Giustizia: l’ultima furbizia sulla pelle di chi soffre in cella di Gad Lerner La Repubblica, 25 agosto 2013 Mai registrata a memoria d’uomo cotanta sensibilità umanitaria della destra italiana di fronte alla piaga del sovraffollamento nelle carceri. Nel novembre 2002 non bastò l’appello rivolto da Giovanni Paolo II davanti alle Camere riunite per convincere il governo Berlusconi a promulgare un atto di clemenza nei confronti dei detenuti. Né si ricordano pressioni in tal senso dai cattolicissimi ciellini riuniti a Rimini, dove quest’anno scrosciano applausi per i ministri Mauro e Cancellieri fautori di un provvedimento d’amnistia. Per la verità un indulto fu poi approvato nel luglio 2006 su iniziativa del governo Prodi, che ne pagò per intero il prezzo d’impopolarità, anche perché la destra, per votarlo, ne impose l’estensione a reati per cui era sotto processo, guarda un po’, Silvio Berlusconi. Il quale, ritornato alla guida del Paese, introdusse nuovi reati (come quello di clandestinità) e aggravi di pena, che contribuirono in maniera determinante all’abuso della custodia cautelare e al sovraffollamento incivile delle nostre carceri. Fino alla condanna della Corte di giustizia europea; del tutto ignorata dai forcaioli che oggi si riscoprono estimatori di Pannella, pronti a firmarne i referendum e a garantire una corsia preferenziale per l’amnistia che esimerebbe il loro leader dall’anno di detenzione cui è stato definitivamente condannato. Avvertiamo quindi una speciale viltà in quest’ultima, ennesima trovata che mira a trasformare un atto di clemenza - per sua natura rivolto a mitigare la pena di una moltitudine di persone colpevoli ma derelitte, precipitate all’ultimo gradino della scala sociale - in ossequio alla prepotenza di un oligarca che vorrebbe imporsi al di sopra e al di fuori dello stato di diritto. Il ministro Lupi ora smentisce che sia all’ordine del giorno del governo una tale oscena strumentalizzazione della vergogna in cui versano le carceri: deve essersi reso conto che il “no” secco del Pd rende impossibile una maggioranza parlamentare favorevole a un’amnistia ad personam. Ma nel frattempo è stato davvero imbarazzante udire le voci di tanti forcaioli del Pdl salutare con favore l’improvvida proposta della ministra della Giustizia e del ministro della Difesa. Quest’ultimo, Mario Mauro, giunge a definire impossibile una riforma della giustizia, nel senso della malintesa pacificazione, “senza un gesto di clemenza, cioè l’amnistia”. Così per Mauro la missione dell’esecutivo di larghe intese si estenderebbe fino a trasformarlo in governo di “riconciliazione nazionale”. Già in passato, senza esito alcuno, fu prospettata una soluzione politica di vicende drammatiche che avevano gravemente colpito la comunità nazionale: se ne parlò per il terrorismo politico degli anni Settanta e per la Tangentopoli degli anni Novanta. In entrambi quei casi si trattava di affrontare piaghe dolorose, lutti e ladrocini, che avevano però a che fare con comportamenti devianti di natura collettiva, purtroppo assai diffusi nella nostra società. Alla fine la soluzione politica risultò improponibile perché cozzava con le regole fondamentali dello stato di diritto. Ma è davvero singolare che Mauro non si renda conto della differenza sostanziale fra quelle devianze estese e il caso eminentemente personale, individuale, con cui si misurano oggi la giustizia e la politica: la responsabilità penale di un singolo cittadino, per quanto potente e prepotente egli sia. Stiamo trattando il caso di un oligarca che frodando il fisco ha sottratto centinaia di milioni all’erario pubblico e danneggiato gli altri azionisti della sua stessa azienda. La propaganda cui si assoggettano i fautori della soluzione politica tende a presentare come vittima un uomo di governo che - per arricchirsi e costituire riserve di denaro all’estero - ha recato danno allo Stato che si era impegnato a servire. Si prova imbarazzo a elencare - prima dell’amnistia ad personam - gli altri innumerevoli sotterfugi escogitati giorno dopo giorno per sottrarre Berlusconi alla condanna inappellabile comminatagli il 1° agosto scorso. La richiesta di una grazia presidenziale. La commutazione della pena detentiva in sanzione pecuniaria. La pretesa superiorità del Parlamento rispetto a una sentenza definitiva della Cassazione. La richiesta sovversiva di mantenere capo politico della lista elettorale, ai sensi della legge Calderoli, un cittadino privato dei diritti politici. La non retroattività della decadenza automatica dai pubblici uffici del parlamentare condannato, sancita meno di un anno fa dalla legge Severino. E infine, più beffardo che mai, il dubbio di costituzionalità adombrato sulla medesima legge Severino che pure il Pdl aveva votato in Parlamento senza alcuna obiezione. Ha proprio ragione Cirino Pomicino: ce ne sarebbe abbastanza perché Berlusconi licenzi gli avvocati che paga profumatamente e che per giunta ha fatto eleggere in Parlamento, se solo ora scoprono di aver votato una legge anti-corruzione incostituzionale! La contraddittoria, grottesca sequela di escamotage dalla vita breve con cui il Pdl cerca di mascherare la pretesa dell’impunità per Berlusconi, comprova la natura eversiva della sua leadership e non trova appigli nelle regole dello stato di diritto. Al massimo riusciranno a strappare ancora qualche settimana di dilazione prima che la pena diventi esecutiva e comporti la decadenza dell’evasore fiscale dal suo incarico pubblico. Ma certo la strumentalizzazione del dramma delle carceri, con la proposta di amnistia, appare, fra tutte, la più detestabile delle furbizie. Maldestra, perché l’approvazione di una legge di amnistia richiede tempi lunghi. Odiosa, perché abusa della sofferenza altrui per il vantaggio di un impunito. Giustizia: amnistia per le carceri, un’occasione da cogliere di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 25 agosto 2013 Rimasto un po’ indietro rispetto alla linea, il Giornale dei Berlusconi ieri ospitava il solito pezzo contro la ministra Cancellieri, favorevole all’amnistia, attaccandola perché “libera i detenuti”. L’articolo torna utile, serve a fare chiarezza. Da ventitré anni a questa parte - tanti ne sono passati dall’ultima amnistia - la battaglia per gli unici provvedimenti in grado di riportare in una condizione minimamente civile le carceri e i tribunali italiani, scandalo europeo, la battaglia cioè per l’amnistia e per l’indulto, non è mai stata una battaglia della destra. Ma adesso il centrodestra berlusconiano si dice favorevole. La ragione è evidente oltre che abituale: l’interesse privato di Silvio Berlusconi. Il Cavaliere ha già beneficiato di un indulto, quello del 2006, che gli ha tolto tre dei quattro anni di carcere a cui è stato condannato definitivamente a fine luglio. Non gli basta. Ha bisogno che venga cancellato anche il reato in forza del quale, per la legge Severino e per l’imminente interdizione, non può più entrare in parlamento. Ha bisogno cioè di un’amnistia molto ampia che comprenda anche il grave reato tributario che per la giustizia italiana ha commesso. Anche se non può spingersi fino a immaginare la cancellazione della concussione, per la quale è stato condannato a sei anni in primo grado nel processo Ruby, e soprattutto della prostituzione minorile. Le motivazioni del fronte berlusconiano sono chiare, non c’è da discuterne troppo né da farsi ingannare dalle parole di solidarietà con i detenuti che sentiremo nei prossimi giorni. La domanda è se chi, come questo giornale, ha sempre sostenuto la necessità dell’amnistia e dell’indulto per restituire un po’ di umanità alle galere (servirebbero anche un’ampia depenalizzazione e il superamento del carcere come strumento unico di esecuzione della condanna), di fronte all’opportunismo della destra, debba mettere in secondo piano i suoi principi e le sue ragioni. Si può, cioè, smettere di essere per l’amnistia e per l’indulto perché adesso fanno comodo a Berlusconi? Sì può, ma solo al prezzo di proseguire nella logica che se una cosa va bene a lui è necessariamente sbagliata, che è poi il trionfo per annessione del berlusconismo. Nel 1992 è stata modificata la Costituzione per alzare ai due terzi di ciascuna camera il quorum richiesto dalle leggi di amnistia e indulto. Da allora non c’è più stata nessuna amnistia. Prima, lungo la storia della Repubblica, ce n’era una ogni due o tre anni. Anche oggi la migliore amnistia e il migliore indulto probabilmente terrebbero fuori la frode fiscale che riguarda Berlusconi, per la banale ragione che sono davvero pochi i “colletti bianchi” che stanno pagando per quei reati. Ma sicuramente senza coprire il Cavaliere non ci sarebbe alcuna disponibilità del Pdl a votare il provvedimento. Riconoscere l’opportunismo di Berlusconi non dovrebbe impedire di cogliere l’occasione, se si ha il coraggio di credere nelle proprie idee. Sarebbe l’ennesima legge ad personam? Berlusconi ne ha già avute tante, questa per una volta riguarderebbe anche molte altre persone (assai più disgraziate di lui). E se è vero che uno dei lasciti peggiori del berlusconismo è l’idea che le regole si possono piegare al proprio beneficio, in questo caso amnistia e indulto, proprio perché riguardano tanti, contengono un elemento di uguaglianza; al contrario di tutte le amnistie non dichiarate di cui ha già potuto godere Berlusconi in questi anni, nella forma delle prescrizioni che gli hanno guadagnato i suoi preziosissimi avvocati. Ma c’è di più: dal momento che la ragion di stato delle larghe intese è avviata in ogni caso a trovare qualche rimedio “politico” ai guai del Cavaliere, molto meglio sarebbe una soluzione alla luce del sole, attraverso un dibattito parlamentare in cui ognuno assuma le sue responsabilità. Il presidente della Repubblica accenna già a un provvedimento di clemenza che sarebbe fuori dalla prassi e dai limiti imposti dalla Corte Costituzionale. Il Senato immagina un ricorso alla Consulta che è al di là dalle regole. Votando l’amnistia alla luce del sole il parlamento renderebbe non necessari questi pericolosi strappi alla Costituzione. E infine, anche a voler guardare il mondo dalle spalle del Cavaliere, si può essere proprio sicuri che l’amnistia lo rafforzerebbe? Non perderebbe piuttosto in un colpo solo tutto il vittimismo sul quale ha costruito buona parte della sua popolarità? L’amnistia e l’indulto sono un’occasione da cogliere. Giustizia: amnistia? La norma generale piegata agli interessi di uno solo diventa arbitrio di Massimo Villone Il Manifesto, 25 agosto 2013 E proprio un indecente teatrino, questo dell’agibilità politica di Berlusconi. L’ultima trovata è l’amnistia, per cui abbiamo anche una sponsorizzazione ministeriale che fa riflettere. La legge costituzionale del 1992 riformò l’articolo 79 sull’amnistia e l’indulto, prevedendo una maggioranza di due terzi dei componenti. All’avvio della stagione di tangentopoli fu un forte segnale contrario a clemenze facili e “politiche”. Il percorso è impervio. Ma proprio per questo è singolare l’uscita dei ministri Cancellieri e Mauro. Sanno che una simile maggioranza di fatto non esiste nei numeri parlamentari. Sanno che il maggior partito che sostiene l’esecutivo è contrario. Sanno che Letta cerca disperatamente di separare le sorti del governo da quella personale di Berlusconi. Come è possibile allora che sponsorizzino l’amnistia, quasi manifestassero la propria opinione in un seminario di politologi? È un siluro dall’interno? È una presa d’atto che la barca fa acqua? È una captatio benevolentiae a futura memoria? Fra i tanti sintomi di salute precaria di un governo nato in provetta, questo non è da poco. Ieri su queste pagine Andrea Fabozzi ha sostenuto che l’occasione è da cogliere, per la necessità impellente di ridare condizioni umane alle carceri, e perché - riguardando comunque molti - sarebbe un male minore e fatto alla luce del sole rispetto a strappi più gravi o occulti fatti nel solo nome di Berlusconi. Un’opinione che non condivido. Anzitutto, ridare umanità alle carceri attraverso la sola clemenza è illusorio. Per avere risposte durature è necessaria una strategia integrata che contemperi una tutela incisiva della legalità con adeguate risorse per una vita dignitosa nelle carceri, il recupero, il reinserimento, il contrasto preventivo al bisogno, il rafforzamento degli strumenti di crescita civile, di coesione sociale, di solidarietà. Di una simile strategia nemmeno si parla in queste ore, e mancherebbero le risorse se si volesse metterla in campo. Mentre l’esperienza dimostra che, se manca, gli effetti della clemenza sono effimeri, e il sovraffollamento si riproduce in breve. Una percentuale elevata di chi esce dal carcere vi rientra, e non è certo un caso che tornino dentro gli emarginati e j poveracci piuttosto che i colletti bianchi. L’effetto ultimo è che la clemenza è letta dalla pubblica opinione come debolezza dello stato ed evanescenza della legalità, dagli apparati volti alla repressione dei reati come prova di inutilità del proprio impegno, e da chi esce dal carcere per poi rientrarvi come illusione e inganno. Lo strappo è sostanzialmente inutile, oltre che grave. Vi sono paesi che puntano sul carcere. A quanto si sa, la popolazione carceraria degli Stati uniti supera i due milioni - in proporzione, molte volte quella italiana. La Cina segue a qualche distanza. Ma anche paesi europei, ad esempio la Gran Bretagna, registrano cifre superiori a quelle italiane. C’è un ampio dibattito sull’efficacia di simili strategie. Si discute del giusto rapporto tra repressione carceraria, tutela della legalità, lotta alla povertà, al bisogno, all’ignoranza. Ma non è civile un paese - il nostro - in cui non si valuta affatto un corretto bilanciamento di interessi, e non si mettono in campo politiche mirate a risposte strutturali. E non è dì sinistra l’ipotesi che - nell’inerzia complessiva - si giunga a una amnistia berlu-sconiana. Non basta l’argomento che almeno avremmo un provvedimento in chiave di eguaglianza. Sappiamo tutti che l’amnistia si concederebbe solo perché Berlusconi la pretende, e non per tutte le altre ragioni che potrebbero sostenerla. Nella realtà della politica sarebbe una concessione a lui, un riconoscimento delle sue ragioni, un sostanziale avallo dell’assurda tesi della persecuzione giudiziaria, fa questo la gravità dello strappo, non minore degli altri perché ugualmente connotato dall’uso del poteri pubblici per le ragioni di uno. Un’essenza di arbitrio sotto l’apparenza di norma generale e astratta. Da quasi vent’anni Berlusconi schianta la giustizia sugli scogli dei propri guai giudiziari, e divide il paese. E giunta l’ora di finirla. Crisi o non crisi, non si può pagare qualunque prezzo per puntellare un governo. Indigna che la destra richiami l’amnistia di Togliatti del 1946, quando oggi chiede l’indulgenza plenaria per un moderno satrapo. Ma possiamo consolarci. Per l’artìcolo 14, il decreto di amnistia del 22 giugno 1946, n. 4 “non concerne i reati finanziari e non ha effetto ai fini dell’applicazione delle leggi sulla avocazione dei profitti di regime”. Abbiamo la ragionevole certezza che per Berlusconi evasore fiscale Togliatti avrebbe gettato via la chiave. Giustizia: dal “Manifesto” arriva il soccorso rosso a Silvio di Stefano Re Libero, 25 agosto 2013 Il quotidiano comunista attacca i compagni che si sono schierati contro l’ipotesi di un’amnistia: “Siamo sempre stati a favore, non possiamo cambiare idea adesso solo perché farebbe comodo anche a Berlusconi”. “Fare una retromarcia perché se una cosa va bene a lui è necessariamente sbagliata sarebbe il trionfo per annessione del berlusconismo”. “Si può smettere di essere per l’amnistia e per l’indulto perché adesso fanno comodo a Berlusconi?”. La domanda se l’è posta ieri il Manifesto, il quotidiano comunista per definizione. Sono in tanti a chiedersi la stessa cosa, a sinistra. Nella grandissima parte dei casi, la risposta è molto semplice e coincide con quella che ha dato su Repubblica, sempre ieri, Gad Lerner: certo che si può, anzi si deve, perché la proposta dell’amnistia avanzata dal Pdl “è la più detestabile delle furbizie” e “abusa della sofferenza altrui per il vantaggio di un impunito” (chissà se i detenuti, dinanzi alla prospettiva dell’amnistia, si sentono vittime di “abuso” berlusconiano o sperano che il provvedimento vada in porto. Lerner potrebbe chiederglielo). Insomma, ciò che è male per Silvio Berlusconi è un bene per il Paese, e viceversa. Coerentemente con la linea tenuta da Repubblica negli ultimi venti anni. Non per tutti, però, le cose sono così facili. Pur essendo collocato su posizioni anti berlusconiane, il Manifesto si permette di fare un ragionamento un tantino meno pedestre di quello di Lerner. È il giornalista Andrea Fabozzi a ricordare al Pd e alla sinistra cosa c’è scritto nel loro Dna. Alla domanda se si possa abbandonare la battaglia per l’amnistia solo perché se ne avvantaggerebbe il Cavaliere, Fabozzi risponde che “si può, ma solo al prezzo di proseguire nella logica che se una cosa va bene a lui è necessariamente sbagliata, che poi è il trionfo per annessione del berlusconismo”. Ragionamento idealista ma anche intriso di realismo, quello del Manifesto, in nome della consapevolezza che, quando è richiesto un quorum così alto - la legge d’amnistia deve essere votata dai due terzi delle Camere - a qualcosa bisogna comunque rinunciare. “La migliore amnistìa e il migliore indulto probabilmente terrebbero fuori la frode fiscale che riguarda Berlusconi”, ammette il quotidiano, “per la banale ragione che sono davvero pochi i “colletti bianchi” che stanno pagando per quei reati”. Però, se non ci fosse l’imperativo di salvare il proprio leader, “non ci sarebbe alcuna disponibilità del Pdl a votare il provvedimento”. Dunque, tanto vale essere coerenti, approfittarne anche da sinistra e fare di necessità virtù. Morale: “Riconoscere l’opportunismo di Berlusconi non dovrebbe impedire di cogliere l’occasione, se si ha il coraggio di credere nelle proprie idee”. E quella dell’amnistia non sarebbe certo una legge ad personam, giacché “riguarderebbe anche molte altre persone (assai più disgraziate di lui)”. Infine sarebbe “una soluzione alla luce del sole”, non maturata nelle segrete stanze o imposta dal Capo dello Stato, “ma assunta attraverso un dibattito parlamentare in cui ognuno assume le sue responsabilità”. Conclusioni alle quali pochi a sinistra hanno il coraggio di arrivare: la regola vuole che oggi sia schierato contro l’amnistia anche chi negli anni passati l’aveva proposta. Tra le eccezioni c’è il vicepresidente della Camera Roberto Giachetti, ex radicale adesso vicino a Matteo Renzi: “Sono stufo”, sbotta, “di non fare le riforme della giustizia o i provvedimenti che servono per la povera gente solo perché potrebbero servire anche a Berlusconi”. Giustizia: l’ultima battaglia di Pannella… il “salva-Silvio” è nei Referendum Radicali di Oreste Pivetta L’Unità, 25 agosto 2013 Il leader radicale preme sul Cavaliere perché faccia campagna sui referendum sulla giustizia magari anche dal carcere: “Lo dissi anche a Craxi...”. Marco Pannella, interrotto l’ennesimo sciopero della fame (quanti scioperi della fame nella sua quasi secolare esistenza?), in omaggio - ha confessato al Corriere della Sera - a Vittorio Feltri, al Foglio di Ferrara e a Luciano Violante, pare abbia trovato la soluzione al quesito che da giorni e giorni scuote la coscienza degli italiani e provoca la loro intelligenza in questa estate di vacanze e di cassa integrazione: come ridar vita a Berlusconi, restituirlo alla politica, alla famiglia, alla fidanzatina, trasformare una condanna definitiva, un bel carico di precedenti e un futuro accidentato in tribunale in una aureola di santità, di probità, di lungimiranza istituzionale, quella stessa condanna che relegherebbe qualsiasi cittadino in una cella e dentro le poche stanze di una casa qualsiasi o, al meglio, tra gli operatori sociali di una mensa popolare. È semplice la soluzione, spiega Pannella al Corriere della Sera: a Berlusconi basterebbe impugnare la bandiera dei dodici referendum radicali, gli basterebbe cioè “mobilitare il partito, organizzare la raccolta, arrivare al voto”. Dietro quella bandiera, ma sì, Silvio - consente Pannella - potrebbe finire pure orgogliosamente in galera, scegliere l’esilio, “andare persino a quel paese”: comunque potrebbe continuare a fare il leader, avviando l’autentica rivoluzione giudiziaria, sistemando a dovere quei dannati magistrati, separando le carriere, tagliando i processi, guadagnando alla fine un sacco di consensi. “Lo dissi anche a Craxi”, ricorda Pannella: guarda Bettino che se accetti il carcere, alle Europee non prendi il 12 ma il 25 per cento. Bettino non l’ascoltò... Dopo una vita consumata in nobili battaglie, ad allestire urne e consultazioni, in cene frugali o addirittura in mortificanti digiuni, si può comprendere come Marco Pannella si lasci trascinare nell’esaltazione taumaturgica del proprio pensiero e di se stesso. A ottantaquattro anni può permetterselo: compare ormai negli annali dei “grandi vecchi” della Prima Repubblica, uomo onesto e generoso, bianco e stempiato, di sottile intelligenza e di corposa propaganda. Più difficile immaginare quei suoi referendum (sacrosanti, non dubitiamo) come lo sturalavandino, il mister muscolo idraulico, che lascerebbe finalmente scorrere l’acqua sporca di Berlusconi verso la meritata destinazione ultima, o come, in una visione meno laica, l’agnello del Signore qui tollit peccata mundi, che cancellerebbe i peccati del mondo. Meraviglia in un intellettuale che mette avanti a tutto il rigore morale, nel seguace di Gandhi, nell’allievo di Aldo Capitini, la spregiudicatezza politica, l’opportunismo, addirittura la furbizia tattica che gli fa consigliare al condannato Berlusconi: agita la nostra bandierina, schierati al nostro fianco, tornerai lindo più di prima. Non è questione di amicizie, che possono travalicare le colpe, ma è questione di alleanze politiche e su queste qualche attenzione e qualche distinzione sarebbero opportune e soprattutto sarebbe opportuna una meno elastica considerazione della legge “uguale per tutti”, come ogni radicale pretende di saper meglio di chiunque altro. Non credo che Pannella pensi di dover vestire i panni di Zola alle prese con un caso Dreyfus e che consenta la prigione al suo assistito solo per potergli dedicare un martirologio. Evidentemente il padre dei radicali italiani non può sentirsi indifferente di fronte a quella condanna definitiva, Pannella non può negare una sentenza di colpevolezza, non può apparentarsi alla Santanché o a Brunetta: altra cultura, altra morale, altra statura. In attesa peraltro di un nuovo giudizio, perché anche Pannella sa benissimo che dopo questa tempesta se ne potrebbe addensare un’altra sul capo di Berlusconi, dopo i sette anni in prima istanza per la vicenda Ruby. Il precedente di Craxi non fa testo, per la semplice ragione che altri erano i tempi e che Bettino era di altra stoffa, anche giudiziaria oltre che politica. Insomma mette tristezza questa offerta pannelliana, viene incomprensibile quest’idea di assoldare Berlusconi, compagno di truppa nella marcia referendaria, perché la distanza tra Pannella e Berlusconi, a profili contrapposti, resta un abisso e Pannella sa benissimo che raccogliere firme per lui a Berlusconi potrebbe sembrare il Golgota, mentre l’uomo di Arco-re s’attende la resurrezione senza Calvario, solo in virtù di una leggina confezionata da un fedele avvocato e parlamentare. Pannella è ingenuo, non solo in contraddizione con se stesso e con la propria storia, se considera Berlusconi uomo di grandi sacrifici e di vasti orizzonti. Dodici referendum sono fatica e rischi e resterebbero comunque i referendum di Pannella. Dodici referendum non sono la beatificazione che l’ex premier s’attende, neppure una banale amnistia. Vuole altro Berlusconi, un referendum ad personam, un sondaggio in diretta tv, qualcosa che piova dal cielo, che non possiamo pensare sia il cielo di Marco Pannella. Giustizia: Romano (Cp); il sistema è malato, pieno sostegno ai Referendum Radicali Adnkronos, 25 agosto 2013 “Pieno sostegno ai referendum dei Radicali per la riforma della giustizia, nella convinzione che nel nostro Paese si sia venuto a creare un grave conflitto istituzionale, ma anche perché il sistema della giustizia è malato e serve intervenire, al fine di ripristinare il giusto equilibrio tra i poteri di una compiuta democrazia”. A dirlo è Saverio Romano, coordinatore nazionale di Cantiere Popolare, che martedì prossimo, alle 11 presso la Sala consiliare di Palazzo delle Aquile, a Palermo parteciperà alla conferenza stampa di presentazione dei 12 quesiti referendari proposti dai Radicali, alla presenza, tra gli altri, di Rita Bernardini, dirigente Radicale. “Cantiere popolare sta lavorando nel territorio al fianco dei Radicali - aggiunge Romano - offrendo, oltre al sostegno politico anche il supporto tecnico, logistico e organizzativo, nella consapevolezza che i tempi sono maturi per un coinvolgimento dei cittadini italiani su temi di grande importanza politica, sociale e culturale”. Rita Bernardini sottolinea “l’importanza che questa iniziativa referendaria faccia registrare in Sicilia il sostegno di forze politiche sia di centrodestra che di centrosinistra, al di là di schemi e appartenenze”. Sempre martedì, alle 15, è prevista una visita di Romano e di Rita Bernardini al carcere Pagliarelli di Palermo, per far conoscere i quesiti e per raccogliere le firme, dal momento che risultano già oltre 700 richieste di sottoscrizione. Giustizia: Marino (Oua); l’amnistia riguarda l’emergenza carceri… non Berlusconi Il Fatto Quotidiano, 25 agosto 2013 Il dibattito sull’amnistia, rilanciato negli ultimi tempi dalla sentenza della Cassazione su Berlusconi e dall’iniziativa della raccolta di firme per un referendum da parte dei Radicali, non riguarda però l’ex premier. Lo afferma Nicola Marino, presidente dell’Organismo unitario dell’Avvocatura (Oua), all’agenzia di stampa Adnkronos. “Il dibattito sull’amnistia non riguarda il caso Berlusconi ma l’emergenza carceri”, sottolineando come “per questa ragione l’Oua propone da mesi un intervento urgente in tal senso, ma anche una forte revisione di quelle leggi criminogene che producono un intasamento dei nostri tribunali, il sovraffollamento delle carceri e quindi una costante violazione dei diritti umani”. Inoltre Nicola Marino invita a riflettere sul fatto che “l’Europa più volte si è espressa in questa direzione: è una questione di civiltà per il nostro Paese”. Marino ricorda infine che l’avvocatura, già nel mese di luglio, ha anche scioperato dall’8 al 16 per chiedere provvedimenti immediati su questi temi. Lettere: quando a darsi la morte sono gli operatori penitenziari di Gemma Brandi* Ristretti Orizzonti, 25 agosto 2013 Mi permetto di intervenire sul doloroso tema dei suicidi tra gli operatori penitenziari, soprattutto agenti di polizia, benché sia a conoscenza del lavoro che da anni il Dap ha avviato -certo ai tempi in cui l’attuale Direttore Generale era Direttore dell’Ufficio Studi e Ricerche e il Consigliere Francesco Gianfrotta dirigeva l’Ufficio Trattamento e Detenuti - nel campo del suicidio in carcere, per sottolineare una questione che dà nell’occhio - almeno nel mio occhio - e che credo meriti attenzione e approfondimento, se si ha a cuore la prevenzione di questo rischio suicidario. Per parlare consapevolmente dei motivi di una auto soppressione, occorrerebbe conoscere a fondo la persona che si è tolta la vita e quindi essere in grado di confrontare le notizie raccolte sui singoli suicidi. Due dati però risaltano a tutta prima: l’apparente aumento della morte per suicidio degli agenti di polizia penitenziaria (mentre non sono aumentati i suicidi dei detenuti, checché qualcuno voglia ancora dare ad intendere il contrario) e il fatto che la stragrande maggioranza degli scomparsi rivestisse il grado di Assistente e avesse una età che non colloca più tra i giovani, ma non permette di sentirsi anziani, quella età di mezzo in cui non si è rinunciato ancora alle ambizioni giovanili, ma pare di non potere più dare una svolta alla propria esistenza, quando le scelte strategiche sembrano tutte esaurite. Questa mia osservazione si somma a chissà quante considerazioni altri, che siano interessati davvero al benessere dei soggetti riguardati, avranno fatto, magari nel silenzio della loro intima riflessione. Occorrerebbe partecipare al contrario tali pensieri, metterli cioè in comune, e insieme fare sì che nessun suicidio si esaurisca unicamente nella scomparsa di un uomo, pretendere di ricostruire a posteriori la storia di quella morte, il percorso di una sofferenza frequentemente sommessa, non limitarsi a indicare cause generiche e scontate per un gesto che è sempre originale e inatteso. Tutto ciò prima di riempire male un posto vuoto, creando, ad esempio, punti di ascolto o analoghi stratagemmi destinati irrimediabilmente a fallire, come sa chiunque lavori in carcere. Altro paio di maniche sarebbe affrontare con serietà e tenacia la evoluzione inevitabile del ruolo dell’agente di polizia penitenziaria, sotto la spinta del rinnovamento della popolazione detenuta e della domanda di contenzione sapiente, di assistenza estesa e di cura accorta che questa reclama, una domanda che esige una risposta interdisciplinare e integrata. Ecco cosa mi sento, in aggiunta, di suggerire al Vicedirettore del Dap, Dottor Luigi Pagano, che tutti sanno funzionario tutt’altro che indifferente al tema del suicidio, e non da ieri: incoraggiare e favorire tutte le forme di lavoro interdisciplinare in carcere, specie con gli organi della salute che vi hanno fatto ingresso dal 2008, sebbene in misura diversa nel Paese, affinché i piani formativi e l’attività quotidiana risenta del sapere di aree che devono incrociare davvero i loro strumenti, non come lame di un duello, ma come mezzi di cooperazione e crescita, una volta riconosciuto il bisogno che si manifesta al di qua e al di là delle sbarre. Direi, poi, che la fatiscenza progressiva degli istituti, anche da un punto di vista strutturale e igienico, proprio mentre il sovraffollamento pigia ai cancelli, sfinisce i reclusi e ferisce gli operatori. Qualcosa deve essere fatto affinché l’istituzione non perda di valore. Il degrado, come insegna la teoria delle finestre rotte, finisce per produrre esponenzialmente degrado. Non ci meraviglieremo allora degli incendi che deflagrano nelle prigioni, espressione di una crescente rabbiosa disperazione. La questione non riguarda, ovviamente, solo l’istituzione penitenziaria, ma anche le strade del Bel Pese, gli ospedali, le scuole, eccetera, ma in carcere viene avvertita con maggiore intensità e in anticipo, perché il carcere, concentrandoli e distillandoli, annuncia i problemi in divenire di una società. Formazione, integrazione, ristrutturazione sono tutti temi che chiamano in causa l’hic et nunc e non sono aggiustabili costruendo risposte esterne al carcere o scuole che siano altrove rispetto allo specifico istituto in cui il personale lavora o ipotesi di costruzione di altri reclusori. Infine, anche vincendo la riservatezza dell’Autore, mi sento di suggerire a tutte le persone interessate al tema del suicidio di detenuti e operatori penitenziari, il bel libro di Marco Santoro, Comandante della Polizia Penitenziaria di Sollicciano, dal titolo L’ombra dell’altro, un libro amaro, che sembra lasciare poco spazio alla speranza e comunque a soluzioni facili, un libro per pensare e incontrarsi. *Psichiatra psicoanalista, Responsabile della Salute Mentale Adulti Firenze 1 e 4 e Istituti di Pena di Firenze Verbania: Sappe; detenuto tenta il suicidio, i poliziotti penitenziari gli salvano la vita Adnkronos, 25 agosto 2013 “Un detenuto italiano di 34 anni ha tentato il suicidio ieri pomeriggio, nella cella del reparto detentivo del carcere di Verbania”. “Aveva tentato di impiccarsi con un lenzuolo, tempestivo l’intervento dei poliziotti penitenziari, che gli hanno salvato la vita”- riferisce in una nota Donato Capece, segretario generale del Sindacato autonomo polizia penitenziaria (Sappe). “Solo nel 2012 - ricorda Capece - sono stati 56 i detenuti morti in carcere per suicidio e 97 quelli per cause naturali, 1.308 i suicidi sventati dalla polizia.Il 2011 invece, ha registrato 63 detenuti morti per suicidio e 102 per cause naturali, circa 1.000 quelli salvati dalla polizia penitenziaria”. “Autorevoli studi scientifici - sottolinea - hanno dimostrato come il suicidio costituisca solo un aspetto di quella più ampia e complessa crisi di identità che il carcere determina, alterando i rapporti e le relazioni, disgregando le prospettive esistenziali, affievolendo progetti e speranze”. “La via più netta e radicale per eliminare tutti questi disagi - conclude Donato Capece - è quella di un ripensamento complessivo della funzione della pena e, al suo interno, del ruolo del carcere”. Burkina Faso: visita dell’arcivescovo di Ouagadougou nel carcere della capitale Radio Vaticana, 25 agosto 2013 Le persone emarginate contano agli occhi di Dio e meritano attenzione: è quanto ha affermato mons. Philippe Ouédraogo, arcivescovo di Ouagadougou, nel Burkina Faso, che la scorsa settimana ha fatto visita ai detenuti del carcere della sua arcidiocesi. Il presule, riferisce il portale www.lepays.bf, ha celebrato una Messa ed ha poi offerto il pranzo agli ospiti della struttura penitenziaria, grazie alla generosità di diversi fedeli. Mons. Ouédraogo, che ogni anno fa visita ai detenuti in occasione del Natale, della Pasqua e dell’Assunzione, ha esortato a vivere nella fede, nell’amore e nella carità. Roger Gouba, rappresentante dei detenuti, ha espresso particolare apprezzamento per l’iniziativa dell’arcivescovo Ouédraogo ed ha affermato che le visite frequenti del presule interpellano ad una conversione vera.