono parte del ricatto israeliano volto a finanziare le spese dei tribunali, i palestinesi coprono il budget dei loro secondini”, ha detto a Gulf News Jawad Al Amawi, capo dell’Ufficio Legale del Ministero. “Ogni anno le corti militari israeliani ricevono 50 milioni di shekel [10 milioni di euro, ndr] dai detenuti palestinesi, tanto da diventare autosufficienti finanziariamente e indipendenti dalle altre istituzioni israeliane”. In genere, infatti, ogni palestinese arrestato deve pagare una multa che si oscilla tra i mille e i duemila shekel. Per questo, l’Anp avrebbe deciso di non pagare più le multe alle prigioni israeliane, ma di voler continuare a garantire un salario mensile ai prigionieri politici: “Abbiamo chiesto alle famiglie dei prigionieri e al Prisoners Club di interrompere i pagamenti delle multe e abbiamo avvertito anche l’Israeli Prison Service”, ha continuato Al Awawi. Sul fronte interno palestinese, nel Giorno dei Prigionieri, non mancano però le polemiche: ieri il leader di Fatah e parlamentare palestinese Marwan Barghouti, in carcere da 11 anni accusato di aver partecipato ad attacchi terroristici contro Israele, si è rivolto all’Autorità Palestinese, ritenuta responsabile di non fare abbastanza per liberarlo. “Non è possibile spiegare un simile silenzio - ha detto Barghouti - Per la prima volta nella storia, i parlamentari di un popolo occupato sono detenuti, vessati e torturati mentre la comunità internazionale e la leadership palestinese restano in silenzio. Qualcosa che non trova spiegazione”. Barghouti ha puntato il dito contro l’accordo Shalit dell’ottobre 2011, quando 1.100 prigionieri palestinesi furono rilasciati in cambio del caporale dell’Idf detenuto a Gaza. Barghouti non fu parte dello scambio, “perché non ci furono le necessarie pressioni politiche”, ha commentato. “È ingiusto e irrazionale che i combattenti palestinesi restino in prigione per altri vent’anni dopo gli Accordi di Oslo. Si tratta di una tragedia dovuta alla negligenza della leadership palestinese”. 236 bimbi palestinesi detenuti in Israele Tra i quasi cinquemila palestinesi detenuti nelle carceri israeliane almeno 236 sono bambini fino ai 12 anni: lo ha reso noto oggi l’Autorità nazionale palestinese in occasione del “Prisoners Day”, secondo quanto scrive l’agenzia Maan. Israele, si legge, è oggi l’unico paese al mondo ad aver istituito tribunali militari per i bambini e dal 2000 ne ha arrestati circa ottomila. Seguendo l’ordinamento giuridico dello Stato ebraico, un bambino palestinese può infatti essere detenuto per un massimo di 188 giorni prima di essere accusato di un reato. Gran parte di loro sono in arresto per aver lanciato pietre, un atto che secondo la legge militare prevede una pena massima di 20 anni di prigione. Stando ad un recente rapporto dell’Unicef, i minorenni detenuti nelle carceri israeliane sono soggetti a una diffusa, sistematica e istituzionalizzata catena di maltrattamenti che viola il diritto internazionale. “Subiscono punizioni crudeli, inumane o degradanti in base alla Convenzione sui diritti del fanciullo e la Convenzione contro la tortura” recita il dossier emesso da Maan. I maltrattamenti includono il bendaggio degli occhi e le mani legate con fascette di plastica e abusi fisici e verbali durante il trasferimento per un interrogatorio. Peggiora detenuto in sciopero fame, autorità trattano compromesso (Adnkronos) Peggiorano le condizioni di salute del detenuto palestinese Samer al-Issawi, 32 anni, da 250 giorni in sciopero della fame. L’uomo, la cui protesta ha generato diverse manifestazioni di solidarietà a livello locale e internazionale, riceve ora alcuni nutrienti per via endovenosa, ma continua a rifiutare il cibo. E il rallentamento del suo battito cardiaco fa sì che potrebbe morire da un momento all’altro, come denuncia il suo avvocato. Per questo le autorità israeliane e palestinesi stanno cercando un compromesso per evitare il peggio. Trasferito dal carcere in un ospedale civile dove è piantonato, Issawi è stato di recente visitato da alcuni negoziati israeliani che gli hanno chiesto di interrompere lo sciopero della fame in cambio di un solo anno di carcere contro la pena decennale che deve scontare. Issawi si è detto d’accordo a condizione che l’anno di detenzione sia fatto risalire alla data del suo arresto lo scorso luglio, come ha spiegato il responsabile dell’organizzazione dei detenuti palestinesi Qadura Fares. e autorità palestinesi avevano chiesto che Issawi fosse rilasciato immediatamente a Ramallah per ricevere un anno di cure mediche dopo le quali avrebbe potuto tornare a Gerusalemme. Ma Israele ha rifiutato. Issawi è stato condannato da un tribunale israeliano per aver aperto il fuoco contro un bus israeliano nel 2002 ed è stato rilasciato nel 2011 insieme ad altri mille detenuti palestinesi nell’ambito dell’accordo con Hamas per la liberazione del caporale israeliano Gilad Shalit. È stato nuovamente arrestato lo scorso luglio con l’accusa di aver violato i termini dell’accordo andando a Gerusalemme Est dalla Cisgiordania. Quest’anno due prigionieri palestinesi sono deceduti mentre si trovavano in carceri israeliane, portando a 207 il totale dei detenuti morti dietro le sbarre in Israele dal 1948. Nove prigionieri del Fronte democratico per la Liberazione della Palestina, l’ala di sinistra a cui appartiene Issawi, oggi hanno annunciato uno sciopero della fame fino a quando lui non sarà liberato. Oggi si celebra la ‘Giornata del prigionierò, comemmorazione annuale dei detenuti palestinesi che attualmente sono 4.800. Le forze di sicurezza israeliane hanno alzato il livello di guardia per possibili proteste. Usa: 40enne nero giustiziato in Texas, “vado verso un mondo migliore” sue ultime parole Ansa, 17 aprile 2013 Un nero di 40 anni è stato giustiziato ieri sera in Texas per aver ucciso un diciassettenne durante un furto d’auto, portando a 495 il numero di esecuzioni effettuate nello Stato meridionale americano dal 1976. Lo rendono noto fonti penitenziarie. La morte per iniezione letale di Ronnie Threadgill è stata dichiarata alle 18:39 ora locale (1:39 di oggi in Italia), poco dopo la bocciatura del suo ultimo appello davanti alla Corte suprema. “Vado verso un mondo migliore” ha detto il condannato poco prima dell’iniezione. È stato il terzo detenuto messo a morte in Texas quest’anno, l’ottavo in tutti gli Stati Uniti. Egitto: 15 anni di carcere a poliziotto che torturò e uccise salafita durante interrogatorio Aki, 17 aprile 2013 Quindici anni di carcere è la pena inflitta a un agente di polizia accusato di aver torturato fino alla morte l’esponente salafita ultraconservatore Sayed Belal. La sentenza nei confronti di Osama Al Kounayassi è stata emessa dal Tribunale penale di Alessandria, secondo cui l’agente ha usato la tortura per far confessare l’uomo, sospettato di essere coinvolto nell’attentato kamikaze alla Chiesa copta cristiana di due anni fa. Belal era stato arrestato insieme ad altri sospetti per l’attentato del primo gennaio 2011 nel quale furono uccisi almeno 21 fedeli ad Alessandra, al termine della messa di Capodanno. Giappone: “Enzai File”, un giornale in che si occupa solo degli svarioni dei giudici di Giulia Pompili Il Foglio, 17 aprile 2013 L’editoria giapponese è forse l’unica al mondo a godere di ottima salute - complice la lobby degli editori, che da anni si oppone alla rivoluzione digitale e sono pochissimi, infatti, i giornali giapponesi consultabili online - e se vuoi fare un giornale che si occupi per esempio soltanto di errori della magistratura, di processi penali da rifare, di condannati ingiustamente da pm carrieristi, puoi farlo. A passarsela male è infatti il sistema giudiziario giapponese: sulle false confessioni estorte ai sospettati, che spesso determinano il giudizio di primo grado (il grado di condanna in caso di rinvio a giudizio, in Giappone, è al 99 per cento) esistono ormai innumerevoli libri, film, serie tv e fumetti. Enzai File (si pronuncia “enzai fairu”) letteralmente significa “rivista degli errori giudiziari”, è un magazine patinato formato tabloid che esce ogni tre mesi dal maggio 2008 e si occupa esclusivamente di mala giustizia. Costa 450 yen, circa tre euro e mezzo, e la particolarità della redazione è che è l’unica a fare nomi e stilare profili dei giudici, delle figure quasi mitologiche in Giappone, che non parlano mai e di cui non si parla mai. “Il sistema giudiziario giapponese funziona male, è per questo che un giorno ci siamo riuniti e abbiamo deciso di pubblicare la rivista”, dice al Foglio Kobayashi, caporedattore di Enzai File che preferisce firmare i suoi articoli con il solo nome, “da quel momento hanno cominciato ad arrivarci segnalazioni di errori e ingiustizie da ogni parte del Giappone”. Nel 2010 c’è stato anche un restyling della grafica, e il formato è diventato sempre più simile a quello di un tabloid. Sono state messe delle ragazze in copertina, a dispetto degli argomenti serissimi della testata (“È una scelta editoriale che non comprendo bene nemmeno io, quella delle ragazze in copertina”, confessa al Foglio Kobayashi, “e che non condivido granché”). Kobayashi, da giornalista e attivista, si è occupato per circa dieci anni della vicenda del cittadino nepalese Govinda Prasad Mainali, assolto nel 2012 per il caso dell’omicidio di Yasuko Watanabe dopo aver trascorso gli ultimi quindici anni in carcere. Watanabe era un’impiegata della Tepco (quella della centrale nucleare di Fukushima) di giorno, e una squillo di notte. Fu trovata strangolata nel marzo del 1997 in un appartamento di Tokyo. Govinda, che a quell’epoca aveva trent’anni, era stato subito identificato come sospettato, e condannato al carcere a vita. Dopo una lunga battaglia, la prova del Dna l’anno scorso dimostrò la sua estraneità ai fatti. Govinda aveva sostenuto la sua innocenza fin dall’inizio, ma nel corso degli anni i pm “avevano rifiutato di accettare l’idea che non fosse stato coinvolto nell’omicidio”. Secondo alcune denunce, le autorità lo avrebbero costretto a firmare una falsa confessione dopo mesi di interrogatori infiniti e torture psicologiche. Nell’ultimo numero Enzai file dedica quaranta pagine alla vicenda di Govinda: “È stato il caso più mediatico e impressionante della mia carriera di giornalista”, dice Kobayashi. “Certamente non abbiamo una diffusione pari ai grandi quotidiani, ma gli errori giudiziari e alcuni casi di persone ingiustamente condannate stanno avendo un’incredibile attenzione mediatica”, spiega il giornalista giapponese. E cita i due casi che Enzai File, con le sue inchieste, ha contribuito a chiarire: quello dell’omicidio di Ashikaga - Toshikazu Sugaya restò in galera per 17 anni per l’assassinio di una bambina di quattro anni che non aveva compiuto, ma confessato - e il caso di Fukawa - quello di due persone condannate ingiustamente e assolte nel 2011 per un caso di furto con omicidio avvenuto nel 1967.