Affidiamo il rispetto dell’articolo 27 della Costituzione a Emma Bonino Il Mattino di Padova, 15 aprile 2013 Delle carceri si sono occupati anche i “saggi”, chiamati da Napolitano ad avanzare proposte chiare e condivise per uscire dalla situazione di stallo in cui si trova la politica, perché finalmente è chiaro a tutti che qualcosa bisogna fare per contribuire al “contenimento di un sovraffollamento carcerario ormai insostenibile”. Un sovraffollamento che significa prima di tutto che nessuno oggi può uscire da queste carceri reinserito, rieducato come impone la nostra Costituzione, scritta da uomini che la galera l’avevano sperimentata sulla loro pelle, negli anni del fascismo, e sapevano bene quanto è importante che una persona detenuta non stia a “marcire in galera” fino all’ultimo giorno della pena, ma possa iniziare un percorso graduale di ritorno nella società. Allora, la nostra candidata alla Presidenza della Repubblica è Emma Bonino, che si batte da anni con forza per quell’articolo 27 della Costituzione, che se applicato davvero ci renderebbe tutti più liberi e più sicuri. Emma Bonino, una candidata che non ha paura del sostegno delle persone detenute Siamo sicuri che migliaia di detenuti e i loro famigliari vorrebbero Emma Bonino come Presidente della Repubblica, e non solo per l’impegno della Bonino nella tutela dei diritti dei detenuti. È vero infatti che i Radicali sono fra i pochi che in questi anni hanno denunciato le condizioni delle carceri mentre gli altri, spaventati di perdere consenso elettorale, si sono tenuti alla larga dal criticare le politiche di criminalizzazione che riempivano sempre di più le galere, ma dire che vogliamo Emma solo per questo sarebbe una semplificazione, perché Emma non è solo “la lotta per i diritti dei detenuti” e non è solo “la battaglia contro la pena di morte”. Lei è molto di più. La sua passione per la tutela dei diritti ci ha obbligati a seguire da vicino la sua storia, le sue azioni, il suo pensiero. La ricordiamo nella seconda metà degli anni novanta a ricoprire l’incarico di Commissario Europeo, una posizione istituzionale che rappresentava un punto d’arrivo dopo anni di militanza internazionale, ma la ricordiamo anche nel 1990, ai tempi dell’amministrazione Bush e della War on Drugs, protestare a New York distribuendo siringhe sterili, e farsi arrestare. Pochi anni dopo, durante il genocidio serbo, la vediamo promuovere una campagna a favore dell’istituzione del Tribunale Penale Internazionale per l’ex-Jugoslavia. E subito dopo è alla guida della delegazione del Governo Italiano all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite per la “Moratoria sulla Pena di morte”. Non dimentichiamoci allora che l’Italia ha la fortuna di avere una donna con una storia politica e istituzionale forse unica nel mondo. Siamo coscienti che in un momento storico difficile e pieno di contraddizioni ci vuole un Capo di Stato sensibile, competente, e che non abbia paura di parlare di temi poco popolari come la giustizia, le pene e le carceri, ed Emma Bonino è la persona adatta per ricoprire questo ruolo. Emma Bonino la vogliamo Presidente della Repubblica anche perché crediamo che sarà un motivo d’orgoglio per tutti vederla tra i rappresentanti degli altri Stati, una donna coraggiosa e determinata che offrirà una faccia dell’Italia che non si è ancora vista a livello internazionale. E non possiamo nascondere che noi proveremmo ancora più orgoglio nell’ascoltare il suo discorso di fine anno, e continuare a sperare che i suoi immancabili richiami alle condizioni di vita inumane e degradanti di chi deve scontare una pena possano smuovere le coscienze rendendo le galere più rispettose della dignità umana, come dice quell’articolo 27 della nostra Costituzione, di cui il Presidente della Repubblica è garante. E chi potrebbe ricoprire questo ruolo di autentica garanzia meglio di Emma Bonino, che si batte da anni per il rispetto dei diritti umani fondamentali delle persone private della libertà personale? Infine, vogliamo Emma anche perché è donna. Molti di noi hanno fatto disastri fuori e oggi vedono le proprie donne prendere in mano la famiglia, i figli, il lavoro e poi aspettare ai portoni delle carceri per fare un colloquio con il proprio caro. Visti anche i risultati scadenti che spesso i governanti uomini hanno raggiunto in questi anni, siamo sicuri che una donna come lei saprà governare con più intelligenza e con più umanità. La redazione di Ristretti Orizzonti Con una radicale Presidente, ci sarà tanto da fare per tornare alla legalità delle galere Dopo aver visto uomini accatastati in cella come sardine, e quelli che non ci stavano, buttati in una palestra con materassi per terra; dopo aver incontrato un educatore al colloquio di primo ingresso e poi averlo aspettato per mesi, a volte per anni; dopo aver passato giornate intere stesi in branda a non far nulla, dopo continue fughe dalla realtà nelle gocce di “terapia” per abbrutirsi e almeno dormire un pò, siamo stanchi di sentir dire che le carceri stanno scoppiando. Ma non tutto è perso. Quello che un pò ci rassicurerebbe è la prospettiva di vedere Emma Bonino Presidente della Repubblica, perché la sua presenza e la sua competenza potrebbero iniettare un pò di fiducia e di coraggio a una classe politica spesso disattenta quando si tratta di tutelare i diritti di chi è stato privato della libertà. Dopo anni di miseria del dibattito politico sulle carceri, dove l’edilizia penitenziaria sembrava fosse l’unica soluzione, vorremmo voltare pagina. Vorremmo quindi Emma perché vogliamo una classe politica più determinata nell’impegno a ridurre il sovraffollamento carcerario. E per fare questo ci vuole un costante e pressante richiamo al dettato costituzionale. Sappiamo infatti che avere un carcere contrario alla dignità umana è contro la Costituzione, ma ci vuole il coraggio di tutti i partiti politici per promuovere una cultura diversa della sanzione penale: la certezza della pena non deve voler dire “certezza della galera”. Convinti che la responsabilizzazione del condannato sia la strada che porta maggiore sicurezza per i cittadini, vogliamo che il nuovo Presidente faccia sì che nessun detenuto sia tagliato fuori dalle misure alternative alla detenzione, per essere catapultato a fine pena nella società senza nessuna prospettiva, e questo si può fare solo attraverso una condizione detentiva più dignitosa, che garantisca un percorso di risocializzazione graduale dal carcere, con l’opportunità di completarlo poi all’esterno. I tossicodipendenti e gli stranieri sono state le categorie più penalizzate in questi anni di cancerizzazione di massa. Con Emma Presidente, sarebbe più facile ridiscutere le politiche di penalizzazione, riportando la tossicodipendenza fuori dal circuito carcerario, perché abbiamo visto che l’approccio punitivo non ha nulla di curativo. Così come per gli stranieri, che nelle galere di oggi sono i più emarginati, occorre pensare ad incentivare il rientro volontario nei Paesi di origine come misura alternativa al carcere. Consci che l’amnistia gioverà più ai potenti che a tanti poveracci che sono in carcere, insistiamo comunque nel chiederla per riuscire poi a ripartire dalla riforma del Codice Penale, ricordando che, amnistia o no, quegli stessi potenti in galera difficilmente ci entreranno. Infine, dopo vent’anni in cui troppe volte i mass media hanno istigato l’opinione pubblica alla indignazione violenta e anche alla vendetta individuale, un Presidente come Emma saprebbe richiamare a un maggior equilibrio chi fa informazione e ricordare ai giornalisti quanto è importante insegnare ai cittadini che la giustizia va rispettata, e non screditata. Insomma, con una radicale alla Presidenza, ci sarà tanto da fare nelle galere italiane, per tornare alla legalità dello Stato, e sicuramente ad una maggior speranza di cambiamento per le persone che la legalità l’hanno violata. Elton Kalica Giustizia: nel 2012 Corte dei Diritti Umani condanna l’Italia a risarcimenti per 120 milioni Ristretti Orizzonti, 15 aprile 2013 Nel 2012 la Corte europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia al pagamento di 120 milioni di euro, quale risarcimento a persone riconosciute vittime di violazioni. Al secondo posto tra gli Stati più sanzionati c’è la Turchia, con 23 milioni, ed al terzo posto la Russia, con 7 milioni di euro. In totale lo scorso anno la Corte di Strasburgo ha inflitto condanne per 176 milioni di euro (di cui il 70% a carico dell’Italia). Lo si evince dal Rapporto del Consiglio d’Europa sull’esecuzione delle sentenze della Corte (Supervision of the execution of judgments and decisions of the European Court of Human Rights. 6th Annual Report of the Committee of Ministers”. Italia condannata a 120 milioni di indennizzi da corte Strasburgo (Il Fatto Quotidiano) Ecomostro di Punta Perotti (Bari), mancata assegnazione di frequenze tv e una espropriazione a Trieste i casi più costosi (108 milioni in totale) e pagati dal contribuente italiano. A causa delle sentenze inapplicate il nostro paese è inoltre nel gruppo di testa dei “sorvegliati speciali” dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa L’Italia nel 2012, a causa delle violazioni dei diritti dei propri cittadini riscontrate dalla Corte di Strasburgo, è stata condannata a versare indennizzi per 120 milioni di euro, la cifra più alta mai pagata da uno dei 47 Stati membri del Consiglio d’Europa. L’Italia ha raggiunto il record di 120 milioni di euro in indennizzi per le condanne della Corte di Strasburgo a causa di tre sentenze in cui i giudici hanno stabilito una violazione del diritto di proprietà. Le condanne riguardano la confisca dell’ecomostro di Punta Perotti (Bari), per cui i giudici hanno deciso un risarcimento pari a 49 milioni di euro. C’è poi l’espropriazione di un terreno alla società Immobiliare Podere Trieste, per cui l’Italia è stata condannata a pagare quasi 48 milioni di euro. Infine la condanna per la mancata assegnazione delle frequenze TV a Centro Europa 7, a cui i togati di Strasburgo hanno accordato un indennizzo di 10 milioni di euro. Da sole queste tre condanne sono costate al contribuente italiano quasi 108 milioni di euro, una somma che supera di molto quella pagata l’anno scorso da tutti gli Stati membri del Consiglio d’Europa messi insieme (72 milioni di euro). Senza queste tre condanne l’Italia avrebbe pagato in indennizzi un totale di 11 milioni di euro, arrivando al secondo posto dietro alla Turchia, condannata a pagare nel 2012 23 milioni di euro. L’Italia resta anche nel 2012 lo Stato membro del Consiglio d’Europa con il più alto numero di sentenze emesse dalla Corte di Strasburgo ancora da eseguire (ben 2569). Dietro il nostro paese ci sono la Turchia con 1780 sentenze non eseguite e la Russia con 1087. A causa delle sentenze inapplicate l’Italia è inoltre nel gruppo di testa dei Paesi ‘sorvegliati speciali’ dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa. Giustizia: dietro le sbarre sempre più minori italiani di famiglie normali Redattore Sociale, 15 aprile 2013 L’allarme lanciato dal direttore generale del Dipartimento di giustizia minorile Pesarin: “Se esiste una devianza minorile è perchè la società non ha attenzionato come si deve il bisogno dei giovani”. I ragazzi che affollano gli istituti di pena minorili, non sono soltanto stranieri: stanno aumentano massicciamente i reati commessi da italiani minorenni, “non si tratta solo degli affiliati alla criminalità organizzata, ma sempre di più di minori provenienti da famiglie normali, perchè stanno aumentando le baby gang, ma anche le violenze commesse attraverso i nuovi strumenti di comunicazione, come Facebook”. L’allarme è stato lanciato dal direttore generale del Dipartimento di giustizia minorile Serenella Pesarin, nel corso della presentazione oggi a Roma dei finalisti del premio letterario Goliarda Sapienza “Racconti dal carcere”, che quest’anno vede per la prima volta anche una sezione dedicata a “minori e giovani adulti”. Secondo Pesarin rispetto a questi fenomeni non bisogna girare lo sguardo dall’altra parte: “ il bene comune è il risultato di logiche che diventano valore condiviso”. “Si dice sempre che i giovani sono il futuro del nostro paese - aggiunge - in realtà non è così: essi sono il nostro presente”. E “se esiste una devianza minorile è perchè la società non ha attenzionato come si deve il bisogno dei giovani”. Anche il garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, ha ricordato che negli istituti di pena ci sono moltissimi italiani, “che commettono reati più gravi dei non italiani”, e che oltre al sovraffollamento uno dei fenomeni da contrastare è la “recidiva, molto diffusa soprattutto tra i minori”. “Nelle 14 carceri del Lazio ci sono 7.200 detenuti mentre la loro capienza regolamentare è di 4.500-4.800. In un carcere così affollato i detenuti non conservano i loro diritti - afferma. Il problema fondamentale è la cultura: non si può pensare che la sicurezza dei cittadini sia assicurata solo dal carcere”. Giurizia: caso Cucchi; l’arringa dell’avvocato della sorella “dimostrerò che fu omicidio” di Federica Angeli La Repubblica, 15 aprile 2013 “Finalmente oggi entrerà in aula la verità”. A poche ore dall’arringa del suo difensore nell’aula bunker del carcere di Rebibbia dove si celebra il processo di Stefano Cucchi, Ilaria, la sorella della vittima, parla con voce spenta. “Fino a ora è stato un processo fatto a Stefano, alla vittima, e noi familiari siamo emotivamente distrutti. La pubblica accusa ha voluto dimostrare con la requisitoria della scorsa settimana che mio fratello, nelle condizioni fisiche in cui si trovava, sarebbe morto anche se fosse stato a casa. Che il pestaggio che ha subìto dalle guardie carcerarie non ha influito sulla sua morte. Abbiamo le prove sulle reali cause del decesso di Stefano”. Oggi, alla quarantesima udienza, è il giorno del difensore di Ilaria Cucchi che punterà a incriminazioni per omicidio. L’avvocato Fabio Anselmo un penalista di grido che ha seguito fra gli altri i casi Aldovrandi e Uva, comincerà la sua arringa mostrando delle slide. Immagini di qualche tempo prima dell’arresto che ritraggono Stefano in perfetta forma fisica. “Punterò prima di tutto a ricostruire il vero Stefano Cucchi - ha spiegato l’avvocato Anselmo - descrivendo le sue abitudini, come ad esempio il suo andare, ogni giorno alle 19, in palestra per tenersi in forma”. Poi passerà all’attacco delle perizie sulla causa della morte e sulle fratture riscontrate sul corpo della vittima. “Proveremo che al momento del pestaggio Stefano si trovava nei sotterranei del tribunale e che con lui c’erano solo gli agenti che lo hanno pestato e il supertestimone gambiano”. Lo scorso 8 aprile i pm Vincenzo Barba e Francesca Loy hanno chiesto sei anni e otto mesi di reclusione, per Aldo Fierro, il primario del reparto dell’ospedale Sandro Pertini. A seguire sei anni per i medici Stefani Corbi e Flaminia Bruno, cinque anni e mezzo per i medici Luigi De Marchis Preite e Silvia Di Carlo e due anni per il medico Rosita Caponetti. Quattro anni di reclusione sono stati chiesti per i tre infermieri: Giuseppe Flauto, Elvira Martelli e Domenico Pepe. Due anni di reclusione è la richiesta per gli agenti di polizia penitenziaria Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Domenici. Tribunale malato: Stefano privato di diritti fondamentali “La totale mancanza di umanità nei confronti di Stefano Cucchi è ciò che ha caratterizzato la vicenda. Stefano non sarebbe morto se gli fossero stati garantiti i diritti fondamentali, primo fra tutti il rispetto”. È quanto ha detto l’avvocato del “Tribunale dei diritti del malato”, Stefano Maccioni, legale di parte civile nel processo sulla morte di Stefano Cucchi, deceduto nel reparto protetto dell’ospedale Sandro Pertini il 21 ottobre del 2009 ad una settimana dal suo arresto. L’avvocato Maccioni davanti alla terza corte d’assise di Roma ha ripercorso l’intera vicenda ed ha chiesto per l’associazione che rappresenta una provvisionale di centomila euro. Come le altri parti civili nello stesso procedimento Maccioni non ha voluto sposare la tesi dei pubblici ministeri Barba e Loy ed ha sollecitato il rinvio degli atti alla procura per riqualificare il reato contestato ai tre agenti della polizia penitenziaria da lesioni personali a omicidio preterintenzionale. “Non si può prescindere - ha detto l’avvocato Maccioni - dalle lesioni inferte a Stefano Cucchi nelle celle di piazzale Clodio. Siamo di fronte ad un errore di valutazione giuridica. Nelle cartelle mediche Stefano è stato rappresentato sempre come colui che rifiuta le cure. Ma dall’istruttoria è emerso che ogni volta che i sanitari hanno insistito e hanno spiegato, ovvero si è instaurato un corretto rapporto tra medico e paziente, Stefano si è fatto curare. Basti pensare che dal 16 ottobre al 21, giorno del suo decesso, Stefano si è sottoposto a due esami radiologici, all’elettrocardiogramma e a svariate visite ortopediche”. “Come emerso Stefano rifiutava di alimentarsi perchè voleva parlare con il suo avvocato - ha aggiunto l’avvocato Maccioni - o con un volontario della comunità Ceis. E questo a Stefano è stato impedito. Occorreva solo convincerlo che doveva mangiare per non ridursi come un internato di Auschwitz. Ciò che è mancato sono il buon senso e l’umanità”. Lettere: i detenuti e gli internati di Castelfranco Emilia scrivono a Papa Francesco Ristretti Orizzonti, 15 aprile 2013 Reverendissimo Papa Francesco, siamo un gruppo di detenuti ed internati nella Casa di reclusione e Casa di lavoro di Castelfranco Emilia (Modena). L’abbiamo vista in televisione mentre lavava e baciava i piedi ai ragazzi del carcere minorile. Molti di noi sono stati al minorile ma adesso... siamo ancora qui! Forse se l’avessimo incontrata prima, avremmo cambiato vita. Il fatto che Lei abbia pensato ai carcerati in una delle prime uscite, ci ha spinto a scriverLe. Come avrà notato, ci siamo definiti detenuti ed internati. Purtroppo è proprio questa ultima parola che ci fa sentire gli ultimi della terra. Essere internati significa essere degli ex- detenuti che continuano a scontare anni di carcere come “misura di sicurezza detentiva”. Quando eravamo solo detenuti, sapevamo che ci sarebbe stato un fine pena. Ma, per una legge italiana che nessuno vuole cancellare, per noi ci sarà un fine pena solo se lo deciderà un Magistrato in base a dei criteri che, per noi ex-detenuti, sono difficilissimi da raggiungere. Chi siamo? Siamo, in gran numero, ex-tossicodipendenti con reati legati a questa situazione, siamo persone che hanno perso, per la maggior parte, ogni riferimento familiare, ma soprattutto siamo persone che hanno sbagliato ma che hanno già pagato con periodi più o meno lunghi di detenzione, i loro errori. Siamo solo poche centinaia perché esistono solo due Case di lavoro e una Colonia agricola in Italia. Molti ci chiedono perché siamo qui. Non sappiamo, nemmeno noi, rispondere. Forse è stata solo la sfortuna di incontrare dei Magistrati che hanno applicato una legge che altri non applicano perché sono consapevoli della sua assurdità. Forse perché la maggioranza di noi, non ha avuto i mezzi per pagare un buon avvocato. Forse perché non siamo nessuno, perché dal minorile in poi è stato tutto un susseguirsi di errori, anni di carcere in cui la parola rieducazione, prevista dalla Costituzione, non esiste. Ma adesso siamo ancora in carcere, perché la Casa di lavoro è un carcere con tutti i problemi del carcere : sovraffollamento, mancanza di lavoro, povertà. Ma una differenza c’è : i detenuti possono godere di benefici di legge, dall’amnistia all’indulto, delle misure alternative al carcere, possono cancellare sul calendario ogni giorno che passa e sperare che il fine pena si avvicini. Noi, no. Non siamo più detenuti, siamo “internati”, siamo in una Casa di lavoro che è anche Casa di reclusione, insieme ai detenuti e trattati allo stesso modo. Di lavoro ce n’è pochissimo, la giornata passa, per la maggior parte, nell’ozio, pieni di rancore per una situazione che, per molti, non vede soluzione. Potremo tornare in libertà solo se troveremo un lavoro, una casa, dei legami familiari. Per pochissimi sarà possibile, per altri significherà una parola terribile :”proroga”. Sono mesi e, purtroppo, anni in più che vengono dati in applicazione di una norma. Non è colpa del Magistrato che la applica anche se noi, spesso, lo odiamo. Noi subiamo quello che viene definito “ergastolo bianco”. Abbiamo scritto a tutti, si sono fatti dei convegni, le conclusioni sono unanimi : norma assurda, forse anche anticostituzionale ma nessuno vuole cancellarla. A chi può interessare di difendere i “socialmente pericolosi”, i “delinquenti abituali o professionali” come veniamo definiti? Chi ha interesse a togliere una norma che, agli occhi della società, metterebbe in libertà delle persone indegne? Non sono bastati, evidentemente, gli anni di carcere che abbiamo scontato, a giusta punizione, per quanto abbiamo fatto. Per questo, Reverendissimo Padre, ci rivolgiamo a Lei , perché ci aiuti con le Sue preghiere, perché, anche solo una Sua parola, potrebbe fare scoprire la nostra esistenza ignorata da molti e faccia ravvedere chi è preposto alla giustizia che protegge i potenti ma calpesta i deboli. Lei dice che bisogna guardare agli ultimi, noi ci sentiamo tali. Ci benedica Padre Seguono 23 firme… Lettere: dal lager di Sollicciano… a Furio Colombo Il Fatto Quotidiano, 15 aprile 2013 Caro Colombo, inizio a scrivere per disperazione, senza neppure sapere perché. A chi mi rivolgo? Al vuoto. Non incontro più me stesso, la mia vita, quel poco di pensieri in testa mi sfuggono, anch’essi rassegnati a scivolare via. Questo carcere è una pozza di letame. La Giustizia si è impantanata, e stretti in questa morsa di fango ci sono esseri umani. Alessandro La definizione di “lager” per definire il carcere di Sollicciano, in cui al momento vive, è della persona che scrive. Capisco (dalla lettera molto più lunga) che Alessandro non sta (non sta ancora) scontando una pena, ma si trova in carcerazione preventiva. Infatti si domanda se e quando il giudice riuscirà a leggere tutte le pagine delle carte che descrivono il suo reato. Del suo reato non parla, e a me è sembrato un modo di tener fuori i destinatari della lettera (l’autore di questa pagina e i lettori di questo giornale) dall’altra questione, quella della responsabilità e della pena. Qui, in questa lettera, Alessandro descrive l’insopportabile condizione di un carcere italiano (nota, purtroppo, nonostante la buona volontà di chi vi lavora) e cerca di dire (lo dice bene, con dolorosa chiarezza) la vita insensata in un luogo che non è la prigione del mondo civile (quella in cui ti fermi e perdi dei giri in relazione a una colpa) ma un luogo disperato di detenzione in cui persino le poche e antiche regole stabilite in un mondo pre-democratico, non possono essere rispettate a causa dello spazio che manca e delle persone in eccesso costrette a convivere. Se ne discute di rado, come sapete quasi solo su iniziativa e con accanito impegno dei Radicali, soprattutto Pannella, Bonino e Rita Bernardini. Si ascoltano persino parole nobili. Ma non accade nulla, mai. Anzi, ci si allontana dal problema come se ci fosse qualcosa di indecoroso a impegnarsi nella soluzione del problema. Ogni tanto passano decreti (poi farraginosamente trasformati in legge, detti “svuota carceri”. Sono così modesti, marginali e irrilevanti che non svuotano niente. Questo nuovo Parlamento, non ha più i pochi deputati e senatori radicali e ha eliminato anche i pochi cattolici che condividevano l’impegno di visitare le prigioni e denunciare gli orrori (per esempio il giovane ex deputato Sarubbi, non più ricandidato). E i nuovi arrivati non hanno mostrato, finora, particolare attenzione per prigioni e detenuti. Naturalmente si potrebbero costruire nuove carceri. Ma è improbabile in un Paese che non possono costruire nuovi ospedali e nuove scuole. Anche per questo sarebbe meglio se l’Italia avesse un governo non solo “per gli affari correnti”, ma per le emergenze che tormentano tanti cittadini, di qua e di là dalle sbarre. Furio Colombo Lettere: dov’è il “piano carceri”?, dopo 3 anni di emergenza ancora 21mila detenuti in più di Lucia Brischetto La Sicilia, 15 aprile 2013 Sebbene già condannata ripetutamente dalla Corte dei Diritti Umani mantiene in vita gli istituti fatiscenti, l’ergastolo e l’art. 41-bis. Il piano carceri approvato nel giugno del 2010 e rivisto nel 2011 dal Comitato di indirizzo e controllo che prevedeva la programmazione di risorse per 675 milioni di euro e la realizzazione di 11 nuovi istituti (secondi padiglioni per complessivi 9.150 posti detentivi) è fallito. Il Cipe ha tagliato i fondi e rimodulato il piano senza valutare l’urgenza che attiene al trattamento penitenziario. E, fatto ancor più grave, sono stati eliminati perfino i finanziamenti per la sopravvivenza degli istituti esistenti! Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, già qualche paio di anni fa ha ricevuto un documento sottoscritto da 310 ergastolani che richiedevano l’approvazione di un disegno di legge per abolire l’ergastolo, pena contraria al senso di umanità e costituzionalmente illegittima. Riferiscono i 1.294 ergastolani ristretti negli istituti penitenziari in Italia che l’ergastolo è “una morte bevuta a sorsi che schiaccia il presente e toglie la speranza del futuro”. Inoltre, l’art. 41 bis - il cosiddetto carcere duro dell’attuale Ordinamento penitenziario, regime detentivo “speciale” entrato in vigore nel 1992 a cui vengono sottoposti i detenuti accusati o condannati per reati di mafia - è stato già “condannato” dal Consiglio d’Europa senza che l’Italia ne ha tenuto conto! Scrissero diversi anni fa i nostri ergastolani: “Non siamo morti ma neppure vivi e stanchi di morire un pochino tutti i giorni decidiamo di morire una volta sola, quindi, chiediamo che la pena dell’ergastolo sia tramutata in pena di morte”. Eppure, anche questa provocazione non è servita a qualcosa. Si attende ancora che le pene diventino davvero funzionali al recupero della persona condannata così come avviene in quasi tutta l’Europa. Per questi detenuti “speciali” si prevede anche l’inasprimento delle condizioni detentive e pertanto anche i contatti con i familiari sono rigidamente regolamentati. Infatti, i colloqui con i familiari sono ridotti a due ore al mese (anziché le 4-6 ore previste per tutti gli altri detenuti) e consentiti solo attraverso il vetro divisorio con il controllo di microfoni o di telecamere. E tutto questo a fronte del fatto che negli istituti penitenziari in Italia mancano 21mila posti per avere una capienza dignitosa e regolamentata. Sicilia: Uil-Pa; quasi 20mila “traduzioni” in un anno, su 140 furgoni ne funzionano solo 50 Adnkronos, 15 aprile 2013 “Nel 2012 la polizia penitenziaria siciliana ha effettuato 18.230 servizi di traduzione per un totale di 45.064 detenuti tradotti per un costo complessivo che si può prefigurare tra i 4 e i 4,5 milioni di euro”. Lo scrive in una nota Gioacchino Veneziano, coordinatore regionale della Uil-pa Penitenziari Sicilia, che illustra nel dettaglio l’enorme movimentazione di carcerati. “Detenuti tradotti per motivi sanitari 7.566, per permessi con scorta 4.595. Le traduzioni con autoveicoli 17.374, quelle per via aerea 606, per via mare 171, pedonali 87. I detenuti tradotti classificati comuni o a media sicurezza - prosegue Veneziano - sono stati 30.398, quelli classificati ad Alta Sicurezza 13.739, i detenuti tradotti e sottoposti al 41-bis sono stati 17, i collaboratori di giustizia o loro familiari 117, gli internati 810”. Le unità di polizia penitenziaria impiegate in servizi di scorta sono state 77.168 con una media di 1,2 unità di polizia penitenziaria per detenuto tradotto, prosegue la nota. “Tra l’altro ci pare poter affermare - sottolinea Veneziano- che oggi in Sicilia i nuclei Traduzioni operano in perenne affanno, mancando di oltre 300 unità: si opera in perenne sottodimensionamento delle scorte con rischio per l’ordine e alla sicurezza pubblica in caso di evasione”. Infine, “circa l’60% degli automezzi destinati alle traduzioni sono fuori uso, un altro 30% è da considerarsi illegale perchè privo dei collaudi di affidabilità o perchè quei collaudi non sono stati superati: insomma in tutta la regione - conclude Veneziano - su 140 mezzi destinati, ne funzionano solo 50”. Castelfranco (Mo): Garante regionale detenuti visita Casa reclusione “situazione critica” Dire, 15 aprile 2013 L’Ufficio del Garante regionale per le persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale ha effettuato una visita alla casa di reclusione di Castelfranco Emilia, nel modenese. Alla data del 9 aprile, risultano in carico alla struttura 119 persone, di cui 107 internati sottoposti a misure di sicurezza (18 in licenza finale di esperimento), e 12 detenuti con problemi di tossicodipendenza in custodia attenuata. Permane la criticità dovuta alla marcata differenziazione dei percorsi per queste due tipologie di detenuti: quelli in custodia attenuata, all’atto d’ingresso hanno firmato un “patto trattamentale”, e a loro è garantito un percorso congruo e puntuale con riferimento alla programmazione di corsi di formazione e opportunità di lavoro durante la detenzione; al contrario, agli internati, in esecuzione della misura di sicurezza della casa-lavoro, non è garantito alcun progetto che metta, come necessario, il lavoro al centro della condizione dell’internamento. Dagli internati viene perciò una pressante richiesta di lavoro, in quanto sono impegnati a rotazione in mansioni cosiddette “domestiche”, con riscontri economici assai modesti. È il caso di ricordare che la quasi totalità degli internati ha già scontato la pena detentiva, e si tratta perlopiù di persone in condizione di fortissimo disagio sociale. Inoltre, molti di loro hanno problemi psichiatrici, alcuni dei quali con doppia diagnosi, potendo contare sull’aiuto di una sola operatrice per un complessivo monte ore di 24 ore al mese. La situazione risulta essere complessa anche per la magistratura di sorveglianza, talvolta “costretta” alla proroga della misura di sicurezza, risultando difficile reperire e porre in essere progetti orientati al reinserimento nella società di queste persone. L’auspicio è che l’intervento del Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria - con cui l’Ufficio del Garante e l’Università di Bologna sono in contatto anche al fine di organizzare una giornata di studi sulla condizioni degli internati - “possa contribuire al miglioramento della situazione, con particolare riguardo all’avvio di attività lavorative”. A giudizio del Garante, “restano notevoli le potenzialità non espresse della struttura di Castelfranco: ci sono due enormi officine meccaniche in uno stato prossimo all’abbandono; risultano sottoutilizzati anche l’azienda agricola (decine di ettari non curati), l’area pedagogica (oltre 2.000 metri quadrati di fabbricato), la biblioteca, i laboratori e le aule”. Dall’Ufficio del Garante viene l’auspicio che nel nuovo Parlamento si possa dare impulso all’iter legislativo del disegno di legge di iniziativa dell’Assemblea legislativa dell’Emilia-Romagna presentato alle Camere, già nel 2010, per abrogare le norme del Codice penale che prevedono l’assegnazione alla casa-lavoro o alla colonia agricola. Con tutta evidenza, queste misure detentive non stanno funzionando, non assicurano un lavoro, né il reinserimento sociale. Cagliari: Sdr; resterà a Buoncammino con bombola ossigeno in cella detenuto malato Ansa, 15 aprile 2013 “Angelo Garau, il detenuto affetto da una grave insufficienza respiratoria non sarà trasferito, ma resterà a Buoncammino in una cella del Centro Diagnostico Terapeutico con la bombola d’ossigeno a fianco al letto dov’è costretto a restare tutto il giorno. Una situazione intollerabile sia per la pericolosità sia per l’impossibilità da parte dell’uomo di muoversi sia per la solitudine a cui è costretto. Convivere con una così grave infermità in una cella corrisponde a subire una quotidiana tortura, non prevista da alcun Tribunale”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, avendo appreso che “il DAP non intende trasferire il detenuto in un Cdt adeguatamente attrezzato mettendo così a rischio non solo la sua vita”. “Angelo Garau, 56 anni, di Codrongianos (Sassari), è - sottolinea Caligaris - invalido al 100% avendo contratto la malattia nel 1992 in seguito ad un’intossicazione da vapori di zinco che ne aveva determinato un ricovero urgente per una crisi respiratoria acuta nell’ospedale di Sassari. A diagnosticare l’emosiderosi polmonare era stato nel 2005 il pneumologo Carlo Grassi della Clinica Pneumologica dell’Università di Pavia che aveva individuato la malattia indicando le diverse tappe di ineludibile aggravamento”. “L’uomo, che sta scontando la pena dell’ergastolo, è stato trasferito al Cdt di Cagliari per disposizione del Tribunale del Riesame di Sassari, in quanto Bad’e Carros, dove si trovava precedentemente, è privo di Centro Clinico. La struttura cagliaritana però non è attrezzata per garantire in sicurezza l’ossigenoterapia. L’acuirsi del disturbo progressivo e irreversibile ha imposto una soluzione tampone, ma il DAP - afferma ancora la presidente di Sdr - dovrebbe capire che, in attesa di un’alternativa, sarebbe opportuno mandarlo a casa come hanno suggerito del resto anche i perito”. “Il caso di Angelo G. - osserva la presidente di Sdr - sembra voler riaffermare una concezione vendicativa della pena. Non si comprende infatti come una persona purtroppo destinata a convivere con una malattia inguaribile e in costante aggravamento possa restare in una cella 2 metri per 3, da sola, senza neppure un piantone. Occorre però intervenire tempestivamente perché la situazione - conclude Caligaris - risulta poco gestibile”. Sulmona (Aq): agente di Polizia penitenziaria salva la vita a detenuto colpito da un infarto Il Centro, 15 aprile 2013 Il poliziotto ha trovato il detenuto, un 50enne napoletano, privo di sensi e in arresto cardiocircolatorio. Ha dato subito l’allarme e insieme ad altri colleghi e al personale medico del 118 ha salvato la vita all’internato Un internato 50enne originario della provincia di Napoli è stato salvato, questa mattina, grazie all’intervento di un poliziotto penitenziario in servizio presso il reparto penale del carcere di Sulmona. L’uomo era riverso nella sua cella privo di sensi e in arresto cardiocircolatorio quando è stato notato dal poliziotto, il quale vedendolo in quella insolita posizione, ha dato subito l’allarme. L’intervento immediato di altri colleghi, un sovrintendente e un ispettore, del personale medico e paramedico del carcere e del 118, ha evitato il peggio salvando l’internato da una situazione che poteva provocare danni irreversibili o addirittura letali. Sulle cause che hanno portato al malore del 50enne che ha problemi di tossicodipendenza, sono in corsi indagini per accertare se l’uomo abbia ingerito dei farmaci o abbia respirato volontariamente gas utilizzato per cucinare. L’internato dopo essere stato rianimato è stato dichiarato fuori pericolo e tenuto sotto stretto monitoraggio. “Esprimiamo soddisfazione per l’operato del poliziotto penitenziario - afferma il segretario provinciale della Uil Penitenziari, Mauro Nardella. Il tutto a riprova della professionalità, più volte offuscata dai pregiudizi dell’opinione pubblica, che caratterizza gli operatori del settore e della loro attitudine a salvare vite umane”. Torino: agente aggredito da detenuto all’Ipm Ferrante Aporti, prognosi di 15 giorni Ansa, 15 aprile 2013 Un giovane detenuto di nazionalità tunisina ha aggredito un poliziotto all’ Istituto Minorile Ferrante Aporti di Torino. È accaduto sabato scorso. A denunciarlo Leo Beneduci, segretario generale dell’Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria (Osapp). L’agente - riferisce l’ Osapp - è stato accompagnato al Pronto soccorso delle Molinette dopo le prime cure è stato dimesso con una prognosi di 15 giorni. Lo stesso detenuto, che ha già aggredito in passato altri agenti, ha poi tentato di ferirsi con frammenti di un neon. “Se a questo si aggiunge che tra la notte del 13 e il 14 Aprile un improvviso black out ha reso sicuramente più difficoltoso del solito il turno di servizio per il personale del Corpo di Polizia Penitenziaria, è naturale affermare - dichiara Beneduci - che per l’Istituto Minorile Ferrante Aporti sono stati sicuramente due giorni di fuoco”. Nuoro: Ugl; con riassetto piante organiche ministero ha sancito fine del sistema carcerario di Luciano Piras La Nuova Sardegna, 15 aprile 2013 “Questa volta il ministero della Giustizia, con il riassetto delle piante organiche della Sardegna, ha sancito, soprattutto per gli anni avvenire, la fine di un sistema carcerario già fortemente provato nell’ultimo decennio”. Il riferimento chiaro ed esplicito è a Badu ‘e Carros. Carcere di massima sicurezza che ora diventa, per l’ennesima volta, carcere di massima emergenza. A lanciare l’allarme è il segretario provinciale Ugl, Libero Russo, da anni impegnato in prima persona per denunciare la carenza d’organico nell’istituto nuorese. “Con l’apertura del nuovo padiglione - continua il poliziotto-sindacalista - ci saremmo aspettati un forte incremento di personale di polizia penitenziaria, ma siamo rimasti delusi dopo aver letto il decreto ministeriale del 22 marzo scorso, con il quale il ministro della Giustizia Paola Severino ha rideterminato in modo unilaterale le piante organiche degli istituti penitenziari regionali attribuendo alla Sardegna un incremento di solo 510 unità. Considerate le aperture di quattro nuovi istituti di pena, questo intervento sull’organigramma a nostro avviso è alquanto ridotto”. “I calcoli da ragioneria fatti dal ministero - spiega Russo - hanno prodotto a Badu ‘e Carros un incremento di appena otto unità di poliziotti, passando da una pianta organica di 212 poliziotti, a quella attuale di 220”. Numeri che l’Unione generale del lavoro nuorese rispedisce al mittente romano. “Inaccettabili”, sentenzia il segretario provinciale del sindacato. Inaccettabili “poiché una volta che termineranno i lavori della prima sezione, attualmente chiusa per restauro, e verrà consegnato il nuovo padiglione, il numero dei detenuti potrà arrivare sino a 450 - sottolinea Libero Russo -, e se la maggior parte di questi, come pensiamo, saranno assegnati al circuito di alta sicurezza, si può ben capire quale sia la nostra preoccupazione. La nostra denuncia - insiste il sindacalista - non vuol fare demagogia, come qualche altra sigla ci ha ingiustamente accusato di fare, ma vuole mettere in luce il problema su quanto avverrà in futuro. Per questo motivo abbiamo deciso di non inneggiare l’arrivo dei 510 nuovi agenti nell’isola, ma ne contestiamo la loro esiguità, poiché ne servivano il doppio. La forza minima necessaria per far fronte alle esigenze custodiali in Sardegna è di 2.270: significa che oltre ai 510 agenti assegnati, siamo ancora sotto di ben 436 unità” sintetizza Russo sulla base di “uno studio accurato ed approfondito dell’Ugl Polizia penitenziaria effettuato grazie al contributo del personale in servizio quotidiano negli istituti di pena sardi, spesso in collaborazione anche con i direttori e i comandanti dei reparti, tenendo in considerazione i posti di servizio e non il rapporto poliziotto penitenziario/detenuto, criterio quest’ultimo utilizzato dall’Amministrazione penitenziaria per porre in pratica il progetto della vigilanza dinamica che svilirebbe oltremodo il ruolo degli operatori penitenziari a scapito della sicurezza dentro e fuori dagli Istituti di pena”. Il caso Badu ‘e Carros è illuminante: a fronte di 212 agenti previsti dalla vecchia pianta organica, soltanto 137 prestano servizio effettivo; e secondo l’Ugl, di poliziotti, ce ne vorrebbero almeno 260. Non otto rinforzi, dunque, ma 48 come minimo. “Il ruolo di sindacalisti ci impone di essere obiettivi - riprende fiato Russo - ed è proprio con questo spirito che abbiamo scelto di seguire la linea della coerenza, convinti che quanto sosteniamo non sia solo un modo per diversificarci dalle altre sigle sindacali, ma sia frutto di un’analisi seria e ponderata che non può vederci oggi celebrare questo provvedimento ministeriale ed in futuro manifestare per rivendicare la carenza d’organico”. L’emergenza, insomma, è appena (ri)cominciata. Badu ‘e Carros, ancora una volta, è una polveriera. Il penitenziario barbaricino resta senza direttore fisso “In molte parti del Paese ci sono istituti che si possono permettere più di un direttore. Bisognerebbe incentivare chi vuole venire in Sardegna, classificando l’isola zona disagiata”. È la proposta avanzata qualche giorno fa dal segretario della Cisl sicurezza Giovanni Villa, poliziotto nella Colonia penale di Mamone. Intervenuto per denunciare l’ennesimo caso Sardegna: dove ci sono 12 istituti di pena e soltanto sei direttori (che presto diventeranno cinque a causa di un pensionamento). Mentre in tutta Italia i direttori sono 400 a fronte di 200 carceri. Paradossale il caso Nuoro: a Badu ‘e Carros è recluso in regime di 41 bis il boss dei casalesi Antonio Iovine; a Badu ‘e Carros non c’è un direttore in pianta stabile da oltre tre mesi. Patrizia Incollu, che guidava il penitenziario nuorese dall’estate del 2008, è stata trasferita a Sassari, al San Sebastiano, con l’incarico di avviare il nuovo carcere di Bancali. Per ora è anche in distaccamento a Nuoro, in attesa che Nuoro abbia un suo direttore fisso. Torino: al via Progetto “Parol-scrittura e arti nelle carceri, oltre i confini, oltre le mura” 9Colonne, 15 aprile 2013 La Commissione europea ha approvato il progetto “Parol-scrittura e arti nelle carceri, oltre i confini, oltre le mura” organizzato dalla associazione Cascina Macondo di Chieri, nel Torinese. Si tratta di un progetto triennale che coinvolge circa 200 detenuti di 13 carceri in 5 paesi europei - oltre all’Italia, Belgio, Grecia, Serbia e Polonia - con laboratori di scrittura creativa, haiku, lettura ad alta voce, arti plastiche, teatro. “Saremo impegnati in trasferte all’estero per conoscere altre carceri europee, nell’organizzazione di mostre, eventi di visibilità, pubblicazione degli scritti dei detenuti, performance e spettacoli” spiegano dalla Cascina Macondo che coinvolgerà nel progetto anche il suo gruppo artistico composto da disabili e non “Viaggi fuori dai paraggi”. L’associazione lancia quindi un appello e la raccolta fondi “Adotta una bolla di sapone”: “L’intero progetto italiano ricco di infinite iniziative e attività ha un costo di 65.000 euro. L’Europa contribuisce con soli 26.400 euro. Dobbiamo dunque trovare i restanti 38.600 euro. E allora: 65.000 euro (progetto italiano): 65.000 (detenuti nelle carceri italiane) = 1 euro. Una bolla di sapone = 1 euro. Molti sono gli amici di Cascina Macondo, tutti insieme in un soffio riusciremo forse a coprire un cielo di 65.000 bolle di sapone!”. I dettagli dell’iniziativa e delle “adozioni” all’indirizzo web: www.cascinamacondo.com. Mondo: giovani, disoccupati, corrieri di droga… l’identikit dei nostri carcerati all’estero di Enrico Caporale La Stampa, 15 aprile 2013 L’arresto più clamoroso risale a un anno fa. Una ragazza e due ragazzi. Età: 24, 27 e 29 anni. Gli agenti della Dirandro (Direzione antidroga della polizia del Perù) li intercettarono con 89 ovuli di cocaina. Facevano parte dei “Los bambinos”, banda specializzata nel traffico di droga verso l’Europa. Il loro viaggio è terminato nella prigione di Callao, a due passi dall’aeroporto di Lima. Secondo fonti dell’ambasciata, gli italiani detenuti in Perù sono oggi una sessantina, di questi 16 in semilibertà. Per tutti la stessa accusa: traffico internazionale di stupefacenti. “Negli ultimi anni gli arresti sono aumentati”, spiega al telefono il consigliere Ivo Polacco. Colpa della crisi? “Certamente ha influito”. Molti dei fermati, infatti, denunciano difficoltà economiche. Ma Tommaso Ziller, assistente sociale presso l’Ambasciata, mette in guardia: “In alcuni casi la crisi è solo un giustificativo. Spesso a spingere queste persone nel giro della droga sono ingenuità, faciloneria, tossicodipendenza e voglia di guadagno facile”. Sarà, intanto, secondo fonti riservate, risulta che il numero di nostri connazionali detenuti all’estero per possesso di sostanze stupefacenti è passato da 718 nel 2010 a 883 nel 2012. Ciò significa che un terzo degli italiani in carcere nel mondo ci è finito per droga. “La cosa triste è che si rovinano la vita per pochi soldi”, spiega ancora Ivo Polacco. Il tariffario per un corriere prevede circa 2.000 euro a tratta, che possono arrivare a 10.000. Ovviamente dipende dal carico. Ma le probabilità di farla franca sono pochissime. Spesso, in Sud America, gli europei vengono usati come esche: una soffiata alla polizia segnala l’arrivo in aeroporto, così i narcos, quelli veri, possono superare i controlli con carichi più consistenti. Anche se per i grandi quantitativi le organizzazioni criminali non usano aerei, ma preferiscono navi o sottomarini: meno rischiosi e più redditizi. Mario (lo chiameremo così), detenuto nel penitenziario di Palmira, Colombia, racconta di essere stato incastrato dal tassista a cui aveva lasciato in custodia le valigie: “Ero in coda per il check-in quando un poliziotto mi prese da parte. Il tutto rientrava nella prassi, mi sentivo tranquillo, poi l’agente conficcò uno spillone nella valigia e introdusse un cotton fioc nel buco. “Se esce blu sei fottuto”, mi disse. E ovviamente uscì blu. All’udienza ho ammesso la colpevolezza per ottenere lo sconto di pena, ma, giuro, di quella cocaina non sapevo nulla”. Di solito la condanna si aggira intorno ai sei anni, ma può anche essere più alta. In Colombia, se si viene beccati con più di sette chilogrammi di polvere bianca, si rischiano 20 anni, in Venezuela 25. Solitamente si scontano i primi due o tre anni in cella, poi, in caso di buona condotta, scatta la semilibertà. Gli unici ad offrire assistenza ai detenuti, oltre ai famigliari, sono le istituzioni religiose e le ambasciate (In Italia c’è anche “Prigionieri del Silenzio”, Onlus fondata nel 2008 da Katia Anedda). Inutile dire che le carceri, in Sud America, sono un suk di violenza e sofferenza. Paola (anche in questo caso il nome è di fantasia) racconta il dramma di suo fratello, un ragazzo di quasi trent’anni, nel penitenziario di Los Teques, in Venezuela: “Continuamente ci chiedeva soldi. Diceva di aiutarlo, altrimenti i “pran”, i mafiosi del carcere, gli avrebbero tagliato la testa. Così ho lasciato il lavoro e, insieme alla mamma, abbiamo preso un volo per Caracas. Siamo arrivate lì il 17 agosto 2012. Quando lo abbiamo incontrato è stato uno choc. Riusciva a malapena a scendere le scale, era magrissimo, con una costola rotta. Nei suoi occhi il terrore”. Ma se in carcere le condizioni di sopravvivenza sono minime e le tangenti (in Perù le chiamano “coima”) sono all’ordine del giorno, fuori, spesso, è anche peggio. Ottenuta la libertà condizionale, infatti, gli stranieri possono uscire di prigione, senza però poter tornare nel loro Paese. E qui inizia un nuovo incubo. Debiti, tossicodipendenza, violenza. “Queste persone, che non sono trafficanti di professione, spesso sono costrette a lasciare illegalmente il Paese - spiega ancora il dottor Ziller. In Perù la voglia di evadere è sempre accompagnata da motivi economici. Lo Stato esige infatti il risarcimento del danno morale, che si aggira intorno ai 2.000 - 2.500 dollari, e, paradossalmente, la multa per eccesso di permanenza sul suolo peruviano (un dollaro al giorno)”. Ma gli stranieri in semilibertà non possono lavorare, se non in nero, e, quindi, non resta altro che la fuga o la criminalità. Stati Uniti: detenuto di Guantánamo in sciopero della fame sul Nyt… “sto morendo” Tm News, 15 aprile 2013 “Guantánamo mi sta uccidendo”. Parola di Samir Naji al Hasan Moqbel, yemenita, detenuto nel carcere Usa a Cuba dal 2002 e in sciopero della fame dal 10 febbraio scorso. In una telefonata ai suoi legali, riportata oggi dal New York Times, l’uomo ha raccontato di aver perso oltre 10 chili dall’inizio della protesta, promettendo che “non mangerò fino a quando non mi sarà restituita la dignità”. Sono decine i detenuti di Guantanamo in sciopero della fame, 40 secondo Samir, che definisce “disperata” la situazione, con “un uomo qui che pesa solo 35 chilogrammi, un altro 44”. “Privarci del cibo e rischiare la morte ogni giorno è la scelta che abbiamo fatto - spiega - speso solo che a causa del dolore che stiamo patendo, gli occhi del mondo tornino a voltarsi su Guantánamo prima che sia troppo tardi”. “Sono detenuto a Guantánamo da 11 anni e tre mesi - racconta - non sono mai stato incriminato di alcun crimine e non ho mai subito un processo. Avrei potuto ritornare a casa anni fa, nessuno pensa seriamente che io sia una minaccia, ma sono ancora qui. Anni fa l’esercito disse che ero una ‘guardià di Osama bin Laden, ma l’accusa era assurda, come qualcosa uscito da uno dei film americani che vedevo. Non sembra ci credano più neanche loro, m allo stesso tempo non sembrano interessarsi a quanto a lungo rimarrò qui”. Samir denuncia quindi di essere alimentato a forza: “Il mese scorso, il 15 marzo, ero malato nell’ospedale della prigione e ho rifiutato di mangiare. È arrivata una squadra della Extreme Reaction Force (Erf), di otto agenti di polizia militare in tenuta antisommossa. Mi hanno legato mani e piedi al letto. Così mi hanno costretto a una terapia endovenosa. Ho trascorso 26 ore in queste condizioni, legato al letto. E durante questo periodo non mi è stato concesso di andare in bagno. Hanno inserito il catetere, che è stato doloroso, degradante e non necessario. Non mi è stato neanche concesso di pregare”. “Non dimenticherò mai la prima volta che mi hanno messo il tubo di alimentazione nel naso - ha continuato - non posso descrivere quanto sia doloroso essere costretto a mangiare in questo modo.... vengo ancora alimentato a forza. Due volte al giorno mi legano a una sedia nella mia cella. Braccia, gambe e testa vengono assicurate con le cinghie. Non so mai quando arrivano. Alcune volte si presentano di notte, quando dormo”. Samir afferma che sono così tanti i detenuti in sciopero della fame che nel carcere non ci sono tanti operatori medici capaci di eseguire le pratiche dell’alimentazione forzata, per cui non vengono effettuate a intervalli regolari: “Alimentano le persone tutto il giorno, solo per tenere il passo”. Samir Naji al Hasan Moqbel spiega quindi di trovarsi ancora a Guantánamo perchè “il Presidente Obama non vuole rimandare a casa i detenuti nello Yemen. Non ha senso. Sono un essere umano, non un passaporto, e merito di essere trattato come tale”. Infine lancia un accorato appello: “Non voglio morire qui, ma fino a quando il Presidente Obama e il Presidente dello Yemen non faranno qualcosa, c’è questo rischio ogni giorno. Dov’è il mio governo. Sono pronto a rispettare qualsiasi “misura di sicurezza” che vorranno pur di andare a casa, anche se sono totalmente inutili. Accetterò qualsiasi cosa pur di tornare libero. Oggi ho 35 anni. Tutto quello che voglio è vedere di nuovo la mia famiglia e avere anche io una mia famiglia”. Siria: attivisti, almeno 2.300 morti nelle carceri e sotto tortura da inizio conflitto Aki, 15 aprile 2013 Almeno 2.300 persone sono morte sotto tortura in Siria dall’inizio del conflitto, oltre due anni fa. Lo ha denunciato un rapporto degli attivisti del Network siriano per i diritti umani, in cui è precisato che tra le vittime si contano 80 bambini, 25 donne e 51 persone con più di 60 anni, mentre i ribelli che hanno perso la vita a causa delle torture rappresentano il 5% del totale. Il rapporto mette in luce quindi come il numero delle vittime per tortura è in costante aumento al punto che il mese scorso è stato quello in cui si sono registrati i dati più drammatici, con una media di cinque morti al giorno. Ma i numeri reali potrebbero essere “più alti” - è aggiunto - poichè “in alcune prigioni si torturano i detenuti a morte e poi si abbandonano i cadaveri nei campi o nei fiumi”. Gli attivisti del Network siriano per i diritti umani denunciano infine i “metodi” usati per le torture, sottolineando come nelle carceri si faccia ricorso allo stupro, alle scariche elettriche e al soffocamento. Il più elevato numero di vittime, ben 573, si è registrato a Homs, nel centro della Siria, seguita da Daraa con 360 morti. Egitto: rinviati a giudizio esponenti Fratelli Musulmani accusati di torture a manifestanti Nova, 15 aprile 2013 Sono stati rinviati a giudizio dalla magistratura egiziana due esponenti dei Fratelli Musulmani della citt di Damanhur, sul Delta del Nilo, accusati di aver torturato un gruppo di manifestanti detenuti illegalmente dopo una manifestazione organizzata contro il presidente Mohammed Morsi. Secondo quanto ha reso noto la procura della citt “i due esponenti islamici hanno fermato e picchiato gli studenti nella sede dei Fratelli Musulmani della zona durante gli scontri avvenuti tra gli oppositori di Morsi e i suoi sostenitori lo scorso novembre”. Gli scontri di Damanhur facevano parte della serie di disordini avvenuti durante le proteste per l’annuncio costituzionale fatto da Morsi in quei giorni che gli assegnava i pieni poteri. Kuwait: leader opposizione condannato a 5 anni carcere per offesa a emiro Aki, 15 aprile 2013 Un tribunale del Kuwait ha condannato il principale leader dell’opposizione, l’ex parlamentare Mussallam al-Barrak, a cinque anni di carcere per “insulto all’emiro”. Lo riferisce la tv satellitare al-Arabiya, ricordando come al-Barrak sia il personaggio più in vista tra quelli finora condannati - soprattutto blogger e attivisti - per aver contestato le autorità del paese, sulla scia della Primavera araba. L’ultimo caso risale a febbraio, quando l’attivista Orance al-Rasheedi è stato condannato a 10 anni di carcere per aver “insultato l’emiro Sabah al-Ahmad Al-Sabah e diffuso notizie false” tramite Twitter e YouTube.