Giustizia: amnistia, sinistra allo specchio di Luigi Manconi e Stefano Anastasia Il Manifesto, 28 agosto 2013 L’articolo di Andrea Fabozzi, pubblicato sabato scorso, è assai importante e interamente condivisibile. E tuttavia, la nostra sensazione è che arrivi drammaticamente tardi e possa semplicemente - non è poco, però - alimentare un interessante dibattito, ma senza conseguenze pratiche sul piano politico-istituzionale e tantomeno su quello delle effettive condizioni di esecuzione della pena nel nostro paese. Non diversamente sarebbero andate le cose, temiamo, se tale discussione si fosse sviluppata qualche tempo fa perché essa sconta, in ogni caso, un ritardo culturale e politico che si è fatto ormai enorme e, forse, insuperabile. La nostra posizione è nettissima e confermata dal fatto che uno dei tre disegni di legge in materia di amnistia e indulto presentati in questa legislatura è a firma Manconi. A scanso di equivoci, chiariamo subito - ma già questo chiarimento è tanto necessario quanto sottilmente ricattatorio - che questo disegno di legge non sarebbe di alcuna utilità al fine di evitare al leader del Pdl l’esecuzione della pena. A Berlusconi non solo non potrebbe applicarsi l’amnistia, limitata ai reati con pena massima edittale non superiore ai quattro anni (e non è questo il caso), ma nemmeno l’indulto, che non varrebbe per le pene già ridotte da quello del 2006. Infine, non applicandosi l’indulto (né, tantomeno, l’amnistia), nessun effetto si proietterebbe sulla pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici. Il nostro voler scindere totalmente le motivazioni di un ragionevolissimo provvedimento di amnistia e indulto dalle esigenze del centrodestra è del resto la logica conseguenza di una radicale differenza di prospettiva: da una parte una scelta di politica criminale, dall’altra una scelta politica tout court. Nella storia dell’Italia repubblicana solo in un’irripetibile occasione queste diverse motivazioni si sono sovrapposte, e fu all’epoca dell’amnistia firmata da Palmiro Togliatti, quando la sanatoria di un enorme mole di pene e processi pendenti si coniugò con la “soluzione politica” di molti reati commessi durante gli anni del fascismo e della guerra. Da allora in poi, i molti provvedimenti succedutisi di amnistia e indulto hanno avuto solo motivazioni di politica criminale, limitando l’amnistia ai reati minori e l’indulto ai residui pena di due-tre anni. E quando pure si sono affacciati tentativi di “soluzioni politiche” per pagine delicate della storia nazionale (i reati commessi con finalità di terrorismo e quelli di corruzione partitica), il sistema politico non ha mai trovato la convergenza necessaria per approvare i relativi provvedimenti di clemenza. Ma, per tornare all’oggi, seppure volessimo cedere agli argomenti più suggestivi (ma non per questo veritieri) degli zelanti guardiani dell’antiberlusconismo, andrebbe ricordato che nello scrivere le norme, si dovrebbe avere cura dell’interesse generale e non del contro-interesse (così come dell’interesse) di un singolo. E che quindi, anche qualora si verificassero effetti collaterali positivi per l’Arci-nemico, questa non sarebbe una ragione valida per non approvare un provvedimento ritenuto utile e urgente. Chi replica che “ci vuole ben altro” e che le misure di clemenza hanno un effetto solo temporaneo “e poi torna tutto come prima” si dimentica di indicare quale sarebbe la via alternativa, quella capace di offrire soluzioni strutturali e permanenti. La nostra opinione è semplice. In un sistema penitenziario alterato patologicamente e che versa in un costante “stato di emergenza”, è necessario intervenire con misure “di emergenza”. Amnistia e indulto, peraltro previste dalla nostra Costituzione, avrebbero l’effetto di introdurre un fattore di normalità, decongestionando e deflazionando un sistema ormai illegale e disumano. Insomma, solo misure straordinarie e “di eccezione” potrebbero ripristinare in una situazione “di eccezione” quel tanto di ordinarietà, in grado di consentire la realizzazione di quelle riforme strutturali (de-penalizzazione e de-carcerizzazione in primo luogo) da tempo attese. Ma immaginare che queste ultime si possano attuare in un corpo così febbricitante e deforme, è pura illusione. Detto questo, è molto importante il senso principale del ragionamento di Fabozzi: da alcuni decenni siamo vittime, spesso volontarie e volenterose, del berlusconismo: e la crisi forse finale di quest’ultimo ci trascina ancora con sé, ancora subordinandoci culturalmente, condizionando nel profondo la nostra mentalità e molte nostre idee (sulla concezione della giustizia e sulla privazione della libertà, sulle garanzie personali e sul rapporto tra individuo e Stato). Ciò accade per due ragioni essenziali. Innanzitutto, per quell’antico riflesso sinistrico così bene sottolineato da Fabozzi: “Si può, cioè, smettere di essere per l’amnistia e per l’indulto perché adesso fanno comodo a Berlusconi? Sì può, ma solo al prezzo di proseguire nella logica che se una cosa va bene a lui è necessariamente sbagliata, che è poi il trionfo per annessione del berlusconismo”. Ma c’è un’altra ragione che può spiegare una certa sudditanza culturale di una certa sinistra, che il dibattito intorno all’indulto del 2006 bene evidenziò. Molti segmenti della sinistra politica, del sindacato e perfino dell’associazionismo più intelligente oscillarono tra un atteggiamento di sospettosa diffidenza e uno di aperta contestazione. Sia chiaro: in qualche caso per alcune buone ragioni. Perché, ad esempio, avrebbero usufruito di quel provvedimento di clemenza i responsabili di reati odiosi come quelli relativi alla mancata sicurezza e alla nocività nei luoghi di lavoro. E per altre meno buone: perché Cesare Previti avrebbe scontato la sua pena non in detenzione domiciliare, ma in affidamento ai servizi sociali. E questo scandalizzava non poco il ferrigno intransigentismo di una certa sinistra che si voleva e che si vuole tosta, molto tosta. Ma, se si scava ancora un po’, si scopre agevolmente che l’ostilità di allora come quella di oggi tradiscono una concezione della giustizia che - quanto più si vuole rigorosa - tanto più risulta sostanzialista e animata da populistiche finalità politiche e politicistiche piuttosto che dal legittimo perseguimento dei reati. Non a caso, nella battaglia contro l’indulto del 2006, si mobilitarono, come un sol uomo - e con argomenti che per carità di patria preferiamo non ricordare, i Comunisti Italiani di Oliviero Diliberto, l’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro, la Lega Nord e Alleanza Nazionale. Tutti vicini, al di là delle apparenze, su questioni come concezione della pena e sua funzione, colpa individuale e responsabilità sociale, autonomia del soggetto e autorità pubblica. Se anche servisse solo a questo, a individuare e a contrastare questo senso comune così tetro e così squisitamente reazionario presente nella sinistra, questa discussione sollecitata dal manifesto sarebbe di grande utilità. Giustizia: basta parlare dei provvedimenti di clemenza... è tempo di agire di i Desi Bruno* Ristretti Orizzonti, 28 agosto 2013 La legge n° 94/2013 (che ha convertito il d.l. n° 78/2013) manda indubbiamente dei segnali positivi. Tuttavia custodia cautelare, tossicodipendenza, immigrazione e carenza di risorse restano i nodi ineludibili della questione carceraria. Servono amnistia, indulto e riforme strutturali. Da poco sono entrate in vigore alcune modifiche in tema di custodia cautelare ed esecuzione penale, la cui incidenza sul tema del sovraffollamento dovrà essere verificato in concreto e con possibili incidenze positive nel medio-lungo periodo. L'innalzamento del limite edittale previsto dall'art. 280 cpp per poter emettere ordinanza di custodia cautelare (da 4 a 5 anni e a prescindere dall'intervento di sapore demagogico sulla sanzione prevista per il delitto di stalking) rappresenta certamente un buon segnale, ma non risolve l'anomalia tutta italiana di una percentuale di detenuti non definitivi che supera il 40% della popolazione detenuta. Troppo spesso l’utilizzo della custodia cautelare continua ad essere una vera e propria anticipazione di pena, con buona pace della presunzione di non colpevolezza o – nei casi di brevissime permanenze in carcere per l'immediata (o quasi) liberazione dell'indagato – attesta che la riforma Severino (l. n° 9/2012), per molteplici ragioni, non ha avuto ancora l’auspicata incidenza sul "cd. effetto delle porte girevoli", dopo un iniziale buon risultato. Questo e' un tema nodale, che richiede certo modifiche normative (soprattutto per restringere le ipotesi di reato che consentono la privazione della libertà personale in corso di indagini e per porre limiti all'emanazione dei provvedimenti de libertate a distanza anche di anni dalla commissione del reato), ma soprattutto occorre un diverso approccio al tema della custodia cautelare, che già con la normativa vigente potrebbe di molto contenuta. Per quanto riguarda la presenza massiccia di persone tossicodipendenti in carcere (circa il 25% della popolazione carceraria in percentuale pressoché costante da molti anni), la normativa introdotta – che individua la previsione dei lavori socialmente utili quando i reati sono stati commessi da persona tossicodipendente, ad eccezione di alcuni più' gravi esclusi – rappresenta una novità solo relativa. Per "il piccolo spaccio" punito dall'art. 73 comma 5 del T.U. stupefacenti (DPR. n° 309/1990) esisteva già la possibilità di ricorrere ai lavori socialmente utili come sanzione per le persone tossicodipendenti diversa dal carcere: ma si trattava di un istituto di fatto mai utilizzato. Al di là delle lodevoli intenzioni, occorre rendersi conto che il tema della tossicodipendenza richiede un piano straordinario, certo normativo ma anche di predisposizione di risorse. Salvo in casi di assoluta eccezionalità, persone che comprovatamente presentano problemi di tossicodipendenza non devono entrare in carcere: o, quantomeno, devono essere collocate altrove il prima possibile. Occorrono strutture a disposizione già al momento dell'arresto ed è altresì fondamentale la possibilità di ricorrere ai servizi territoriali già nella fase delle indagini, prima ancora che nella fase di cognizione e in quella dell’esecuzione. In altre parole, la magistratura deve poter contare sulla rete di risorse territoriali fin dai primi contatti del tossicodipendente con il sistema penale. Se si considera che l'ordinamento penitenziario prevede sezioni di custodia attenuata che non sono mai state veramente realizzate (se non in proporzioni modestissime), si può comprendere come il tema non sia affrontabile con il ricorso ai lavori socialmente utili (che comunque presuppongono un sostegno parallelo per la precarietà di molte di queste esistenze). Certo si può lavorare (e si deve!) sul dato normativo: ma prima ancora è indispensabile assicurare il diritto alla cura, condizione imprescindibile per realizzare un effettivo abbassamento della recidiva. Non ci sono altre strade, pur essendo nota la difficoltà in cui versano servizi territoriali e comunità terapeutiche. Bisogna essere chiari sul punto: nemmeno il sacrosanto ritorno ad una distinzione, con conseguente riduzione delle pene previste, tra droghe "leggere" e droghe "pesanti" risolverebbe radicalmente il dramma delle presenze di tossicodipendenti in carcere. E per quelli che comunque vi fanno ingresso a causa della commissione di altri reati vanno rese operative le apposite Sezioni per far prevalere il diritto alla cura, come faticosamente si tenta di fare nelle poche – troppo poche – strutture esistenti (l'art.115 comma 4 O.P. parla "di trattamento intensificato"). Altro nodo è certamente rappresentato dall’immigrazione. Serve, da tempo, una riforma della legge Bossi-Fini che impedisca ab initio la criminalizzazione della persona che entra irregolarmente nel nostro Paese, al fine di evitarne l'ingresso in un circuito penale "segnato". Ma l'abolizione – a seguito dell'entrata in vigore della "direttiva rimpatri" 2008/115/CE – di alcune norme penali che punivano gravemente le persone non appartenenti all'Unione europea e prevedevano l'arresto obbligatorio per il mero fatto di disobbedire all’ordine di allontanarsi, di fatto non ha risolto il problema. Un problema che è – e rimane – estremamente complesso perchè deriva in gran parte dalle condizioni di miseria e sofferenza di molte persone in fuga da situazioni di estrema povertà e guerra. In questi giorni assistiamo all’inizio dell'esodo doloroso da Egitto e Siria. Come risponderemo? In un’ottica di riduzione del danno si potrebbe ampliare l'istituto dell’espulsione, eliminando incomprensibili preclusioni giuridiche e accompagnando con forme di "rimpatrio assistito" gli stranieri nel loro Paese, laddove possibile: ovvero stringendo accordi con altri Stati che spesso non vogliono riaccogliere i propri concittadini. Per gli stranieri comunitari esistono oggi strumenti giuridici ad hoc affinchè l'esecuzione della pena possa avvenire nei Paesi di provenienza, il cui livello di civiltà giuridica si assume simile al nostro. Ma per gli stranieri non comunitari la strada spesso invocata di rimandare "tutti a casa a scontare la pena" non è praticabile né secondo il diritto né secondo morale. Sul punto, è bene sgombrare il campo da qualunque possibile equivoco. E dunque oggi questo carcere sempre più povero e sempre più misero, totalmente fuori dai parametri di legalità costituzionale e convenzionale e in attesa che la Corte Costituzionale si pronunci sulla questione sollevata meritoriamente dal Tribunale di Sorveglianza di Venezia con ordinanza 13.02.2013 (relativa alla possibilità di non eseguire pene detentive in istituti che non garantiscono i parametri minimi di umanità del trattamento e delle condizioni di vita) merita doverosamente di essere ridimensionato nei numeri da provvedimenti di clemenza che specificamente dovrebbero prendere la forma della l'indulto (perché l'amnistia aiuta a realizzare le riforme del sistema penale e giudiziario, ma non riduce le presenze in carcere). Le riforme, pure parziali, degli ultimi anni danno il segno di un qualche ripensamento dell’idea del carcere come sanzione centrale del sistema penale, nonostante i compromessi che spesso avvengono in sede di definizione politica delle stesse. La legge n°94/2013 appena entrata in vigore ha inciso, sia pure in modo parziale, sul sistema costruito sulla recidiva. Bisogna proseguire su questa strada: introdurre la messa alla prova, arrivare alla riforma del sistema penale… e così via. Ma non si può accettare un provvedimento di clemenza? Si tratterebbe di una resa dello Stato? Forse la realtà descritta dalla sentenza Torreggiani della Cedu (8.01.2013) o dall’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Venezia e quella che quotidianamente caratterizza gli istituti di pena italiani cosa rappresentano, se non la resa dello Stato di fronte alla impossibilità di garantire un livello minimo di dignità delle persone? L'elemento decisivo che giustifica il provvedimento chiesto anche dall’attuale Ministro di Giustizia è dato proprio dalla consapevolezza che, in nessun altro modo, si potrà ottemperare alla sentenza Torreggiani e al limite temporale imposto per la messa a norma del sistema penitenziario. E allora si faccia, senza ipocrisia: senza attendere il sacrificio di altre vite umane. Garante delle persone sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale, Regione Emilia-Romagna Giustizia Bernardini (Radicali); l’amnistia è misura di civiltà, grave che se ne parli così Intervista di Francesca Schianchi La Stampa, 28 agosto 2013 È un atto di demenza di cui beneficeranno tutti i detenuti? O una scorciatoia per salvare il Cavaliere? Montesquieu diceva: “Giustizia ritardata è giustizia negata”, recita la ex deputata Rita Bernardini. Che, con i suoi compagni di partito, i Radicali, da anni pone la questione dell’amnistia, “che servirebbe anche per i milioni di procedimenti penali pendenti”, per evitare che “le condanne arrivino anni dopo il reato, quando magari la persona è cambiata e si è recuperata da sola. Non sa quante telefonate di persone disperate per questo mi arrivano”. Ora l’amnistia è l’argomento del giorno... “La cosa grave però è che se ne parli oggi, e tutti si pronuncino a favore o contro, perché legata al caso Berlusconi. Quando la questione era posta da noi, nonostante i tanti scioperi della sete e della fame di Pannella, pochi ci si sono filati...”. Oggi però se ne parla... “La cosa importante sono le dichiarazioni del ministro della Giustizia Cancellieri. Già al momento dell’insediamento disse che era favorevole all’amnistia e lo avrebbe detto in tutte le sedi possibili. Lo sta facendo, tanto di cappello. Ora, dopo 30 anni dal caso Tortora, chiediamo che finalmente si affronti un problema che non è tra le ultime cause dello sfascio anche economico del Paese”. Per approvare l’amnistia ci vorrebbe la maggioranza dei due terzi del Parlamento. Secondo lei ci sarebbe un consenso così largo? “Se ci fosse un dibattito serio sui media, anche a livello di dati e cifre, allora il Parlamento sarebbe posto di fronte a un’assunzione o meno di responsabilità. Ma non c’è mai stato un dibattito approfondito: vorremmo che il Parlamento fosse posto di fronte al fatto che il Comitato dei ministri del Consiglio di Europa da 30 anni ci condanna per la irragionevole durata dei processi”. Non c’è il rischio che l’amnistia sia un colpo al senso di giustizia dei cittadini? “Quando se ne parla sembra qualcosa di scandaloso, invece l’amnistia è prevista dalla Costituzione per governare situazioni disastrose. A che punto dobbiamo arrivare per prevedere l’ipotesi di adottarla?”. Giustizia: Monti (Sc); su grazia a Berlusconi decida Napolitano, ma no all’amnistia Agi, 28 agosto 2013 Sulla grazia a Silvio Berlusconi la parola spetta a Giorgio Napolitano mentre l’ipotesi di amnistia è da bocciare. Il leader di Scelta Civica Mario Monti, intervenuto a Omnibus su La7, ha chiarito la propria posizione: “La sentenza della Cassazione - ha premesso - è definitiva, non c’è che da prenderne atto e da metterla in atto. Sulla Grazia, vorrei chiarire che è una scelta che spetta al Capo dello Stato e la legge Severino è stata introdotta dal governo da me presieduto. Non ho, inoltre, nessuna ragione di dolcezza nei confronti di Berlusconi. Tuttavia, ho parlato di Grazia perché qualcuno ha proposto l’amnistia, provvedimento che da cittadino mi sembra che introdurlo proprio nel momento in cui c’è il caso Berlusconi darebbe ai cittadini italiani e al resto del mondo l’idea che lo Stato di Diritto in Italia è abbastanza maneggiabile e che si fa l’amnistia perché c’è un importante personaggio che merita attenzioni particolari”. Il senatore Monti ha poi aggiunto che “un provvedimento di clemenza nei confronti dell’ex Premier sarebbe giustificato se lasciasse in campo, mantenendo la guida morale, un moderno partito di destra e non un partito populista in mano a falchi”. Giustizia: l’ex Senatore Pci Macaluso; l’amnistia è inevitabile, ma escludendo i reati fiscali Adnkronos, 28 agosto 2013 “Per la situazione delle carceri l’amnistia non è solo indispensabile e necessaria ma inevitabile. Dico però che quando si fa un provvedimento del genere vanno esclusi alcuni reati, tra cui quelli contro lo Stato, e la frode fiscale deve essere tra questi”. Ne parla in un’intervista al “Sole 24 Ore” Emanuele Macaluso, storico rappresentante del Pci-Pds e amico personale del presidente Giorgio Napolitano, che interviene su uno dei nodi della vicenda Berlusconi e sull’ipotesi che in un eventuale provvedimento generale di clemenza per alleviare il sovraffollamento delle carceri, possa rientrare anche la condanna inflitta al presidente del Pdl. Si è parlato anche della concessione della grazia che, ricorda Macaluso, “ha le sue regole e la prima è la domanda individuale e l’accettazione della sentenza perché, appunto, si tratta di una grazia e non di un quarto grado di giudizio. Questo vuol dire che una situazione giudiziaria si è chiusa, che Berlusconi ha di fronte a un percorso diverso e che deve prendere atto di una nuova fase”. Il cosiddetto lodo-Violante, prosegue Macaluso, “non è una via d’uscita ma una proroga, qualcosa di provvisorio. Tutti quelli che ammettono la possibilità che al Senato si possa sollevare un’eccezione di costituzionalità, dicono che la legge Severino è costituzionale. Mi pare che quella di Violante non sia una soluzione: la decadenza di Berlusconi resta sul tavolo. La situazione non è mutabile”. Riguardo a Berlusconi per Macaluso “somiglia a quei malati che si girano e si rigirano nel letto, sperando che sia la posizione ad alleviare il dolore”. “Ma la cura è un’altra: prendere coscienza che questa sentenza è definitiva e che lui -conclude - ha perso 6 milioni di voti. Si convinca che una stagione politica si è chiusa”. Giustizia: Macaluso; il lodo-Violante è solo un rinvio, non c’è via d’uscita per Berlusconi Intervista di Lina Palmerini Il Sole 24 Ore, 28 agosto 2013 Emanuele Macaluso, 89 anni, storico esponente del Pci, deputato e senatore per sette legislature, amico tra i più stretti di Giorgio Napolitano - con il quale ha da poco trascorso un periodo di vacanze in Alto-Adige - attende con preoccupazione il 9 settembre quando ci sarà l’udienza della giunta per le elezioni che deciderà sulla decadenza di Silvio Berlusconi da senatore. È la possibile crisi di Governo ad allarmare Macaluso che però non crede esista una via d’uscita per il Cavaliere. Anche sul lodo Violante, cioè la possibilità di un rinvio alla Consulta della legge Severino, è scettico: è solo una proroga, dice, non la soluzione perché “dopo la sentenza di terzo grado la situazione per Berlusconi non è mutabile”. Nemmeno con un’amnistia mentre la grazia comporterebbe l’accettazione della condanna. Dunque, è finita una fase ma è finita prima ancora una stagione politica segnata dal calo di consensi del Cavaliere. La soluzione? “Prenderne atto”. E lo dice soprattutto ai dirigenti del Pdl per i quali è scaduto il tempo della “doppia rendita politica”. Nei giorni scorsi lei ha parlato di rischio-caos con la crisi: il lodo Violante è una via d’uscita? Ritengo che questa non sia una via d’uscita ma una proroga, qualcosa di provvisorio. Tutti quelli che ammettono la possibilità che al Senato si possa sollevare una eccezione di costituzionalità dicono anche che la legge Severino è costituzionale. E dunque? È una perdita di tempo. Senza contare che la Corte d’appello di Milano a breve dovrà riquantificare l’interdizione. Mi pare quindi che quella di Violante non sia una soluzione: la decadenza di Berlusconi resta sul tavolo, la situazione non è mutabile. Ma una proroga può servire a ridefinire la cosiddetta agibilità politica del Cavaliere... Berlusconi somiglia a quei malati che si girano e rigirano nel letto sperando che sia la posizione ad alleviare il dolore. Ma la cura è un’altra: prendere coscienza che questa sentenza è definitiva e che lui ha perso 6 milioni di voti. Si convinca che si è chiusa una stagione politica. Veramente il Pdl e l’ex premier addebitano ai magistrati la conclusione di una fase, non a un tramonto politico... E si sbagliano. Vede, il problema, a questo punto, non è tanto Berlusconi ma i berlusconiani, cioè il gruppo dirigente nell’insieme, falchi, colombe e jene. Sono loro che non vogliono prendere atto di una realtà mutata. E sono loro, innanzitutto, che invece ne dovrebbero prendere atto. Ma senza Berlusconi hanno futuro? È qui il punto. I dirigenti del Pdl sono come quei figli che hanno vissuto di rendita, sulle spalle dei genitori e non sanno campare da soli. Ma se la società del papà fallisce, si è costretti a decidere del proprio destino. Falchi e colombe si illudono e illudono Berlusconi che ci sia una soluzione che non c’è. Ci può essere una proroga ma l’unica soluzione è prendere atto che è finita una fase, che è finita la rendita. Aggiungo pure che la rendita è doppia. Perché non solo hanno vissuto sulle spalle del carisma del Cavaliere ma pure su quelle del Porcellum. Sono in Parlamento non per una scelta degli elettori ma perché nominati sulla base del grado di fedeltà al leader. È una considerazione che naturalmente vale anche per il Pd. E per Grillo che vedo lanciarsi sul Porcellum. Nel Pd ci sono voci favorevoli a Violante, bisognerebbe ascoltarle, seguirle? Guardi, nello stesso giorno in cui nacque il Pd io scrissi un pamphlet dal titolo “Al capolinea”. Il Pd è un partito fragile, che non ha una sua consistenza nell’identità, nelle classi dirigenti, nel leader. È chiaro quindi che le decisioni difficili non le può sostenere. Sento paragoni con il Pci di Togliatti, con Berlinguer e il Governo Andreotti. Ma, dico, scherziamo? Quello era un partito, organizzato, disciplinato, solido. Se c’è oggi una cosa su cui tutte le varie correnti Pd si sono unite è il voto sulla decadenza di Berlusconi: D’Alema, Veltroni, Renzi. Un passo indietro non lo può fare nessuno, sarebbe sbranato. Mi creda, è un partito troppo fragile per poter giocare carte diverse. Una proroga però può allungare la vita al Governo? Anche qui è tutta schiuma. Un conto è la minaccia di crisi, un conto è farla davvero. Lei non crede alla crisi? Leggendo le dichiarazioni così sembra. Ma nel concreto, a cominciare da Berlusconi, la domanda che si fanno è: se cade Letta migliora o peggiora la mia condizione? Ebbene io credo che la condizione di maggiore convenienza sia restare al Governo. Per Berlusconi e per il Pdl. Si riferisce a Mediaset? Oltre Mediaset, in cosa cambierebbe la condizione di Berlusconi se non ci fosse più il Governo? Nell’andare al voto? E per ottenere cosa? Con tre forze in campo il Porcellum non darebbe la maggioranza a nessuno al Senato. E poi chi fa cadere Letta dovrebbe spiegare agli italiani che si paga l’Imu; ai cassintegrati che non si rifinanziano i fondi; alle imprese che non arriva la tranche di pagamenti dei debiti della P.A. E poi come lo spiegheranno che si vota ancora con il Porcellum? Nella nota del 13 agosto Napolitano ha parlato di ipotesi “impraticabili” di scioglimento delle Camere... Appunto. Non è la Santanché che firma il decreto di scioglimento. Tra le strade c’è l’amnistia: una soluzione non solo per Berlusconi ma per rimediare a uno stato di degrado civile… Sono d’accordo. Per la situazione delle carceri l’amnistia non è solo indispensabile e necessaria ma inevitabile. Dico però che quando si fa un provvedimento del genere vanno esclusi alcuni reati, tra cui quelli contro lo Stato, e la frode fiscale deve essere tra questi. Niente amnistia per Berlusconi, quindi. C’è la grazia... Il capo dello Stato ha già spiegato come stanno le cose. La grazia ha le sue regole e la prima è la domanda individuale e l’accettazione della sentenza perché, appunto, si tratta di una grazia non di un quarto grado di giudizio. Questo vuol dire riconoscere che una situazione giudiziaria si è conclusa, che Berlusconi ha davanti un percorso diverso e che deve prendere atto di una nuova fase. Alla fine, per lei, questa sentenza di condanna lascia sul campo i drammi paralleli di Pd e Pdl: uno fragile, l’altro senza leader? Il sistema è friabile, il Governo è di necessità e la fase politica deprimente. I partiti hanno smesso di guardare in faccia gli elettori, conta solo essere fedeli al capo come impone il Porcellum. Bisogna riaprire i polmoni della politica riprendendo contatto con il popolo. Giustizia: grazia non è conciliabile con stato di diritto, amnistia e indulto sono fuori tempo di Gianfranco Morra Italia Oggi, 28 agosto 2013 “Come sul capo al naufrago / L’onda s’avvolge e pesa” (Manzoni). A Napoleone restava solo “il cumulo delle memorie”. Non così a Berlusconi, che non pensa al passato, ma progetta ancora un futuro. Ogni giorno una invenzione per uscire dall’angolo, come è naturale per chi ha avuto nove milioni di voti, si ritiene innocente e indispensabile per il Paese. Nel mezzo tra gli “eletti” di destra, che lo vogliono salvo, e i “reprobi” di sinistra, tutti col pollice verso. Fra gli espedienti per averlo ancora come senatore e candidato premier, nonostante tre gradi di condanna, sono state proposte la grazia e l’amnistia. I tentativi del Cavaliere sono del tutto comprensibili. Ma anche indicativi di una tendenza ben più preoccupante: lo scivolamento della democrazia verso prassi tipiche non solo dell’oscuro medioevo, ma anche del peggiore assolutismo monarchico. La grazia, come dice la parola, viene data “per dono sovrano”, liberamente e senza condizioni. Decide solo la volontà autocratica del Principe. In Italia era una prerogativa del Re (art. 8 dello Statuto Albertino). I Costituenti l’hanno mantenuta, con le stesse parole, fra le prerogative del Presidente: “può concedere grazia e commutare le pene”(art. 87). Nel regime monarchico era una istituzione coerente. Lo Stato coincide con la persona del Sovrano (concezione territoriale) ed egli può farne ciò che vuole, venderlo o dividerlo, alienarlo o scambiarlo: “Ciò che il Principe decide, ha valore di legge”. Egli è il supremo garante della giustizia, in quanto sciolto dalle leggi (legibus solutus): “Lo Stato sono io”. Naturale che possa dare condanne e grazie a piacimento. Come scriveva il più lucido teorico dell’assolutismo, “la legge non è altro che il comando del sovrano, il quale si avvale della propria potenza” (Jean Bodin, 1576). Non così nello Stato di diritto, dove il potere è “legale” (Weber), cioè tutti i cittadini hanno gli stessi diritti e la legge è, appunto, “uguale per tutti”: non più i tribunali riservati alla nobiltà o al clero, ma uno soltanto per tutti i cittadini. Il mantenimento della grazia in una costituzione democratica è una contraddizione (anche se accade dovunque). È vero che l’iter della concessione prevede pareri e garanzie, ma alla fine la decisione è solo del Presidente (sinora Napolitano ne ha concesse 23). Un atto, anche quando sia motivato, autoritario e discrezionale: “sic volo, sic jubeo”. Una macchia sulla democrazia. Il vero problema non è se concedere o meno la grazia a Berlusconi, ma quello di togliere questo residuo assolutistico dalla Costituzione, che consente ad un presidente democratico l’agire di un sovrano autoritario. I supporter affermano che la grazia non va concessa per salvare la “persona” di Berlusconi, ma per difendere la “democrazia”. Quando invece grazia e democrazia sono difficilmente compatibili. Diverso il giudizio su amnistia (concessa 27 volte dal 1945) e indulto. Questi due atti non vanno contro il principio della eguaglianza dei cittadini. Sono soltanto decisioni eccezionali, giustificate da ragioni di emergenza, che inducono ad usare una clemenza generale ed impersonale. Su questo tema il parlamento italiano ha avuto il coraggio di modificare l’art. 79 della Costituzione in senso più democratico. Prima dal 1992 amnistia e indulto erano concessi dal Presidente della Repubblica su legge di delegazione delle due Camere. La nuova formulazione li riserva invece alle Camere stesse, con la maggioranza dei due terzi. Il problema, allora, non è la legittimità democratica delle decisioni, ma l’opportunità di entrambe e soprattutto i loro limiti. Le amnistie hanno senso nei periodi che seguono conflitti gravi ed eccezionali (gli storici giudicano valida quella fatta da Togliatti nel 1946, per mettere una pietra sulla guerra civile del 1943-1945). Divengono squallide in tempi normali, quando servono come espedienti per frenare (purtroppo sempre per poco tempo) il sovraffollamento delle carceri, se non per fare soldi del demanio. L’ultima amnistia proposta è firmata dai senatori Compagna (Misto) e Manconi (Pd), marzo 2013. Ma si può sempre cambiare idea. Di solito, purtroppo, una classe politica incapace di risolvere il problema carcerario lo scarica sulla sicurezza dei cittadini. Se poi venisse fatto per privilegiare una persona, sarebbe difficile da comprendere nella patria del diritto. Anche perché i codici, nel difficile equilibrio tra punizione e riabilitazione, hanno già numerose regole per limitare, rendere sopportabile e abbreviare la detenzione di tutti i condannati, che mostrano di meritarlo. Senza bisogno di un “fuori tutti”, che apparenta la giustizia alla vendita promozionale. Giustizia: decadenza Berlusconi e legge Severino; inammissibile questione costituzionalità di Andrea Pertici www.articolo21.org, 28 agosto 2013 La condanna del sen. Berlusconi ne importa, ai sensi degli artt. 1 e 3 del d.lgs. 235 del 2012 (c.d. “legge Severino”), la decadenza dalla carica, a seguito della delibera parlamentare ex art. 66 Cost. La Giunta delle elezioni (prima) e l’aula (poi) dovranno quindi accertare che vi sia stata la condanna - e dire il contrario non pare proprio possibile - e quindi deliberare la decadenza. Questo è parso a qualcuno inaccettabile perché il condannato ha preso - si dice - qualche milione di voti. In realtà, questo è lo Stato democratico di diritto: quello in cui anche chi ha un grande consenso, anche chi è “al potere”, è soggetto alla legge esattamente come gli altri. Il principio democratico prevede che la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. E per le forme e i limiti della Costituzione può accadere che anche chi ha un grande consenso popolare sia sanzionato in base alla legge. Come è accaduto nel caso, a seguito di tre gradi di giudizio, tutti conformi. Ignorando questi principi, qualcuno continua però a propugnare la inaccettabilità della condanna e ha quindi invocato la grazia e perfino l’amnistia, per la quale, eventualmente, non si dovrebbe partire proprio dalle ipotesi di evasione fiscale (peraltro anche di notevole gravità). Vista la assai difficile - diciamo così - praticabilità di queste soluzioni (che peraltro non sembrerebbero granché utili visto che l’art. 15 del d.lgs. prevede che l’unica causa di estinzione anticipata dell’incandidabilità è la sentenza di riabilitazione) si ipotizza adesso che la Giunta delle elezioni, o addirittura l’aula del Senato, possano sollevare questione di legittimità costituzionale della “legge Severino”. Ciò non pare ammissibile. Infatti, solo un giudice può sollevare questione di legittimità costituzionale. La Giunta delle elezioni non è un giudice, difettando evidentemente di quei requisiti di terzietà ed imparzialità che la stessa Corte costituzionale - e la Corte europea dei diritti dell’uomo - richiedono per tale qualifica. A ciò si aggiunga che la Giunta non delibera in via definitiva ma, a seguito del suo voto, fa una proposta all’aula. Un motivo in più per escludere che essa possa sollevare questione di legittimità costituzionale. La Corte ha già detto, infatti, che la questione non può essere posta dal giudice istruttore perché questi fa solo una proposta al collegio. Questo sposterebbe la competenza sull’aula, ma se la Giunta difetta dei requisiti di terzietà ed imparzialità ciò vale a maggior ragione per l’aula, massimo organo della rappresentanza politica. Ancora - e su un piano parzialmente diverso - deve rilevarsi che questa legge è stata approvata solo alcuni mesi fa dal Parlamento (peraltro con una maggioranza essenzialmente analoga all’attuale), senza che mai sia stato insinuato il minimo dubbio di costituzionalità. Come è possibile che in pochi mesi siano sorti tutti questi dubbi? In ogni caso, se le Camere ritenessero che una legge è incostituzionale la dovrebbero cambiare (e anche molto in fretta!) e non sollevare questione di legittimità costituzionale. Si consideri, in proposito, che quando è stato chiesto alla Corte costituzionale di sollevare di fronte a se stessa questione di legittimità costituzionale delle Norme integrative (dalla stessa approvate) essa ha negato questa possibilità. Ha infatti detto che se avesse ritenuto le stesse incostituzionali, in quanto (in tale sede) legislatore, le avrebbe semplicemente cambiate. Del resto, le Camere non possono interrogare la Corte costituzionale sulla legittimità costituzionale delle leggi perché questa non è un organo di consulenza tecnico-giuridica del Parlamento e, nel nostro ordinamento, non è prevista, tra le modalità di accesso alla giustizia costituzionale, il ricorso delle minoranze parlamentari. Figuriamoci della maggioranza Giustizia: Referendum su abolizione ergastolo e depenalizzazione piccolo spaccio di droga Oggi, 28 agosto 2013 Due temi su cui la politica si scontra da decenni senza riuscire a trovare delle sintesi ragionevoli e condivisibili, sono l’abolizione delle norme che prevedono la pena dell’ergastolo e del carcere per chi è coinvolto in attività di piccolo spaccio o coltiva qualche piantina di marijuana sul terrazzo. Ora queste questioni sono oggetto di due dei 12 referendum proposti dai Radicali per cui è possibile firmare fino alla fine di settembre. L’ergastolo va abolito? “Sì”, risponde Carmelo Musumeci, ergastolano L’Italia è un Paese che si vanta di aver promosso la moratoria della pena di morte, eppure mantiene nel proprio ordinamento penitenziario una pena di morte mascherata. L’ergastolo, soprattutto quello ostativo, che non prevede benefici condannando a un fine pena mai, è più crudele della pena di morte, perché ti uccide un po’ ogni giorno. Che senso ha murare vivo un uomo fino alla fine dei suoi giorni? Non è più compassionevole ucciderlo subito? In Italia ci sono più di 100 ergastolani che hanno superato i 30 anni di detenzione e che non hanno a oggi nessuna prospettiva di morire fuori dal carcere. Ma se l’articolo 27 della Costituzione dice che le “pene devono tendere alla rieducazione del condannato” che senso ha rieducare una persona per portarla rieducata alla tomba? Molti di noi preferirebbero fare dei lavori socialmente utili, ripagare il male con il bene, invece che sprecare la vita in carcere. “No”, risponde Maria Falcone, sorella del magistrato Giovanni, ucciso dalla mafia Mi sforzo di analizzare la questione da professoressa di diritto, quindi da tecnico, invece che da persona colpita da un delitto che ha segnato la mia vita. Abolire l’ergastolo non solo sarebbe ingiusto, ma anche inopportuno. L’ergastolo è la pena necessaria per tutti quei delitti eclatanti che sconvolgono l’opinione pubblica. Ed è anche la pena necessaria per certi criminali, come i capi mafia responsabili di decine di omicidi. Mi pare che in Italia ci sia semmai un problema opposto: garantire la certezza della pena. Sarebbe molto meglio indirizzare le energie della politica e le coscienze dei cittadini verso la soluzione di questa ben più grave questione. Depenalizzare i reati di droga di modesta entità? “Sì”, risponde Michele De Lucia, tesoriere dei Radicali Italiani Anni di “guerre alla droga” hanno prodotto risultati disastrosi: il consumo è aumentato, le mafie hanno continuato a registrare profitti giganteschi, milioni di cittadini sono stati criminalizzati, le carceri sono sovraffollate di consumatori che non ha senso tenere lì. Per questo siamo per la legalizzazione. Il referendum tuttavia non porterebbe alla legalizzazione: non può farlo, perché vanno rispettate le convenzioni internazionali sottoscritte dall’Italia. È urgente, però, correggere le parti peggiori della legge Fini-Giovanardi: se il referendum passasse, verrebbe eliminata la pena detentiva per le violazioni di lieve entità, mentre rimarrebbe la sanzione penale pecuniaria della multa da 3 mila a 26 mila euro. “No”, risponde Carlo Giovanardi, Senatore Pdl Il recente rapporto al Parlamento del Dipartimento Antidroga ha certificato un costante calo dell’uso delle sostanze psicotrope e un crollo del numero dei detenuti tossicodipendenti. Con il quesito referendario, i Radicali mirano sostanzialmente a depenalizzare il piccolo spaccio di ogni tipo di droga (comprese eroina, cocaina ed ecstasy), impedendo così di fatto alle forze dell’ordine di arrestare gli spacciatori, che potrebbero essere solo multati. È noto, infatti, che gli spacciatori, per non essere arrestati sul fatto, portano con sé, di volta in volta, piccoli quantitativi di droga. Se il tentativo di sostanziale liberalizzazione avesse un buon esito, avremmo un aumento esponenziale degli spacciatori e della diffusione delle droghe. Ricordo inoltre che già ora il consumo personale di droga è depenalizzato e al consumatore di sostanze stupefacenti è possibile applicare solo sanzioni amministrative, cautelative anche per la salute di terzi, come il ritiro della patente e del porto d’armi, mentre il tossicodipendente condannato per spaccio e/o altri reati ha il diritto di scontare la pena (sino a 6 anni) in una comunità di recupero o in affidamento al Sert evitando il carcere. Giustizia: dal Sappe un appello al premier Letta su carenza organici Polizia penitenziaria Il Velino, 28 agosto 2013 Il Sindacato Autonomo Polizia penitenziaria (Sappe) ha rivolto oggi un appello al presidente del Consiglio, ai presidenti di Senato e Camera e al ministro della Giustizia perché sia risolta al più presto la “sempre più critica e drammatica situazione degli organici della Polizia penitenziaria”. “La popolazione detenuta si attesta sempre sulle oltre 20mila unità oltre i 43mila posti letto effettivi delle carceri italiane, con tutte le relative valenze di pericolo e di trattamento - fa osservare Donato Capece, segretario generale del Sappe - mentre gli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria diminuiscono ogni anno di 800-1.000 unità, per ragioni fisiologiche, senza essere adeguatamente sostituiti. Ne deriva che, negli ultimi cinque anni, sono state perse di forza circa 7.500 unità, assolutamente non compensate dall’immissione in servizio degli agenti già volontari nelle Forze Armate, certamente inferiori nel numero alle effettive esigenze”. In un “affanno incredibile - aggiunge Capece - sono anche gli organici del personale femminile”. Il sindacato ritiene “imprescindibile per il Governo l’assunzione concreta di impegni in materia di aumento di organico del Corpo di Polizia Penitenziaria. L’appello rivolto alle istituzioni, conclude il Sappe, è “un grido di dolore che dovrebbe essere storicamente raccolto, perché al crollo fisico e professionale ci manca poco”. Giustizia: Cirielli (FdI); governo Letta intervenga su carenza organici Polizia penitenziaria Il Velino, 28 agosto 2013 “Il Governo raccolga immediatamente l’appello rivolto dal Sindacato autonomo di Polizia Penitenziaria e intervenga per risolvere la drammatica situazione in cui versano gli organici, ridotti sempre più all’osso. L’emergenza delle carceri italiane è anche questa”. È quanto dichiara Edmondo Cirielli, deputato di Fratelli d’Italia, componente dell’Ufficio di Presidenza di Montecitorio. “Mentre il Governo Pd-Pdl - spiega - pensa di risolvere tutti i mali delle nostre strutture con provvedimenti tampone che compromettono esclusivamente la certezza della pena e la tutela delle vittime, senza impegnarsi in una non più rinviabile e complessiva riforma, gli appartenenti al Corpo della Polizia Penitenziaria diminuiscono ogni anno per ragioni fisiologiche senza essere adeguatamente sostituiti. Le donne e gli uomini che lavorano negli Istituti penitenziari italiani - conclude Cirielli - nonostante le pesanti difficoltà con cui sono costretti a convivere quotidianamente, svolgono un ruolo fondamentale garantendo sicurezza all’interno e all’esterno delle carceri. Il Governo non lasci cadere nel dimenticatoio questo grido d’allarme e di dolore e assuma subito impegni concreti per aumentare gli organici e, contemporaneamente, restituire dignità all’intero Corpo”. Lettere: contenzione, detenuti e internati hanno diritto a stesso trattamento persone libere di Francesco Maisto (Presidente Tribunale di Sorveglianza Bologna) Ristretti Orizzonti, 28 agosto 2013 Sarebbe ingenua e superficiale la tesi secondo la quale il noto e conclamato fenomeno diffusivo della contenzione meccanica (diversa dalla giustificabile contenzione fisica nei casi scriminati per Legge), sia in ambito psichiatrico, sia in quello geriatrico fino ai diversi ambiti delle altre disabilità, dipenda dalla riduzione delle risorse e dai conseguenti effetti sulla organizzazione dei servizi. Come è probabile che la contenzione sia tema- tabù perché, come insegna l’antropologia per argomenti di questo tipo, la loro trattazione e dialettizzazione scatena forti e contrastanti reazioni ed emozioni. La (parziale) cosificazione del proprio simile, pur rappresentando un antico delirio di onnipotenza dell’uomo sull’uomo, e quindi, come tale indiscutibile e da condannare, merita qualche riflessione finalizzata allo scavo di qualche ragione poi costruita e perfino teorizzata. Un apporto teorico e pratico potrebbe averlo dato, in primo luogo, l’assunzione acritica con la conseguente amplificazione distorta della dottrina del rischio, a carico degli operatori di psichiatria, sia nei confronti, sia da parte dei pazienti. Sicché la formula “posizione di garanzia”, pur muovendo dall’area solidaristica, come tutela rafforzata e privilegiata del soggetto debole, ancorata agli articoli 2, 32, 41 Co. II della nostra Costituzione, sarebbe diventata l’immotivato principio di esposizione a rischio permanente della irrazionale responsabilità penale degli operatori stessi, ridotti dalla giurisprudenza penale tra l’incudine e il martello. Una tale posizione, oggi prevalente, mi sembra invece, del tutto immotivata perché, se è vero che allo psichiatra le decisioni giudiziarie hanno sempre attribuito una posizione di garanzia per la protezione della salute e dell’integrità del paziente, è per altro verso vero che, eccetto qualche isolata sentenza del passato decennio, sia la dottrina (G. Fiandaca, A. Manacorda), sia la giurisprudenza della Corte di Cassazione (per tutte v. IV Sez. Pen., 5.5., 1987) non hanno configurato in modo indiscriminato, un contenuto di vigilanza e di controllo a carico dell’operatore per i danni causati dal paziente alla salute ed all’integrità dei terzi. Su queste basi non è stata difficile la formazione di una “psichiatria difensiva”, divenuta una distorsione dell’accezione originaria nella contrapposizione del dibattito, a cavallo degli anni 70 e 80, ad una “psichiatria repressiva” (Manacorda, Portigliatti Barbos, Traverso, Bourgeois). Sicché, quella connotazione difensiva finalizzata alla tutela della salute mentale ed al riconoscimento di diritti personali e sociali del paziente, viene invece finalizzata alla tutela dell’operatore. È fatto notorio che si diffondono pratiche e protocolli ospedalieri e professionali sulla contenzione nell’errato convincimento del valore giustificativo e tutorio per gli operatori in caso di lesioni, decessi e danni di qualsiasi genere ai pazienti. Tutti gli argomenti giuridici giustificativi di dette pratiche non tengono conto che nella legislazione vigente la contenzione in senso stretto, meccanica ( distinta dall’occasionale ed eccezionale contenzione fisica e dalla contenzione farmacologia) non è prevista e che non trattasi di lacuna per distrazione del Legislatore, bensì di consapevole scelta dello stesso. Ed allora sono importanti tre regole di fondo orientative per l’applicazione della legislazione ordinaria: il rispetto di: 1) il rapporto tra regola ed eccezione, 2) la gerarchia delle fonti del diritto vigente, 3) la consapevolezza del valore del tempo nella legislazione e nella giurisprudenza. Ha scritto Guido Rossi in “Il gioco delle regole”: “…la continua erosione delle regole non si limita a far apparire come accettabili comportamenti, individuali o collettivi, che fino a poco tempo fa sarebbero stati aspramente (e giuridicamente) sanzionati, ma intacca i valori su cui si reggono le società in cui viviamo… riprendere le definizioni di concetti cardine…un argine va trovato alla frantumazione delle regole…). Certo, sono possibili legittime eccezioni, ma tali devono rimanere, come, ad esempio, la legittima difesa (art. 52 cod. pen), lo stato di necessità (art. 54 cod. pen.), connotati da presupposti di attualità e tutti da provare, nei casi di morte, di sequestro di persona, di lesioni, ecc. del paziente. La gerarchia delle fonti del diritto vigente dispone, in ordine decrescente e subordinato, gli atti normativi partendo e facendo prevalere la Costituzione, la Convenzione dei Diritti dell’Uomo, sulle Leggi ordinarie e regionali, sui Regolamenti, sulle Circolari e sui Protocolli. In questa prospettiva ed in base alla norma costituzionale secondo la quale “I giudici sono soggetti soltanto alla legge” (art. 101, co. II), i protocolli hanno un limitato e relativo ( Cass., IV Sez. Pen., 5.6.2009, n° 38154) valore di regola di orientamento per gli operatori dovendo sempre il giudice valutare la sussistenza o meno degli estremi della colpa (professionale) come negligenza, imprudenza, imperizia, ovvero inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline (art.43 cod. pen.). Fondamentale è infine l’importanza del tempo, sia ai fini della valutazione della Legge vigente, secondo la regola della successione delle leggi nel tempo, sia degli arresti giurisprudenziali. Risibili appaiono quindi le pubblicazioni ed i protocolli che richiamano ancora l’enunciazione della cd. legge Giolitti del 1909 abrogata dalla L. 180, sia i manualetti che riportano indiscriminatamente come arresti giurisprudenziali la famosa e storica sentenza del Pretore di Moncalieri e le più recenti sentenze della Corte di Cassazione. Una doverosa lettura ed applicazione globale e cogente della nostra Costituzione impone doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale (art. 2), la rimozione di ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione (art. 3), l’inviolabilità della libertà personale ed divieto di qualsiasi restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge (art. 13), la tutela della salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività (art. 32). Ora, se è vero che la costituzionalizzata doppia riserva di legge e di giurisdizione trova la sua esplicazione nella legge (ordinaria) n° 180 e negli artt. 33,34 e 35 della L. n° 833 del 1978, e quindi nella distinzione tra T.S.O. e T.S.V. anche con riferimento alla “malattia mentale”, è parimenti vero che dette Leggi, non solo non menzionano la contenzione, ma, di più, la nozione di trattamento sanitario obbligatorio non coincide né con quella trattamento sanitario coattivo, né con quella di contenzione. Rem tene, verba... La conferma risulta evidente dalla semplice ed agevole lettura delle leggi in successione: la L. n° 180 consapevolmente non ha usato la parola e non ha voluto la contenzione. Quella parola e i suoi sinonimi non erano estranei al lessico giuridico. Ed invero, la cd. legge Giolitti, l’art. 60 del Regolamento manicomiale del 1909 disponeva che “nei manicomi devono essere aboliti o ridotti ai casi assolutamente eccezionali i mezzi di coercizione degli infermi e non possono essere usati se non con l’autorizzazione scritta del direttore o di un medico dell’istituto. Tale autorizzazione deve indicare la natura e la durata del mezzo di coercizione. L’autorizzazione indebita dell’uso di detti mezzi rende passibili coloro che ne sono responsabili di una pena…”. Come detto, tale disposizione non solo è stata abrogata dalla L. 180, ma anche in collegamento con la L. 833, non parla né di contenzione, né di mezzi di coercizione. Peraltro, a dimostrazione che quando il legislatore ha ammesso mezzi di coercizione prevedendoli esplicitamente, si trovano indicazioni nell’Ordinamento Penitenziario tanto nell’art. 41 (L. n° 354/1975) che disciplina l’impiego della “forza fisica” e dei “ mezzi di coercizione” nei confronti dei detenuti e degli internati, quanto nel relativo Regolamento di esecuzione (art. 82 D.P.R. n° 230 del 2000). Così come la L. n° 492/1992 ( Disposizioni in materia di traduzioni di soggetti in condizioni di restrizione della libertà personale…) all’art. 2, nel disciplinare l’accompagnamento coattivo, l’uso delle manette ai polsi, l’uso delle manette modulari multiple, pone divieti a “qualsiasi altro mezzo di coercizione fisica”. Ho voluto “usare parole ovvie, per non mascherare sotto la costruzione di teorie apparentemente nuove il desiderio ultimo di lasciare le cose come stanno”, secondo la lezione di Franco Basaglia nelle Conferenze brasiliane. Al 5° Simposio internazionale di etica clinica del 2008, a Lugano, tutte le lezioni sostennero che “l’istituzione non può essere contenzione, ma soltanto accoglienza”. Del resto “Noi tutti abbiamo un compito supremo nell’esistenza: custodire delle vite con la nostra vita. Guai a noi se non scopriamo chi dobbiamo custodire, guai a noi se li custodiremo male!”. ( Elias Canetti). Palermo: oltre 400 detenuti del “Pagliarelli” hanno firmato per i Referendum dei Radicali Agi, 28 agosto 2013 “Una lezione di democrazia e di civiltà politica quella cui ho appena assistito al carcere Pagliarelli di Palermo, da parte dei detenuti che, col documento di identità alla mano, sfidando il caldo e in file ordinate, hanno voluto sottoscrivere i referendum dei Radicali, ai tavolini predisposti dalla direzione del carcere con grande cura e capacità organizzativa. Già oltre 400 sottoscrizioni dentro la casa circondariale Pagliarelli, ed è solo l’inizio”. Questo il commento del leader del Cantiere popolare, Saverio Romano, che insieme a Rita Bernardini, dei Radicali italiani, e al consigliere comunale Felice Bruscia, ha guidato la delegazione che si è recata oggi pomeriggio presso il carcere Pagliarelli, per raccogliere le sottoscrizioni dei detenuti sui quesiti dei dodici referendum su giustizia e libertà civili promossi dai radical Genova: nel carcere di Marassi boss della ‘ndrangheta estorceva denaro ad altri detenuti Secolo XIX, 28 agosto 2013 Non sono bastate le sbarre di una cella a spegnere la voracità della ‘ndrangheta: nemmeno rinchiuso in prigione, il boss rinunciava a imporre la propria forza, a estorcere denaro e promesse, offrendo in cambio protezione dai pericoli della vita da reclusi. Il racket della mala calabrese nel penitenziario di Marassi è documentato, passo dopo passo, in una sentenza dei giudici della Spezia, Alessandro Ranaldi, Roberto Bufo e Stefano Vita. Nel provvedimento, i magistrati infliggono una pena di 7 anni di reclusione a Carmine Buonaiuto, detto “Malaccietto” capo del cosiddetto “clan dei sarnesi” e uomo di fiducia della Malapianta. Buonaiuto era accusato, letteralmente, di avere minacciato di “ritorsioni gravi i familiari di Alfredo Gradisca (tra cui l’accusarli di reati non commessi) e di rendere pesante la carcerazione dello stesso Gradisca (facendo riferimento a vessazioni attuabili in suo danno anche da terze persone)”, così da costringere il detenuto a fargli avere 20 mila euro oppure due auto di lusso, “una Bentley e una Porsche”. Di più, secondo la corte di giustizia, l’esponente della ‘ndrangheta avrebbe agito per conto e addirittura su ordine di Antonio Stagno, boss dei calabresi in Brianza e a lungo detenuto a Genova per associazione a delinquere di stampo mafioso. L’intera vicenda prende le mosse da un gigantesco sequestro di cocaina nel porto della Spezia. È il 21 luglio 2011 e la guardia di finanza scova sui moli spezzini un container dentro il quale sono occultati 750 chilogrammi di droga, proveniente da Santo Domingo, per un valore di 7 milioni e mezzo di euro. Quel carico è diretto a una ditta facente capo ad Alfredo Gradisca e destinato a un’altra azienda intestata a Giordano Cargiolli. I due sono insospettabili imprenditori del levante ligure che finiscono in manette un mese più tardi, ad opera degli agenti dell’Antidroga. Il blitz consente ai finanzieri di sequestrare auto, furgoni, una Porsche Panamera e una Mercedes: roba che in carcere fa rumore, attira l’attenzione, suscita l’ingordigia dei malavitosi più potenti. “A fine agosto 2011 - scrivono i giudici nella loro sentenza - ai soggetti che sono detenuti a Marassi e in particolare Carmine Buonaiuto e Antonio Stagno, è nota la grande disponibilità di denaro di Gradisca e Cargiolli e anche la scarsa dimestichezza dei due con i meccanismi di vita in carcere”. Così prende corpo l’idea dell’estorsione. La madre di Cargiolli, Georgeta Doxan, viene rapita e costretta a consegnare agli uomini delle ‘ndrine 15 mila euro in contanti e le chiavi di un appartamento a Milano. Alfredo Gradisca, invece, si ritrova nel mirino di Buonaiuto, in carcere, nella stessa cella, obbligato a subire vessazioni e umiliazioni, minacce. Le indagini e le intercettazioni dell’Antimafia confermano che le intimidazioni si sarebbero verificate anche in sala colloqui, la stanza del penitenziario riservata agli incontri dei carcerati con i familiari. Non solo Gradisca si sospetta sia stato indotto a revocare il mandato di difesa al proprio legale di fiducia, per nominare (l’inconsapevole) avvocato di Buonaiuto. E nelle carte del tribunale si ricorda pure uno “scontro fisico”, una rissa “tra detenuti campani (Buonaiuto era a capo del clan dio Sarno confluito nella ‘ndrangheta, ndr): uno di essi era Domenico Montella, paesano di Gradisca, a lui legato da ripetuti rapporti di socialità (e boss della camorra, ndr); il gruppo contrapposto era formato da detenuti - annotano i giudici - del gruppo di Carmine Buonaiuto”. E non è solo l’imprenditore spezzino a finire nel mirino della Malapianta. Due giorni prima dell’inizio del processo, Alfredo Gradisca riceve una telefonata dalla propria abitazione. I suoi più stretti familiari gli raccontano di “larvate minacce poste in essere da soggetti campani che si erano spacciati per calabresi, dai sarnesi che Carmine Buonaiuto, continua a guidare nonostante sia rinchiuso dietro le sbarre di Marassi. Biella: Osapp; crolla cappotto termico di una parete, grave rischio per detenuti e agenti Adnkronos, 28 agosto 2013 “Alle ore 13 circa del 21 agosto, nel nuovo padiglione del carcere di Biella si è staccato da una parete il cappotto termico costituito da lastre isolanti di 12 metri quadrati”. A darne la notizia è l’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria) per voce del segretario generale Leo Beneduci. “La scarsa presenza di personale e di detenuti, in quel momento, (circa 30 ospitati nella diramazione) hanno evitato la possibile tragedia, ma - prosegue l’Osapp - l’episodio la può dire lunga, a parte errori umani, sui rischi che possono derivare da una nuova edilizia penitenziaria eccessivamente affrettata”. “Il problema che oramai registriamo sull’intero territorio nazionale - aggiunge Beneduci - e dalle cui logiche non si è discostato, nonostante le dichiarazioni, alcuno dei ministri della Giustizia ultimamente in carica, compresa l’attuale Guardasigilli Cancellieri, riguarda la grave tendenza a risparmiare sul Personale e sull’edilizia penitenziaria, anche come minori costi delle nuove infrastrutture, mantenendo nel contempo alto il numero dei detenuti presenti nelle carceri”. Milano: detenuto a Bollate, ma proprietario di una casa… per il Comune deve pagare l’Imu Ansa, 28 agosto 2013 L’uomo ha fatto ricorso al Garante regionale per i diritti dei detenuti. La questione burocratica verte sul concetto “di residenza abituale”. Secondo quanto risulta alla sezione Tributi del Comune di Monvalle (Varese), il signor W.B. “abita” in via Cristina di Belgioioso n.120, Bollate. In più risulta co-proprietario di 2 abitazioni. Su queste, l’ufficio Tributi comunale, ha chiesto all’uomo il pagamento dell’Imu in quanto seconde case. Tutto nella norma quindi? Non proprio dato che “via Cristina di Belgioioso n.120” altro non è che l’indirizzo del carcere di Bollate. Come racconta il quotidiano “Il Giorno”, la vicenda alquanto bizzarra è arrivata sul tavolo del Garante regionale dei diritti dei detenuti della Lombardia, dopo che W.B., all’arrivo della cartella esattoriale, ha deciso di fare ricorso. L’interpretazione del decreto sul calcolo dell’Imu. La questione, prettamente burocratica, riguarda l’interpretazione del decreto legislativo sul calcolo dell’Imu che prevede agevolazioni per la prima casa. Ma qual è la prima casa di W.B.? Stando al testo della normativa, sarebbe l’unità abitativa dove “il soggetto abbia la propria residenza anagrafica e vi dimori abitualmente”. Ma per il Garante questa interpretazione non può valere per i detenuti, come la legge prevede esplicitamente che non possa valere per le persone anziane costrette a trasferire la residenza “in istituti sanitari a seguito di ricovero permanente”: per questi l’abitazione principale resta quella di proprietà, purché non affittata. In attesa di una risposta dal Comune di Monvalle, mentre il Garante è pronto a dare battaglia, con tanto di interrogazione al ministero dell’Economia, W.B. avrà il tempo di domandarsi quanto in via Cristina di Belgioioso n.120 si senta come a casa. Padova: “amnistia subito” e “libertà”, manifestazione dei Centri Sociali davanti al carcere Il Mattino di Padova, 28 agosto 2013 Erano in quasi 200 tra attivisti del Pedro e appartenenti al Bios Lab a manifestare ieri alle 15 davanti al circondariale del Due Palazzi. La manifestazione, nata in seguito al suicidio, avvenuto la scorsa settimana, di un detenuto marocchino 21enne, ha raccolto più consensi di quelli previsti dagli organizzatori. “Il gran numero di manifestanti sottolinea la centralità di questo tema” spiega Sebastian Kohlscheen, leader del centro Pedro, che ricorda i due principali motivi della protesta: “In primis la solidarietà per i detenuti, privati non solo della libertà ma anche della propria dignità, e in secondo luogo la volontà di lanciare un messaggio per portare avanti una campagna volta a chiedere l’amnistia per quei reati legati alle leggi Bossi-Fini, Giovanardi ed ex Cirielli”. La manifestazione è durata due ore e si è svolta in maniera pacifica, nonostante una risposta “sonora” sia arrivata dagli stessi carcerati, accortisi del movimento all’esterno del carcere. Erano ben udibili li urla e lo sbattere di pentole che giungevano dalle celle. “Ci siamo fatti sentire con la musica a tutto volume e ci siamo fatti vedere dai detenuti lanciando in finale dei fuochi d’artificio”, afferma Sebastian Kohlscheen, “Avevamo anche due striscioni: “Amnistia subito” e “Libertà” scritto in diverse lingue”. Per gli attivisti del Pedro la protesta segna l’apertura di una vera e propria missione per l’amnistia. Una campagna dunque che non si ferma al presidio avvenuto davanti al Due Palazzi ma che avrà sviluppo in “iniziative di movimento, di ragionamento e di discussione” già dalle prossime settimane. Alice Ferretti Matera: Coosp; agente di Polizia penitenziaria aggredito da un detenuto “instabile” www.ilquotidianodellabasilicata.com, 28 agosto 2013 L’episodio è stato denunciato dal Coordinamento sindacale penitenziario (Coosp) che sottolinea come il carcere di Matera sia sotto organico di “almeno 30 unità”. È il Coordinamento sindacale penitenziario (Coosp) a denuncia un’aggressione avvenuta ieri nel carcere di Matera ad un sovrintendente di Polizia Penitenziaria. “È l’ennesimo episodio di aggressione nei riguardi dei Poliziotti Penitenziari che nel carcere di Matera si ricorda essere sotto organico di almeno 30 unità” si legge nella nota del segretario Domenico Mastrulli. A farne le spese un sovrintendente di una cinquantina d’anni nel corso dei controlli serali. “La polizia Penitenziaria opera in condizioni di difficoltà di organico a Matera” spiega Domenico Mastrulli, “dove c’è bisogno di un’attenzione diversa dal dipartimento per come è costituito l’istituto penitenziario”. “La cosa più grave è i rischi che si corrono avendo a che fare con detenuti che sono in condizioni psichiatricamente non affidabili, chiedo un intervento del dipartimento e una maggiore attenzione del Ministero”. “Ieri pomeriggio, un detenuto definito psicopatico dopo essere stato accompagnato presso la locale infermeria per una visita medica da parte del Sanitario, al rientro in cella nel proprio reparto detentivo del tutto gratuita e senza alcuna giustificazione plausibile al vile attacco personale e fisico ha aggredito con calci e pugni il sovrintendente di servizio che lo scortava buttandolo per terra . Il Sovrintendente colpito in più parte del corpo è riuscito a bloccarlo anche con l’aiuto di altri agenti accorsi alle grida e subito dopo la colluttazione ancora confuso e dolorante, ha raggiunto il locale Pronto Soccorso della città dei Sassi per le lesioni riportate e cure del caso”. Il Coosp parla senza mezzi termini di “un ennesimo fatto increscioso per l’esacerbata violenza di detenuti che dovrebbero essere custoditi in luoghi protetti sanitari e non nelle Carceri normale”. Per il Coosp “l’Istituto materano ospita nei reparti di prima accoglienza reclusi in stato di infermità mentale e confusionario con una vigilanza di polizia penitenziaria comandata nell’ osservazione ai reparto da un solo agente che oltretutto e responsabile contemporaneamente anche di altri reparti, con una riduzione sostanziale ai minimi livelli l’ordine e la sicurezza dell’Istituto ed espone all’incolumità di tutti gli operatori della Sicurezza che operano nelle carceri della Basilicata”. Droghe: a Firenze la “Summer School 2013”, promossa da Forum Droghe e Cnca di Patrizia Meringolo Il Manifesto, 28 agosto 2013 “Le droghe e le città”. È il tema che la Summer School 2013, promossa da Forum Droghe e Cnca (Firenze, 5-7 settembre) cercherà di approfondire. Partendo dalla città post moderna, su cui tra gli altri ha riflettuto Massimo Cacciari (La città, Pazzini Editore, 2004). La post metropoli, osserva Cacciari, si origina nella centralità del nesso tra luoghi di produzione e mercato, che fa sì che ogni senso della relazione umana si riduca a produzione-scambio-mercato. Ne consegue che in una città tendono a scomparire i luoghi simbolici tradizionali, soffocati dal prevalere dei luoghi dello scambio e delle merci, col risultato di un appiattimento del luogo allo spazio. Il che fa la differenza. Il luogo rimanda ad un universo di immagini socialmente costruite che non si esaurisce nella mera dimensione spaziale. Il luogo, dal punto di vista psicosociale, contribuisce a strutturare forme di identità sociale e permette di identificarsi in un ambiente, di riconoscerlo come proprio e di viverlo come adeguato e aggregante. Questo processo di semplificazione tuttavia incontra resistenze, poiché è difficile adattarsi a vivere in uno spazio-senza-luogo dal momento che resiste quel luogo assolutamente primo che è il corpo. Analoga difficoltà si può originare dalla progressiva prevalenza del virtuale sul reale, che sostituisce le communities alle relazioni interpersonali concrete. Ma è veramente possibile, oltre che sano, vivere senza luoghi reali? E siamo davvero convinti di preferire aggregazioni in-corporee (l’angelopoli, come la chiama Cacciari), assolutamente sradicate, e che queste ci facciano stare bene? C’è qualcosa di non risolto, evidentemente, in questo processo di marginalizzazione del corpo e della fisicità. Un segnale di quanto tutto ciò possa essere difficilmente eludibile per il genere umano, virtualizzato o meno, è la ricerca di stati di alterazione corporea, quasi un tentativo di riaffermare la dimensione del corpo e di darle un significato. Alcuni spunti di riflessione: in primis, la perdita di luoghi in cui esistere con percezioni, pensieri, emozioni, capacità di simbolizzare... genera un profondo disagio che va sanato, per sentire di nuovo la corporeità, anche attraverso la sua alterazione. Per esempio con i farmaci, collante per ristabilire ritmi corporei quotidiani perduti; o con le sostanze, per enfatizzare la percezione e l’auto percezione; o infine per i più disagiati (o forse per i più strutturati) con gli interventi psicologici (la psicoterapia come ri-costruzione di uno spazio-tempo). La seconda riflessione, ugualmente collegata alle sostanze, riguarda il bisogno di ri-creare rituali simbolici per i corpi. Pensiamo alla canapa come esempio di condivisione di un luogo di consumo e di divertimento, o all’alcol, consumo sociale per eccellenza, o all’eroina, con i rituali - tutti corporei - che l’accompagnano. O alla stessa cocaina, funzionale a tenere alta l’attivazione percettiva e l’esserci. Un consumatore, intervistato per una ricerca sui modelli d’uso di cocaina in Toscana, ha espresso bene la motivazione all’uso nel bisogno di avere un potere sul tempo: il tempo corporeo, il tempo del sonno e della veglia, la voglia di esserci adesso e non in un altro momento. Anche i consumatori che cercano di autoregolare i propri consumi parlano di regole legate a luoghi, a rituali, a rapporti reali con persone fisiche. Non a prescrizioni astratte. In conclusione: non progrediamo nell’elaborazione sulle sostanze se non usciamo da un’ottica solo comportamentale e contenitiva, provando a esplorare il terreno della ritualità, del corpo come mezzo e luogo dell’abitare nel mondo e nelle relazioni. Libia: lo zoo di Tripoli trasformato in Centro di detenzione per immigrati Ansa, 28 agosto 2013 Non solo animali in gabbia ma anche esseri umani, spesso entrati nel paese senza autorizzazione, dietro le sbarre: in Libia, lo zoo di Tripoli - attualmente chiuso al pubblico - è diventato così una sorta di centro di accoglienza-prigione per gli immigrati. All’interno dello zoo, secondo un recente reportage del Libya Herald, accanto alle gabbie con gli animali sorge una struttura in cemento con porte e finestre munite di sbarre d’acciaio. Gli stranieri non restano più di 72 ore nella struttura, spiega il comandante di una milizia incaricata di controllare i documenti degli immigrati. Se tutto è in regola (passaporto, visto e certificato di salute) vengono rilasciati, altrimenti vengono trasferiti in veri e propri centri di detenzione sparsi su tutto il territorio e trattenuti a tempo indeterminato o espulsi. L’unità incaricata di controllare gli immigrati ferma decine di persone ogni giorno. Negli ultimi quattro mesi ne avrebbe arrestate oltre 5.000, la maggior parte proveniente da Africa Sub-sahariana, Tunisia e Marocco. Una volta nello zoo, i detenuti vengono sottoposti alle analisi del sangue - spiega Al Gerjame, il capo dell’unità per l’immigrazione clandestina - per verificare che non abbiano nessuna malattia. Secondo Al Gerjame, il 20% degli immigrati risulta positivo all’hiv o all’epatite. “Se positivi vengono trasferiti in centri speciali in attesa di essere espulsi. Se sani, invece, e hanno un visto regolare possono rimanere in Libia per lavorare”. Di recente Amnesty International ha denunciato le condizioni dei centri di detenzione - prigioni definite “centri di trattenimento” - dove immigrati illegali (compresi bambini) e rifugiati sono detenuti a tempo indeterminato, in condizioni deplorevoli, ed ha chiesto al governo libico di porre immediatamente fine alla detenzione a tempo indeterminato solo per il controllo dell’immigrazione. L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) ha di recente descritto la situazione in questi centri come precaria, sottolineando che nella maggior parte dei casi sono state osservate scarse condizioni igienico-sanitarie e un elevato rischio di contrarre malattie e infezioni.