Giustizia: nelle carceri situazione ingovernabile, l’allarme viene dai Sindacati della PolPen di Valter Vecellio www.lindro.it, 29 agosto 2013 Si rivolge al Presidente del Consiglio Enrico Letta, ai Presidenti di Senato e Camera Pietro Grasso e Laura Boldrini, e al Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri, il Segretario del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria (Sappe) Donato Capece. Chiede che “sia risolta al più presto la sempre più critica e drammatica situazione degli organici della Polizia penitenziaria”. Sentiamolo: “La popolazione detenuta si attesta sempre sulle oltre 20mila unità oltre i 43mila posti letto effettivi delle carceri italiane con tutte le relative valenze di pericolo e di trattamento”, ricorda Capece, “mentre gli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria diminuiscono ogni anno di 800-1.000 unità, per ragioni fisiologiche, senza essere adeguatamente sostituiti”. Ne deriva che negli ultimi cinque anni sono venute meno circa 7.500 unità, compensate in minima parte dall’immissione in servizio degli agenti già volontari nelle Forze Armate. “È imprescindibile per il Governo”, dice Capece, “l’assunzione concreta di impegni in materia di aumento di organico del Corpo di Polizia Penitenziaria. L’appello rivolto alle istituzioni è un grido di dolore che dovrebbe essere storicamente raccolto, perché al crollo fisico e professionale ci manca poco”. In questo senso un significativo allarme arriva da Domenico Nicotra, Segretario generale aggiunto di un altro Sindacato della Polizia penitenziaria, l’Osapp. Timori relativi all’ordine e alla sicurezza penitenziaria di uno dei carceri più “delicati”, quello palermitano dell’Ucciardone. “L’ordine e la sicurezza penitenziaria sono a rischio per l’insufficienza di poliziotti penitenziari. Ormai esiguo personale in servizio nell’istituto palermitano non riesce più a garantire i livelli minimi di sicurezza. È gravissimo che un importante presidio di sicurezza qual è un istituto penitenziario non possa adempiere al proprio mandato e questo perché negli ultimi anni nessun significativo incremento di poliziotti penitenziari sia stato disposto dal Dap”. Ucciardone paradigma della situazione generale delle strutture carcerarie italiane. Se la situazione dei detenuti, infatti, tra sovraffollamento e carenze igienico-sanitarie è divenuta ormai insostenibile e la condanna dell’Unione Europea in tal senso è giunta senza appello, come un coro unanime, quella degli agenti penitenziari (gli “altri detenuti”) non è di certo migliore: sottodimensionamento, stress, turni insostenibili e supporto psicologico carente costituiscono problematiche comuni all’intera categoria, la cui vita lavorativa è divenuta ormai impossibile. “I numerosi casi di suicidio tra i poliziotti”, sottolinea Nicotra, “rappresentano la manifestazione più drammatica ed evidente del fatto che i penitenziari sono divenuti strutture invivibili sotto tutti i profili: umano e lavorativo. Pochi agenti penitenziari, troppi detenuti: le carceri italiane sono sempre più bombe ad orologeria pronte ad esplodere”. La situazione delle carceri, dunque. I dati forniti dall’Associazione Antigone sono eloquenti e significativi. La piaga del sovraffollamento è tutt’altro che sanata: all’inizio di questo mese i detenuti dei penitenziari italiani erano 64.873, 17.414 in più della capienza ufficiale. Secondo le stime di Antigone, i posti letto sono ben inferiori ai 40.000 dichiarati. Poco meno di 30.000 persone vivono in spazi ritenuti degradanti dalla Corte di Strasburgo, che prevede regole molto chiare rispetto alla capienza e agli spazi da garantire a chi sconta una pena. Inoltre, i lunghi tempi burocratici accorciano la vita dei detenuti malati. Il numero dei detenuti, dunque, non cala. Le presenze di reclusi nelle carceri italiane hanno smesso di crescere, ma non sono certo diminuite in modo significativo. Quale sia poi la capienza effettiva delle nostre carceri, questo nessuno lo sa, ma anche da documenti ufficiali del Ministero della Giustizia, si sa che il dato ufficiale è ampiamente sovrastimato, mentre il piano straordinario di edilizia penitenziaria continua a non produrre effetti. Secondo le valutazioni di Antigone, il numero di posti letto è di molto inferiore a 40.000, il che stabilisce un tasso di sovraffollamento più alto di tutta la UE. Nelle carceri italiane la media dei detenuti è circa 170, ma i posti letto non sono mai più di 100. Poco meno di 30 mila persone quindi vivono in spazi ritenuti degradanti dalla Corte di Strasburgo. Per la Corte Europea non prevedere almeno tre metri quadri a persona nei luoghi di detenzione comporta la violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea del 1950 sui diritti umani, che proibisce la tortura e ogni forma di trattamento inumano o degradante. Sono, ad oggi, molte centinaia i ricorsi pendenti per questioni legate allo spazio insufficiente nei penitenziari italiani. La valutazione di questi ricorsi è al momento bloccata nell’esame da parte della Corte europea in attesa che l’Italia assuma provvedimenti sistemici. Entro maggio 2014 le nostre case circondariali dovranno necessariamente contenere tanti detenuti quanti saranno i posti letto a disposizione, in modo tale da porre fine allo scempio dei 30.000 carcerati che non possono civilmente seguire le norme stabilite al livello internazionale. È credibile che in pochi mesi si possa fare quello che non si è riusciti a fare in anni? Evidentemente no. Inevitabile, dunque, il fioccare di salatissime condanne; risarcimenti a tutti i detenuti che faranno ricorso, e a pagare, alla fine della fiera sarà il contribuente, tutti noi. Se tutti e 30.000 i detenuti senza spazio vitale dovessero fare ricorso, il nostro Stato dovrebbe spendere circa 450 milioni di euro a titolo di risarcimento. Non solo. Tra i tanti problemi che il sovraffollamento carcerario comporta, uno dei più delicati è quello della salute delle persone detenute, accentuato dalla mancata soluzione di alcuni gravi problemi emersi da quando la competenza della sanità dei ristretti è passata, nel 2008, dal Ministero della Giustizia al Servizio sanitario nazionale. “Al trasferimento della sanità penitenziaria alle Ssn”, spiega Fiorentina Barbieri, coordinatrice dello Sportello di tutela dei diritti di Antigone del carcere di Roma Rebibbia Nuovo Complesso “non ha fatto seguito un’adeguata pianificazione della gestione del settore da parte della Asl. Accade quindi che i ritardi e le carenze nell’assistenza dei malati acuti e cronici, le gravi carenze nelle attività di riabilitazione, le modalità inadeguate di distribuzione dei farmaci”. Tutto questo solo a Rebibbia, con i suoi quasi 1.800 detenuti, un terzo dei quali oltre la capienza regolamentare. Alcuni casi danno l’idea della situazione. R. N., 54 anni, con sospetto tumore alla prostata, attende da gennaio di eseguire una biopsia prostatica necessaria per la diagnosi. D. I., 37 anni, affetto da glaucoma bilaterale, totalmente cieco all’occhio destro, con parziale capacità visiva all’occhio sinistro da mesi non effettua alcuna terapia né è sottoposto a nessuna visita specialistica. H. I., 49 anni, zoppica per una frattura pluri frammentata al femore sinistro, ha subito diverse operazioni con trapianto d’osso, è alloggiato in cella con altre 5 persone e bagno alla turca, di cui non riesce a usufruire. C.I., 41 anni, non cammina a causa di interventi precedenti alla colonna vertebrale, convive con forti dolori, ma non è sottoposto ad alcuna fisioterapia né a terapia del dolore, se non con analgesici generici. Non solo a Rebibbia, ovviamente; la situazione è generale. Dal carcere di Messina, Q.V., 34 anni, è affetto da una rara malattia alle spina dorsale che gli ha procurato una definitiva paralisi agli arti inferiori; è interessato poi da incontinenza orinaria e fecale, ma dichiara di non essere visitato da oltre 3 mesi. Da Napoli-Poggioreale, scrive D.G., affetto da neoplasia vescicole: chiede di essere curato per evitare la perdita dell’arto inferiore destro. D.P., detenuto obeso di quasi 200 chili racconta di essere stato prima alloggiato a San Vittore (Milano) in una cella al quarto piano senza uso di ascensore, con bagno alla turca, è stato poi trasferito nel vicino carcere di Opera, in una cella con un accesso al bagno troppo piccolo e, successivamente, spostato a San Gimignano, a 500 chilometri di distanza dai propri parenti, tutti residenti a Milano e costretto a dormire in un letto a castello molto stretto. Desi Bruno, Garante dei Detenuti della regione Emilia Romagna, che “vive” quotidianamente la situazione, parla di “carcere sempre più povero e sempre più misero, totalmente fuori dai parametri di legalità costituzionale e convenzionale e in attesa che la Corte Costituzionale si pronunci sulla questione sollevata meritoriamente dal Tribunale di Sorveglianza di Venezia con ordinanza 13.02.2013 relativa alla possibilità di non eseguire pene detentive in istituti che non garantiscono i parametri minimi di umanità del trattamento e delle condizioni di vita”. Un carcere, aggiunge, che va “doverosamente ridimensionato nei numeri da provvedimenti di clemenza che specificamente dovrebbero prendere la forma della l’indulto, perché l’amnistia aiuta a realizzare le riforme del sistema penale e giudiziario, ma non riduce le presenze in carcere”. Non si può accettare un provvedimento di clemenza? Si tratterebbe di una resa dello Stato? Si chiede Bruno. “Forse la realtà descritta dalla sentenza Torreggiani della Cedu dell’8 gennaio scorso, o dall’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Venezia e quella che quotidianamente caratterizza gli istituti di pena italiani cosa rappresentano, se non la resa dello Stato di fronte alla impossibilità di garantire un livello minimo di dignità delle persone?. L’elemento decisivo che giustifica il provvedimento chiesto anche dall’attuale Ministro di Giustizia è dato proprio dalla consapevolezza che, in nessun altro modo, si potrà ottemperare alla sentenza Torreggiani e al limite temporale imposto per la messa a norma del sistema penitenziario. E allora si faccia, senza ipocrisia: senza attendere il sacrificio di altre vite umane”. E chissà che prima o poi, questa ragionevole proposta non riesca a farsi strada e convincere anche i più riottosi. Non fosse altro perché non si vede un’alternativa praticabile. Giustizia: un’amnistia che guardi al futuro e aprire finalmente dibattito sul diritto penale di Livio Pepino Il Manifesto, 29 agosto 2013 L’amnistia e l’abbraccio mortale di Berlusconi, tra scomuniche e veti bipartisan. Ma parlarne significa aprire finalmente un dibattito sul diritto penale. Perché l’amnistia sia l’anticipazione di un sistema penale diverso bisogna fare delle scelte: includere i reati che stigmatizzano le persone. Ma escludere quelli che destano allarme sociale. Come i reati fiscali. Hanno ragione Manconi e Anastasia a sostenere, sul manifesto di ieri, che le contingenze politiche e gli interessi personali del cavaliere di Arcore non devono mettere il silenziatore al dibattito su amnistia e indulto, aperto da tempo (seppur sotto traccia) e che ha subìto un’impennata (in qualche modo un abbraccio mortale) con l’improvvida forzatura operata da amici e commensali di Silvio Berlusconi nella spasmodica ricerca di assicurargli salvacondotti o impunità. E hanno ragione anche nel sottolineare che ci si deve guardare dai ricatti al contrario, cioè da quella posizione che, per evitare di assicurare un privilegio a chi non lo può avere, finisce per escludere l’applicazione di un trattamento equo a chi ne avrebbe diritto. Ma c’è, nell’articolo, un punto da approfondire se si vuole indirizzare il dibattito in una prospettiva realistica (seppur non per i tempi brevi), almeno tra chi, già nel 2006, segnalava l’irrazionalità di un indulto non affiancato da amnistia. Non è vero che i cosiddetti provvedimenti di clemenza devono riguardare solo i fatti di minima entità. Anche storicamente non è stato sempre così. Penso all’amnistia politica concessa con l’articolo 1 del decreto presidenziale 22 maggio 1970, per chiudere i seguiti penali della stagione del ‘68-’69 nella quale, con riferimento al solo ultimo quadrimestre del 1969, erano state denunciate - secondo i dati, come sempre errati per difetto, del ministero dell’interno - 8.396 persone per 14.036 reati, tra i quali 235 per lesioni personali, 19 per devastazione e saccheggio, 4 per sequestro di persona, 124 per violenza privata, 1.610 per blocchi stradali e ferroviari, 29 per attentati alla sicurezza dei trasporti, 3.325 per invasione di aziende, terreni ed edifici e 1.376 per interruzione di pubblici servizi. Orbene l’amnistia si estese, allora, a tutti i reati “commessi, anche con finalità politiche, a causa e in occasione di agitazioni o manifestazioni sindacali o studentesche, o di agitazioni o manifestazioni attinenti a problemi del lavoro, dell’occupazione, della casa e della sicurezza sociale e in occasione ed a causa di manifestazioni ed agitazioni determinate da eventi di calamità naturali” punibili con una pena non superiore nel massimo a cinque anni e, sempre alle stesse condizioni, per la violenza o minaccia a corpo politico o amministrativo, la devastazione, gli attentati alla sicurezza di impianti, il porto illegale di armi o parte di esse e l’istigazione a commettere taluno dei reati anzidetti. Furono, dunque, amnistiati - se commessi in occasione di manifestazioni politiche - anche delitti puniti con sanzioni assai elevate, come la devastazione, per cui l’articolo 419 del codice penale prevede addirittura una pena da otto a quindici anni di reclusione. La ragione la chiarì, nel dibattito alla camera, il relatore della legge di autorizzazione dell’amnistia affermando che occorreva dare risposta al “disagio diffuso nella pubblica opinione che, pur deprecando taluni episodi di autentica delittuosità e pericolosità sociale, ritiene in gran parte sproporzionata e sostanzialmente ingiusta la rubricazione di quelle vicende sotto titoli di reato che erano stati dettati in un’epoca in cui era sconosciuta la realtà storica dei conflitti che caratterizzano tutti gli stati moderni”. Il punto è proprio qui, in positivo e in negativo, per ciò che si può e per ciò che non si può fare, per ciò che può stare insieme e ciò che non tollera compromessi. Un’amnistia razionale e, per questo, utile anche oltre la contingenza deve fare delle scelte e non mettere dei tratti di penna più o meno a caso. Deve, in particolare, cancellare oggi i reati anacronistici o meno gravi commessi in passato nell’attesa (operosa) che, in futuro, gli stessi siano abrogati o riscritti. Solo così l’amnistia può essere, insieme, un provvedimento socialmente accettato e l’anticipazione di un sistema penale diverso (e non una semplice, ancorché preziosa, aspirina per diminuire temporaneamente la sofferenza di un carcere che scoppia). Se si segue quest’ottica, le conseguenze sono evidenti: non si può concedere amnistia per quei reati, anche se in ipotesi puniti con pene miti, che creano un grande allarme sociale e sul cui contrasto l’intera società civile e politica è, almeno a parole, duramente impegnata. È il caso, per esempio, della corruzione e dell’evasione fiscale, universalmente indicate come responsabili dell’impoverimento del paese. Al contrario, l’amnistia ha un senso - almeno per chi coltiva l’idea di una società giusta e fatta di uguali - per tutti i reati bagatellari (per i quali la sanzione penale è in ogni caso inadeguata e sproporzionata) e, a prescindere dalla pena, per quei delitti che stigmatizzano le persone (ovviamente quelle sgradevoli o sgradite) più che i fatti e di cui si trovano molteplici esempi nella legge sugli stupefacenti, in quella sull’immigrazione e nella parte del codice penale dedicata all’ordine pubblico. So bene che, oggi, proporre un’amnistia e un indulto siffatti significa andare incontro a scomuniche e veti bipartisan. Ma parlarne significa aprire, finalmente, un dibattito sul diritto penale che vogliamo, sulle regole della nostra convivenza, sulle modalità di gestione del conflitto sociale. Temi che, prima o poi, dovranno entrare anche nelle competizioni elettorali. Giustizia: l’antiberlusconismo che sacrifica tutto sull’altare del nemico di Marco Bascetta Il Manifesto, 29 agosto 2013 Il più cospicuo risultato politico conseguito dal ventennio berlusconiano è il suo apparente antagonista: “l’antiberlusconismo”. In nome del quale il merito di ogni questione può essere sacrificato, o meglio misurato sul danno o l’utilità di questa o quella scelta per il cavaliere. Che si tratti delle politiche di austerità o di una progressiva sostituzione della logica tecnocratica a quella democratica, non importa come e quanto colpiranno le condizioni di vita e i diritti dei cittadini, ma solo fino a che punto favorirebbero o meno l’uscita di scena del cavaliere. Un punto di vista alquanto paradossale quando a sostenerlo sono i fautori di quel governo di larghe intese che sul partito di Berlusconi poggia e che fatica dunque a neutralizzare la sua influenza. Governo che sancisce definitivamente la conclamata incapacità, quasi ventennale, di battere politicamente il berlusconismo nell’unica forma in cui si è dato e si darà e che è quella che vediamo (con buona pace di chi vagheggia anche in Italia una destra ponderata ed europea). Se si fosse davvero voluto abbattere il potere di Berlusconi, dopo averlo salvaguardato in numerose occasioni, bisognava evitare di mandare i suoi uomini al governo. Se doveva esserci un “punto fermo” non poteva essere che questo. E non è stato. La questione dell’amnistia (che non si farà, perché la legge che ne regola la promulgazione la rende dal ‘92, con la complicità di tutti, quasi impossibile) ricade in maniera esemplare entro questo ordine del discorso. Senza entrare nelle contorsioni tecnico-giuridiche e nelle astuzie politiche che infestano l’argomento, mi limiterò a una domanda e a una ipotesi “per assurdo”. La domanda è: cosa è un principio? L’ipotesi, certamente estrema, è invece la seguente: supponiamo che in uno stato in cui vige la pena di morte dieci persone vi vengano condannate, più una, detestabile e responsabile di gran parte dei mali che affliggono quello stesso stato, ma che ancora dispone di una rete di potere in grado di fare abolire la pena capitale per sé e, in conseguenza, anche per gli altri dieci. Come dovrebbe orientarsi in questo frangente un convinto avversario della pena di morte? Per costui quale sarebbe il principio più importante da difendere? L’intangibilità della vita o l’applicazione della legge, poiché essa esiste e tutti i condannati, quelli senza nome come quello “eccellente”, la hanno infranta? E dunque scegliere di sacrificarne dieci per colpirne uno. Le condizioni in cui versano le carceri italiane non sono ancora la pena di morte, ma per molti, quelli che si suicidano, lo sono diventate e, per altri ancora, le si avvicinano sempre di più. È un discorso che, nella contingenza, favorisce il cavaliere? Non v’è dubbio, ma pazienza: ubi maior minor cessat. Certo, uno storico sostenitore dell’autonomia del politico dirà che si tratta di una questione morale che dalla politica deve essere tenuta ben alla larga. Tuttavia, sulla base di questa separazione buona parte dell’ideologia antiberlusconiana franerebbe miserevolmente o si rivelerebbe per quello che è sempre stata, il tentativo di contrattare con il cavaliere, o di sottrargli, il favore dei poteri forti, le leve del controllo sociale e delle “compatibilità” economiche. Sulla cui natura, spesso iniqua e oppressiva, l’antiberlusconismo vieta di pronunciarsi. Non sia mai che la critica e il conflitto possano giovare a Silvio Berlusconi e rivelare che la “legalità” vigente non risolve tutti i problemi e spesso li aggrava. Giustizia: non facciamo “muro” con i rigoristi delle pene… altrui di Alfonso Gianni Il Manifesto, 29 agosto 2013 “E se accusarmi il mondo/ vuol pur di qualche errore,/ m’accusi di pietà / non di rigore” così canta il tenore, nelle vesti dell’Imperatore Vespasiano, verso la fine della “Clemenza di Tito” di Wolfgang Amadeus Mozart. Con questa citazione dedicata ai melomani, concludevo sette anni fa un articolo dedicato alle polemiche sorte attorno all’indulto che fu poi concesso con la legge del 31 luglio 2006. Pare che il tempo sia passato invano e il quadro non sia cambiato, se non di qualche dettaglio, anche se di peso (la vicenda Berlusconi). Messo in pratica l’indulto, in assenza di altri provvedimenti strutturali quali la depenalizzazione dei reati minori, le carceri sono tornate rapidamente a riempirsi fino all’inverosimile. Tanto a destra quanto, ahimè soprattutto, a sinistra ritornano i soliti argomenti contro gli atti di clemenza. Allora anche all’interno della sinistra radicale si poteva udire chi diceva che un simile provvedimento avrebbe favorito padroni disonesti e truffatori incalliti. Come si ricorderà infatti in quell’anno le carceri scoppiavano per la presenza di datori di lavoro insensibili alle norme di sicurezza, di banchieri avidi e truffaldini, di finanzieri senza scrupoli, di stupratori e killer seriali, mentre nei ristoranti alla moda ladruncoli di mele, immigrati clandestini, consumatori di modiche quantità brindavano felici e vincenti assieme ai cassintegrati. Ora c’è una complicazione in più. Non c’è dubbio che l’argomento amnistia/indulto (si sa non sono la stessa cosa, ma non è questo il punto) sia stato introdotto strumentalmente per salvare Berlusconi. Il quale peraltro in galera non andrà in ogni caso. E che questo elemento suscita più di un legittimo sospetto. Ma non per questo la sinistra dovrebbe cadere nuovamente nelle spire di un ricatto morale artatamente costruito. Il tema di un provvedimento di clemenza è argomento serissimo e meriterebbe la convergenza di tutte le donne e degli uomini di buon senso. Certo, sarebbe un provvedimento d’emergenza, ma non si capisce perché questa la si invochi per tutto, addirittura per tenere in piedi un intero governo, e non per sottrarre dei poveri malcapitati ad una carcerazione ingiusta e insopportabile. A meno che qualcuno non pensi seriamente, per risolvere il sovraffollamento, che bisogna raddoppiare l’edilizia carceraria, allo stesso modo di quelli che pensano di risolvere la penuria di gol allargando la dimensione delle porte. Oppure che la si pensi come Angelino Alfano, il quale, recatosi al meeting di Comunione e Liberazione, ha proposto che siano i paesi d’origine a mantenere in solido gli immigrati carcerati. Non stupisce l’assurdità della proposta, vista la natura del personaggio da cui proviene, quanto il fatto che non sia volato un amen, laddove nei tempi andati una simile performance sarebbe stata accolta da cori di “scemo, scemo”. Basterebbe infatti osservare, come ha fatto ad esempio Tito Boeri, che basterebbe eliminare il reato di immigrazione clandestina, introdotto dal governo avente come ministro Alfano, per ridurre sensibilmente le 25mila presenze straniere che affollano le nostre galere. Con l’aggravante che la stragrande maggioranza di costoro lì si trovano in virtù dei provvedimenti sulla carcerazione preventiva, la cui riforma tutti invocano ma nessuno fa. Quindi anziché indignarsi e chiudersi a riccio, la sinistra che ancora si ritiene tale dovrebbe evitare di fare muro con l’accozzaglia dei rigoristi delle pene altrui che trasversalmente attraversa tutte le formazioni politiche del nostro paese. “Sorvegliare e punire” è una delle tante facce della teoria della governa-mentalità, in nome della quale si sta uccidendo la democrazia in tutta Europa. La questione delle carceri non c’entra nulla con le vicende giudiziarie ormai concluse di Berlusconi. Nessuno può farsi scudo della sua persona né per avanzare né per rigettare proposte in quel campo. Non si può continuare a essere vittima del berlusconismo e dell’antiberlusconismo senza soluzione di continuità. Se invece di tante chiacchiere attorno all’impossibile ricorso alla Corte Costituzionale da parte di un organo parlamentare o ad approfondimenti perditempo sulla chiarissima legge Severino, si affrettassero i tempi della decisione sulla decadenza di Berlusconi da senatore e sulla sua incandidabilità, come è concretamente e facilmente possibile fare, ogni costruzione strumentale sarebbe distrutta dalle fondamenta. Giustizia: mio figlio è stato ucciso a botte in carcere, ma lo Stato insabbia tutto da 10 anni Intervista di Cecilia Pierami www.tgcom.it, 29 agosto 2013 Marcello Lonzi muore nel carcere di Livorno la sera dell’11 luglio 2003. Per la Procura si sarebbe trattato di “morte naturale”, ma la madre, Maria Ciuffi, da 10 anni chiede “la verità” e ora ha deciso di ricorrere alla Corte di Strasburgo per avere giustizia. “Al cimitero ho visto dove era mio figlio, ho fatto uscire dalla stanza tutti quelli che c’erano. Ho abbracciato la bara e ho detto: “Marcellino te lo giuro, qualcuno pagherà per quello che ti hanno fatto”. E io quella promessa la rispetterò, costi quel che costi”. Così Maria Ciuffi racconta a TgCom la battaglia che combatte dal 2003 per far luce sulla morte del figlio Marcello Lonzi, 29 anni, deceduto mentre era detenuto nel carcere di Livorno. Marcello Lonzi si trovava nel carcere “Le Sughere” di Livorno, per un una condanna per tentato furto. Muore l’11 luglio del 2003. Per la Procura si è trattata di un infarto, “cause naturali”, ma la madre non ci ha mai creduto e ora porta il caso di fronte alla Corte dei Diritti dell’uomo di Strasburgo e, per sostenere la sua azione, ha lanciato una petizione online che, in meno di quattro giorni, ha già superato le 10mila adesioni. “Marcello stava bene, non ha mai sofferto di cuore. Questo sarebbe già bastato per insospettire chiunque. Poi ho visto il corpo di mio figlio, i lividi, i segni e ho capito: nessuna morte naturale, qualcuno quell’infarto glielo ha fatto venire a suon di calci e pugni”. La Procura di Livorno ha però archiviato due volte le indagini sulla morte di suo figlio... “Ho passato gli ultimi dieci anni a combattere, ho letto gli atti, ho parlato con chi era in carcere con mio figlio. Troppe lacune, troppe stranezze: sì il caso è stato archiviato due volte, ma sempre dallo stesso Gip. Per avere la riesumazione del corpo di Marcello e far eseguire un’autopsia da un medico di parte ho dovuto denunciare il pm di Livorno alla Procura di Genova, che ha disposto un supplemento di indagine. Ma più che un supplemento di indagine era un inizio: è venuto fuori che non era stato mai interrogato nessuno”. Cosa ha scoperto con i nuovi esami che ha fatto eseguire? “Mio figlio aveva le costole rotte e non quelle che si rompono quando si fa il massaggio cardiaco per la rianimazione. Altre. Aveva un’impronta di uno scarpone sulla trachea. Aveva il polso rotto. Le foto mostrano chiaramente i segni di un pestaggio”. Perché pensa che le indagini siano state insabbiate? “Ci sono troppe cose che non tornano e testimonianze contrastanti. Innanzitutto l’orario della morte. Stando agli atti, Marcello è morto alle 20.14. A parte che non torna con l’orario delle chiamate al 118, ho parlato con il ragazzo che era volontario sull’ambulanza. Ed è stato anche interrogato: lui è intervenuto di giorno non di sera. Lo dice e lo ripete. Ma i carabinieri, presenti durante la deposizione, volevano chiaramente che rispondesse altro. “Non è che era stanco per il lungo turno in ambulanza e non ricorda bene?” gli chiedevano”. A che ora sarebbe morto suo figlio secondo lei? Non ci sono stati testimoni del malore? “Mio figlio credo sia morto nel primo pomeriggio. Tornerebbe con quelli che sono i risultati dell’autopsia e torna con molte testimonianze che ho raccolto. Ma spesso queste dichiarazioni sono completamente cambiate di fronte ai pm. Come quella del suo compagno di cella...” Cosa ha sostenuto il compagno di cella di Marcello? “Agli atti c’è questa dichiarazione: “Ho sentito un colpo, mi sono svegliato e Marcello era morto”. Ma a me ha detto altro, ha raccontato che non era in cella, perché stava facendo la doccia, dopo aver lavorato tutto il giorno nella falegnameria del carcere. Però davanti ai pm ha cambiato versione perché aveva paura. Questo me lo ha ripetuto più volte: lui era dentro accusato di violenza sessuale, una di quelle accuse che in carcere gli altri detenuti ti fanno “pagare”. Non lo aveva detto a nessuno e raccontava di essere dentro per un furto. Per quello ha cambiato versione, perché aveva paura, o è stato minacciato, che fosse svelata la verità”. E gli altri detenuti, non hanno visto o sentito niente? “Mi è stato raccontato da un detenuto che il giorno in cui è morto, Marcello si era preso con un secondino la mattina, ma sembrava finita lì. Poi aveva mangiato. Subito dopo pranzo lo ha visto che lo portavano via. A volte capita che qualcuno sia chiamato in qualche sezione o reparto. Ma non è più tornato in cella. Alle 15.30, cosa molto insolita, hanno chiuso tutti i detenuti nelle celle e non le hanno più riaperte. Quando le celle erano chiuse, questa persona mi ha raccontato di aver sentito correre e urlare”. Cosa sarebbe successo secondo lei? “Mio figlio è stato portato in isolamento. E lì è stato barbaramente picchiato. Tanto da fargli venire un infarto. Poi quando si sono resi conto di aver esagerato, hanno cercato di coprire tutto. Per quello hanno chiuso tutti in cella, per poterlo riportare nella sua, probabilmente già morto, senza che gli altri lo vedessero”. Ha avuto altre conferme in questo senso, altre testimonianze? “Una donna, una ex detenuta in carcere a Livorno quando c’era anche Marcello, mi ha raccontato di essere stata avvertita nel pomeriggio, e non la sera, che era morto. Pensavano che fosse la sua compagna... E poi un altro fatto inquietante: una guardia sarebbe arrivato di corsa da un’infermiera che lavora a “Le sughere” e le avrebbe detto: “Corri corri mi è morto fra le mani”. Naturalmente di questa testimonianza non c’è traccia negli atti. L’infermiera ha deposto in Procura, poi il giorno dopo è tornata al carcere e ha tentato il suicidio. Successivamente ha cambiato la sua deposizione”. E gli amici che Marcello aveva in carcere, si sono fatti un’idea di cosa sia successo? “C’è poco da dire, mi hanno detto: “Maria è così, va così da sempre. A turno tocca a tutti, anch’io ho preso le botte. A me è andata bene. A lui no”. Non hanno dubbi insomma che sia stato picchiato a morte”. Cosa farà adesso? “Avevo fiducia nello Stato, credevo che ci proteggesse. Dopo tutto questo non crederò più nella giustizia. È troppo evidente che qualcuno ha voluto insabbiare tutto questo caso. Mi scrivono spesso tanti ragazzi che mi dicono che hanno paura. Paura della polizia, paura di poter entrare in un carcere e non uscirne più. Ma mi scrivono anche dei secondini e degli agenti per chiedermi scusa, perché non tutti sono come quelli che io e mio figlio abbiamo incontrato sulla nostra strada”. “Adesso spero che l’appello alla Corte di Strasburgo porti a qualcosa. Io voglio solo giustizia, voglio andare a processo. La mia vita da dopo la morte di Marcello, non è stata più la stessa. Prima era la vita, dopo è stato solo il buio. L’ho promesso a mio figlio, chi gli ha fatto questo la pagherà. Costi quel che costi. Sono disposta anche ad andare in galera, ma qualcuno la pagherà”. Giustizia: altri “no” al carcere per la diffamazione… ma il tempo sta per scadere di Ignazio Ingrao Panorama, 29 agosto 2013 Spero che il Parlamento sappia cogliere l’opportunità di riformare finalmente la normativa sulla diffamazione” dichiara a Panorama Franco Siddi. Raramente, osserva il segretario della Federazione nazionale della stampa, “si è registrata una tale condivisione di organismi di categoria, di giornalisti e direttori come oggi nella discussione sulla riforma della diffamazione alla Camera, a cominciare dall’abolizione del carcere e dalla pubblicazione della rettifica come condizione di non punibilità. Il Parlamento è chiamato a tenerne conto cercando tuttavia di migliorare alcuni aspetti, in particolare sulla rettifica e sul segreto professionale. Occorre anche un giurì per la lealtà dell’informazione”. Da giovedì 29 agosto, con l’uscita di questo numero di Panorama, mancheranno appena 9 giorni allo scadere dei 100 indicati in maggio come termine ultimo per la riforma della legge, perché fosse evitata la potenziale incarcerazione del direttore, Giorgio Mule, condannato a Milano (senza condizionale) a una reclusione di 8 mesi per un articolo ritenuto diffamatorio (e poi condannato il 9 luglio ad altri 8 mesi senza condizionale). Il 5 settembre riparte la discussione del provvedimento alla Camera, iniziata lo scorso 6 agosto. È probabile che slitti almeno alla seconda metà di settembre, a patto che la legislatura non venga bruscamente interrotta. Beppe Ginnetti, ex parlamentare pd e portavoce dell’associazione Articolo 21, chiede che si utilizzino le settimane che ci separano dalla discussione in aula per “un ampio confronto pubblico su questa riforma, con una più attiva partecipazione anche della grande stampa, come è opportuno quando si affronta un tema delicato come la libertà di espressione”. Per Giulietti la proposta di legge “rappresenta un indubbio passo avanti”, ma occorre “rafforzare le sanzioni per le querele temerarie che diventano uno strumento di pressione soprattutto sui cronisti più esposti e meno tutelati anche da parte delle organizzazioni criminali e dei gruppi mafiosi”. Dello stesso avviso è Paola Spadari, presidente dell’Ordine dei giornalisti del Lazio, che da tempo insiste su questo profilo della normativa. Anche il presidente dell’Ordine nazionale dei giornalisti, Enzo Iacopino, è per una rapida approvazione. Invita solo a rivedere “l’ammontare delle multe previste, troppo alto tenuto conto del reddito della maggioranza dei cronisti precari che oggi scrivono sui giornali”. Iacopino chiede inoltre di ripensare la clausola che prevede la pubblicazione della rettifica senza commento che rischia di diventare una scorciatoia per “permettere arbitri”. Vincenzo Vita (Pd), già protagonista del dibattito sulla diffamazione in Senato nella scorsa legislatura, guarda ottimisticamente al “rinnovato clima che si registra su una riforma che è attesa da anni” e che è necessaria per smantellare quella “censura indiretta” sui giornalisti che è la minaccia delle querele. Anche per Vita si tratta di un “passo avanti”, migliorabile in particolare con un ripensamento sulle norme relative ai giornali digitali. Resta da augurarsi che la Camera raccolga questi appelli per evitare che la riforma finisca di nuovo per arenarsi nelle secche dei lavori parlamentari. Lettere: l’altra faccia del condannato, ovvero la rieducazione possibile oltre gli stereotipi di Antonio Sammartino (Garante dei diritti dei detenuti di Pistoia) Ristretti Orizzonti, 29 agosto 2013 In questi anni ho frequentato il carcere di Pistoia come volontario e da più di un anno in veste di Garante dei diritti delle persone private della libertà personale. Ho avuto l’occasione di incontrare e conoscere da vicino la popolazione carceraria: detenuti con problemi di tossicodipendenza e di alcolismo che hanno commesso dei reati di piccola entità, altri, invece, reati ben più gravi come rapina, tentato omicidio, omicidio e reati di pedofilia. Lo stato d’animo dell’osservatore esterno che, come il sottoscritto, si avvicina a tali realtà non è mai neutrale e sarebbe da ipocrita affermare il contrario. Inizialmente è più facile esprimere una vicinanza nei confronti di chi ha commesso un reato non grave e proviene da un contesto sociale e familiare disagiato, piuttosto di chi, invece, partendo da situazioni anche più favorevoli socialmente, ha commesso degli atti gravissimi, prevaricando con la violenza altri soggetti, fino ad arrivare, come in alcuni casi, a causarne addirittura la morte. Ma aldilà delle comprensibili diffidenze, il carcere, per chi vuole ascoltare, permette di andare oltre e comprendere che esiste anche un’altra realtà rispetto a quella che ci viene narrata dai mezzi d’informazione. Esistono, infatti, sempre e comunque delle persone e queste, nel bene e nel male, non devono mai essere scambiate con le loro azioni. Avvicinandosi e guardando in faccia chi si è reso responsabile di atti gravissimi scopri che dietro c’è sempre un volto e una storia da ascoltare (non da giustificare), e che questa narrazione restituisce all’autore dell’atto un senso di umanità e viene meno l’immagine del “mostro”. È partendo dal senso di umanità, talvolta sopita, nascosta, residuale, ma comunque esistente, che potrebbe essere svolto un serio lavoro di rieducazione. Ma il problema per tutti, di chi commette dei reati di piccola entità, come per quelli che commettono dei reati ben più gravi, è proprio questo, cioè il lavoro di rieducazione che all’interno delle nostre carceri non viene sufficientemente svolto, per mancanza di fondi, per mancanza di un numero adeguato di personale addetto a svolgere questo importante compito (il rapporto tra educatori ed agenti è nell’ordine di 1 a 100), perché, in una parola, l’Amministrazione penitenziaria non sembra interessata a rendere attuativa quella Riforma introdotta con la legge dell’Ordinamento penitenziario. Eppure la nostra Costituzione e la suddetta legge affermano nettamente che la pena deve tendere alla rieducazione, precisando anche che il trattamento dei detenuti deve essere personalizzato, rispondendo ai particolari bisogni della personalità di ciascun soggetto. La mancanza di sufficienti attività rieducative e risocializzanti è grave quanto l’obbligare le persone detenute a vivere in spazi ristrettissimi per gran parte della giornata. Questa condizione ha determinato la condanna del nostro paese da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, per trattamenti inumani e degradanti rivolti alla popolazione carceraria italiana. Inoltre non svolgere un serio lavoro rieducativo sui reclusi non rende una società più sicura ma aggrava e appesantisce il problema della sicurezza, favorendone ad esempio il fenomeno della reiterazione dei reati. In qualità di Garante comunale dei diritti delle persone recluse, e quindi guardando alla dimensione locale e a quello che in tale ambito è possibile fare, anche alla luce dei nuovi provvedimenti legislativi, auspico che gli Enti pubblici territoriali possono predisporre un piano di lavori socialmente utili da riservare ai detenuti di Pistoia, impiegandoli anche a titolo gratuito nella tutela dell’ambiente, del verde pubblico, nell’agricoltura, nelle zone di montagna abbandonate. Questo consentirebbe al detenuto durante l’espiazione della pena di rendersi utile socialmente riparando al danno provocato, di riabituarsi ad un’attività lavorativa e a risocializzare, in vista di una sua fuoriuscita dal carcere quando avrà terminato la pena. Lettere: la legge “svuota carceri”… di Vincenzo Andraous Ristretti Orizzonti, 29 agosto 2013 Sono i giorni di chi parla della “svuota carceri”, di buonismo e lassismo, di leggi improponibili, di idee malsane, di orde barbariche scorrazzare in strada, di migliaia di delinquenti liberi di interpretare la libertà come una prostituta, di penitenziari svuotati irresponsabilmente di ogni utilità e scopo. La “svuota carceri” è passata, gli istituti a parere di qualcuno rimarranno privi di carne sottovuoto spinto, di scatole accatastate, di numeri confusamente sconosciuti ai più. La “svuota carceri”: così è stata denominata per ben significare una in-umanità in procinto di invadere le praterie nazionali, abbattendo staccionate e porte blindate, rubando e rapinando dignità e vite innocenti, depredando democrazia e una qualche equità. “La svuota carceri” è praticamente operativa, centinaia, migliaia di detenuti, uomini e donne, lasciano le proprie celle, i propri fantasmi, plotoni di senza fissa dimora del proprio disagio stanno per ritornare in seno alla società, in mezzo a noi: ma chi è ritornato tra noi, chi c’è di fronte a noi, chi busserà alla mia porta? La “svuota carceri” ha compiuto il suo corso, un po’ meno il coraggio della coerenza politica che dovrebbe formare, educare alla partecipazione di una società che chiede continuamente giustizia, mai parole sciocche che non consentono alcun interesse collettivo. Questo nuovo decreto, varato per opporre un argine ai troppo suicidi, per riconsegnare dignità alla pena, ai detenuti e operatori, per non rimanere inchiodati a una sopravvivenza imposta e fuori legge, lontana da ogni legalità, umanità, equità, appare sempre più uno sberleffo a ogni possibile volontà di ragionevolezza. Ancora una volta s’è preferito aggirare il vero problema endemico di ogni amministrazione penitenziaria, imbragando con il passamontagna del male minore l’inattuabilità delle norme vigenti. La “svuota carceri” è un misero solco scavato nel deserto delle parole, perchè deprivato di strumenti appropriati, mentre per liberare la Giustizia dalle troppe ingiustizie - rallentamenti -indifferenze - occorre una precisa assunzione di responsabilità, una misura idonea, che liberi i tribunali dalle scartoffie e dalle tonnellate di arretrati, una decisione che consegni dignità - e diritto alla pena, a quella flessibile ed a quella certa, a quella pena che grida di non rimanere interpretazione per pochi eletti. Domandiamoci con onestà intellettuale quanti di questi uomini e donne, pur sempre detenuti, potranno davvero uscire dalle carceri italiane ed essere assunti qua e là, quanti di costoro potranno essere adibiti a lavori di pubblica utilità “dentro” istituzioni pubbliche e private ( so bene di cosa sto parlando, dal momento che la Comunità Casa del Giovane gestisce tra le tante strutture terapeutiche anche un laboratorio di lavoro pubblica utilità per soggetti incappati nell’etilometro, in reati a bassa pericolosità sociale, per cui conosco bene il carico delle eventuali difficoltà), oppure quanta di questa erranza umana sarà in grado di fare i conti con una buona vita fatta di rispetto e di reciprocità, perchè diventati “esperti” di una auspicata destrutturazione e ristrutturazione, essendo stati precedentemente attraversati da una qualche formazione intramuraria. Quella grande maturità raggiunta nel panorama penitenziario italiano forse andrebbe valorizzata con maggiore incisività di interventi più che mai urgenti. Emilia-Romagna: la legge “svuota-carceri” piace alla Garante dei diritti dei detenuti Sesto Potere, 29 agosto 2013 La Garante regionale dei carcerati Desi Bruno promuove il decreto svuota-carceri contenente una serie di misure in materia di esecuzione della pena, volte a fronteggiare il sovraffollamento carcerario. Il garante regionale dei carcerati Desi Bruno promuove il decreto svuota carceri contenente una serie di misure in materia di esecuzione della pena, volte a fronteggiare il sovraffollamento carcerario. Per Desi Bruno, Garante delle persone sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale della Regione Emilia-Romagna, in particolare “la nuova legge manda indubbiamente dei segnali positivi. Tuttavia custodia cautelare, tossicodipendenza, immigrazione e carenza di risorse restano i nodi ineludibili della questione carceraria. Servono amnistia, indulto e riforme strutturali. L’innalzamento da 4 a 5 anni del limite edittale poter emettere ordinanza di custodia cautelare rappresenta certamente un buon segnale, ma non risolverà l’anomalia tutta italiana di una percentuale di detenuti non definitivi che supera il 40% della popolazione detenuta. Troppo spesso l’utilizzo della custodia cautelare continua ad essere una vera e propria anticipazione di pena, con buona pace della presunzione di non colpevolezza”. Secondo la Garante regionale, “occorre un diverso approccio al tema della custodia cautelare”. Per quanto riguarda la presenza massiccia di persone tossicodipendenti in carcere (circa il 25% della popolazione carceraria), la normativa introdotta in materia di lavori socialmente utili rappresenta una novità solo relativa. Il tema della tossicodipendenza richiede un piano straordinario, certo normativo ma anche di predisposizione di risorse. “Salvo in casi di assoluta eccezionalità, persone che provatamente presentano problemi di tossicodipendenza non devono entrare in carcere: o, quantomeno, devono essere collocate altrove il prima possibile”. Un altro punto critico, aggiunge Desi Bruno, è rappresentato dall’immigrazione, acuito in queste settimane dall’esodo da Egitto e Siria: “Serve, da tempo, una riforma della legge Bossi-Fini che impedisca ab initio la criminalizzazione della persona che entra irregolarmente nel nostro Paese, al fine di evitarne l’ingresso in un circuito penale “segnato”. In un’ottica di riduzione del danno si potrebbe ampliare l’istituto dell’espulsione, eliminando incomprensibili preclusioni giuridiche e accompagnando con forme di “rimpatrio assistito” gli stranieri nel loro Paese, laddove possibile: ovvero stringendo accordi con altri Stati che spesso non vogliono riaccogliere i propri concittadini. Dunque, conclude la Garante, “in attesa che la Corte Costituzionale si pronunci sulla questione sollevata meritoriamente dal Tribunale di Sorveglianza di Venezia - relativa alla possibilità di non eseguire pene detentive in Istituti che non garantiscono i parametri minimi di umanità del trattamento e delle condizioni di vita - il numero delle presenze in carcere andrebbe ridimensionato tramite provvedimenti di clemenza che dovrebbero prendere la forma dell’indulto, oltre che dell’amnistia (che non riduce direttamente le presenze in carcere)”. Toscana: via libera della Regione al piano di superamento dell’Opg di Montelupo Ansa, 29 agosto 2013 Via libera della Regione Toscana al piano di superamento dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo Fiorentino (Firenze), percorso già avviato, nel 2008 e che va consolidato in vista della scadenza perentoria, legge, fissata dalla legge 57 del 2013, che stabilisce al 31 marzo prossima la chiusura definitiva degli opg. La Giunta regionale ha approvato nel corso dell’ultima seduta la delibera per il superamento della struttura: il provvedimento contiene il piano che il ministero della Salute ha già ricevuto e letto, e che adesso, con l’ok regionale, si spiega in una nota, ottiene la formalizzazione per l’assegnazione delle risorse statali - 11 milioni di euro circa - necessarie per l’attuazione. Il piano prevede tre livelli di intervento. Il primo è realizzato attraverso i servizi socio-sanitari territoriali, con l’incremento dei percorsi terapeutici e riabilitativi che la Regione ha avviato fin dal 2008, e poi potenziato. Le persone internate per le quali l’autorità giudiziaria abbia escluso pericolosità sociale saranno prese in cura dalle Asl e inserite in progetti di terapia e riabilitazione individuali. Già 22 i pazienti che hanno così potuto lasciare la struttura di Montelupo. Il secondo livello prevede il potenziamento delle strutture sanitarie psichiatriche intermedie, destinate ad accogliere le persone sottoposte a misure di sicurezza non detentive. Le residenze saranno 4, distribuite sul territorio in modo da garantire la prossimità dei pazienti internati che rientrano nei luoghi di provenienza: 2 nell’Area Vasta Centro e 1 ciascuna in quella Nord Ovest e Sud Est. Già funzionanti le comunità Le Querce di Firenze e Tiziano di Aulla; da realizzare la seconda struttura dell’Area Vasta Centro e quella dell’Area Vasta Sud Est. Infine il terzo livello È costituito dalla residenza con sorveglianza intensiva, la Remsd (residenza per esecuzione misure di sicurezza detentive) che, come previsto dalla legge, sarà la nuova struttura sanitaria con vigilanza perimetrale, che accoglierà persone con misure di sicurezza detentive. Con l’approvazione della delibera contenente il piano, la Regione potrà avere accesso alle risorse ministeriali, appunto 11 milioni ai quali vanno aggiunti 579mila provenienti dalle casse regionali. Di questi, si prevede l’utilizzo di 7 milioni e 755mila euro per realizzare la Remsd e 3,8 milioni per la realizzazione, riconversione e potenziamento delle 4 strutture del secondo livello. A questi 11,5 milioni di euro ne vanno sommati altri 4,8, statali, per le spese correnti delle strutture. “Megafono” Toscana: pensiamo anche a chi ci lavora La criticità dei penitenziari italiani “non può essere affrontata esclusivamente con provvedimenti svuota carceri: si fa un gran parlare delle problematiche di chi deve scontare una pena, ma troppo spesso ci si dimentica dei lavoratori che operano all’interno degli istituti di pena”. A sostenerlo È Renato Scalia, coordinatore toscano del Megafono, il movimento che fa riferimento al governatore della Sicilia Rosario Crocetta, secondo il quale “gli operatori della polizia penitenziaria, quotidianamente, sono costretti a lavorare in condizioni di emergenza e pericolo e, con organici ridotti ai minimi termini, devono tenere a bada una popolazione carceraria che supera di gran lunga quella prevista da ogni singolo penitenziario”. A Sollicciano, spiega Scalia, “vi sono oltre 1000 detenuti a fronte di una capienza di 475 posti e nel carcere circondariale fiorentino È prevista una dotazione organica del personale di polizia penitenziaria di 635 unità, anche se la pianta organica È del 2001, mentre le forze presenti si dovrebbero arrestare a 485 unità: inevitabilmente, con un numero ridottissimo di addetti ai controlli, i carceri nostrani sono divenuti un colabrodo e le stesse organizzazioni sindacali hanno denunciato situazioni insostenibili dovute al sovraffollamento degli istituti di pena italiani”. Un quadro generale nel quale, spiega Scalia, si sviluppano “relazioni sentimentali tra detenuti e operatori sanitari, spaccio di sostanze stupefacenti, traffico di cellulari e schede telefoniche ed anche estorsioni”. La questione poi della presenza di telefoni cellulari in carcere. È, spiega Scalia, frequente e origine della capacità di alcuni detenuti di proseguire a gestire le loro attività criminali da dietro le sbarre: “Nelle prigioni i cellulari sono divenuti merce di scambio estremamente preziosa tra i detenuti” e, “sicuramente - continua Scalia - un metodo efficace potrebbe essere la schermatura degli istituti penitenziari e i reparti di polizia penitenziaria dovrebbero essere dotati di appositi rilevatori di telefoni cellulari”. Reggio Calabria: delegazione del Pd in visita al carcere, chiede più lavoro per i detenuti www.strettoweb.com, 29 agosto 2013 Una delegazione del Partito Democratica guidata dall’On. Danilo Leva Responsabile Giustizia del Pd e composta da Antonino Castorina della Segreteria Nazionale dei Giovani Democratici Responsabile Legalità, Sandro Favi responsabile carceri per il Partito Democratico, Giuseppe Morabito capogruppo del Pd alla provincia di Reggio Calabria e Seby Romeo dell’esecutivo regionale del Partito Democratico della Calabria ha visitato questa mattina il carcere di Reggio Calabria. L’istituto, nonostante sia interessato da importanti lavori di ristrutturazione tendenti a consentire condizioni di vita detentive più umane presenta quelle criticità dovute principalmente al sovraffollamento, problema comune alla totalità degli istituti penitenziari d’Italia. È stata riscontrata altresì una grande professionalità da parte di tutto il personale che opera nel carcere e che si impegna quotidianamente affinché il dettato costituzionale del recupero del condannato possa concretizzarsi e consentire a chi ha sbagliato, di potersi riabilitare a pieno nella società civile dopo aver scontato il giusto periodo di pena previsto dalla legge. Il Partito Democratico si farà carico presso il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria affinché si intervenga sulla sezione detentiva femminile che ha oggettivamente bisogno di urgenti interventi strutturali. L’augurio è quello che si possano incrementare tutte le attività lavorative e di recupero a cominciare dalle strutture esistenti, come ad esempio il laboratorio di lavorazione del marmo, inaugurato tanti anni fa e mai entrato in funzione per mancanza di organico. Agrigento: oggi il Comitato per i Referendum visita il carcere con Rita Bernardini Notizie Radicali, 29 agosto 2013 Prosegue l’attività di raccolta firme per i 12 referendum radicali. Giovedì 29 agosto una delegazione guidata da Rita Bernardini entrerà nella casa circondariale di Contrada Petrusa in Piazza di Lorenzo 4 per consentire ai cittadini detenuti di sottoscrivere i 12 quesiti per la giustizia giusta e i nuovi diritti civili e umani. Tra le proposte referendarie spiccano quelle sull’abolizione dell’ergastolo, sulla separazione delle carriere dei magistrati, e ancora le due sulla responsabilità civile dei magistrati. Rita Bernardini da tempo gira le carceri italiane sensibilizzando la società nei confronti della difficilissima situazione in cui versa il sistema penitenziario nazionale. L’iniziativa rappresenta la naturale prosecuzione del Ferragosto in carcere: lo scorso 15 agosto, infatti, nell’ambito della mobilitazione nazionale “per l’uscita dalla flagranza criminale dello Stato italiano, per l’Amnistia e i Referendum” i Radicali hanno avuto accesso nel penitenziario catanese di piazza Lanza e 100 detenuti hanno potuto sottoscrivere le richieste referendarie. I referendum affrontano il problema di una giustizia in difficoltà da almeno 30 anni in questo Paese e per la quale si viene puntualmente condannati in Europa, sia per trattamenti dei detenuti e la condizione nelle carceri sia per l’irragionevole durata dei processi. I quesiti non sono limitati soltanto alle questioni delle carceri e dei magistrati, ci sono infatti anche domande relative alla riforma delle politiche su droghe e immigrazione, per il divorzio breve, per l’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti e l’otto per mille. L’ingresso alla Petrusa è previsto alle 9,30. Oltre a Rita Bernardini faranno parte della delegazione Giacchino Bonomo, Giovanni Palillo, Giuseppe Arnone, Luigi Troja, Calogero Pisano, Benedetto Cardella, Donatella Corleo, Gianmarco Ciccarelli, Roberta Zicari, Angelo Cinquemani, Gloria Greco. Per le ore 11.30 è prevista una conferenza stampa all’esterno della struttura durante la quale si offrirà un resoconto dell’attività e si risponderà alle domande dei giornalisti. Da oggi fino al 30 Agosto sono in corso tre giornate di mobilitazione nazionale per informare i cittadini e invitarli a firmare i quesiti referendari presso gli uffici comunali. Ogni contributo è fondamentale. Sassari: protesta dei familiari dei detenuti; in attesa per ore sotto il sole, occorre pensilina La Nuova Sardegna, 29 agosto 2013 “Il trattamento che ci viene riservato è pari a quello delle bestie”. Hanno un diavolo per capello i familiari dei detenuti rinchiusi nel carcere di Bancali. Due giorni fa, dopo l’ennesima estenuante attesa fuori dall’istituto penitenziario, hanno deciso di rivolgersi alla stampa “visto che nessuno lì dentro ci ascolta”. La situazione descritta da un gruppo di persone che ogni settimana va a trovare parenti o amici detenuti riguarda soprattutto “la sauna che siamo costretti a fare per ore, sotto il sole. Bambini e anziani ogni volta vivono momenti di seria difficoltà”. Ciò che prima di ogni altra cosa manca fuori dal carcere è una pensilina che consenta ai visitatori di ripararsi dal sole come dall’acqua, perché quando piove - ovviamente - il disagio c’è allo stesso modo. “Siamo esseri umani e tra noi ci sono anche persone malate, ma evidentemente qualcuno ogni tanto lo dimentica. Come si fa - aggiungono - a lasciare delle persone anziane sotto il sole per quattro ore?”. Proprio come sarebbe accaduto martedì scorso. Il problema è in parte anche legato anche ai trasporti pubblici: “Ci sono solo due corse di autobus per Bancali e siamo costretti ad arrivare molto prima rispetto all’orario delle visite: alle 11.30 siamo già davanti al carcere e l’ingresso per i colloqui è alle 14.30. Ma è l’unica possibilità che abbiamo”. A quanto pare i familiari dei detenuti avrebbero chiesto di poter usufruire della sala d’attesa interna, quella nella quale sostano per poco tempo prima dell’inizio della visita. “Potrebbe essere aperta un po’ prima ad esempio, ci hanno risposto che siamo in un carcere, quasi lasciandoci intendere che non è un luogo di intrattenimento. Ma noi mica vogliamo fare salotto, sapremmo comportarci bene e in questo modo si risolverebbe il problema”. Una soluzione che probabilmente l’amministrazione penitenziaria non ritiene attuabile. In ogni caso la priorità in questo momento è la realizzazione della pensilina esterna al carcere: rappresenterebbe un riparo e anche un segnale di attenzione. Milano: il carcere è considerato “prima casa”… così il detenuto deve pagare l’Imu Varese News, 29 agosto 2013 Il contribuente ha la residenza nel penitenziario di Bollate, per questo motivo il Comune ha dovuto applicare l’aliquota sulla seconda casa. Il sindaco: “Questa legge è blindata, non avevamo altre soluzioni”. “Dura lex sed lex” recita una massima latina medievale. La legge è dura, ma è sempre la legge, quindi non può essere derogata, nemmeno quando di mezzo ci sono ragioni di umanità. Ne sa qualcosa il sindaco di Monvalle, Franco Oregioni, che ha chiesto il pagamento dell’Imu a un suo concittadino detenuto nel carcere di Bollate (Milano) dove sta scontando una pena definitiva. “Avendo questa persona la residenza anagrafica nel penitenziario, quella è considerata la sua abitazione principale - spiega Oregioni. Quindi per altri due immobili che ha in comproprietà con i famigliari abbiamo dovuto applicare l’aliquota prevista per la seconda casa”. Il sindaco di Monvalle si è messo una mano sul cuore, cercando tra le pieghe del testo legislativo una “soluzione” per il contribuente detenuto e non avendola trovata ha consultato anche i regolamenti Imu di Varese e Milano. “Prima di procedere ad un’applicazione draconiana della legge, abbiamo approfondito il tema e valutate tutte le ipotesi - continua il primo cittadino. Quindi non c’è stata alcuna disparità di trattamento. Purtroppo questa legge è blindata perché il passaggio da un’aliquota all’altra è previsto solo in due casi: per gli anziani che trasferiscono la residenza e per i disabili”. Oregioni sa che questa è una situazione limite in cui ogni particolare può assumere, suo malgrado, i contorni di una discriminazione. E forse è anche per questo motivo che sottolinea il trattamento riservato alla casa dove risiedono i figli e la moglie del contribuente: “In quel caso invece abbiamo applicato tutte le detrazioni previste per l’abitazione principale, 200 euro più 50 euro per ogni figlio, e così l’imposta è andata a zero”. Al detenuto non sono state notificate cartelle esattoriali, ma solo una lettera interlocutoria in cui l’amministrazione comunale contesta il mancato pagamento di una quota relativa all’anno 2012 spiegando le ragioni dell’applicazione dell’aliquota più gravosa prevista per la seconda abitazione. “Mi auguro - conclude il sindaco - che questa anomalia tutta italiana venga risolta dal legislatore, magari prendendo in considerazione oltre ai detenuti anche altri casi, come quelli dei lungodegenti”. Trieste: l’Assessore Regionale Telesca ha incontrato il Garante dei diritti dei detenuti Agenparl, 29 agosto 2013 L’assessore alla Salute e alla Protezione sociale, Maria Sandra Telesca, ha incontrato nei giorni scorsi il garante dei diritti dei detenuti del Comune di Trieste, Rosanna Palci, e il garante della Provincia di Gorizia, don Alberto Denadai. Assieme all’assessore era presente il presidente della Commissione regionale Tutela salute, il consigliere regionale Franco Rotelli. L’incontro, richiesto dai garanti, aveva lo scopo di conoscere lo stato dell’iter per il passaggio della Medicina penitenziaria alla Regione, così come previsto dalla normativa nazionale. “Il lavoro propedeutico al passaggio si è quasi concluso - ha confermato l’assessore - e si considera quale data di possibile attuazione quella del primo gennaio 2014”. L’incontro ha fornito ai garanti l’occasione di illustrare il loro operato all’interno degli istituti penitenziari del Friuli Venezia Giulia (attualmente sono rappresentati i territori di Trieste, Gorizia e Udine) e di illustrare le maggiori criticità legate al sovraffollamento delle strutture. Ci si è confrontati anche sulle attività rieducative e risocializzanti in atto e su possibili azioni da intraprendere per futuri percorsi di reinserimento. Cosenza: ai “domiciliari” preferisce il carcere, incendia letto nella Comunità Regina Pacis Gazzetta del Sud, 29 agosto 2013 Preferiva tornare in carcere e ha pensato bene di dar fuoco al suo letto nella comunità Regina Pacis dove era ai domiciliari dopo aver aggredito carabinieri e operatori. L’uomo è finito in cella. Preferiva tornare in carcere piuttosto che restare nella comunità terapeutica e ha pensato bene, per farlo, di danneggiare e aggredire. Alla fine Mario Russo, 5enne di Cosenza, celibe, pregiudicato, detenuto domiciliare presso comunità Regina Pacis di San Benedetto Ullano è stato acconentato. È finito in manette dopo ore di atteggiamenti violenti. Ha minacciato una operatrice di turno, infranto una porta in vetro, ha scagliato un vaso di fiori contro un carabiniere intervenuto per calmarlo. Ma una volta andati via i carabinieri ha ricominciato. Ha incendiato il suo posto letto. Le fiamme sono state domate dal personale con ben 4 estintori. A questo punto i carabinieri di Montalto Uffugo lo hanno arrestato e trasferito in carcere. Prato: Sdr; il Dap lede diritto alla difesa dei detenuti, emblematico caso di Raffaele Arzu Ristretti Orizzonti, 29 agosto 2013 “Il diritto alla difesa nel processo penale è inviolabile. È infatti riconosciuto dalla Costituzione. Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria però spesso lo lede quando un cittadino è privato della libertà, considerandolo non solo già colpevole ma assegnandogli anche una pena aggiuntiva”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, con particolare riferimento al caso di Raffaele Arzu, 34 anni, originario di Talana in Ogliastra, ristretto nel carcere di Prato, in Toscana, “costretto a viaggiare continuamente per poter essere presente ai processi senza però avere il tempo necessario per prepararsi alle udienze confrontandosi opportunamente con il suo legale”. “Ancora una volta, un diritto sancito dalla Carta Costituzionale viene messo tra parentesi - osserva Caligaris - perché non viene garantita la territorialità della pena. L’aspetto paradossale è che i detenuti yo-yo, costretti dal Dap ad andare su e giù per lo Stivale, aumentano notevolmente i costi del sistema penitenziario. Se non è possibile farli restare stabilmente in Sardegna, benché ciò appaia irragionevole, basterebbe consentire ai detenuti di poter permanere nell’isola almeno il tempo necessario per preparare con il difensore le udienze ravvicinate”. “Raffaele Arzu invece viene tradotto nelle sedi processuali, a Cagliari e/o Lanusei, il giorno precedente il dibattimento. L’arrivo è in serata. Ne consegue che può incontrare il legale - sottolinea la presidente di Sdr - soltanto pochi minuti prima dell’udienza. Il diritto alla difesa è un principio che tende ad affermare e raggiungere la finalità della giustizia giusta. Negandolo si priva la società della clausola fondamentale del processo che deve tendere al raggiungimento della verità, senza ombra di dubbio”. “Sono molte le ragioni - conclude Caligaris - che dovrebbero far prevalere il rispetto dei principi costituzionali. Si tratta della salvaguardia della persona che deve essere giudicata evitando storture. Un primato del senso di umanità che il Dap non sembra voler garantire privilegiando invece la visione vendicativa dello Stato ancor prima di avere concluso l’iter giudiziario. Quello di Arzu è un caso emblematico anche di indifferenza che nuoce alla correttezza dell’operato della macchina della giustizia”. Foggia: Coosp; due agenti penitenziari aggrediti da un detenuto nel carcere di Lucera www.foggiatoday.it, 29 agosto 2013 Il segretario Domenico Mastrulli: “Tutti chiamati a riflettere sulla pericolosità quotidiana che si vive nelle strutture penitenziarie. Solo in Puglia servirebbe un rinforzo di 600 unità”. Due agenti della polizia penitenziaria sono stati aggrediti da un detenuto foggiano ristretto al carcere di Lucera. Il fatto è accaduto nella giornata del 27 agosto scorso, ma la notizia è trapelata solo questa mattina, dopo segnalazione alla Segreteria Generale del Coordinamento Sindacale Penitenziario - Coosp. Le cause del gravissimo gesto, in base a quanto fino a questo momento accertato, sarebbero riconducibili a dissapori intercorsi nel corso del colloquio visivo che il soggetto - responsabile di reati contro la persona ed il patrimonio, in attesa di giudizio - aveva effettuato con i propri familiari. “Noi poliziotti penitenziaria da sempre lasciati, dallo Stato e dall’amministrazione penitenziaria, a gestire in prima linea, nelle sezioni detentive, le incapacità di chi ha dirette responsabilità nella gestione detentiva mentre continuiamo a pagare fisicamente la dura crudeltà e l’inciviltà che regna nelle prigioni pugliesi ed italiane”, spiega in una nota stampa il segretario nazionale Coosp, Domenico Mastrulli. Concausa di tutto ciò è indubbiamente il sovraffollamento detentivo che, a livello nazionale è pari a 65.000 reclusi contro le 45.000 posti letto, mentre in Puglia è stimato al 95%, con una popolazione detenuta di 4.050 persone contro una capienza regolamentare di 2.400 posti letto. “Ancora una volta siamo chiamati a riflettere sulla pericolosità quotidiana che si vive sulla nostra pelle nelle dieci strutture penitenziarie pugliesi, così come nelle 230 strutture penitenziarie nazionali”, spiegano ancora dal Coosp. “Nella stessa giornata di martedì, a pochi chilometri da Lucera, un altro grave evento è stato segnalato sempre dal Coosp per una vile aggressione nel carcere di Matera. Il poliziotto penitenziario che opera sotto organico con turni massacranti fino a 16 ore, come accaduto a ferragosto a Bari, appare termometro negativo per i diritti contrattuali degli operatori della sicurezza, per il continuo esporsi a rischio vita per soli 1.300 euro mensili”. “Servono dalle 8.000 alle 12.000 unità di polizia di rinforzo - conclude perentorio il segretario generale Mastrulli - e italiane e 600 di queste in Puglia, contro l’attuale organico 2.448 unità”. Dopo il fatto, i due agenti sono stati visitati dai sanitari e successivamente ricoverati presso il pronto soccorso cittadino per lesioni. Immigrazione: prosegue protesta Cie Gradisca, rientrati extracomunitari caduti dal tetto Adnkronos, 29 agosto 2013 Sono stati riportati nel Cie di Gradisca d’Isonzo (Gorizia), riprendendo la protesta, i due extracomunitari che ieri in tarda serata erano caduti dal tetto durante un tentativo di fuga. I due erano stati portati all’ospedale di Gorizia per i controlli. Il tentativo di fuga era stato messo in atto durante la protesta tuttora in corso, che vede sul tetto alternarsi gruppi di 10-15 extracomunitari armati di spranghe. Spranghe che, lanciate verso la rete di recinzione collegate a un cavo, servono anche per tentare di fuggire, con la sbarra metallica usata come una sorta di ancora da agganciare alle inferiate. Quando gli extracomunitari riescono a tendere la fune, si calano sulla corda ed è così che ieri sera sono caduti i due nordafricani. Le forze dell’ordine sono mobilitate per evitare che gli extracomunitari riescano a scappare. Altri interventi sono troppo pericolosi, in quanto il tetto è a un’altezza di 5-6 metri e c’è il rischio che qualcuno si faccia male. A protestare, apprende l’Adnkronos, sono in maggioranza magrebini provenienti da Tunisia, Marocco e Algeria. Quasi sempre si tratta di persone uscite dal carcere o pizzicate in qualche retata, in genere contro lo spaccio di sostanze stupefacenti. Iran: nuovo presidente… nuove impiccagioni di Esmail Mohades L’Opinione, 29 agosto 2013 Di fronte alla scena straziante di migliaia di corpi senza vita in Siria che sembrano dormienti, cosa si può scrivere? Metteranno in macabra mostra le coscienze in vacanza? Oggi pure i bambini, molti tra quei corpi dormienti, sanno che il regime siriano si regge soprattutto con l’aiuto pratico del regime teocratico iraniano, che amministra sul campo e per conto del dittatore siriano il massacro in quella martoriata terra. Il neo presidente della teocrazia iraniana nella sua prima dichiarazione ufficiale ha ribadito che l’Iran resta contrario a qualsiasi ingerenza straniera in Siria. Le cancellerie occidentali pare lo ascoltino. Il viceministro degli esteri Lapo Pistelli, precipitatosi a Teheran appena dopo due giorni dal giuramento di Rouhani, al suo ritorno spiega entusiasta all’Ansa - il 12 agosto - che la sua missione non è frutto del caso. La composizione del governo di Rouhani, probabilmente all’onorevole sottosegretario non farà né caldo né freddo. Così diventa un piccolo particolare che il ministro della Giustizia Pour Mohammadi sia tra i principali attori dell’uccisione di 30.000 prigionieri politici nell’estate del 1988 in Iran. È trascurabile, o forse agli occhi del sottosegretario ne mette in mostra lo spessore, che Hossein Dehghan, ministro della Difesa, sia fondatore di Hezbollah in Libano e abbia un passato eccellente di sequestratore di diplomatici a Teheran. Di altri ministri, molti provenienti dagli apparati di sicurezza - leggi repressione - del brutale regime è meglio tacere. Lo zelo dell’esponente del governo italiano, in ogni caso, sembra eccessivo e mette in mostra il suo personale invaghimento, di lunga data, verso il regime teocratico iraniano, che avrà forse le sue ragioni. Ricordiamo che sguazzare nel fango del regime, porterà vantaggi economici ma intensifica l’immane sofferenza del popolo iraniano che ritiene il regime fonte dei suoi guai. Stiamo parlando di un regime che secondo l’ultima relazione di Ahmad Shahid, relatore speciale dell’Onu, nelle carceri violenta il 35% degli uomini e l’80% delle donne. Ricordiamo che il regime confessionale al potere in Iran per la sua natura totalitaria non riconosce l’opposizione, in qualsiasi forma essa si manifesti. Non stiamo parlando solo dell’opposizione al regime, ma della dissidenza all’interno del regime stesso. Un regime che non rispetta neanche la sua costituzione, che per giunta è antidemocratica. Del penoso tavolo negoziale sul nucleare è più dignitoso stendere un velo. Sì, in Iran c’è una guerra tra le fazioni del regime, sotto gli occhi di tutti, ma questa non riguarda il popolo e i suoi diritti, ma il potere e i privilegi della nomenclatura al potere. In Iran, come in tutto il medio Oriente, c’è una lotta del popolo contro la tirannia, distinta dai conflitti intestini dell’establishment. Qui in Occidente va di moda presentarla come una lotta di religione, ma in verità si tratta di diritti. In Iran in particolare la lotta secolare per la democrazia non è mai cessata, anche se viene repressa violentemente dal regime. Ma sui diritti umani il viceministro degli esteri onorevole Lapo Pistelli ci rassicura; nella sua intervista a L’Unità dice: “Posso dire che anche nei colloqui ufficiali ho riscontrato la disponibilità, anzi sono stato sollecitato, ad aprire un “dialogo critico”. Come dire, da parte iraniana si è prevenuta l’obiezione prima che arrivasse”. Trova il dittatore disponibile, ne è felice. Nelle prime settimane dopo l’elezione del nuovo presidente dei mullah il numero degli impiccati ha avuto una nuova impennata, supera 100. Chiudere tutte e due gli occhi sulla materia dei Diritti Umani non è onorevole. Confondere il popolo con il regime dittatoriale è scorretto ed è cinico. Ignorare le istanze democratiche degli iraniani non è onesto. Considerare questo regime teocratico espansionista parte della soluzione del problema mediorientale oltre che semplicistico è tragico. I corpicini di Ghouta lo testimoniano. Pakistan: governo di Nawaz Sharif ferma il boia, sospese ufficialmente 468 esecuzioni Radio Vaticana, 29 agosto 2013 Il governo pakistano guidato da Nawaz Sharif, esponente della “Pakistan Muslim League”, ha sospeso ufficialmente 468 esecuzioni capitali, confermando la moratoria che vige nel Paese da cinque anni. La questione della “pena di morte” è da alcune settimane di nuovo al centro del dibattito pubblico. All’inizio di agosto, il governo aveva prospettato una ripresa delle esecuzioni, generando aspre critiche da Ong come “Amnesty International” e “Human Rights Watch”, ma anche all’interno della nazione. Secondo quanto riferito all’agenzia Fides, la decisione del governo è frutto delle pressioni delle organizzazioni per i diritti umani e della comunità internazionale. In particolare, per l’Unione Europea, la ripresa delle esecuzioni avrebbe avuto la conseguenza di cancellare il Pakistan dalla lista delle nazioni che hanno “linea preferenziale” negli scambi commerciali con la Ue, come ha dichiarato Ana Gomes, a capo della sottocommissione del Parlamento Europeo per i diritti umani. Analisti e commentatori in Pakistan giudicano la mossa del governo come “atto di pragmatismo politico”, per non far perdere al Pakistan “una porta di accesso nei mercati europei”. Come riferito a Fides, numerosi esponenti della società civile e delle Chiese in Pakistan hanno accolto con favore la decisione del governo, perché “tutela i diritti umani e il valore della vita, anche per i detenuti riconosciuti colpevoli”. Sono 468 i detenuti già condannati a morte da tribunali civili o militari, in attesa di esecuzioni già disposte, molti per “terrorismo”. Nel complesso vi sono circa 8.000 detenuti che hanno esaurito tutti i gradi giudizio e si trovano nel braccio della morte nelle diverse carceri pakistane. Secondo il Codice penale pakistano, 27 reati, tra i quali quello di “blasfemia”, sono punibili con la pena capitale. Fra i detenuti vi è anche la cristiana Asia Bibi, condannata a morte per blasfemia da un tribunale di primo grado nel 2010 e in attesa di un processo di appello. Bolivia: intervento della Chiesa sulla situazione carceraria, l’83% detenuti senza processo Radio Vaticana, 29 agosto 2013 Il coordinatore nazionale della pastorale penitenziaria dell’episcopato boliviano, padre Leonardo Da Silva ha affermato che il Paese con il maggiore indice di ritardi nell’amministrazione di giustizia in America Latina è la Bolivia, seguita dal Perù. Secondo le statistiche presentate da padre Da Silva nella rivista Voci della Pastorale Penitenziaria, dai 14 mila 272 detenuti, l’83% sono in detenzione preventiva, vale a dire che solo 2.362 reclusi hanno una condanna. L’articolo del sacerdote ha destato l’interesse dell’opinione pubblica ancora scossa dall’attacco al carcere di Palmasola, venerdì scorso, nel quale 31 persone, tra cui un bambino di un anno, sono morte e 63 sono rimaste ferite in una guerra tra bande interne. Paradossalmente, 28 delle vittime mortali erano in carcere in attesa di giudizio. Padre Da Silva afferma che le carceri del Paese sono collassate dalla quantità di persone che non ha una sentenza, di conseguenza l’affollamento, la violenza interna, le lotte di potere e i ritardi nella giustizia, sono prodotto di una politica e un sistema penitenziario inefficiente. La negligenza penitenziaria è la causa di tutte le violazioni dei diritti umani dei detenuti in Bolivia e il detonante di tragedie come quella di Palmasola. Secondo il coordinatore della pastorale penitenziaria dell’episcopato, le carceri con più carenze sono quelle della regione centrale del Paese, cioè La Paz, Cochabamba e Santa Cruz, sovraffollate e senza alcuna politica di reinserimento sociale. In questo senso padre Da Silva ha sottolineato che una trasformazione strutturale penitenziaria implica volontà politica e risorse economiche, che dovrà iniziare da una riforma del Codice Penale e la depoliticizzazione del sistema penitenziario. Il coordinatore della pastorale penitenziaria boliviana ha proposto la classifica dei sistemi carcerari, secondo i tipi di delitto e l’applicazione di programmi di crescita personale e reinserimento sociale a carico delle autorità municipali e nazionali, insieme alle istituzioni ecclesiali, l’Assemblea dei Diritti Umani e i Difensori del Popolo. Infine, il sacerdote boliviano ha fatto un appello agli operatori dell’organismo giudiziario e al Ministero Pubblico per velocizzare le pratiche dei detenuti in attesa di giudizio.