La Presidente della Repubblica che vorremmo Emma Bonino, una candidata che non ha paura del sostegno delle persone detenute Ristretti Orizzonti, 14 aprile 2013 Siamo sicuri che migliaia di detenuti e i loro famigliari vorrebbero Emma Bonino come Presidente della Repubblica, e non solo per l’impegno della Bonino nella tutela dei diritti dei detenuti. È vero infatti che i Radicali sono fra i pochi che in questi anni hanno denunciato le condizioni delle carceri mentre gli altri, spaventati di perdere consenso elettorale, si sono tenuti alla larga dal criticare le politiche di criminalizzazione che riempivano sempre di più le galere, ma dire che vogliamo Emma solo per questo sarebbe una semplificazione, perché Emma non è solo “la lotta per i diritti dei detenuti” e non è solo “la battaglia contro la pena di morte”. Lei è molto di più. La sua passione per la tutela dei diritti ci ha obbligati a seguire da vicino la sua storia, le sue azioni, il suo pensiero. La ricordiamo nella seconda metà degli anni novanta a ricoprire l’incarico di Commissario Europeo, una posizione istituzionale che rappresentava un punto d’arrivo dopo anni di militanza internazionale, ma la ricordiamo anche nel 1990, ai tempi dell’amministrazione Bush e della War on Drugs, protestare a New York distribuendo siringhe sterili, e farsi arrestare. Pochi anni dopo, durante il genocidio serbo, la vediamo promuovere una campagna a favore dell'istituzione del Tribunale Penale Internazionale per l'ex-Jugoslavia. E subito dopo è alla guida della delegazione del Governo Italiano all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite per la "Moratoria sulla Pena di morte". Non dimentichiamoci allora che l’Italia ha la fortuna di avere una donna con una storia politica e istituzionale straordinaria. Siamo coscienti che in un momento storico difficile e pieno di contraddizioni ci vuole un Capo di Stato sensibile, competente, e che non abbia paura di parlare di temi poco popolari come la giustizia, le pene e le carceri, ed Emma Bonino è la persona adatta per ricoprire questo ruolo. Emma Bonino la vogliamo Presidente della Repubblica anche perché crediamo che sarà un motivo d’orgoglio per tutti vederla tra i rappresentanti degli altri Stati, una donna coraggiosa e determinata che offrirà una faccia dell’Italia che non si è ancora vista a livello internazionale. E non possiamo nascondere che noi proveremmo ancora più orgoglio nell’ascoltare il suo discorso di fine anno, e continuare a sperare che i suoi immancabili richiami alle condizioni di vita inumane e degradanti di chi deve scontare una pena possano smuovere le coscienze rendendo le galere più rispettose della dignità umana, come dice quell’articolo 27 della nostra Costituzione, di cui il Presidente della Repubblica è garante. E chi potrebbe ricoprire questo ruolo di autentica garanzia meglio di Emma Bonino, che si batte da anni per il rispetto dei diritti umani fondamentali delle persone private della libertà personale? Infine, vogliamo Emma anche perché è donna. Molti di noi hanno fatto disastri fuori e oggi vedono le proprie donne prendere in mano la famiglia, i figli, il lavoro e poi aspettare ai portoni delle carceri per fare un colloquio con il proprio caro. Visti anche i risultati scadenti che spesso i governanti uomini hanno raggiunto in questi anni, siamo sicuri che una donna come lei saprà governare con più intelligenza e con più umanità. La speranza che abbiamo è che altre associazioni e realtà, che si occupano di carcere, giustizia, pene, tutela dei diritti delle persone private della libertà personale mettendo al centro dei loro interventi l’articolo 27 della Costituzione, si uniscano a noi nel sostenere Emma Bonino come Presidente della Repubblica. La redazione di Ristretti Orizzonti Giustizia: Spigarelli (Ucpi); il ricorso italiano a Strasburgo? un’incoerente tattica dilatoria intervista di Sandro Podda Liberazione, 14 aprile 2013 “Una ipocrita e incoerente tattica dilatoria”. È questo il giudizio senza ambiguità che l’avvocato Valerio Spigarelli, presidente dell’Unione delle Camere Penali Italiane (Ucpi), dà della scelta della decisione dello Stato italiano di ricorrere alla Grande Chambre della Corte dei diritti dell’Uomo di Strasburgo per impugnare la sentenza che nel gennaio scorso ha obbligato l’Italia ad adeguare il suo sistema carcerario entro un anno dopo averla condannata per il trattamento inumano e degradante di sette detenuti. Per stessa ammissione del capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), quella dell’Italia è stata una mossa per “prendere tempo”. Cosa ne pensa di questa tattica? In molti nel governo hanno provato a giustificare questo ricorso come un modo per avere modo di conoscere meglio nei dettagli quali strumenti mettere in campo per risolvere il problema carceri. Mi sembra però poco credibile. Parlerei semmai di una tattica dilatoria, tipica di quegli avvocati che, certi del giudizio, cercano di allungare il più possibile i tempi del processo. Solo che in questo caso è lo Stato ad applicare questo metodo. Il presidente della Repubblica, il ministro della Giustizia, il Dap, hanno coraggiosamente confessato che il rapporto di Strasburgo sull’emergenza carceri è la fotografia della realtà. E allora? Perché rimandare quella che tutti definiscono “un’emergenza”? In quali modi si potrebbe mettere mano a questa emergenza? Quello che l’Ucpi dice da tempo è che se non si mettono in campo misure emergenziali a fronte di un’emergenza, quando lo si fa? Le uniche possibilità immediate che la nostra Costituzione ci fornisce sono l’indulto e l’amnistia. Sono soluzioni tampone, certamente temporanee, ma che servirebbero intanto ad alleviare una situazione dove sono rinchiuse 75.000 persone in una disponibilità solo virtuale di 40.000 posti. Aggiunga padiglioni chiusi, celle non agibili… Situazioniin cui i detenuti sono spesso costretti a stare sdraiati a letto perché non c’è posto per stare in piedi. Superata l’emergenza come si affronta in maniera strutturale la questione? In vari modi. A partire dalla depenalizzazione di alcuni reati come la criminalizzazione del consumo di sostanze stupefacenti che ha portato in carcere migliaia di persone; l’introduzione di strumenti retroattivi sull’irrilevanza del fatto, di pari passo all’irrobustimento dello strumento dell’interdizione dai pubblici uffici, che eviterebbe l’abuso dello strumento della custodia cautelare, uno strumento “limite” che oggi è invece applicato al 40% dei detenuti; l’introduzione del criterio che il presunto innocente va ai domiciliari e non in carcere; rafforzamento dell’uso della detenzione domiciliare; una rivoluzione del sistema penale che ne sposti l’asse carcerocentrico in favore di pene alternative per episodi minori, come la condanna a lavori socialmente utili; e infine recuperare quei concetti cardine degli anni 70 attuando una riforma penitenziaria che metta al centro la rieducazione piuttosto che la punizione. Non sembra un periodo culturalmente molto fertile per il garantismo. Guardi che non si tratta di semplice garantismo o di essere anime belle. Noi vogliamo evidenziare anche l’aspetto utilitaristico della questione. Un sistema penitenziario più giusto significa, come dimostrato dai fatti, una minore recidiva, una maggiore sicurezza sociale per tutti. Quelli che gridano “galera, galera” ci consegnano in realtà una società sempre più violenta. Eppure, quando si parla di indulto e amnistia, la politica sembra molto spaventata dalle reazioni di un’opinione pubblica mediamente poco attenta o poco disposta a risolvere questa emergenza. La verità è che l’opinione pubblica viene anche poco o male informata su quello che accade. Certe notizie non passano neanche e altre vengono strumentalizzate. Se sporadicamente si dà notizia dell’impressionante numero di detenuti che si suicidano, quasi mai si racconta di amministratori e guardie penitenziarie che ti tolgono la vita a causa delle condizioni in cui si trovano a operare. Noi avvocati penalisti abbiamo cominciato a visitare le carceri. Bisogna vedere per comprendere cosa accade. E raccontarlo. Le assicuro che tutti quelli che le hanno visitate, al di là del profilo culturale e politico, non hanno potuto far altro che ammettere che si tratta di una condizione intollerabile. Lei ha visitato anche il Cie di Ponte Galeria. Che impressione ne ha ricavato? Anche peggiore di quella sulle carceri. E quello di Ponte Galeria non è neanche il peggiore tra i centri di identificazione ed espulsione. Si tratta di carceri-non carceri. Senza neanche cioè quei servizi minimi come gli spazi comuni. Esistono celle chiuse su quattro lati, come le gabbie per gli animali. Un’altra battaglia per la quale si batte e che sembra strettamente legata a quello di cui ci parla è quella per l’introduzione del reato di tortura. L’Italia ha sottoscritto da oltre vent’anni la Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti dell’Onu, ma non ha mai inserito il reato di tortura nel suo Codice Penale come invece previsto. Esistono delle resistenze non casuali nel non affrontare quest’altra inadempienza. La tortura si configura quando a una persona in mano allo Stato “sono inflitti dolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche”. Il primo caso di applicazione che mi viene in mente è naturalmente quello di Bolzaneto per Genova 2001. Caso ben diverso dagli episodi della Diaz, proprio perché in quel momento le persone si trovavano in mano allo Stato. Come mai tanta resistenza a introdurre questo reato? Pensi che nella scorsa legislatura, la maggior parte delle proposte di legge presentate puntavano a definire la “tortura” un reato comune e non proprio, per depotenziarlo rispetto a chi commette il fatto. Ostacoli a questa introduzione vengono anche da punti oscuri del nostro passato, come ad esempio le verità che emergono sulle torture subite da diversi sospetti brigatisti. Pensiamo alla storia del cosiddetto “De Tormentis”. Alcuni dicono “à la guerre comme à la guerre”, intendendo che situazioni particolari, emergenziali, richiedono qualsiasi mezzo per affrontarle. La Convenzione che abbiamo firmato nega invece esplicitamente questa “eccezionalità”. Inoltre si sa che sotto tortura le confessioni hanno uno scarsissimo valore di attendibilità. Un altro elemento chiaramente a rischio se fosse introdotto il reato di tortura è il regime del 41 bis che per molti aspetti ha le caratteristiche di un trattamento inumano. Giustizia: Flick (Consulta); su tema carcere “saggi” hanno ignorato rapporto col territorio Redattore Sociale, 14 aprile 2013 Sul carcere “i saggi hanno detto cose molto giuste, ma hanno ignorato completamente la vera realtà del problema, ovvero il rapporto con il territorio, perché il passaggio graduale dal carcere alle misure alternative presuppone una rivoluzione culturale tra pena, carcere e società” che dovrebbe portare a una sorta di “federalismo dell’esecuzione della pena”. Sono le parole di Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte Costituzionale, intervenuto questa mattina al festival del volontariato di Lucca Villaggio Solidale. “Il coinvolgimento del territorio nell’attuazione dei diritti - ha spiegato - è il modo migliore per radicarli, perché vengano assimilati anche sul piano culturale e del consenso sociale, anziché essere percepiti come forme di assistenzialismo o, peggio, come sprechi da sottoporre a tagli e riduzioni. Alla lunga: anche in tema di diritti, l’impegno e il controllo (da parte) del territorio accrescono la sicurezza. Perfino i meno sensibili alle questioni dei diritti umani dovrebbero trarne buone ragioni per investire sulla dignità”. “La sfida per la liberazione dalla necessità del carcere - ha esordito Flick, per dare attuazione e concretezza all’articolo 27 della Costituzione, è una delle più impegnative ma anche delle più urgenti per il volontariato, di fronte alla realtà del carcere di oggi. È una sfida che si fonda su molte altre parole da riconquistare anche esse, per giungere a riconquistare la liberazione: parole come giustizia, verità, carità, misericordia, eguaglianza, pari dignità, solidarietà, sussidiarietà; parole che appartengono al lessico cristiano come a quello costituzionale, senza soluzione di continuità; parole che esprimono il significato del volontariato ed il suo impegno di testimonianza e di azione”. “L’enciclica Caritas in veritate di Benedetto XVI - ha detto Flick - ci ricorda che la giustizia, come il bene comune, è un principio orientativo dell’azione morale; ma aggiunge subito dopo che la giustizia deve essere inglobata in una concezione più completa, dell’amore/carità. Quest’ultima eccede la giustizia perché amare è donare, offrire del “mio” all’altro; ma non è mai senza giustizia, che è dare all’altro ciò che è suo. La giustizia, se non unita alla carità, resta imperfetta, monca: una dimensione regolativa che scivola, progressivamente, nel legalismo. La sua “finitudine”, che risalta al cospetto della grandezza infinita della misericordia, è resa bene in due parabole evangeliche”. Flick: “Il carcere non è una discarica” (Famiglia Cristiana) “La giustizia, se non unita alla carità, resta imperfetta, monca: una dimensione regolativa che scivola, progressivamente, nel legalismo”. Così, Giovanni Maria Flick, ex ministro della giustizia del primo governo Prodi e presidente emerito della Corte costituzionale. Il problema delle carceri italiane è sotto la lente d’ingrandimento della Corte di Strasburgo e Flick lo sottolinea, intervenendo al Festival del volontariato di Lucca. L’ex ministro traccia un cammino parallelo tra la giustizia nell’ottica cristiana e in quella laica. E lo fa partendo da un’enciclica di papa Ratzinger: “La Caritas in veritate di Benedetto XVI ci ricorda che la giustizia, come il bene comune, è un principio orientativo dell’azione morale; ma aggiunge subito dopo che la giustizia deve essere inglobata in una concezione più completa, dell’amore/carità”. E aggiunge: “Nella concezione cristiana la giustizia evolve dal simbolo della spada al simbolo della croce che vince e diventa il segno della giustizia nel cristianesimo”. Flick, nel suo intervento, ha sottolineato come le attività di volontariato possano risultare importantissime per un cambiamento in positivo della situazione delle carceri italiane: “Oggi il carcere è quasi una discarica sociale. I suoi unici obiettivi paiono essere indirizzati verso un’attenzione su assenza di rivolte e di fughe. E oltretutto, non sempre questo va come si vorrebbe. E la dignità dell’individuo? La situazione è addirittura paradossale se si pensa ai casi di due giudici che prima condannano al carcere ma poi, però, ammettono che la pena non può essere eseguita in forma dignitosa e per questo dicono che sarebbe meglio non mettere in carcere i condannati. Se guardiamo a tre elementi, capienza regolamentare, capienza tollerata e capienza effettiva, ecco che il problema carcerario del nostro Paese diventa un’emergenza su cui Strasburgo ci dà un anno ancora di tempo per provvedere”. La proposta di Flick è articolata: “C’è la possibilità per il volontariato di diventare un ponte tra il carcere e la realtà esterna. L’agenda Monti ignorava il problema del carcere. I saggi, dal canto loro, hanno parlato del sovraffollamento ma hanno ignorato la vera realtà del problema: il rapporto con il territorio, tra chi gestisce il carcere e le realtà locali, perché il passaggio dalla detenzione alle misure alternative all’esterno del carcere presuppone una rivoluzione culturale nel rapporto tra pena, carcere e società. Occorre creare un’osmosi tra carcere e realtà circostanti, una specie di federalismo nel decentramento della pena”. E, conclude Flick, “per realizzare un quadro efficace di misure alternative e la loro accessibilità a tutti (anche ai clandestini e agli emarginati senza famiglia e senza protezione); per mantenere un dialogo ed un rapporto fra chi è dentro e chi è fuori, fra noi e loro, i diversi; prima ancora, per formare una coscienza del problema, che consenta di fare breccia nel muro dell’indifferenza e della paura: il volontariato, la sussidiarietà, la solidarietà e - a monte di essi - la misericordia rappresentano delle componenti essenziali di un discorso di giustizia e di liberazione”. Giustizia: lo scrittore Franco Bomprezzi; i detenuti disabili sono doppiamente puniti… Dire, 14 aprile 2013 “Una delle grandi rimozioni a proposito di disabilità è la situazione carceraria dei detenuti disabili, sui quali non si hanno i dati e non si conosce la loro situazione, e cono pertanto doppiamente puniti con la reclusione e con l’impossibilità di vedere riconosciuti i propri diritti elementari”. Sono le parole del giornalista e scrittore Franco Bomprezzi, intervenuto questa mattina sul tema “Abilità al Festival del volontariato Villaggio Solidale”. “Spesso questa mancanza accade perché i detenuti disabili provengono da paesi nei quali tali diritti non sono neppure mai stati sanciti. Su di loro mancano totalmente progetti specifici e questo è un fatto gravissimo”. “Sono orgoglioso della mia disabilità - ha detto poi Bomprezzi. Sì, posso dirlo. Non per rivendicare una specie di aristocrazia dell’handicap, ma perché mi sono reso conto, nel trascorrere degli anni e dei decenni, che il lungo lavoro interiore su di me, sulle mie abilità, sui miei difetti, sui miei limiti, sulle aspettative degli altri, sul pregiudizio e sullo stigma, sul senso della partecipazione, del servizio, del volontariato e della professione, mi ha plasmato fino a raggiungere uno stato di benessere mentale, e di relativa soddisfazione, che forse spiega come mai, adesso, mi si chieda di render conto anche dell’uso delle parole”. “Le parole infatti sono pietre, sono mattoni. Possiamo, con le parole, erigere muri e pareti, oppure costruire ponti e pavimenti, delimitare finestre. “Abilità” oggi significa prima di tutto riconoscere la persona, accoglierla e accettarla così com’è, offrire opportunità, strumenti, supporti, perché le abilità di ciascuno siano a disposizione di tutti. Chi vive su di sè la disabilità può davvero essere una risorsa per un Paese impegnato ad affrontare il cambiamento e la crisi. Ma se rimane, invece, un peso e un problema, lo si deve, forse, a quell’idea balzana di abilità come “onnipotenza” e “superiorità”. Le abilità, ad esempio, comportano come corollario le “competenze”. E in questo senso le persone con disabilità, fisica, sensoriale, ma anche intellettiva, sono giacimenti di competenze, di esperienze, di soluzioni di problemi”. Giustizia: 5 vagoni blindati per il trasporto dei detenuti, acquistati nel 1996 e inutilizzati di Lorenza Pleuteri La Repubblica, 14 aprile 2013 L’incredibile storia delle cinque littorine blindate, acquistate nel 1996 per trasferire le persone da un carcere all’altro e mai utilizzate. Ora stanno vicino alla stazione di Bologna, a prendere le ruggine. Qualcuno suggerisce di rottamarli, a costo di spenderci altri soldi. Ai patiti di modelli particolari non dispiacerebbe vederli esposti in un museo storico ferroviario. Altri chiedono di spostarli alla scuola della polizia penitenziaria di Roma, dove già c’è l’auto del corpo rimasta coinvolta nella strage di Capaci. Il risultato non cambierebbe. Sarebbero tutti palliativi, tentativi inutili di scrostare via la ruggine e il danno. Un’altra storia all’italiana. L’ennesimo spreco. Da otto anni al Deposito locomotive in via del Lazzaretto sono fermi, e vanno in malora, cinque treni speciali acquistati nel 1996 dal ministero di Giustizia per trasferire i detenuti da una città all’altra. Si tratta di “automotrici Aln Dap 663” - la seconda sigla sta per Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - allestite ad hoc da Fiat Ferroviaria e alimentate a gasolio per poter viaggiare in sicurezza e senza dipendere dalla rete elettrica ferroviaria. Dotate di corazzature, e di vetri antiproiettile e anti scheggia, secondo gli esperti sarebbero difficilmente convertibili e nell’immediato non si possono adibire a scopi diversi, se non quelli museali. Per l’uso originario non servono più. Le “periodiche”, cioè le traduzioni di carcerati fatte in treno lungo itinerari prestabiliti e in giorni prefissati, non esistono più da tempo, abolite. Dagli anni Duemila si impiegano furgoni blindati sempre più vetusti e sempre meno affidabili, aerei e ambulanze. E le cinque “663”, ufficialmente in pensione dal 2005, sono diventate buone da buttare. Le Fs, la sola nota che sembrerebbe positiva, pare non facciano pagare la sosta al Dap o al ministero di Giustizia. Ma si ritrovano con un porzione di binari ingombra di materiale rotabile di nessun interesse aziendale. Che dire? Che aspettarsi, in attesa di risposte dal Dipartimento? “La storia purtroppo si commenta da sé - sostiene Giovanni Battista Durante, segretario regionale del sindacato Sappe della Polizia Penitenziaria. Questi treni blindati sono un pessimo esempio di sprechi e scelte sbagliate, antieconomiche in partenza. Quando vennero acquistati, riteniamo a caro prezzo, si sapeva che sarebbe stato complicato usarli. La controprova? Sono rimasti in servizio pochissimi anni”. Giustizia: vietato punire i poliziotti… decine accusati di vessazioni e rimasti senza sanzioni di Arianna Giunti L’Espresso, 14 aprile 2013 Condannati per aver massacrato manifestanti inermi, per avere torturato detenuti, per aver spacciato droga, persino per aver ucciso. Eppure ancora in servizio, con il compito di far rispettare quelle stesse leggi che loro hanno infranto. La vicenda di Federico Aldrovandi, il diciottenne morto per le percosse di quattro agenti, ha riaperto il dibattito sull’inefficacia dei regolamenti che sanzionano il comportamento dei pubblici ufficiali. Anche i poliziotti riconosciuti colpevoli dalla Cassazione per quel pestaggio letale potranno tornare a indossare l’uniforme. Non è l’unico caso. “L’Espresso” ha esaminato una lunga serie di procedimenti contro uomini delle forze dell’ordine che non sono stati radiati, nonostante fossero imputati o condannati per episodi gravissimi: vicende da prima pagina, come il G8 di Genova, o storie dimenticate, come la persona con problemi psichici picchiata a morte a Trieste. Mancano statistiche ufficiali, ma gli unici dati disponibili permettono di capire l’importanza della questione: solo negli ultimi dieci mesi 228 tra agenti, carabinieri, finanzieri e guardie penitenziarie sono finiti sotto inchiesta. Per l’esattezza 105 sono stati indagati, 73 arrestati e 42 a giudizio nei tribunali. Sul loro destino pesa la lentezza dei processi, che spesso determina la prescrizione dei reati senza che le commissioni interne dei corpi intervengano per punire i fatti comunque accertati. E, d’altro canto, brucia vita e carriere di chi attende la sentenza per anni e anni. Ma in tantissime situazioni, i protagonisti vengono sospesi per periodi minimi oppure sono i tribunali amministrativi a revocare i provvedimenti. Certo, la legge è uguale per tutti e la presunzione di innocenza non è in discussione. Proprio l’importanza dei compiti affidati alle forze dell’ordine però richiede norme più chiare di quelle attuali per tutelare la fiducia nelle istituzioni e il lavoro di chi mette a repentaglio la propria vita per difendere la legge. E rischia invece di trovarsi schierato al fianco di chi l’ha violata. G8 senza conseguenze Il blitz nella scuola Diaz durante il G8 di Genova nel luglio del 2001 resta una pagina nera nella storia della Repubblica. Il verdetto della Cassazione per il massacro di oltre sessanta manifestanti inermi è arrivato dopo 12 anni. Venticinque condanne hanno decapitato i vertici della polizia, prevedendo però l’interdizione dai pubblici uffici solo per i prossimi cinque anni. Altri nove dirigenti sono stati riconosciuti responsabili di lesioni personali continuate ma il reato è stato dichiarato prescritto. E restano in servizio. Sono quelli che nella notte della Diaz comandavano i celerini del primo reparto mobile di Roma. Il vicequestore aggiunto Michelangelo Fournier, che definì il blitz nella scuola una “macelleria messicana”, oggi lavora al vertice della Direzione centrale antidroga: la condanna a due anni in primo grado nel suo caso si è prescritta già in appello. Gli altri otto sono stati trasferiti in uffici o commissariati di zona: a nove mesi dalla sentenza definitiva, la commissione interna non ha ancora valutato le loro responsabilità disciplinari. Pestaggio cancellato Nel marzo 2001 gli scontri del Global Forum di Napoli si sono trasformati nella prova generale delle violenze genovesi. Dieci poliziotti sono stati accusati di avere selvaggiamente picchiato e sequestrato 85 manifestanti, rinchiusi nella caserma Raniero. Quando la magistratura ordinò di arrestare gli agenti accusati per le brutalità, una catena umana formata dai loro colleghi sbarrò l’accesso alla questura. Oggi c’è una sola certezza: nessuno è stato punito. Merito della lentezza della giustizia e dell’inerzia delle commissioni disciplinari. I reati di violenza privata, lesioni, falso e abuso d’ufficio sono stati prescritti in primo grado. Il tempo ha cancellato anche l’imputazione più grave di sequestro: lo ha stabilito la Corte d’appello, che si è pronunciata solo nello scorso gennaio dopo ben dodici anni. Un pessimo esempio per tutte le istituzioni. Morte a Trieste Ci sono agenti che però restano in servizio anche quando condannati in via definitiva per omicidio. Lo dimostra il caso di Riccardo Rasman, 34 anni. Figlio di istriani di lingua slava, l’uomo aveva subito feroci atti di nonnismo durante la leva militare, che avevano acuito la sua sindrome schizofrenica paranoide: era terrorizzato dalle divise. In una sera dell’ottobre 2006 Rasman ha festeggiato l’assunzione come netturbino lanciando petardi sul pianerottolo del condominio. Quando ha visto arrivare gli agenti si è rannicchiato sul letto, senza aprirgli. I poliziotti hanno sfondato la porta e si sono lanciati su di lui, un colosso pesante 120 chili e alto un metro e 85. I paramedici del 118 lo troveranno con le manette ai polsi, le mani dietro la schiena, fil di ferro alle caviglie, ferite e segni di “imbavagliamento con blocco totale o parziale della bocca”. Proprio questo imbavagliamento, unito alla pressione con la quale gli agenti, per immobilizzarlo, gli premono con le ginocchia sul tronco, gli provoca una veloce asfissia e la morte. “Era martoriato di botte sul viso, gli avevano rotto lo zigomo, aveva sangue che usciva dalle orecchie, dal naso, dalla bocca”, ricorda oggi la sorella Giuliana Rasman. Ci sono voluti sei anni per accertare la verità. La Cassazione ha condannato a sei mesi per omicidio colposo tre agenti della volante. Secondo i giudici, i poliziotti sapevano che Rasman era in cura in un centro psichiatrico e per questo avrebbero dovuto chiamare subito un’ambulanza. Oggi, liberi con la condizionale, vestono ancora la divisa. “Sono tutti in servizio, ci mancherebbe altro”, conferma a “l’Espresso” il loro avvocato, Paolo Pacileo. La famiglia Rasman, attraverso il legale Claudio Defilippi, ha chiesto le scuse ufficiali del ministero dell’Interno. Mai arrivate. Arresto letale Ci sono decessi drammatici che si assomigliano. E fanno emergere tutta l’inadeguatezza delle forze dell’ordine nel gestire l’arresto di persone in stato di alterazione mentale: una situazione frequente quando bisogna avere a che fare con ubriachi, drogati o disabili psichici. Lo sottolinea la sentenza d’Appello che condanna per omicidio colposo nove agenti di Napoli che nel 2003 hanno provocato la morte per asfissia di Sandro Esposito, 26 anni. Esposito era un parà della Folgore, veterano delle missioni all’estero: durante una licenza, sotto l’effetto della cocaina sale su un capannone e urla. Intervengono diverse volanti e i poliziotti lo immobilizzano. Ma mentre tentano di caricarlo in auto, il parà scappa. Così lo colpiscono con calci e pugni alla testa, utilizzando anche un oggetto contundente, e lo stendono a terra sull’asfalto premendogli le ginocchia contro il petto fino a farlo morire asfissiato. In primo grado i poliziotti vengono condannati per omicidio preterintenzionale. In appello il reato si trasforma in omicidio colposo, e le parole dei giudici, pur riconoscendo la volontà di non uccidere, sono impietose verso l’intero corpo di polizia: “Ci troviamo di fronte a un difetto di addestramento, non risulta infatti che il ministero dell’Interno abbia mai compilato, come invece è avvenuto con il Dipartimento della Giustizia negli Stati Uniti, un protocollo per il trattamento dei soggetti in stato di delirio cocainico”. Due dei nove agenti sono stati espulsi dalla polizia, gli altri non hanno avuto conseguenze. Per sei di loro, la pena a 4 anni di carcere è stata ridotta dalla Cassazione a un anno e sei mesi, con immediata libertà condizionale. Per un altro è scattata la prescrizione. All’epoca dei fatti vennero sospesi per un solo mese, poi sono tornati in servizio e ancora oggi indossano l’uniforme. I genitori del ragazzo, assistiti dall’avvocato Monica Mandico, continuano ad aspettare il risarcimento stabilito dai giudici. Finora dal ministero dell’Interno hanno ricevuto solo il conto da pagare per la rottura del finestrino di una delle volanti su cui fu caricato a forza loro figlio. Torturatori ad Asti Un verdetto paradossale nel gennaio 2012 ha salvato dalla condanna quattro guardie carcerarie del penitenziario di Asti. Erano accusate di aver trattato quattro detenuti come prigionieri di un lager, picchiandoli, privandoli di cibo e acqua, lasciandoli nudi per giorni interi in pieno inverno in celle senza vetri e finestre, arrivando persino a strappare di netto il codino di capelli a uno di loro. I fatti risalgono al 2004, ma sono emersi solo sette anni dopo. Una “piccola Abu Ghraib italiana”, come è stata definita durante il processo: “Entravano nelle nostre celle dopo le dieci di sera”, raccontano a verbale i detenuti “ci prendevano a botte continuamente per non farci addormentare. Io mi chiudevo come un riccio, ma loro continuavano, puntuali, ogni notte”. I giudici del Tribunale di Asti ritengono che si tratti di tortura, un reato che non esiste nel nostro codice penale. E quindi sono state inflitte solo pene esigue, per abuso di autorità e lesioni personali: oggi sono già prescritte. Due degli agenti, responsabili dei fatti più gravi, sono stati radiati lo scorso gennaio. Per gli altri due sono arrivate sospensioni di 4 e 6 mesi. Dopodiché torneranno in servizio. A guardia di Cucchi La verità processuale è ancora tutta da scrivere nella vicenda di Stefano Cucchi, la morte di un geometra romano di 31 anni diventata simbolo dell’abuso di potere. Il 15 ottobre 2009 Stefano viene sorpreso con alcuni grammi di hashish, cocaina e antiepilettici e recluso a Regina Coeli. Quel giorno, hanno detto i suoi familiari, non aveva alcun trauma fisico e pesava solo 43 chili. Già durante il processo ha difficoltà a camminare, gli occhi sono cerchiati da lividi neri e ha lesioni ovunque. Dopo la condanna per direttissima torna in carcere, le sue condizioni peggiorano e viene ricoverato. Il 22 ottobre 2009 muore in ospedale. Da allora comincia una sfida a colpi di referti, perizie, ipotesi investigative. “Ci devono ancora spiegare chi ha provocato a Stefano quelle lesioni alle vertebre, al torace, alla schiena, alla mandibola. Vogliono farci credere che se l’è fatte da solo, cadendo. E quante volte sarebbe caduto?”, tuona l’avvocato della famiglia Cucchi, Fabio Anselmo, lo stesso che assiste anche la mamma di Federico Aldrovandi. Tra gli imputati in attesa della sentenza di primo grado ci sono anche tre guardie carcerarie accusate di aver provocato le lesioni. Per loro non risultano esserci state sospensioni e sono attualmente in servizio. “Ma non più a diretto contatto con i detenuti”, precisa il loro avvocato Diego Perugini. Recidivo L’assenza di regole certe fa cadere anche la paura delle sanzioni. E ci sono casi in cui i poliziotti, non sospesi dopo la condanna, tornano a infrangere la legge. A Milano nel giugno 2007 Luciano Pasqualetti con due colleghi, Massimiliano De Cesco e Andrea Chicarella, arresta un uomo peruviano accusato di rissa aggravata. Lo straniero viene portato in un bagno della Questura e massacrato di botte. Il giorno dopo il pestaggio si ripete, stavolta sotto l’obiettivo di una telecamera: a colpirlo è De Cesco, Chicarella lo tiene fermo, mentre Pasqualetti guarda e non interviene. Qualche mese prima De Cesco era stato protagonista di un caso finito su tutti i giornali: aveva arrestato con modi violenti un altro immigrato e il gip Clementina Forleo, testimone casuale, era intervenuta per bloccarlo. Dopo il pestaggio del peruviano, Pasqualetti patteggia otto mesi ma resta in servizio. L’unico provvedimento è il trasferimento alla Questura di Genova. Dove lo arrestano di nuovo, lo scorso gennaio, per aver regalato informazioni preziose ad alcuni pregiudicati grazie alla possibilità di accedere alla banca dati del ministero. Dalle indagini emerge inoltre che il poliziotto spacciava cocaina. Droga di scorta Il dilagare degli stupefacenti nella società italiana riguarda anche le caserme delle forze dell’ordine. Nel 2009 quattro agenti del Servizio Scorte di Milano sono stati condannati in Cassazione per aver rivenduto la droga che loro stessi sequestravano agli spacciatori. Dopo la sospensione provvisoria, tre di loro sono stati reintegrati, anche se in un altro reparto. Un capitolo a parte meritano invece i consumatori in divisa. I poliziotti sotto l’effetto di cocaina non sono un caso raro: secondo il regolamento vengono sospesi da sei mesi a un anno. Poi però c’è il rientro automatico in servizio, dopo un unico test antidroga che non viene più ripetuto. Tanto che spesso - dalla stessa polizia - viene sollevata la necessità di introdurre analisi periodiche di controllo. Il generale e la poltrona Molte volte per i carabinieri l’applicazione del codice militare permette provvedimenti interni molto più rapidi e risolutivi: come nel caso dei marescialli arrestati per i ricatti emersi con lo scandalo dell’allora governatore del Lazio Piero Marrazzo, tutti immeditatamente sospesi per cinque anni. Eppure il caso più discusso di uomini rimasti in divisa nonostante accuse pesantissime resta quello del generale Giampaolo Ganzer. Un ufficiale dal curriculum eccezionale, dalla lotta antiterrorismo con Carlo Alberto Dalla Chiesa allo smantellamento della mafia del Brenta, fino alla guida del Ros. Poi l’incriminazione per associazione per delinquere finalizzata al traffico di droga, al peculato, al falso per la gestione di un’operazione coperta. Nel 2010 i giudici di Brescia lo hanno condannato a 14 anni definendolo “un traditore per smisurata ambizione”. La sentenza ha scosso i vertici dell’Arma, ma Ganzer è rimasto al suo posto fino al giorno della pensione, nello scorso luglio. E questo nonostante il regolamento militare preveda la sospensione in caso di condanna non definitiva per peculato, uno dei reati contestati al generale. Stupro in caserma A volte, poi, anche quando la decisione dell’autorità sembra irrevocabile, è il Tar che rimette tutto in discussione. Come è successo a uno dei carabinieri accusati dello stupro di una donna nella caserma del Quadraro a Roma, arrestata nel 2011 per un furto. La donna denuncia di essere stata violentata nella camera di sicurezza. “Mi hanno offerto un panino, mi hanno fatta bere, poi sono cominciate le violenze”, mette a verbale. L’Arma ha immediatamente destituito i tre militari coinvolti. Ma uno di loro ha fatto ricorso al Tribunale amministrativo: cacciandolo in quel modo - questa la sua tesi - il ministero si sarebbe macchiato di eccesso di potere senza dare al carabiniere la possibilità di difendersi dall’accusa. I giudici gli hanno dato ragione ed è stato reintegrato. Ora sarà necessario un nuovo procedimento disciplinare. A dimostrazione di quanto sia urgente varare regole certe ed efficaci. Giustizia: l’ex deputato Cosentino “in carcere lavora per migliori condizioni dei detenuti” Ansa, 14 aprile 2013 “Neanche la brutale esperienza carceraria affrontata con straordinaria dignità dall’on. Nicola Cosentino lascia tranquilli i giornalisti e la voglia di strumentalizzare ogni questione che sia legata al suo nome. Spiace leggere sul Mattino di oggi titoli volgari che lo descrivono come un turista al Grand Hotel che gode di pay tv e che avrebbe scambiato la sua cella come un ufficio per continuare a fare politica. La situazione è ben diversa”. Lo scrive la portavoce di Cosentino, Paola Picilli. “L’on. Cosentino si è fatto carico delle istanze dei molti detenuti, ergastolani o condannati a lunghe pene detentive, affinché‚ potessero vedere esteso il pacchetto televisivo del digitale terrestre, visto che la televisione rimane per queste persone l’unico momento di distrazione e di svago. I parlamentari eletti in Campania, sensibilizzati, hanno prontamente aderito facendo una raccolta fondi per rendere possibile questa iniziativa e per fornire al penitenziario televisori sufficientemente moderni da rendere possibile la visione del digitale terrestre ai detenuti. Da sempre sensibile alle istanze di chi versa in condizioni di difficoltà, l’on. Cosentino si è fatto carico di promuovere altre e nuove iniziative, per il miglioramento delle condizioni della collettività carceraria. A dimostrazione del fatto che anche la privazione della libertà personale e la custodia cautelare preventiva subita mentre ha due processi di primo grado in corso, per Cosentino sono occasione di impegno sociale come del resto ha fatto in altre realtà nella sua lunga storia politica. Dunque non si tratta né di privilegi né di una via per garantirsi una comoda detenzione dorata. Per tali motivi chiediamo agli organi di stampa un maggiore rispetto per chi senza neanche lo straccio di una sentenza si trova rinchiuso in carcere in attesa che un qualche giudice abbia la giusta serenità per riportare i fatti nella loro corretta dimensione e restituire l’on. Cosentino alla sua famiglia, permettendogli di affrontare da innocente e da uomo libero fino a sentenza definitiva (come stabilisce la Costituzione) i processi dai quali siamo certi verrà assolto con formula piena”. Giustizia: domani Maso torna libero. Il giudice: “sarà un cittadino come tutti gli altri” di Francesca Brunati Ansa, 14 aprile 2013 Si aspetta nuove polemiche Roberta Cossia, il giudice di Sorveglianza di Milano che ha firmato il fine pena per Pietro Maso, l’ex ragazzo, ora un uomo di 41 anni, diventato simbolo di una generazione senza valori per aver massacrato, quando non era ancora ventenne, i genitori Rosa e Antonio nella loro villetta di Montecchia di Crosara, in provincia di Verona. Un delitto da “Arancia Meccanica” per cui il giovane era stato condannato a 30 anni di reclusione, dei quali 22 scontati effettivamente per via dell’indulto e di 1.800 giorni di liberazione anticipata. Maso, infatti, da lunedì 15 aprile sarà libero e, come dice il magistrato, sarà “un cittadino come tutti gli altri e così dovrà essere considerato”. Uscirà definitivamente dalla casa di reclusione di Opera per cercare, almeno questa è la speranza “di ricostruirsi una vita e riacquistare un po’ di serenità” a fianco della moglie Stefania, sposata nel 2008 dopo aver ottenuto, non senza una pioggia di critiche e proteste, la semi libertà e un lavoro. “Mi stupisco che ci siano ancora polemiche quando un condannato per un fatto comunque atroce - è il parere di Roberta Cossia - ha scontato la sua pena e torna in libertà. Il motivo per il quale ciò suscita un certo fastidio sta nell’istinto vendicativo, umano, per cui non viene tollerato che ci sia un fine pena”. La ragione, ritiene il giudice, è che in molti “c’è ancora un’idea sotterranea vendicativa, dell’occhio per occhio, di restituzione dello stesso male che uno ha fatto, come se lo Stato si dovesse porre sullo stesso piano”. “Credo che il pensiero sia questo - prosegue - e pertanto non esiste alcuna fiducia nella possibilità di reinserire coloro che hanno commesso delitti gravi e nemmeno una comprensione del significato di reinserimento in seguito a un percorso effettuato durante la detenzione con le misure alternative”. In più, a dire del magistrato di Sorveglianza, in generale, “le polemiche rischiano di alimentare il narcisismo di queste persone portandole a stare sulla ribalta per quello che hanno fatto, per il male che hanno commesso, invece di rientrare nella normalità, nell’anonimato come tutti. Insomma - continua - tutto si dovrebbe fare tranne che sbandierare la storia negativa di queste persone che, invece, hanno bisogno di essere proiettate in un progetto futuro”. Detto questo il giudice ha sottolineato che la valutazione dell’iter di Maso, passato attraverso il pentimento e l’avvicinamento alla religione, è stata “complessivamente positiva. Si è fermato a pensare - ha aggiunto - e ha accettato di fare un percorso di revisione, di meditazione. Non so poi come costruirà il suo futuro. Non so se sceglierà la notorietà, ritornando a un passato negativo o vivere, come io gli consiglio, nell’anonimato. Quel che è certo è che oggi è un cittadino come gli altri e così deve essere considerato”. “Spero anche - ribadisce Roberta Cossia - che la gente impari ad accettare che quando un castigo viene interamente espiato bisogna passare oltre, abbandonando l’istinto di aggiungere surplus di punizione non previsto”. E ricorda che quanto è più dura e lunga la carcerazione, tanto è più difficile recuperare dopo. Inoltre osserva che il 70 per cento di coloro che hanno scontato la pena interamente senza usufruire dei benefici penitenziari e di un percorso di riabilitazione, una volta liberi, commettono di nuovo reati (le maggiori criticità si registrano tra i tossicodipendenti). “Per chi invece - spiega ancora - usufruisce di misure alternative, la recidiva si attesta attorno al 20 per cento”. Dati che fanno dire al giudice quanto sia necessario affrontare in altro modo “la devianza, quasi sempre insita nel disagio sociale poiché la risposta carceraria non è l’unica possibile” in quanto, a suo avviso, la pena non può essere “restituzione della violenza commessa” ma, come ha stabilito la Costituzione, riabilitazione. Lettere: la visita al carcere di Monza è stata un pugno nello stomaco… di Nicola Emanuele Fuggetta www.beppegrillo.it, 14 aprile 2013 Per me era la prima volta. La situazione è di emergenza, come nel resto del paese. Sovraffollamento della popolazione carceraria. Scarsa applicazione della legge Smuraglia sul lavoro per i detenuti. Sotto dimensionamento della pianta organica della polizia penitenziaria. Quanto alla struttura, va ricordato che la casa circondariale è una delle “carceri d’oro” degli anni 80 con conseguenti carenze gravi per la povertà dei materiali usati. In sostanza ci piove dentro. Il teatro e la cappella sono inagibili. In molti laboratori e spazi polivalenti ci sono infiltrazioni. Mi ha colpito molto l’isolamento. Dentro l’istituto sono vietati cellulari, tablet, computer, chiavette usb, radio, qualunque mezzo per comunicare con l’esterno non solo per gli ospiti, ma anche per agenti, operatori, medici, insegnanti, educatori e visitatori. Anche la struttura del carcere è isolata dal resto della città. Mi domando come si possa perseguire la finalità rieducativa prevista dalla costituzione in luogo del genere. È difficile che una persona possa migliorare in questo carcere. In fondo, credo abbia ragione Paolo Piffer che a San Quirico ci lavora. Il comune può fare molto. Anzi, qualcosina già fa per migliorare la condizione degli ospiti. Forse unico fra i comuni, ha istituito un servizio di anagrafe all’interno della casa circondariale che è sempre più “frequentato” dai detenuti. C’è una falegnameria ben attrezzata in grado di produrre mobili e oggetti in legno di ottima fattura, su commessa, anche da privati, a condizioni agevolate, per il tramite dell’Associazione Exit. Se avete bisogno di un armadio, di una libreria, di un gioco per bambini o di un mobile da cucina fateci un pensiero. Ne vale la pena. Umbria: Consiglio regionale il 17 aprile decide su nomina Garante delle persone detenute Notizie Radicali, 14 aprile 2013 Il prossimo 17 aprile, all’Ordine del giorno del Consiglio regionale è stata inserita la nomina del garante dei diritti dei detenuti. La legge regionale, che istituisce una figura di tutela delle persone private della libertà personale, fu pubblicata, infatti, nell’ottobre del 2006, più di sei anni fa, e prescriveva la designazione entro un anno. Da allora è cresciuta notevolmente la popolazione carceraria con problemi assai gravi di sovraffollamento, che talora comportano vere e proprie violazioni di diritti costituzionalmente garantiti.La nomina di un garante, in grado di vigilare, di ascoltare - quando si presenti - il disagio, di spingere a soluzioni positive dei problemi tutte le amministrazioni coinvolte, dal Ministero della Giustizia alla Sanità regionale, agli Enti Locali, non è la panacea, ma un aiuto concreto, un segno di attenzione e di civiltà da parte della comunità regionale. Libera Umbria, i Radicali di Perugia ed altre associazioni, fin dalla precedente legislatura, hanno sollecitato il Consiglio regionale con convegni, incontri, conferenze e comunicati stampa, a rientrare nella legalità provvedendo alla nomina, ma solo qualche mese fa abbiamo ottenuto un primo risultato: l’apertura di un bando pubblico per la scelta del garante. Si è avviata così una procedura di selezione trasparente, basata sui curricula dei candidati in possesso dei requisiti di legge. Ora il Consiglio regionale potrà procedere ad una pubblica valutazione e ad una scelta meditata. Noi ci aspettiamo che la persona selezionata, per competenza giuridica, impegno civile ed esperienza, goda di generale fiducia. Una figura di tutela deve, peraltro, dare garanzia di assoluta indipendenza rispetto al mondo della politica, della giurisdizione e dell’amministrazione carceraria. Bisogna che il Consiglio regionale faccia presto ma anche bene. Le nostre associazioni saranno presenti con una delegazione per dimostrare attenzione e sostegno. Radicali Perugia Firenze: l’Istituto Agrario a Solliccianino, venti detenuti si iscriveranno a scuola triennale di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 14 aprile 2013 Grazie a un’iniziativa della Provincia almeno venti detenuti si iscriveranno alla scuola triennale di agricoltura per imparare a coltivare. Le possenti sbarre d’acciaio e gli alti muri di contenimento non impediranno a Solliccianino di essere (anche) un luogo di recupero. Da settembre l’istituto penitenziario Mario Gozzini, grazie alla richiesta effettuata dalla Provincia, diventerà una sorta di succursale dell’istituto agrario superiore di Firenze. E saranno almeno venti i detenuti che si iscriveranno alla scuola triennale di agricoltura per imparare a coltivare (1.800 le ore di lezione complessive). Un’esperienza unica in tutta la Toscana che permetterà ai reclusi di trascorrere le giornate attivamente e che offrirà loro, una volta fuori, di avere quelle conoscenze fondamentali per trovare lavoro nel campo dell’agricoltura, un settore dove c’è sempre più bisogno di manodopera specializzata. Durante le giornate i detenuti saranno impegnati in circa quattro ore di lezioni: prima la teoria nelle numerose aule attrezzate e nei laboratori informatici che si trovano all’interno dell’istituto Gozzini, poi la pratica nel grande spazio esterno di circa un ettaro, dove si potranno cimentare all’interno della serra, nella coltivazione degli ortaggi e dei vigneti, dei vari alberi da frutto e degli ulivi e, non ultimo, nelle operazioni di giardinaggio per rendere più dignitoso e accogliente un luogo che fino ad oggi è dominato da erbacce, degrado e abbandono. Potranno risistemare il campo di calcetto, finora soltanto un ammasso di terriccio, e quello di pallavolo, dove le erbacce svettano alte. E poi potranno offrire nuova linfa allo spazio esterno per gli incontri con i familiari, anche questo in visibile stato di degrado. Potranno piantare fiori e annaffiare i giardini, pareggiare le siepi e fertilizzare i terreni, potare i rami e zappare l’orto. Insomma, operazioni che, se da un lato serviranno per avere un’opportunità socio-lavorativa, dall’altro potranno avere un’importante valenza per regalare decoro al triste ambiente carcerario. Presso l’istituto penitenziario arriveranno dunque numerosi insegnanti dall’istituto agrario per tenere lezioni ai detenuti. “Questa esperienza, unica in tutta la Toscana, segna un vero e proprio ritorno alla terra - ha detto l’assessore all’istruzione della Provincia di Firenze Giovanni Di Fede - un ritorno alla terra testimoniato anche dal fatto che all’istituto agrario quest’anno si sono iscritti ottanta studenti in più”. “Il nostro obiettivo - ha spiegato la direttrice del carcere Gozzini Margherita Michelini - è quello di creare opportunità lavorative per i detenuti, ma soprattutto quella di offrire loro mansioni come la cura della terra che sono, oltre che formative, alquanto terapeutiche”. All’istituto penitenziario Mario Gozzini, che sorge proprio accanto a Sollicciano, sono presenti attualmente una settantina di detenuti a custodia attenuata, quasi tutti tossicodipendenti o colpevoli di reati minori. Nel carcere esiste già una scuola di alfabetizzazione, oltre al corso di giardinaggio. L’istituto penitenziario offre anche una palestra, un cinema, un teatro, una biblioteca e un tavolo da ping pong, oltre ai già menzionati campi di calcetto e pallavolo. Mantova: niente acqua calda per le detenute, lo scorso inverno costrette a docce fredde Gazzetta di Mantova, 14 aprile 2013 Difficile far convivere 27 diverse nazionalità, in celle costruite per sei persone che ne contengono fino a dodici. Difficile resistere dietro le sbarre con così poche risorse. “Spesso non ci sono soldi per garantire l’igiene personale o per piccole riparazioni - spiega una volontaria del carcere - le donne quest’ inverno hanno fatto la doccia fredda perché non funzionava”. Le iniziative dei volontari che operano con gli attuali 180 detenuti (di cui 120 stranieri e 86 dipendenti da droghe) potrebbero essere più numerose, ma per scarsità di fondi e personale di vigilanza investire in nuovi progetti non si può. La situazione è stata illustrata in San Barnaba dal comandante degli agenti penitenziari Raffaele Pierro. Al dibattito “Un carcere in parrocchia” erano presenti il vescovo Roberto Busti, l’educatore Giuseppe Novelli, la volontaria del Centro solidarietà carcere Isabella Dell’Aringa e il cappellano don Lino Azzoni. Il Centro solidarietà ha creato il giornale “Controsenso”, corsi di lingua italiana, di scuola media e superiore, di cucito e animazioni. Manuele, 33 anni, ha raccontato la sua esperienza, iniziata con un dramma familiare sfociato nella tossicodipendenza. “Il carcere è un inferno - ha detto - qui dentro vale più una ruota di un carro di te. Ho conosciuto volontari che hanno cominciato a volermi bene: ora ho il diploma di terza media e sono in una comunità di recupero”. Il vescovo ha esortato la comunità ad aprirsi verso chi torna in libertà. Messina: un’area per i figli dei carcerati all’interno della Casa circondariale di Gazzi di Mauro Cucè Gazzetta del Sud, 14 aprile 2013 Il bel progetto, con zona a verde e giochi per bimbi, verrà realizzato all’interno della Casa circondariale di Gazzi. L’iniziativa d’intesa tra il direttore Tessitore e l’assessore Bruschetta. Regalare momenti di umanità, parziale serenità e un angolo nel quale ritrovare una dimensione lontana, almeno per qualche minuto, dalle sbarre del carcere. Tutto questo presto sarà realtà alla casa circondariale di Gazzi, luogo purtroppo troppe volte finito al centro delle cronache nostrane e nazionali per le condizioni di invivibilità legate al sovraffollamento. Nella struttura carceraria l’assessorato provinciale alle Politiche sociali realizzerà, infatti, un’area verde attrezzata con giochi per bambini. Un progetto sposato dall’assessore provinciale Daniele Bruschetta che ha accolto la richiesta del direttore della Casa circondariale, Calogero Tessitore che alla fine dello scorso anno aveva espresso la volontà di realizzare all’interno della struttura penitenziaria un’area verde, dotata di gazebo e di giochi per bambini, all’interno della quale permettere che gli ospiti e le ospiti dell’istituto di pena possano incontrare, in un contesto meno formale, i rispettivi figli minori. “Questi - scriveva Tessitore nella richiesta - potrebbero alimentare il bagaglio della loro memoria con ricordi più gradevoli rispetto a quelli che, fino ad oggi, per la medesima circostanza sono stati, malgrado loro, immagazzinati”. Presto fatto. L’assessore Bruschetta, che peraltro svolge l’attività di medico anche all’interno del carcere e conosce bene le esigenze della struttura, ha immediatamente raccolto l’invito di Tessitore, facendo in modo che Palazzo dei Leoni contribuisse alla realizzazione dell’area a verde. “Entro l’estate sarà realtà - commenta Bruschetta - ed è un modo per migliorare la qualità della vita dei carcerati e soprattutto dei loro figli. È un progetto che si concretizza grazie alla profonda umanità della direttore del carcere che conosce bene il valore di questi momenti per i detenuti, al pari di tutti gli operatori di Gazzi. Abbiamo raccolto le sue richieste perché crediamo fortemente in questo tipo di iniziative”. Ma quello che riguarda il progetto della casa circondariale di Gazzi non è la sola scommessa dell’assessorato ai Servizi sociali della Provincia, retto da Daniele Bruschetta (per lui anche un passato nel CdA della Polisportiva “Città di Messina”, esperienza durante la quale ha rinunciato al gettone di presenza visto che di fatto alla società non erano mai stati trasferiti gli impianti). L’assessorato provinciale ha deciso, infatti, di approvare ed aderire al progetto “Mobilità garantita” proposto dalla società P.M.G. Italia Spa di Bolzano con il quale l’assessorato potrà disporre - in comodato d’uso gratuito - di un pulmino (modello Fiat Ducato a nove posti) attrezzato al trasporto disabili, da concedere - in comodato d’uso - ad associazioni di volontariato, alle parrocchie agli enti del terzo settore per il trasporto di disabili, anziani e comunque di soggetti in condizioni di svantaggio di natura psico-fisica, sociale o familiare. Alghero: presto i detenuti potranno telefonare ai propri cari con una carta prepagata La Nuova Sardegna, 14 aprile 2013 I detenuti del carcere di Alghero potranno telefonare ai propri cari con una carta prepagata senza dover passare per il centralino. Il progetto è stato realizzato dal Rotary International guidato da Pier Giorgio Poddighe ed è inserito nella più ampia iniziativa “Dal carcere alla società”. “Tra le varie possibilità -si legge in un comunicato - per Alghero la scelta è caduta sull’idea di realizzare all’interno della casa circondariale un impianto che consentisse ai detenuti di comunicare telefonicamente con i familiari e con le altre persone autorizzate attraverso una carta prepagata che non richiedesse l’intermediazione dell’operatore addetto al centralino”. Per l’istituto di Alghero, nel quale si trovano parecchi detenuti stranieri, l’iniziati va appare particolarmente azzeccata viste le difficoltà a incontrare personalmente i propri cari. Il sistema consente fra l’altro di “liberare” l’operatore addetto dall’incombenza del centralino. Potrà così essere impiegato in altre attività. Cagliari: Sdr; a Buoncammino primo Sovrintendente donna in Ufficio matricola Comunicato stampa, 14 aprile 2013 “Per la prima volta nella storia della Casa Circondariale di Cagliari una donna è entrata a far parte dell’Ufficio Matricola. Si tratta di una Sovrintendente che ha risposto all’interpello, ottenendo così una collocazione finora riservata esclusivamente agli Agenti maschi della Polizia Penitenziaria. Un risultato particolarmente apprezzato dalle “colleghe” della sezione femminile e un ulteriore significativo passo nel percorso paritario delle donne nel lavoro e nella società”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, esprimendo apprezzamento per il risultato raggiunto da G.S. “Benché non ci siano preclusioni sessiste nell’assegnazione degli incarichi relativamente agli Uffici, l’accesso alla Matricola, considerato un punto nevralgico e particolarmente delicato del sistema delle strutture penitenziarie per la presenza di dati sensibili, richiede - sottolinea Caligaris - il grado di sovrintendente. Il numero irrisorio di donne Agenti di Polizia Penitenziaria, rispetto ai colleghi maschi decisamente maggioritario in quanto Casa Circondariale maschile, aveva finora limitato l’accesso al livello superiore. G.S. però è riuscita, attraverso un concorso a ottenere il passaggio al grado superiore. Ha quindi partecipato all’interpello e dopo un lungo iter non privo di ostacoli ha raggiunto il suo obiettivo”. “Occorre altresì riconoscere - ha aggiunto la presidente di SdR - il grande senso del dovere della Sovrintendente che, nonostante l’accesso alla Matricola, continua a mantenere l’incarico di Responsabile del femminile in attesa che un’altra collega possa rivestire in modo esclusivo il suo incarico. Le donne com’è noto non solo ottengono risultati che rafforzano il principio della parità, ma sanno anche mediare quando esistono oggettive difficoltà da parte delle amministrazioni o degli enti a far quadrare il cerchio”. “Siamo convinti - ha concluso Caligaris - che la presenza di una donna nell’Ufficio Matricola rappresenti una novità importante foriera di ulteriore qualificazione del servizio a vantaggio dei cittadini privati della libertà”. Pescara: dalla Colletta del Libro, romanzi e racconti per dare una speranza ai detenuti www.pagineabruzzo.it, 14 aprile 2013 Sabato 27 aprile in cinque librerie di Pescara la prima edizione dell’originale iniziativa promossa dall’associazione Stella del Mare, Caritas Pescara-Penne e Casa Circondariale di Pescara: “La cultura, grande strumento di rinascita”. Regalare un libro a chi vive nel disagio, come piccola opportunità di rinascita. Perché, come dice la scrittrice francese Marguerite Yourcenar “Costruire biblioteche è come edificare granai contro l’inverno dello spirito”. È il senso della prima edizione della Colletta del Libro, che si svolgerà in cinque librerie di Pescara il prossimo sabato 27 aprile. L’iniziativa è promossa da una rete di organizzazioni ed enti composta dall’associazione di volontariato Stella del Mare, impegnata nell’accoglienza e organizzazione di attività per minori, la Caritas Diocesana Pescara-Penne, da sempre in prima linea nella lotta all’emarginazione, e la Casa Circondariale di Pescara, con il sostegno del Centro Servizi per il Volontariato di Pescara, e il patrocinio di Comune e Provincia di Pescara. Nel corso della Colletta, i volontari inviteranno i clienti a comprare e donare libri che saranno poi regalati al carcere del capoluogo adriatico e a strutture di accoglienza per minori. In particolare, saranno richiesti romanzi, racconti e novelle, per adulti e ragazzi. Tra i volontari dislocati nei vari punti vendita, anche dieci detenuti in permesso ex articolo 21, che accoglieranno i clienti e spiegheranno il senso dell’iniziativa. Le librerie coinvolte sono Edizioni San Paolo (corso Vittorio Emanuele), Mondadori (corso Vittorio Emanuele), Libri in Centro (via Milano), Feltrinelli (via Milano), Giunti (centro commerciale Arca, Spoltore). Spiegano i promotori: “Come si evince dal sottotitolo dell’iniziativa “Regala un libro, doni vita”, la Colletta mira a regalare a detenuti e minori svantaggiati piccoli segni di speranza, come possono essere i libri. La cultura, del resto, può essere volano di rinascita per chi vive nel disagio e nell’emarginazione, contribuendo alla loro educazione e alla necessaria apertura di orizzonti. In altri termini, per noi cultura è opportunità di crescere, riprendersi, evolvere, riscattarsi. Il logo dice che, leggendo libri, si superano barriere, ci si eleva, si cresce, e si accede a panorami diversi; la prospettiva dello sguardo cambia, si respira libertà anche se in situazioni di isolamento”. Gli organizzatori sono alla ricerca di volontari desiderosi di donare due ore del loro tempo - tanto dureranno i turni - nella giornata del 27 aprile per contribuire alla buona riuscita dell’iniziativa. Le disponibilità si possono inviare all’indirizzo info@lastelladelmare.org o chiamando il n. 3892427508, o al fax del Csv 0852058177. Firenze: Uil-Pa; ieri nel carcere di Sollicciano una rissa e un tentato suicidio Ansa, 14 aprile 2013 Una rissa, presumibilmente tra detenuti appartenenti a bande rivali, ed un tentato suicidio nella giornata di ieri nel carcere fiorentino di Sollicciano, dove il personale di polizia penitenziaria ha impedito che un recluso si impiccasse. A denunciare la “giornata rovente ed impegnativa” è la Uil-Pa Penitenziari in una nota nella quale si afferma che “grazie alla professionalità del personale di polizia penitenziaria si è evitato il peggio e si è salvata un’ulteriore vita umana che avrebbe aumentato il numero dei morti nelle carceri”. “Tutto ciò - prosegue la nota - accade a 48 ore dal consiglio comunale indetto per il 15 aprile nel Salone De’ Dugento, alla presenza del Garante dei detenuti On. Franco Corleone, che esporrà la relazione annuale 2012 in Palazzo Vecchio Piazza Signoria a Firenze ove la Uil-Pa Penitenziari sarà presente”. Per il vicecoordinatore regionale del sindacato Eleuterio Grieco “le carceri Toscane sono al collasso e nessuno lo denuncia: organici del Personale all’osso, fondi insufficienti e strumenti inadeguati a garantire la sicurezza non possono che accelerare la caduta verso il baratro”. Milano: trasferito da San Vittore a Opera… storia del detenuto col cellulare nella scarpa Il Giorno, 14 aprile 2013 Trasferito a Opera è stato perquisito: lo nascondeva nella suola. Il detenuto col cellulare nella scarpa faceva telefonare pure gli altri, in cambio otteneva ogni tipo di favore. Nascondeva un cellulare nelle scarpe. E con quel telefonino era diventato un piccolo boss del carcere. Già, perché parliamo di un detenuto. Un romeno 25enne - in galera da quattro mesi per furto e con precedenti penali per reati contro il patrimonio - che non si come e da quando tempo usava il cellulare in cella e lo metteva a disposizione dei suoi compagni in cambio di favori e prebende. La scoperta è stata casuale. E risale all’altro ieri pomeriggio quando la direzione del carcere di San Vittore aveva deciso di trasferire il romeno a Opera. Insieme ad altri detenuti inseriti nel programma di uno sfoltimento del penitenziario cronicamente sovraffollato. Come vuole la prassi in questi casi tutti i detenuti all’arrivo vengono minuziosamente perquisiti, per ovvie ragioni. Ed è stato proprio nel corso di questa perquisizione, estesa sia ai propri bagagli che alla propria persona, che un agente ha notato qualcosa di strano nelle scarpe. Apparivano un po’ troppo alte e di una foggia particolare al punto che hanno destato i sospetti della guardia che ha obbligato il 25enne a togliersele per meglio analizzarle. E si è scoperto che nella suola era stato ricavato un vano abbastanza voluminoso per nascondere non solo un cellulare, ma anche un cavetto per porte usb e un carica batterie. Pochi minuti dopo la scoperta, mentre ormai il cellulare era nelle mani di un agente di polizia penitenziaria, il telefonino ha iniziato a squillare, ma alla risposta, l’interlocutore ha riattaccato forse comprendendo che qualcosa era andato storto. Ovviamente nessun detenuto è autorizzato a tenere e usare un cellulare. Le telefonate sono occasionalmente concesse solo a certi detenuti e dopo un permesso speciale o del magistrato o del direttore del carcere, il romeno non godeva di alcun privilegio in questo senso. Ma che potesse disporre del telefonino - si è scoperto dopo - era cosa nota a molti. Diversi amici e compagni di braccio sapevano che dietro un compenso potevano utilizzare il cellulare del romeno. Il compenso in questione - così hanno ammesso in tanti - era rappresentato da sigarette, da qualche spicciolo, o il favore riguardava qualche lavoretto supplementare (tipo mettere in ordine la stanza o fare la spesa o cucinare). Non è stato possibile accertare come quel telefono sia entrato in carcere. Sicuramente durante un colloquio. A questo proposito le indagini dovranno accertare se ci sono state complicità interne. Intanto, il romeno, come prevede il rigido regolamento interno è stato sottoposto al regime di isolamento ed escluso dalle attività ricreative in compagnia degli altri detenuti. Droghe: Giovanni Serpelloni difende il Dpa “né sprechi, né clientele” Il Centro, 14 aprile 2013 “Nessuno spreco”. Giovanni Serpelloni, capo del Dipartimento politiche antidroga della presidenza del Consiglio, non ci sta. La sua creatura è sotto attacco e lui contesta i dati contenuti nell’inchiesta pubblicata mercoledì dal nostro giornale sulle spese del Dpa. Difendendo l’operato del dipartimento da lui guidato dal 2008 e già oggetto di interrogazioni parlamentari, Serpelloni conferma che “dal 2009 a oggi il Dpa ha finanziato 119 enti pubblici per un budget complessivo di circa 60.107.559 euro suddivisi in 207 progetti”: ma “alla Usl Verona 20 - aggiunge - sono stati affidati in 5 anni 13 progetti per un totale di circa 3.097.538 ovvero il 5,1 per cento del totale”. “Il progetto più importante e con il maggior budget per la prevenzione - spiega invece Serpelloni - è stato affidato alle Nazioni Unite”. Il capo del Dpa insiste poi sull’efficacia del servizio di “prevenzione dei rave party illegali”. “Ricordo che negli ultimi 18 mesi sono stati individuati e segnalati 113 eventi illegali di cui 64 sono stati impediti o gestiti sia da un punto di vista sanitario che di ordine pubblico”. Inoltre “il sistema di allerta ha individuato 426 siti web che offrono sostanze e, in collaborazione con le forze dell’ordine, il 30,7 per cento sono stati chiusi o oscurati, il restante 63,4 per cento è stato rimosso”. Serpelloni respinge poi le critiche sull’utilità del progetto Nidaac gestito dal consorzio universitario Cueim. “Sono stati coinvolti 40 comuni per la prevenzione dell’incidentalità droga-alcool correlata. Dal 2010 sono stati controllati 50.181 autoveicoli e 30.047 guidatori con un impatto sulla prevenzione estremamente rilevante”. Quanto al capitolo dei contatti web sulle pagine del Dipartimento, Serpelloni precisa che “non ci sono dubbi sulla economicità e l’efficacia informativa di tali investimenti. Contestando la veridicità dei dati sul numero dei contatti web riportati nella nostra inchiesta, il capo del Dpa riferisce che “per il solo sito governativo “Politiche antidroga” dal 2009 a oggi si sono registrate 624.615 visite, 42.844.673 accessi per un totale di 34.663.007 pagine consultate”. A queste cifre si aggiungono, ricorda Serpelloni, “5mila amici Facebook e 500mila visualizzazioni sul canale You Tube del Dpa”. Il capo del Dipartimento contesta infine le affermazioni di Franco Corleone, garante dei detenuti per la Regione Toscana: “È falso il dato da lui fornito sul comitato scientifico del Dpa formato dai maggiori scienziati del mondo molti dei quali appartenenti al Nida (National Institute on Drug Abuse)”. “Falso che sia stato appaltato per centinaia di migliaia di euro. Allo Stato italiano non è costato neppure un euro”. Francia: l’uomo che abolì la pena di morte Famiglia Cristiana, 14 aprile 2013 Parla Robert Badinter, l’ex ministro francese ora impegnato a migliorare le condizioni di vita dei detenuti e autore del libretto per un’opera lirica sul tema della giustizia. Giustizia/Ingiustizia: è il titolo di un festival che il Teatro dell’Opera di Lione sta presentando in questi giorni (fino al 15 aprile). Un modo, per usare le parole del sovrintendente Serge Dorny (uno dei possibili candidati alla guida del Teatro alla Scala), “per coinvolgere un pubblico nuovo nell’opera lirica, per aprire dibattiti, per far riflettere e anche discutere”. Scorrendo i titoli programmati si trovano Fidelio di Beethoven, Il prigioniero di Dallapiccola, Erwantung di Schoenberg. E un’opera nuova: Claude, la vera sorpresa del Festival. Perché se è vero che ci sono uomini politici che amano rilassarsi con la musica, o scrivere libri, è assai raro che un ex ministro, Robert Badinter, si dedichi a un libretto d’opera. Robert Badinter, 84 anni, è l’uomo che ha fatto abolire la pena di morte in Francia (nel 1981) e si è sempre battuto per la qualità di vita dei detenuti: è lui l’autore di Claude, ambientata a Clairvaux, carcere-manifattura francese. Un’opera nella quale si esegue una condanna a morte. “Sono partito dalla novella di Victor Hugo Claude Gueux ispirata ad un fatto vero”, ci spiega. “Claude è un uomo che si ribella, perché non può più mantenere la moglie e i figli e partecipa alla più grande insurrezione francese del 19° secolo. Viene incarcerato a Clairvaux. Dove, dopo l’ingiustizia sociale, subirà anche quella penitenziaria sotto forma di disumane condizioni di vita. Ucciderà il direttore e sarà a sua volta giustiziato. Ma nella storia c’era un altro personaggio, di nome Albin, che è compagno di prigionia di Claude. Andando a sfogliare tutte le carte del processo, ho scoperto che Claude ed Albin divennero amanti. Ed è questa la vera ragione dell’odio nei confronti di Claude. Insomma, l’odio dei carcerieri è nei confronti dell’altro, del “diverso”. E Clairvaux era un luogo che mangiava gli uomini, li sfruttava, li faceva soffrire”. Nel suo scritto “L’esecuzione”, pubblicato prima della sua battaglia per l’abolizione della pena di morte, lei racconta di aver visto la ghigliottina proprio a Clairvaux. E la descrive “sola, al centro della grande corte, come un idolo o un altare malefico”. Cosa le ha ispirato questa immagine? “Clairvaux era un convento. È stato trasformato da Napoleone in prigione e luogo di lavoro forzato. Ma ancora oggi è come percorso da un’aura divina. Era un monastero. Nel quale per secoli si è pregato, solo pregato. Un luogo abitato da Dio. In un attimo i monaci se ne vanno. E diventa un luogo di estrema sofferenza. Esattamente il rovesciamento. È terribile”. È stata questa la ragione delle sue battaglie? “Ho passato 60 anni della mia vita a lottare contro l’inumanità delle carceri, contro la violenza nella carceri. E devo dire che le energie spese contro questa lotta sono state più intense di quelle spese contro la pena di morte in Francia e fuori Francia. C’è nella società occidentale una relazione nascosta e sinistra fra le condizioni delle carceri e la società. Quando ero ministro ero l’uomo meno popolare del Governo. Tutti a spiegarmi: “Ma Roberto, i francesi non sono d’accordo contro l’abolizione della pena di morte”. E tutto ciò che ho fatto per migliorare le condizioni delle carceri è stata occasione di polemiche e tempeste politiche e proteste. Quando ho fatto mettere le televisioni nelle celle, mi hanno detto: e ora anche i sigari, lo champagne?! Perché queste crudeltà?, mi domandavo e mi domando. Alla fine mi sono resto conto che in una democrazia non si può concedere ai detenuti un livello di vita superiore a quello di un lavoratore libero, il meno pagato. Perché non sarebbe accettato”. Torniamo all’opera. Non è facile a 80 anni trasformarsi in librettista! “Gli amici scherzavano: già, ti è già riuscito di scrivere per il teatro. Vedrai cosa significa scrivere un’opera! È stato Serge Dorny a permettere che tutto questo si realizzasse. E l’opera è lo spettacolo più costoso e complesso che esista al mondo, non dimentichiamolo. Per me il vero autore di un’opera rimane però il compositore (in questo caso Thierry Escaich, anche lui alla prima esperienza, ndr): diciamo il Don Giovanni di Mozart, non di Da Ponte. Escaich è una persona gradevolissima, simpatica. Mi sono messo d’accordo in questo modo: tu procedi con la composizione della musica, gli ho detto, e tutto quello che c’è da cambiare, me lo dici e io lo cambio. Io non sono che l’autore modesto del libretto. E poi il terzo protagonista dell’opera moderna è il regista. E qui devo dire che Oliveri Py ha fatto un lavoro sconvolgente. Ha reso e l’atmosfera di un luogo terribile come la prigione di Clairveaux”. La situazione delle carceri italiane è stata spesso denunciata per le condizioni inumane. Però ci sono progetti musicali, teatrali, di riabilitazione. Cosa ne pensa? “È importantissimo che si faccia tutto ciò. Basta ribaltare la domanda e chiedersi come fare perché la pena, che è sempre sofferenza, riabiliti. Bene, io ho visto detenuti che hanno compiuto crimini molto gravi cambiare e ritrovare un posto nella società grazie a progetti educativi, al computer, allo studio, alla cultura”. Lei pensa che un’opera apra il dibattito? “Non ne sono convinto fino in fondo. Credo innanzitutto che l’opera sia una finestra sulla bellezza. Non so se questo elargisca anche pensieri, o apra altre prospettive. Diciamo che nel mio caso mi ha affascinato il gioco del teatro. Mi dà piacere. E se qualche cosa fa piacere, perché non concedersela?” Quindi lei ama l’opera e la musica? “Io amo moltissimo l’opera. Da sempre. Suono il pianoforte perché appartengo a una generazione nella quale per la piccola borghesia suonare il pianoforte era normale. Ho ripreso dopo 40 anni. La musica più grande che esista sono le Variazioni Goldberg di Bach: uno sguardo sull’eternità. Ora suono Bach, Schumann. Ma non disturbo i miei vicini! Solo mia moglie ha il privilegio di ascoltarmi”. Un suo sogno? “Vorrei che Claude venisse rappresentata in altre città. E ci terrei moltissimo che venisse portata in Italia. Ha idea di un teatro?”. Gli diciamo Palermo. E lui aggiunge: “Non sapevo avesse un grande palcoscenico. Certo, Palermo, la Sicilia… Parlare di giustizia lì sarebbe d’attualità”. Stati Uniti: a Guantánamo detenuti si ribellano, militari sparano proiettili di gomma Adnkronos, 14 aprile 2013 Cresce la tensione al campo di prigionia di Guantánamo dove c’è stata una vera e propria rivolta, con i militari che hanno sparato contro i detenuti che protestavano contro le condizioni di detenzione. Gli scontri arrivano dopo due mesi di sciopero della fame da parte di molti dei 166 prigionieri ancora detenuti nella prigione nel campo militare americano a Cuba che Barack Obama aveva promesso agli elettori e al mondo intero che avrebbe chiuso. Gli incidenti di ieri sono scoppiati quando le guardie hanno tentato di spostare un gruppo di detenuti da un dormitorio collettivo in celle singole. Alcuni detenuti hanno opposto resistenza usando, come armi improvvisate, manici di scopa ed altri utensili, secondo la ricostruzione fornita dal capitano di Marina Robert Durand, portavoce di Guantánamo. “In risposta sono stati esplosi alcuni proiettili non letali”, ha detto aggiungendo che dopo gli scontri sia militari che detenuti sono stati visitati da medici senza però fornire ulteriori dettagli. Sono state comunque necessarie diverse ore per sedare la rivolta, con i detenuti che erano riusciti a schermare finestre e telecamere per impedire che le guardie monitorassero la situazione. Secondo Durand la decisione di spostare in isolamento alcuni detenuti è stata presa “per assicurare che i detenuti non fossero costretti da altri a partecipare allo sciopero della fame”. Inoltre, ha detto ancora il portavoce, i detenuti potranno continuare lo sciopero della fame ma saranno seguiti dal punto di vista medico. “Se e quando mostreranno la volontà di rispettare le regole di sicurezza, potranno tornare a godere del privilegio del dormitorio comune”, ha concluso. È iniziato lo scorso febbraio lo sciopero della fame da parte di un gruppo di detenuti che protesta, tra l’altro, contro le continue perquisizioni nelle celle e anche, in modo inappropriato, all’interno dei libri del Corano. Ma secondo gli avvocati difensori e la Croce Rossa lo sciopero è un modo per mostrare la disperazione da parte del gruppo dei detenuti rimasti a Guantánamo riguardo al loro futuro. La maggioranza dei 166 infatti ha ottenuto il via libera al rilascio dalla commissione che l’amministrazione Obama aveva creato per rivedere i casi dei sospetti terroristi detenuti alcuni da oltre 10 anni senza alcuna incriminazione. Ma ora l’amministrazione non solo sembra aver rinunciato, di fronte al netto no del Congresso, ad ogni piano per la chiusura di Guantanamo ma ha anche chiuso l’ufficio del dipartimento di Stato che negli scorsi anni di è occupato del rimpatrio dei detenuti o di trovare per loro un paese terzo disposto ad accoglierli. Israele: governo disposto a trasferire in Europa detenuto palestinese in sciopero fame La Presse, 14 aprile 2013 Israele ha offerto di trasferire Samer Issawi, prigioniero palestinese in sciopero della fame da agosto scorso, in Europa o in un Paese membro delle Nazioni unite. Lo ha fatto sapere un ufficiale israeliano, precisando che l’ufficio del primo ministro Benjamin Netanyahu ha avanzato la proposta dopo che funzionari dell’Ue e dell’Onu hanno espresso preoccupazioni sullo stato di salute di Issawi. L’ufficiale ha parlato a condizione di anonimato. L’avvocato di Issawi, Jawad Bulous, ha fatto sapere che il suo cliente si rifiuta di essere trasferito all’estero, mentre un portavoce dell’Unione europea in Israele, David Kriss, ha detto di non aver ricevuto un’offerta ufficiale. Issawi era stato condannato a 26 anni in carcere per attacchi contro cittadini israeliani. Nel 2011 è stato rilasciato insieme ad altri prigionieri palestinesi nell’ambito dell’accordo per la liberazione del soldato israeliano Gilad Schalit. A luglio dell’anno scorso è stato arrestato nuovamente e accusato di attività militanti. Appello scrittori israeliani a favore di Samer Issawi “Non possiamo restare indifferenti, e protestiamo”, con queste parole si apre un vistoso annuncio a pagamento pubblicato su Haaretz promosso da nomi celebri della letteratura e del mondo accademico di Israele, il secondo in due giorni. Reagivano a una “lettera aperta” indirizzata loro giorni fa da Samer Issawi: un militante palestinese detenuto senza processo e ormai in punto di morte, dopo aver condotto uno sciopero della fame di oltre 250 giorni. Nella lettera Issawi spiegava che Israele (che gli offre di sostituire al massimo la reclusione con il confino a Gaza) non potrà aver ragione del suo spirito libero. “Di me non resta nulla, solo uno scheletro”, scriveva Issawi. “Ma non accetterò l’espulsione dalla mia terra e dalla mia patria. Morirò appagato”. Nell’appello di risposta gli intellettuali si dicono “sconvolti e disgustati” dalla vicenda che se terminasse con l’epilogo peggiore “sarebbe motivo di vergogna per Israele” e rischierebbe inoltre di innescare violenze. Fra i firmatari spiccano i nomi degli scrittori Yoram Kanyuk e Sami Michael; dello storico Yehuda Bauer, autorità internazionale negli studi sulla Shoah; dell’ex presidente della Knesset Avraham Burg; del politologo Zeev Sternhell. Ieri, a sottoscrivere un appello analogo, che in cui peraltro si scongiurava Issawi di non condurre le proteste fino alle estreme conseguenze, erano stati fra gli altri gli scrittori di fama mondiale Amos Oz e A.B. Yehoshua. Francia: “re” dei rapinatori evade dal carcere facendo saltare portone con dell’esplosivo Agi, 14 aprile 2013 Come in un film il “re” dei rapinatori francesi, Redoine Faid, è evaso ieri mattina dal carcere di Sequedin, vicino Lille, in una sequenza di azioni spettacolari tra cui la presa di cinque ostaggi, tutti liberati, e l’esplosione di alcuni ordigni. Esperto di rapine e di attacchi ai furgoni blindati, Faid, 40 anni, soprannominato il “dottore”, è famoso per aver rilasciato diverse interviste ultimamente e aver pubblicato un libro “Braquer (rapinatore, ndr)” in cui racconta di essersi ispirato per le sue rapine ai grandi film americani, come Heat di Michael Mann. Arrestato a giugno del 2011 per un attacco a mano armato a un furgone che era costato la vita a una poliziotta, Faid era rinchiuso nel carcere di Lille dopo aver avuto numerose condanne tra cui una di venti anni nel 1997. Era uscito di prigione nel 2009 ed era diventato una “stella mediatica” raccontando di spettacolari furti per cui indossava, come Robert de Niro in Heat, la maschera da Hockey. Prima dell’evasione, aveva ricevuto in carcere la sua compagna che, come sospetta la polizia, gli avrebbe fornito l’esplosivo che aveva fatto detonare per aprire la porta della cella. Aveva quindi preso cinque ostaggi facendosi scudo con il loro corpo, ne aveva liberati quattro ed era salito su un’auto e scappato verso l’autostrada. Lì aveva rilasciato l’ultimo ostaggio per poi incendiare l’auto e scomparire. Evaso ancora alla macchia, polizia ferma il fratello È ancora alla macchia Redoine Faid, il “re” dei rapinatori francesi, protagonista sabato di una spettacolare fuga dal carcere di Sequedin, vicino Lille. Ma intanto la polizia ha posto in stato di ferma un suo fratello, che “spesso visitava” il delinquente in carcere. Lo ha reso noto Frederic Fevre, il procuratore di Lille, spiegando che non si vuole trascurare “alcuna traccia”; Fevre, secondo il quale sono un centinaio gli inquirenti che danno la caccia al pericoloso delinquente,. non ha invece confermato la presenza del fratello sabato mattina nel parlatorio del carcere.