Giustizia: l'Italia è più "sicura" della Finlandia e le carceri sono strapiene di emarginati di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 21 agosto 2013 Nel 2012 il numero di omicidi volontari più basso dal dopoguerra: 505. Secondo i dati ufficiali del Viminale per il periodo 31 luglio 2012-1 agosto 2013 le donne uccise sono state 75. I morti in incidenti stradali invece sono stati 1.987. Nelle scorse settimane in parlamento c’è stato un ingorgo di provvedimenti legislativi incoerenti. Da un lato misure contro il sovraffollamento carcerario, dall’altro misure contro la criminalità con nuovi aumenti di pena. Mentre al senato è anche iniziata la discussione parlamentare sul delitto di tortura. L’Italia ha il triste record del tasso di affollamento carcerario più alto della Ue. Secondo i dati di Antigone si arriva a 170 detenuti per 100 posti letto. L’Italia però è anche il paese con un indice di omicidi tra i più bassi del vecchio continente, ben al di sotto della media europea: poco meno di un omicidio ogni 100mila abitanti contro quasi il doppio della media dei paesi Ue. Il Ministero degli Interni, lo stesso che ha proposto a fine luglio un nuovo pacchetto sicurezza, ha diffuso nei giorni scorsi alcuni dati di assoluta tranquillità. L’Italia, contro ogni stereotipo o commento da bar, è un paese dove il rischio di essere ammazzati è molto più basso che in tante altre democrazie. Tra l’1 agosto 2012 e il 31 luglio 2013 le persone decedute a seguito di un incidente stradale sono state 1.987. Le persone assassinate volontariamente nello stesso arco di tempo nel nostro Paese sono state 505. Un dato basso rispetto alla media europea. Nella sola città di New York nel 2012 gli omicidi sono stati 414, anch’essi a loro volta talmente pochi rispetto alla tradizione newyorkese da far esultare il sindaco Bloomberg. Si pensi che nella città americana gli omicidi nel 2009 erano stati ben 1.420. In Italia quindi si muore molto di più per incidente stradale che non per omicidio. I dati forniti dal Viminale segnano il minimo storico di omicidi da oltre quarant’anni a questa parte. Se oggi gli omicidi volontari sono poco più di 500 l’anno, va rammentato che sono stati 2.927 nel 1948, 2.380 nel 1951, 1.610 nel 1.961, 1.497 nel 1.971, 2.453 nel 1.981, 1.901 nel 1.991 e 771 nel 2001. 102 sono stati gli omicidi commessi in ambito familiare. 65 di questi sono stati compiuti dal partner o dall’ex partner. I restanti 37 sono stati commessi da altro familiare. Complessivamente 75 sono stati i cosiddetti femminicidi. Secondo i dati Eures sarebbe un numero, anche questo, tra i più bassi di Europa. Se questi sono i numeri allora possiamo definirci un paese sicuro? E come si giustificano le campagne allarmistiche sulla criminalità mentre il numero degli omicidi diminuiva? Come mai è cresciuta l’attenzione mediatica agli omicidi consumati in famiglia ai danni di donne mentre il numero totale di questi ultimi era anch’esso in calo? Come mai abbiamo carceri affollate e allo stesso tempo pochi reati gravissimi contro la persona? In Italia probabilmente ci sono oggi meno omicidi di criminalità organizzata perché quest’ultima presenta rispetto al passato una maggiore liquidità di azione. Per fare reddito “sporco” oggi è meno necessario rischiare in attività violente sul territorio. Ammazzare significa scatenare una reazione giudiziaria e di polizia. Meglio essere meno visibili e meno cruenti, se il reddito non cala. Anche la criminalità comune ammazza “meno”. Le rapine e i sequestri che finiscono male si sono ridotti nel tempo. Si pensi al ruolo avuto negli anni Ottanta da bande violente che ammazzavano con grande facilità a Roma come in Veneto. Oggi sarebbe impensabile il successo di una serie di film come quelli con Thomas Milian. Anche gli omicidi in famiglia si sono ridotti. In questo caso potrebbe avere avuto un ruolo la legge sullo stalking del 2009. Le denunce per stalking sono state nell’ultimo anno 9.116, di cui tre su quattro effettuate da donne. Inoltre, sempre a partire dal 2009, anno di entrata in vigore della legge, le donne hanno incominciato sempre di più a denunciare partner ed ex partner. È stato questo a produrre una flessione numerica dei femminicidi oppure ha contato la maggiore attenzione al tema da parte dei media e più in generale dell’opinione pubblica? Oggi tutti, non sempre con cognizione di causa, parlano di femminicidio. La violenza di genere è un tema che va nelle viscere della società. Richiede una riflessione sul modello culturale patriarcale, sulla qualità asimmetrica delle relazioni, sul welfare escludente. Alla luce dei dati oggettivi non richiede però un reato ad hoc. Parlarne a tutti i livelli fa bene alla crescita sociale e culturale del paese. L’esito peggiore di questa ondata di indignazione sarebbe però un ulteriore irrigidimento delle già severe norme penali, visto che con quelle già in vigore si ammazza percentualmente meno che in passato o che in molti altri paesi europei. Come spiegare quindi quello che è accaduto negli ultimi anni? Piuttosto che imbarcarsi in risposte che difetterebbero comunque di completezza si può sottolineare che: 1) non esiste una emergenza criminalità; 2) non si giustificano misure penali nuove nel nome della lotta a questo o quel crimine violento; 3) la vita è più al sicuro in Italia che in Finlandia; 4) le carceri sono invece ugualmente strapiene grazie all’incarceramento di massa degli esclusi dallo stato sociale; 5) le campagne sulla sicurezza sono state create ad arte negli ultimi anni solo per drenare facile consenso. Dai dati del ministero dell’Interno si evince che molta attività di polizia è stata diretta ad assicurare ordine pubblico nelle oltre 10mila manifestazioni di piazza e nelle quasi 3mila manifestazioni sportive. Immaginate quanto lavoro di prevenzione criminale ulteriore sarebbe possibile se ci si fidasse di più di studenti e lavoratori che legittimamente protestano senza ingabbiarli in marcature di polizia ad uomo e se gli stadi di calcio si smilitarizzassero. A proposito di calcio, nel pacchetto sicurezza è comparsa la norma che proroga al 2016 la possibilità di arrestare in flagranza differita un tifoso violento. L’arresto in flagranza differita è un non-senso giuridico. Inoltre prevedere norme di procedura penale a termine è ben poco liberale. Preso quindi atto che non viviamo nel “far west” possiamo tranquillamente e serenamente decongestionare le carceri di chi vi è andato a finire senza avere messo a rischio la sicurezza personale di qualcun altro o della collettività, ovvero principalmente tossicodipendenti e immigrati, trasformati nei nuovi nemici urbani. La lettura delle biografie penali dei detenuti in Italia aiuterebbe ad assumere provvedimenti che ci riportino nella legalità penitenziaria. Infine, sarebbe cosa buona e giusta finalmente introdurre il delitto di tortura nel codice penale. In senato vi è un testo unificato da cui dovrà partire il dibattito. Ha prevalso la tesi secondo cui il delitto debba essere un delitto generico e non un delitto proprio e esclusivo del pubblico ufficiale. La tortura sarebbe quindi un crimine comune e non tipico di chi esercita funzioni di polizia. Un’insensatezza giuridica in conflitto con la definizione Onu ma anche una insensatezza storica e logica visto che la tortura è un crimine contro l’umanità, al pari del genocidio. Speriamo ci ripensino. Giustizia: il ministro Cancellieri; sì all’amnistia, ci renderebbe sereni davanti all’Europa Dire, 21 agosto 2013 “Stiamo facendo un lavoro a 360 gradi per affrontare il problema carceri, un problema molto ampio, sul quale sono numerosi gli interventi necessari, in cui si inserisce anche l’amnistia, che mi sembra assolutamente auspicabile, perché ci potrebbe consentire di arrivare in piena serenità al confronto europeo. Altri passi sono le depenalizzazioni, nuove strutture, ma in questo quadro di varie misure necessarie sicuramente ci sta bene anche l’amnistia”. Lo ha detto il Ministro della Giustizia Cancellieri, nel corso di una puntata di Radio Carcere, ieri sera in onda su Radio Radicale, a dialogo con il leader radicale Marco Pannella Pannella, rispondendo al Ministro, ha detto: “Sono convinto che non appena questo accadesse saremmo ritenuti, dopo trenta anni, adempiendo all’ultimatum della Corte europea dei diritti dell’uomo, ma anche da altri organismi internazionali, adempienti. Ho tanta ri-conoscenza, e sono fiero che un ministro della Giustizia abbia detto quello che il Ministro ha detto, come sono fiero delle nostre carceri, della nostra comunità penitenziaria”, ha concluso Pannella. Sappe: assurdo chiedere a Ministro della Giustizia amnistia e indulto, competenza è del Parlamento "Oggi la Ministro della Giustizia Cancellieri, rispondendo ad una precisa domanda, ha detto che l’amnistia per risolvere i problemi penitenziari sarebbe assolutamente auspicabile. Ma il Guardasigilli sa bene che amnistia ed indulto sono provvedimenti che appartengono al Parlamento, per cui è improvvido come fa qualcuno di sollecitare sistematicamente il Ministro Cancellieri ad assumere una o tutte e due i citati provvedimenti. Certo è che l’emergenza carceri è sotto gli occhi di tutti e servono necessariamente adeguate strategie di intervento. Non crediamo che l’amnistia, da sola, possa essere il provvedimento in grado di porre soluzione alle criticità del settore. Quel che serve sono vere riforme strutturali sull’esecuzione della pena: riforme che non vennero fatte con l’indulto del 2006, che si rileverò un provvedimento tampone inefficace. Il sovraffollamento degli istituti di pena è una realtà che umilia l'Italia rispetto al resto dell'Europa e costringe i poliziotti penitenziari a gravose condizioni di lavoro". Lo dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa organizzazione di Categoria, commentando le parole del Ministro della Giustizia a Radio Radicale. Capece sottolinea come sia giunto il tempo “che la classe politica rifletta seriamente sulle parole spesso dette dal Capo dello Stato sulle criticità penitenziarie e si intervenga quindi con urgenza per deflazionare il sistema carcere del Paese, che altrimenti rischia ogni giorno di più di implodere. Il personale di Polizia Penitenziaria è stato ed è spesso lasciato da solo a gestire all'interno delle nostre carceri moltissime situazioni di disagio sociale e di tensioni, 24 ore su 24, 365 giorni all'anno. Torniamo a sollecitare l’adozione di riforme strutturali, espellendo i detenuti stranieri per fare scontare la pena inflitta nelle carceri dei Paesi di provenienza e facendo scontare ai tossicodipendenti la reclusione in strutture per la disintossicazione, depenalizzando anche i reati minori e potenziando maggiormente il ricorso all'area penale esterna. Sul progetto dei circuiti penitenziari studiato dall’Amministrazione penitenziaria non ci sembra la soluzione idonea perchè al superamento del concetto dello spazio di perimetrazione della cella e ad una maggiore apertura per i detenuti deve associarsi la necessità che questi svolgano attività lavorativa e che il Personale di Polizia penitenziaria sia esentato da responsabilità derivanti da un servizio svolto in modo dinamico. Oggi tutto questo non c’è ed il rischio è che un solo poliziotto farà domani ciò che oggi lo fanno quattro o più Agenti, a tutto discapito della sicurezza. Il progetto elaborato dal Capo DAP Tamburino e dal Vice Capo Pagano in realtà non prevede affatto lavoro per i detenuti e mantiene il reato penale della colpa del custode. E’ quindi un progetto basato su basi di partenza sbagliate e non è certo abdicando al ruolo proprio di sicurezza dello Stato che si rendono le carceri più vivibili”. Giustizia: rimpatrio dei detenuti stranieri? per ognuno il costo va dai 10 ai 20mila euro di Franca Selvatici La Repubblica, 21 agosto 2013 Per rimpatriare un ladro di appartamenti di nazionalità cilena, che doveva scontare nel carcere fiorentino di Sollicciano poche settimane di pena residua, l’ufficio immigrazione della questura di Firenze ha speso 23 mila euro. Il denaro, servito per acquistare da una agenzia di viaggi convenzionata tre biglietti aerei per Santiago del Cile - uno di sola andata per il detenuto e due di andata e ritorno per i poliziotti che lo hanno scortato - proviene dal “fondo rimpatri” della prefettura, che gestisce le somme messe a disposizione dal Ministero dell’Interno per rimandare nei Paesi di origine i detenuti extracomunitari. Il “fondo rimpatri” si alimenta in parte con il denaro versato dagli immigrati per ottenere il permesso di soggiorno, in parte con stanziamenti dell’Unione Europea. La questura ha già avviato gli accertamenti interni e la Procura della Corte dei Conti di Firenze ha annunciato l’apertura di un’istruttoria: i magistrati contabili vogliono capire se il “servizio di accompagnamento” in terra cilena eseguito lo scorso 5 agosto abbia comportato uno spreco di soldi pubblici. L’involontario motore dell’intera vicenda si chiama José Manuel Niera Portugues, ha 20 anni, è cileno. In Italia senza permesso di soggiorno, il 21 marzo scorso viene arrestato in flagranza con un bottino di gioielli e orologi appena rubati in una villetta alla periferia di Firenze. Il 23 aprile patteggia una pena di 6 mesi di reclusione e 400 euro di multa. Il giudice ritiene che sia socialmente pericoloso e che ricorrano “le condizioni per sostituire la pena detentiva e pecuniaria con la misura dell’espulsione immediata”. Si mette dunque in moto la procedura di espulsione. La questura ottiene dal Viminale il permesso di scortare il detenuto. Poi vengono acquistati i biglietti. Con ogni probabilità in altri giorni, in altri orari e con altre rotte e scali, le spese sarebbero state inferiori, anche di molto. Però nessuno avanza obiezioni. L’impressione è che questo strumento, che potrebbe essere un toccasana per le carceri che scoppiano, non sia stato sottoposto a una attenta revisione di spesa. Da Firenze nel 2013 sono stati rimpatriati 21 detenuti di cui 5, ritenuti pericolosi, con la scorta di polizia: oltre al cileno, un kosovaro, 2 marocchini e un albanese. Sebbene gli ultimi 4 siano stati accompagnati in Paesi relativamente vicini, la spesa media per ciascuno dei 5 rimpatri è stata di 10 mila euro. Nelle carceri italiane il 31 luglio erano presenti 64.873 detenuti, di cui 22.744 stranieri. Ogni detenuto costa allo Stato circa 3.500 euro al mese. I rimpatri potrebbero far respirare le carceri, far risparmiare lo Stato e favorire il reinserimento degli stranieri in patria. Ma non funzionano, non solo per i costi ma anche perché le norme su espulsioni e trasferimenti sono un guazzabuglio. Ci sono le espulsioni amministrative e quelle disposte dalla autorità giudiziaria come misura di sicurezza, oppure come sanzione sostitutiva della pena, cioè come misura alternativa alla detenzione. E poi c’è il trasferimento delle persone condannate con sentenza definitiva disposte a scontare la pena in patria. Questo istituto presuppone accordi bilaterali e di regola le spese sono a carico dello Stato che riceve il detenuto. L’Italia ha stipulato nove accordi, ma le procedure sono così complesse che nel 2012 è stato possibile trasferire soltanto 121 detenuti e nel 2013 appena 82. Albania, Kosovo o Marocco: ogni rimpatrio ne costa diecimila Con le carceri che scoppiano, il rimpatrio dei detenuti stranieri dovrebbe avere una funzione deflattiva, consentire risparmi, migliorare la sicurezza e favorire il reinserimento degli stranieri in patria. Molto interessante, ma non funziona. Intanto, le norme sulle espulsioni e sui trasferimenti sono un guazzabuglio. E poi c’è qualcosa che non quadra nelle spese per i rimpatri. Nel 2013 da Firenze sono stati rimandati nei Paesi di origine 21 detenuti, di cui 5 con la scorta perché dichiarati pericolosi: un kosovaro, due marocchini, un albanese, un cileno. I primi quattro sono stati accompagnati in paesi relativamente vicini all’Italia, eppure la spesa media complessiva è stata di 10 mila euro. Urge una attenta revisione della spesa. Quanto alle espulsioni, c’è l’imbarazzo della scelta. C’è quella amministrativa, disposta dal ministro dell’Interno o dal prefetto, che colpisce gli stranieri privi di permesso di soggiorno e deve essere convalidata dal giudice di pace. Poi ci sono tre tipi di espulsioni disposte dalla autorità giudiziaria, cioè dai giudici: come misura di sicurezza, come sanzione sostitutiva della pena, come misura alternativa alla detenzione. E infine esiste il trasferimento delle persone condannate con sentenza definitiva, se esse prestano il consenso a scontare la pena in patria e se vi è accordo fra lo Stato che le ha condannate e lo Stato di origine. Negli istituti di pena italiani erano presenti al 31 luglio 64.873 detenuti, di cui 22.744 stranieri (contro una capienza regolamentare di 47.459). In Toscana gli stranieri sono più della metà dei detenuti: 2.200 su 4.135 (contro una capienza di 3.263 posti). Sulla carta, dunque, espulsioni e trasferimenti potrebbero rivelarsi un vantaggio reciproco per i reclusi stranieri e per lo Stato italiano. Invece niente. Il ministro della giustizia Anna Maria Cancellieri ha recentemente confermato, parlando alla Camera, che il trasferimento in patria dei detenuti condannati potrebbe ridurre il sovraffollamento delle carceri italiane. Ma occorre rivedere gli accordi già stipulati con nove Paesi per accelerare le procedure, e stipularne di nuovi, soprattutto con gli Stati nordafricani da cui proviene la maggior parte dei detenuti stranieri. Di fatto finora i trasferimenti dei condannati sono andati avanti con il contagocce: in tutta Italia ce ne sono stati 131 nel 2012 e 82 fino al 18 luglio 2013. Se poi scendiamo sul terreno più brutale delle convenienze economiche, bisogna valutare quanto costa una persona reclusa nelle carceri italiane e raffrontare la spesa con i costi di una espulsione o di un trasferimento. Secondo i dati del Ministero della Giustizia, il costo medio giornaliero di un detenuto nel 2011 è stato pari a 112,81 euro, così suddivisi: 98,95 euro di costi per il personale, 4,03 per il funzionamento delle strutture, 6,48 per il mantenimento, l’assistenza, la rieducazione e il trasporto dei detenuti, 3,35 per gli investimenti. Su base mensile la spesa dello Stato per ogni detenuto ammonta a circa 3.500 euro. Espulsioni e trasferimenti degli stranieri potrebbero ridurre sia il sovraffollamento che i costi. A patto, però, che le relative spese siano ragionevoli. Giustizia: “Soft”, il nuovo progetto per il trattamento dei detenuti per reati sessuali di Diana Caterina Ferrara www.ladyo.it, 21 agosto 2013 Soft sta per “Sex offenders full treatment” (trattamento completo per gli autori di reati sessuali), il programma, che è in attesa dei fondi europei, potrebbe abbattere la recidiva dei sex offendersdal 17,3% al 3,2%, grazie ad un intervento congiunto di criminologi, psicologi e psichiatri durante e dopo la pena. Sono coinvolti 400 detenuti sui 2000 che hanno condanne di questo tipo, reclusi nelle carceri di Rebibbia e Cassino nel Lazio, San Vittore, Opera e Bollate in Lombardia, Pesaro nelle Marche e, in Campania, Secondigliano e Poggio Reale. A capo del progetto Angiolo Marroni, garante dei diritti dei detenuti del Lazio. Soft non prevede l’utilizzo di psicofarmaci, si basa, invece, sulla teoria del “Good lives model”, elaborata per la prima volta nel 2002 dallo psicologo neozelandese Tony Ward secondo cui vi è la necessità di “ricostruire la forza interiore e le capacità dei soggetti” i quali offendono perché “cercando di ottenere qualcosa in più nelle loro vite, spinti da un desiderio interiore del tutto umano e naturale ma che diventa fonte di pericolo quando portato avanti da persone deboli e con problemi interiori rilevanti” . Siamo davanti ad una modalità del tutto differente da quella prevista per la castrazione chimica vietata in Italia nonostante sia stata più volte proposta. È stato il Cipm (Centro italiano per la promozione della mediazione) a introdurre per la prima volta in Italia, 6 anni fa, percorsi di trattamento per i sex offenders reclusi, a Bollate. È importante, dice il presidente del Centro Paolo Giulini, prendere in carico anche chi gli abusi li ha commessi: solo così, infatti, si combatte la recidiva. L’isolamento in carcere è la prima cosa da combattere per evitare “l’instaurarsi di un circolo vizioso in cui disagio, rancori, violenze fisiche e verbali contribuiscono ad aggravare situazioni problematiche che spesso esitano in vere e proprie patologie”. Lettere: ciò che accade tra le sbarre produce troppi luoghi comuni di don Marco Pozza (Cappellano del carcere Due Palazzi di Padova) Il Mattino di Padova, 21 agosto 2013 Sono giorni che esco dal carcere con la mestizia nel cuore: un detenuto che si suicida lascia sempre uno strascico di domande irrisolte dietro di sé. Che ormai sia divenuta un’abitudine sentir parlare di suicidi in carcere, di clandestini che sbarcano sulle coste e di persone che muoiono sotto le bombe, ciò non toglie la gravità di gesti che chiedono una riflessione matura. La mia mestizia, però, affonda le sue radici altrove: in quello spazio pubblico e democratico di chi commenta nel sito del giornale gli articoli di cronaca. Uno spazio che spesso mostra come sia più facile sposare l’imbarbarimento del senso comune piuttosto che cimentarsi nell’elaborazione di un pensiero libero e liberante. Premetto che essere “parroco” di un gruppo di detenuti non significa giustificare il male che qualcuno di loro ha commesso - il male non va mai giustificato, ndr - ma cercare di comprendere il perché di un percorso che ad un certo punto ha deragliato. O, per lo meno, creare le condizioni favorevoli perché una persona possa rientrare in se stessa e meditare sull’accaduto. Il che non è cosa semplice. C’è una parte di società che è stata ferita, a volte mortalmente: la comprensione di un delitto non può mai prescindere dalla considerazione della loro presenza, pena un’errata concezione della misericordia cristiana, quella che non cancella la giustizia. Consapevoli, anche, che un’amnistia o un indulto improvvisato arrecherebbero più danno che benefici ad una società se prima non fosse organizzata una rete di accoglienza all’infuori delle sbarre facendo diventare patrimonio comune uno stile maturo di riflessione anche su questa sfaccettatura fastidiosa dell’umano. Chi sbaglia è giusto che per un certo tempo stia in un luogo separato dalla società: ma questo luogo non può essere il carcere com’è oggi. Abita qui la mestizia del mio pensiero: constatare, di fronte alla complessità di un problema enorme come questo, l’acidità dei contenuti, la volgarità dei concetti, l’usura di luoghi comuni - “la chiave nel mare”, “la televisione dentro la cella”, “la galera da scontare a casa propria” - che impediscono una seria riflessione. Con l’aggiunta di un fattore non trascurabile: certe affermazioni sono delle emerite sciocchezze che escono dalla bocca di chi ignora ciò che realmente è un carcere e ciò che vi accade al suo interno, dove una leggenda raccontata non necessariamente è una storia verificata. Riconosco l’impopolarità della mia riflessione: l’esasperazione della gente di fronte a gesti di delinquenza è anche la mia esasperazione, la fatica di un gesto di perdono è anche la mia, il linguaggio della rivalsa nemmeno a me talvolta è estraneo. Con una differenza, forse: la percezione che tali ragionamenti conducono ad un vicolo cieco. È facile commentare nascosti dietro un sito o in sacrestia: più arduo mettersi in gioco accettando di conoscere una realtà-tabù, sforzandosi di capirla. È semplice parlare di rieducazione, più complicato chiedersi il senso del rieducare un detenuto se poi trova una cultura maleducata ad attenderlo. Ha senso parlare di cammino in una civiltà se certe guide che sono a capo sono cieche? Come interpretare il fatto che certi detenuti chiedono l’espulsione e viene loro ostinatamente complicata? Perché continuare a parlare del desiderio di svuotare le carceri quando l’indotto economico generato è così proficuo che nessuno vorrebbe cedere la sua parte? Si parla di “certezza della pena”: anche taluni di loro, dopo anni d’attesa, vorrebbero essere a conoscenza dell’entità e della fisionomia della loro pena. Le soluzioni non sono sempre facili come nel calcio-mercato o nei cruciverba. Mi preoccupa il ragionare per “luoghi comuni”, soprattutto in questioni di confine: è un percorso che blocca lo sviluppo della coscienza, di un singolo come di una collettività. E, oltretutto, impedisce a troppa gente di rendersi conto che la traiettoria della sua vita viaggia più vicina al carcere di quanto potrebbe immaginare. Forse aveva ragione Nelson Mandela quando scrisse: “la verità è che non siamo ancora liberi: abbiamo acquistato soltanto la facoltà di essere liberi”. Una libertà di pensiero che passa inevitabilmente anche attraverso la denuncia di un imbarbarimento culturale a cui approdano certi slogan che hanno attecchito, nel senso più botanico del termine, nel ragionare della gente comune. Con l’avvallo silenzioso di una certa chiesa, anche diocesana: un atteggiamento rischioso, dal momento che la Provvidenza sembra talvolta non avere nessun pudore. Liguria: massima vigilanza anche in carceri per tensioni a sfondo religioso in nordafrica www.savonanews.it, 21 agosto 2013 “L’inasprimento delle tensioni in Egitto impone inevitabilmente al Personale di Polizia Penitenziaria una particolare vigilanza ed attenzione verso quei detenuti originari di quei Paesi che sono attualmente ristretti in carceri liguri. Sono attualmente meno di 10, concentrati nelle Case circondariali di Marassi, La Spezia e Sanremo, e, se pure non si segnalano particolari tensioni, è possibile, come peraltro già avvenuto in passato per i detenuti in Italia e in Liguria di altri Paesi esteri, che chiederanno telefonate aggiuntive verso i familiari che vivono nei Paesi d’origine. Certo, va detto che le tensioni nei vari Paesi mediorientali potrebbe avere risvolti inquietanti anche all’interno delle carceri italiane, considerati da un lato l’altissimo sovraffollamento delle celle e l’altrettanto elevato numero di detenuti stranieri e dall’altro il fatto che oggi nei nostri penitenziari italiani vi sono più detenuti di religione islamici che non cattolici o aderenti ad altri credi. La cella potrebbe diventare il luogo in cui, sempre più spesso, piccoli criminali vengono tentati da membri di organizzazione terroristiche detenuti. Del resto, già nel nostro recente passato le Brigate Rosse avevano inteso le carceri quali luoghi di lotta e proselitismo. Analogo stratagemma potrebbe essere messo in atto oggi da esponenti del terrorismo islamico, i quali cercano così di mimetizzare la propria attività infiltrando propri adepti fedeli e non sospetti, in quanto occidentali. Oggi abbiamo in Italia 22.744 detenuti stranieri sui circa 65mila presenti e quasi 11mila appartengono a Paesi dell’Africa; 458 gli egiziani detenuti in Italia, che pur sotto controllo vivono comprensibilmente con ansia e preoccupazione il corso degli eventi. Il Governo non perda dunque tempo ed incrementi il grado di attuazione della norma che prevede l’applicazione della misura alternativa dell’espulsione per i detenuti stranieri i quali debbano scontare una pena, anche residua, inferiore ai due anni; potere che la legge affida alla magistratura di sorveglianza”. Ne è convinto Roberto Martinelli, segretario generale aggiunto del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, il primo e più rappresentativo della Categoria, che spiega: “I nostri istituti di pena ospitano oggi una popolazione detenuta di origine extracomunitaria estremamente vasta, variegata, rabbiosa e soprattutto sconosciuta: il 40% dei 65mila detenuti presenti, percentuale che in Liguria arriva a raggiungere il 60% dei presenti. Di pochi di questi detenuti conosciamo i reali collegamenti con l’esterno: non solo, ma questi soggetti fanno della comune situazione di detenzione un valido strumento di predicazione verso i soggetti più deboli e diseredati ristretti con loro. Da tempo, ad esempio, esprimiamo preoccupazioni per le recenti conversioni, in carcere, di detenuti italiani all’Islam. Per taluni, che a causa delle loro azioni sono stati puniti dalla società in cui vivono e sono nati, può risultare atto di emenda abbracciare un nuovo credo e così avviare una facile via per la costruzione di una nuova identità sociale, favorita dall’idealizzazione di cui viene a godere tale atto: attribuendo al nuovo credo la capacità di riconoscere un valore a tutto ciò che la società di provenienza sanziona. Così, ogni diseredato ben indottrinato può facilmente autoassolversi per il proprio essere deviante per il solo fatto di vedersi riconosciuto un ruolo all’interno della nuova società in cui entra abbracciandone il credo e lottando per Allah. È già accaduto nel passato: un pregiudicato siciliano, convertitosi all’Islam in carcere dov’era detenuto per reati minori, fece esplodere due bombole di gas nel metrò di Milano (11 maggio 2002) e nei templi della Concordia di Agrigento (5 novembre 2001). Auspichiamo che il Governo ed il Ministero della Giustizia assumano urgenti provvedimenti anche su questa pericolosa criticità in un contesto già particolarmente difficile come è quello penitenziario”. Padova: rivolta detenuti, il centro sociale Pedro convoca un presidio davanti al carcere Il Mattino di Padova, 21 agosto 2013 Il centro sociale Pedro ha convocato un presidio davanti al carcere, per lunedì prossimo, in segno di solidarietà con i detenuti che protestano dopo il suicidio di un ventenne dietro le sbarre, avvenuto nei giorni scorsi, in circostanze non del tutto chiare, su cui è stata aperta anche un’inchiesta della magistratura. I detenuti sostengono che il ragazzo si è impiccato dopo essere stato picchiato da una guardia. E non si capisce bene dove e come abbia potuto trovare i lacci da scarpe utilizzati per strangolarsi, posto che essi non dovrebbero neppure essere reperibili in un penitenziario. “Ancora una volta sui giornali del nostro paese, che si dice civile, leggiamo fatti di cronaca quali la rivolta nel carcere di Padova, nel Cie di Gradisca e Capo Rizzuto - attacca la nota diffusa oggi pomeriggio dal Pedro. Sono episodi che portano alla luce una situazione che non è diventata grave adesso, ma che si protrae ormai da troppi anni e che troppo spesso pervade il dibattito pubblico solo nel momento in cui si trasforma in tragedia”. “Il suicidio nel carcere di Padova della scorsa settimana, il migrante lanciatosi dal tetto del Cie di Gradisca D’Isonzo ricoverato ancora in condizioni gravissime, sono solo la punta di un iceberg. Dietro le alte mura di cemento di tutte le strutture di detenzione, si chiamino esse “carceri o Centri di identificazione ed espulsione”, gli episodi di autolesionismo e di violenza sono quotidiani”. “In questi luoghi che sono posti accuratamente fuori dalla vista e che tutti noi percepiamo così lontani dalla nostra quotidianità, le condizioni di vita, perché di vita si tratta, sono disumane. Il sovraffollamento che continuamente viene denunciato stupisce se si pensa che la percentuale di crimini “gravi” nel nostro paese è diminuita negli anni. Esso non è altro che la diretta conseguenza di politiche che aprono , anzi spalancano le porte dei carceri a chi commette “nuovi” reati, e che sono sintomo dell’incapacità di rispondere da parte delle istituzioni al disagio sociale ed economico, crescente nell’attuale crisi”. “Oggi l’unica scelta possibile e praticabile che tutti insieme “dobbiamo” pretendere è un atto di Amnistia, ma che lasciato solo diverebbe un palliativo temporaneo. Infatti, a nulla servirebbe se non accompagnato dalla depenalizzazione dei reati connessi alle “indegne” leggi Bossi-Fini, Fini Giovanardi ed ex Cirielli, oltre alla immediata abrogazione delle stesse e alla cancellazione del reato di Clandestinità”. “Esiste un altro aspetto drammatico, presente dentro e fuori il carcere: la violenza perpetrata dalle cosiddette “forze dell’ordine” che invece troppo spesso si trasformano in carnefici”. Questa la nota del Pedro che fa appello a tutti a presentarsi lunedì davanti al carcere di Padova alle ore 15. Cagliari: 520 detenuti, a Buoncammino è sempre emergenza sovraffollamento La Nuova Sardegna, 21 agosto 2013 Erano 521 nel 2010, oggi sono 520. Solo tre detenuti in meno a Buoncammino e da un anno all’altro è come se non fosse successo nulla, con gli stessi problemi e la stessa emergenza sovraffollamento, unita ad una situazione logistica e igienico sanitaria che rende ormai necessario il trasferimento a Uta. Solo che per il nuovo carcere, tra ritardi e burocrazia, occorrerà attendere ancora molto, un anno o forse più. Ma una novità c’è: quest’anno, niente ispezione di Ferragosto, niente visita dei consiglieri regionali o dei parlamentari perché tutto è troppo simile al passato e anche denunciare un allarme forse non serve più. Le cifre danno l’esatta misura di una situazione ormai ingestibile: la capienza regolamentare dei posti in carcere è di 332, quella tollerata raggiunge al massimo quota 450 e dunque il sovraffollamento è sempre la caratteristica di un disagio che ormai si tocca con mano. Il disagio come situazione quasi fisiologica e che quasi non interessa più. Non basterà nemmeno il provvedimenti svuota-carceri del Guardasigilli di turno, al massimo usciranno in 50. E non è servito il piano straordinario per le nuove strutture. Nulla è cambiato e purtroppo Buoncammino è il migliore esempio di un dramma che coinvolge tutto il sistema penitenziario. Celle dove è un problema pure stare in piedi, igiene come un optional e attività di socializzazione scarse. Se non è l’anno zero, poco ci manca: anche perché se i detenuti vivono una situazione difficile, non è che gli agenti di polizia penitenziaria stiano meglio. La pianta organica è di 267 agenti, attualmente sono in servizio meno di 200 agenti, costretti a sopportare turni di lavoro pesantissimi e spesso a saltare i riposi pur di non creare ulteriori problemi. Gli aiuti in termini di agenti che dovevano arrivare dal continente sono stati minimi, i piantonamenti fuori dal carcere dei detenuti malati costano tantissimo come i trasferimenti degli imputati a Palazzo di giustizia. Risultato? Si va avanti con il volontariato per non far peggiorare la situazione. Vigevano (Pv): si chiama “Sharing”, la cooperativa sociale che dà lavoro dopo il carcere La Provincia Pavese, 21 agosto 2013 Si chiama “Sharing”, ovvero “condivisione” in inglese, ed è il nome della cooperativa sociale mista nata da una costola dell’associazione vigevanese “Vivere con Lentezza”, che si occupa tra le altre cose della riabilitazione dei detenuti. “È statisticamente provato che un ex carcerato che è riuscito nel suo processo riabilitativo ha solo il 30% di probabilità di ritornare a una vita di crimine, a differenza dell’80% di un altro che è stato lasciato a se stesso - spiega Bruno Contigiani, presidente dell’associazione - ma non parlerei di emergenza, piuttosto di un modo per risparmiare costi alla collettività e dare lavoro”. Obiettivo è quello di fornire gli strumenti adatti al reinserimento nella vita quotidiana non solo a carcerati e altre fasce svantaggiate come handicappati e tossicodipendenti, ma anche a disoccupati. Sharing si prefigge di raggiungere questo obiettivo attraverso un doppio binario: una serie di laboratori formativi, principalmente di artigianato artistico (legatoria) e di attività quali ufficio stampa, e un filo diretto con le aziende in cerca di manodopera tramite alcuni fra gli stessi soci più intraprendenti. “Vogliamo spingere i nostri soci a diventare tutori a loro volta, a fondare le loro piccole imprese e allungare la catena solidale - racconta la presidentessa di Sharing, Muna Guarino - riguardo alla forma della cooperativa, è solo perché garantisce una maggior tutela giuridica rispetto a una onlus”. Volterra (Pi): corso alberghiero in carcere, studenti e detenuti insieme a lezione Il Tirreno, 21 agosto 2013 Nella cucina del carcere si farà la parte pratica, quella tra fornelli, ricette, sapori e tecniche. All’interno della casa di reclusione, invece, le lezioni teoriche. Tutti i giorni, dalle 13 alle 18 dal lunedì al venerdì, più il sabato mattina detenuti a studenti dell’Itcg Ferruccio Niccolini di Volterra studieranno, gomito a gomito per il nuovo corso alberghiero a indirizzo enogastronomico. Il prossimo 9 settembre la prima campanella: dieci sono gli alunni, tutti dell’Alta Valdicecina, che optano per la novità formativa, insieme ad altrettanti detenuti della media sicurezza. “Ancora una volta il carcere di Volterra dimostra di essere parte integrante del territorio e questa volta lo fa insieme a un istituto dove da 20 anni si diplomano i nostri carcerati”, premette la direttrice del Maschio etrusco, Maria Grazia Giampiccolo. L’entusiasmo per questa occasione di formazione in più, che mancava sul territorio, si tocca con mano. “Soprattutto se si pensa che si tratta di una zona che vive di turismo e i ragazzi che usciranno da questo corso avranno delle competenze nel settore alberghiero e della ristorazione specifiche, in modo da far aumentare la cultura dell’accoglienza”, continua. Aggiunge: “per questo la città tutta ha accolto questa iniziativa ottimamente, a cominciare dalle associazioni di categoria Confesercenti e Confcommercio, così come il Comune”. Formazione on the job, quindi. “La nostra offerta didattica da quest’anno si arricchisce di un corso professionale specifico, quanto mai necessario sul territorio, considerata la vocazione”, rincara la dirigente scolastica, Ester Balducci. “Iscritta anche una ragazza di 15 anni, quest’anno partiamo così, in attesa del riconoscimento da parte della Regione di corso triennale: in questi giorni faremo richiesta”. Il progetto didattico ha il benestare di Ministero: ad insegnare al nuovo corso enogastronomico, per le materie di cultura generale, saranno gli insegnanti del Niccolini, tra cui il veterano Alessandro Togoli. Il Ministero assegna i docenti per le materie specifiche: enogastronomia e cucina, servizio in sala e servizio turistico. Dentro e fuori: le maglie si allargano e le distanze si accorciano. Il progetto del corso getta le sue radici (e l’idea) nelle tradizionali cene galeotte, ormai diventate un appuntamento cult del carcere di Volterra, conosciute ben oltre confine. Detenuti chef, accompagnati dal cuoco stellato di turno per serate a sfondo benefico. “Fino ad ora grazie a queste attività - fa il punto la direttrice del carcere - sono stati assunti 20 detenuti permessanti nelle attività di ristorazione del territorio”. Non sono da escludere presenze di docenze esterne, al corso, anche di chef a 5 stelle che hanno partecipato alle Cene galeotte. “Leonardo Romanelli è il coordinatore enogastronomico delle Cene galeotte e appoggia la creazione di questo corso”, chiude. Sassari: Osapp; sventato tentato suicidio in cella nel nuovo carcere di Bancali Agi, 21 agosto 2013 Un suicidio in cella tramite impiccagione è stato scongiurato la scorsa notte nel nuovo carcere di Sassari, a Bancali, grazie al tempestivo intervento degli agenti e del medico. Lo ha reso noto è il segretario generale aggiunto dell’Osapp, Domenico Nicotra, che sottolinea come “non sia la prima volta che simili accadimenti si registrano nell’istituto sardo e non è la prima volta che lo stesso detenuto pone in essere tentativi di suicidio. Se non verranno presi urgenti procedimenti per incrementare il personale”, avverte, “non sempre la dea bendata potrà salvare la vita ai detenuti che decidono di compiere l’estremo atto”. Lecce: Referendum Radicali, raccolta di firme nella sezione femminile del carcere Notizie Radicali, 21 agosto 2013 Mercoledì, 21 agosto, dalle 9 alle 10.30, nella Sezione Femminile del Carcere di Lecce di Borgo San Nicola, i Radicali organizzano una raccolta firme a sostegno dei 12 Referendum per una Giustizia Giusta, i diritti umani, la vita e la libertà nel nostro Paese. L’iniziativa nel Carcere di Borgo San Nicola segue quella effettuata nel giorno di Ferragosto nelle sezioni maschili che ha ottenuto un ottimo risultato con oltre 340 firme raccolte. Alla fine, intorno alle ore 11.00, davanti ai cancelli del carcere si svolgerà un incontro con la stampa durante il quale i dirigenti Radicali Sergio D’Elia ed Elisabetta Zamparutti, insieme ai militanti radicali, daranno conto dell’esito della raccolta firme tra le detenute. L’obiettivo è raccogliere almeno 500 mila firme entro metà settembre, perché nella primavera del 2014 gli italiani possano essere chiamati a votare per dodici riforme possibili che, secondo i Radicali, il Parlamento non metterà mai all’ordine del giorno perché sgradite ai potenti e che solo una nuova, immediata mobilitazione - istituzionale, civile, sociale, nonviolenta - attraverso i Referendum popolari può imporre all’agenda della politica. Immigrazione: la colpa di Moustapha… morire da “ospite” e non da detenuto di Alessandro Robecchi Il Fatto Quotidiano, 21 agosto 2013 C’è una legge, in Italia, che porta il nome di due cadaveri politici. È la legge Bossi-Fini, evidentemente in grado di durare più dei due tizi che le hanno dato un nome. E siccome da queste parti ci piace giocare con le parole e con l’ipocrisia, la legge è stata via via peggiorata, prima con l’istituzione dei Cpt, poi con la loro trasformazione in Cie. Traduco per i non esperti: Cpt significava “Centri di Permanenza Temporanea”, cioè luoghi chiusi, recintati e controllati, in cui rinchiudere gli immigrati irregolari. La formula deve essere sembrata troppo umanitaria, perché a un certo punto, il Cpt sono diventati Cie, cioè “Centri di Identificazione ed Espulsione”. Come si vede, due tentativi molto elaborati di trovare sigle che non contengano le parole “carcere”, “galera”, “arresti”. In sostanza, un modo per trattenere come detenute persone che non hanno commesso alcun reato. Siccome le ipocrisie italiane sono come le ciliegie, una tira l’altra, le persone che stanno rinchiuse nei Cie vengono denominate “ospiti”, invece che “detenuti”. Fanno notare le cronache come molti di loro, prima di essere “ospiti” dei Cie sono stati veramente “detenuti” nelle patrie galere. Colpevoli, la gran parte, del reato di immigrazione clandestina, cioè colpevoli di non avere un permesso di soggiorno, e di averlo perso perché hanno perso il lavoro. Cioè, traduco per chi non capisce il paradosso: prima ti arrestano perché sei clandestino. Ti schedano, ti prendono le impronte digitali e ti identificano. Poi ti sbattono in un centro per l’identificazione per identificarti un’altra volta e mandarti via. Si dirà che uno Stato di diritto si valuta anche da come tratta i suoi prigionieri. Ecco: i Cie vengono gestiti da chi vince gare al massimo ribasso, per cui spesso le strutture, l’assistenza sanitaria, le condizioni igieniche sono ben sotto il limite della decenza. Peggio delle carceri, dicono i deputati che sono riusciti a visitare qualcuno di questi centri, e “peggio delle carceri italiane” è una frase che fa paura. Moustapha Anaki, il giovane marocchino morto l’altro giorno al Cie di Isola Capo Rizzuto si è sentito male (cuore? altro? Si aspetta l’autopsia) e non è stato soccorso in tempo. Era in Italia da nove anni (qualcuno scrive sette). È solo l’ultimo di molti e molti casi: atti di autolesionismo dettati dalla disperazione, suicidi, morti per mancata assistenza. Naturalmente, essendo la questione politica (come trattiamo chi cerca di vivere qui?), il cerchio del dibattito si allarga, si allarga, poi scende lentamente nel gorgo del “discorso è un altro”, della “questione strutturale”, del “valutiamo con attenzione”, mentre i Moustapha continuano a morire nei Cie, o a deperire in galere che non si chiamano galere per il solo motivo che ospitano gente che non dovrebbe stare in galera. Nel frattempo, rimbalza sui giornali il sacrosanto dibattito sulla disumanità del carcere, specie del carcere preventivo. Il caso di Giulia Ligresti, per esempio, tiene banco. Lei rifiuta il cibo, legge e rilegge gli atti dell’accusa e i suoi avvocati dicono che è “incompatibile con il regime carcerario”. Massima solidarietà. E però, peccato, che nessuno abbia fatto titoli, o interviste, o mezze paginate di trasecolante scandalo per il signor Moustapha Anaki, che in carcere ci stava, anche se non lo chiamano carcere, che era talmente “incompatibile” che in carcere c’è morto, e che non aveva nemmeno il bene di leggere gli atti d’accusa. Perché un’accusa, nel suo caso, non esisteva. Immigrazione: Manconi (Pd): Cie sono un fallimento mancano garanzie di diritti umani di Annalisa d’Aprile La Nuova Sardegna, 21 agosto 2013 I Cie sono un “fallimento” perché sono delle “carceri” dove mancano “persino le garanzie minime di tutela dei diritti umani”. È chiara la posizione di Luigi Manconi, presidente della commissione dei Diritti umani del Senato, che ieri ha chiesto un’ispezione al centro di identificazione ed espulsione di Gradisca d’Isonzo (Gorizia), teatro giorni fa di una protesta dei migranti. Senatore, cosa non ha funzionato in questi centri? “Il sistema dei Cie è inadeguato anche rispetto al suo fine principale, dal momento che poco più del 40% dei trattenuti vengono effettivamente rimpatriati. Dunque un enorme investimento di energie e denaro, uno scialo di sofferenza il cui risultato non è adeguato al suo intento”. Cosa dovevano essere i Cie e, invece, cosa sono diventati? “Sono nati per consentire l’espulsione delle persone che non avevano diritto di circolare liberamente nell’area Schengen. All’inizio prevedevano una permanenza di 30 giorni, poi arrivata a 18 mesi: segno di una struttura che si è trasformata in un carcere per giunta privo di quel tanto di garanzie che il carcere offre. Inoltre, per ragioni economiche, si è passati ad una fase di riduzione estrema delle risorse, con la gestione dei Cie assegnata attraverso bandi al ribasso. Il centro di Capo Rizzuto ad esempio, prevedeva una spesa pro capite e pro die di 21 euro al giorno: una cifra ridicola che rende il servizio carente e le condizioni di vita disumane”. Lei ne ha visitati molti, cosa ha visto? “Ho visto persone in condizioni di profonda alienazione, causa di frustrazione e risentimento alla base delle rivolte. Il Cie non è un carcere da un punto di vista giuridico, quindi la comunicazione con l’esterno dovrebbe essere consentita. Così non era in quello di Gradisca, dove avevano proibito l’uso dei cellulari, una decisione totalmente arbitraria. Anche il disegno architettonico dei Cie suggerisce l’idea della cattività, con quelle sbarre alte due-tre metri e quella dimensione di gabbia”. Chi c’è in quelle “gabbie”? “Questa è l’incongruenza più atroce dei centri: non possono essere sottoposte allo stesso regime persone appena uscite dal carcere, che per giunta scoprono di dover subire la pena accessoria dell’espulsione, persone che devono ancora chiedere la protezione internazionale, altre che sono scappate dalle guerre, insieme ad altre ancora che hanno perso il lavoro e con esso il permesso di soggiorno. Tutti loro vivono nell’incertezza e si chiedono: perché sono qui? Quanto ci dovrò restare? E dove andrò dopo? Ecco il contesto di insensatezza dei Cie dove domina su tutto l’incertezza”. Quale dovrebbe essere il ruolo dell’Europa? “Tutti i discorsi sull’accoglienza vanno ricondotti all’interno della Comunità europea. La posizione geografica dell’Italia non può diventare un handicap che deve affrontare da sola. Le politiche sull’immigrazione devono essere europee”. Si parla di rivedere la Bossi-Fini, come? “Bisogna rovesciare l’ideologia di una legge nata col fine principale di escludere e respingere i flussi migratori. L’immigrazione va considerata un’opportunità di sviluppo. Ad esempio, si stima che 2 milioni di stranieri in Italia siano impiegati nella cura di minori e anziani. Ci siamo chiesti come potremmo fare senza di loro?”. Immigrazione: costosi e inutili, ecco perché i Cie sono falliti… di Andrea Rossi La Stampa, 21 agosto 2013 Una ricerca fotografa la realtà dei Centri di identificazione ed espulsione. Non sono carceri ma hanno sbarre e filo spinato. Sono strutture “di passaggio” ma c’è chi ci resta un anno e mezzo. C’è una legge che li istituisce ma nessuna che li regola: ogni prefettura agisce per conto suo. Il ministro per l’Integrazione Kyenge dice che “non si possono trattenere 18 mesi le persone soltanto perché non hanno un documento”. Dice anche che la maggior parte degli immigrati rinchiusi nei Cie, i centri d’identificazione ed espulsione, arrivano dal carcere e sono già identificati. E questo è meno vero. Anzi, è il motivo per cui aver utilizzato per quindici anni i Cie come principale arma di contrasto all’immigrazione irregolare è stato come svuotare il mare con un cucchiamo. Quando nacquero, nel 1998, con la legge Turco-Napolitano, si chiamavano Centri di permanenza temporanea. Dieci anni dopo, il governo Berlusconi cambiò loro nome e ragione sociale: centri di identificazione ed espulsione. Ma i Cie non riescono a fare nessuna delle due cose. Una ricerca del professor Alberto Di Martino, docente di diritto penale alla Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, ha scoperto, dai dati delle prefetture, che sono un’arma spuntata: il 20-30 per cento (a seconda degli anni) di chi vi transita non viene identificato e perciò, trascorsi i termini, torna in libertà. E nemmeno la metà degli immigrati rinchiusi termina il suo viaggio su un aereo che lo riporta in patria. Per aiutare le autorità a dare un nome agli “ospiti” dei Cie nel 2011 si è presa una decisione drastica: estendere da 6 a 18 mesi il periodo massimo di detenzione. Niente da fare; in compenso, complici le condizioni di vita - 6-8 persone in 25 metri quadrati - le fughe si sono moltiplicate: prima, appena due detenuti su cento riuscivano a scappare; dai primi mesi del 2011 le evasioni hanno superato il 7 per cento. Chi non ce la fa, a volte perde la testa, come dimostrano le sempre più frequenti rivolte. Anziché fare progressi, l’efficacia delle strutture è precipitata: dai Cie passano circa 10 mila persone Fanno (un’inezia, secondo le stime in Italia vive oltre mezzo milione di immigrati senza permesso), ma la metà resta in Italia. Detto del 30 per cento rilasciato con un foglio di via perché non identificato, e del 7 per cento di evasi, restano i molti che abbandonano le strutture perché in precarie condizioni di salute e chi dentro i Cie muore. Resta soprattutto un’altra falla nel sistema: un immigrato su dieci vince il ricorso davanti al giudice di pace e torna libero. I Cie non sono efficaci, però costano. Oltre cinque milioni l’anno se ne vanno in burocrazia e spese legali. Ogni immigrato ha diritto al gratuito patrocinio: costo 350 euro più 20 per ogni udienza e 10 per ciascun ordine di convalida. Di Martino ha calcolato che dal momento dell’ingresso in un Cie al rimpatrio si spendono più di 10 mila euro per ciascun “ospite”. È il costo minore. I centri d’identificazione sono 13, per 1.900 posti. Ogni persona costa 55 euro al giorno. Nel 2011 è stato stabilito di ridurre la spesa a 30 euro, con appalti al massimo ribasso, anche a costo di rendere ancora più esplosiva la situazione. La gestione costa comunque 55 milioni l’anno, cifra destinata a lievitare a 97 perché molte strutture verranno ampliate. Uno degli effetti dell’aumento del periodo di detenzione è proprio questo: i posti non sono più sufficienti, se ne devono creare altri 3 mila. Tra il 2008 e il 2012 sono stati spesi 100 milioni per finanziare la costruzione di nuovi posti: 78 mila euro ciascuno. Ne mancano 240 per completare il programma di ampliamento. È una spesa sostenibile? Di Martino sostiene di no. “La percentuale di detenuti, o rimpatriati, paragonata alle stime sul numero di immigrati irregolari in Italia, è incredibilmente bassa: questo mostra l’inefficacia della detenzione come strumento di contrasto”. Immigrazione: Vendola; Cie sono luoghi degradati e lesivi della dignità umana Italpress, 21 agosto 2013 “Tutte le volte che ho visitato un Cie, confesso di aver provato un grande sentimento di vergogna: un luogo così degradato, così umiliante, cosi insopportabilmente lesivo della dignità della persona umana. Ciò che sta avvenendo da giorni e giorni a Gradisca, ciò che è avvenuto al Cie di Crotone è inaccettabile per un Paese civile”. Lo afferma Nichi Vendola, presidente di Sel. “È inaccettabile - prosegue - un luogo di reclusione nel quale non è possibile esercitare neanche i diritti che sono disponibili per i normali detenuti. Io credo che, in ogni caso, il Cie sia in sé una realtà antigiuridica e incivile, figlia di quella cultura feroce quanto inefficace che ha generato un mostro come la Bossi-Fini. Quello che vivono coloro che ne vengono reclusi è un piccolo inferno. Per questo chiediamo al governo di chiudere, per ragioni di igiene pubblico e di decoro istituzionale i Cie presenti nel nostro Paese. Un Paese civile - conclude Vendola - non può tollerare altre tragedie, il governo si adoperi per mostrare al mondo che l’Italia è un Paese capace di accogliere e di rispettare le persone”. Immigrazione: Debora Serracchiani; il Cie di Gradisca va chiuso immediatamente di Elisabetta Reguitti Il Fatto Quotidiano, 21 agosto 2013 Come in un film, hanno atteso il cambio di turno dei poliziotti e che il fragore di un tuono coprisse i loro passi. Sono riusciti a scappare in sei ma ci hanno provato in 20. L’altra notte dal Cie di Gradisca d’Isonzo i fuggitivi sono sgattaiolati dallo stesso tetto sul quale sabato urlavano Li-be-ri e una volta a terra si sono arrampicati sul muro di cinta dileguandosi nel buio. Fuga dal Cie per completare la cronaca che parte dal centro di Capo Rizzuto chiuso per danneggiamenti e rimbalza a Gradisca d’Isonzo con un’unica certezza: basta davvero poco per rendere permeabili e pericolosi i Centri d’identificazione ed espulsione. Un giorno sì e l’altro pure si registrano tentativi di fuga, danneggiamenti o peggio atti di autolesionismo. Per i 64 ospiti-reclusi del centro isontino sono impiegati poliziotti, carabinieri e militari. Inoltre le strutture si prestano spesso a pratiche illegali come fatturazioni fasulle, oggetto peraltro delle 13 richieste di rinvio a giudizio proprio per il Cie di Gradisca. Debora Serracchiani, presidente del Friuli Venezia Giulia, come intende muoversi? Il Cie di Gradisca va chiuso e io mi darò da fare in questo senso soprattutto a livello nazionale. Non è accettabile che convivano nella stessa struttura persone che hanno già subito una condanna per reati gravi con altre che magari hanno solo perso il lavoro e che rischiano l’espulsione. I Cie sono contenitori che si finge di non vedere e anche Gradisca è diventata una camera di compensazione del carcere con pesanti ripercussioni sotto molti punti di vista. Oggi a Roma ne parlerò con Manzione sottosegretario con delega all’immigrazione e dopodomani ne discuteremo nel consiglio straordinario che si terrà proprio a Gradisca dove a settembre è prevista la visita della commissione Diritti Umani presieduta dal senatore Luigi Manconi. Detto questo il reato di clandestinità ha prodotto solo cortocircuiti, soprattutto in Italia. E in Europa? L’Europa ha scoperto tardi l’immigrazione e ora sconta una gestione del fenomeno su base singola e nazionale. Persino la normativa dei richiedenti asilo politico è diversa da stato a stato con la conseguenza che i flussi migratori si rivolgono a ingressi più accessibili. Vero è che le espulsioni da noi sono difficili da effettuare perché le nazioni di appartenenza degli irregolari non hanno alcun interesse ad agevolarle. Invocati dalla destra i Cie spesso vengono gestiti da cooperative. Gli immigranti irregolari producono business bipartisan... Questo lo dimostrano i fatti. Ma dia base di tutto c’è la necessità di abrogare la Bossi-Fini per pensare a un serio progetto per regolare il sistema dei flussi immigratori perché non si capisce come mai in altri paesi d’Europa arrivi immigrazione qualificata a differenza di quanto accade in Italia dove ormai è normale ritrovarsi con persone che rianno già subito diverse condanne. Droghe: oltre la sola tossicodipendenza… aumenta il consumo di alcool e psicofarmaci di Riccardo De Facci (Responsabile progetto Riduzione danno Asl Milano) Il Manifesto, 21 agosto 2013 L’Osservatorio europeo di Lisbona registra 85 milioni di consumatori di droghe in Europa con una netta diminuzione dei consumi classici (eroina via endovenosa) e un aumento dei consumi legali, alcool e psicofarmaci, e circa 77 milioni di consumatori di cannabis, 14,5 milioni di cocaina, 12,7 di amfetamine e 11,4 ecstasy. Un quadro che contrasta con i dati dell’ultima relazione al Parlamento italiano pubblicata in questi giorni dal Dipartimento nazionale antidroga, tutta tesa a tranquillizzare sull’efficacia delle politiche repressive o al massimo a puntare il dito sui consumi di cannabis con una assoluta contrarietà a qualsiasi forma di depenalizzazione o legalizzazione. I dati provenienti dai servizi italiani e dai progetti che sulle nostre strade lavorano ci raccontano un’altra verità: soprattutto nelle grandi città si stanno disegnando profili di consumo e bisogni ben diversi. Quello a cui assistiamo è uno scenario in cui i vari consumi, abusi e dipendenze da sostanze psicoattive sono sempre più connessi ed interdipendenti dagli stili di vita delle persone e dai contesti in cui la città si organizza con bisogni e problematicità nuovi. Una tendenza dei consumi che si muove secondo due assi paralleli e di cui Milano ci sembra un primo esempio chiarificatore in questa fase storica. Una polarizzazione che ha da un lato una sorta di normalizzazione di alcuni consumi (alcol e cannabinoidi o cocaina). Dall’altro un progressivo aggravamento delle situazioni di tossicodipendenza “storiche”, che stanno sempre “peggio” da un punto di vista sanitario e soprattutto della progressiva ulteriore marginalizzazione. Tali domande tra normalità del consumo e divertimento o marginalità estrema oltre la “sola tossicodipendenza” ci stanno obbligando a reinventare modelli di intervento socio-sanitario ad alta integrazione territoriale, bassa soglia di accesso, efficaci in termini di costo-beneficio, capaci di accogliere e di porsi un obiettivo possibile di prendersi cura anche per domande sempre diverse. In questo senso il ruolo delle amministrazioni locali diventa decisivo e insostituibile in connessione con politiche sanitarie non ideologiche di cui l’Europa ci parla. Le cronache di questi ultimi mesi parlano di una città in movimento desiderosa certo di reagire ma anche in affanno, segnata da una incertezza che da un lato catalizza le paure e le ansie dei cittadini, dall’altro spinge le politiche a fronteggiare le emergenze. Nella città di Milano, nell’ambito del “outreach” si è passati da interventi mirati alle persone con consumo iniettivo sino a quelli destinati a soggetti con consumi più occasionali, circoscritti a specifici momenti e contesti. La nuova amministrazione milanese in collaborazione con l’azienda sanitaria, pur nella penuria di risorse, e in collaborazione con le associazioni e operatori esperti stanno cercando di costruire su questi temi una prima sperimentazione che da anni mancava e riporta alla città una responsabilità che dei nuovi modelli di consumo, abuso e dipendenza tenga conto per una diversa politica di sicurezza e tutela. Milano misura anche su questo la sua capacità di riprendere a creare socialità, integrazione sociale e coesione, sulla capacità di costruire mediazioni efficaci tra locale e globale tra sicurezza e presa in carico. La città si rivela il luogo in cui l’uomo può percepire l’assenza di qualsiasi progetto collettivo e personale, la perdita di senso; oppure si può offrire l’occasione per un protagonismo degli ultimi. India: caso marò; secondo i media locali con opposizione Italia rischio ritardo indagini La Repubblica, 21 agosto 2013 Secondo i media il rifiuto dell’Italia alla richiesta di interrogare sul posto gli altri quattro fucilieri di Marina che erano insieme a Latorre e Girone “rischia di allontanare la chiusura dell’inchiesta”. Il capo della diplomazia di New Delhi: “Nessun no da Roma” Il rifiuto opposto dall’Italia alla richiesta della polizia indiana (Nia) di interrogare a New Delhi gli altri quattro fucilieri di Marina che formavano il team di sicurezza sulla Enrica Lexie insieme a Massimiliano Latorre e Salvatore Girone “rischia di far ritardare la chiusura delle indagini” sull’incidente del 15 febbraio 2012 al largo del Kerala in cui morirono due pescatori indiani. Lo scrive tutta la stampa di New Delhi. Ma il ministro degli Esteri indiano Salman Khurshid, le cui parole sono state riportate dal quotidiano The Asian Age, usa toni più morbidi: “Non siamo di fronte ad alcun rifiuto” da parte dell’Italia “e la cosa migliore è che lasciamo lavorare e decidere su questa questione gli esperti legali. Una via d’uscita legittima e ammissibile sarà trovata”. Sulla vicenda interviene anche il ministro della Difesa italiano Mario Mauro, che a Radio1 ha ripetuto di confidare “in una soluzione equa e rapida del caso” e ha spiegato che non va considerato come “un rifiuto” il fatto “che altri quattro fucilieri non si recheranno in India”. “Possono essere ascoltati in Italia oppure in videoconferenza” o acquisendo “una loro dichiarazione che è simile a quella resa dai marò”, ribadisce. I mezzi di informazione indiani ricordano che in alternativa all’interrogatorio sul posto le autorità italiane hanno offerto altre ipotesi (viaggio della Nia a Roma, videoconferenza o domande e risposte scritte), ma gli investigatori indiani le hanno respinte. Secondo questi ultimi, infatti, “l’Italia deve cooperare con l’India avendo assunto al riguardo un impegno ufficiale di fronte alla magistratura”. Ora di fronte a questo nuovo scenario, aggiunge l’agenzia, “il ministero dell’Interno ha consultato quello della Giustizia sul modo migliore per far proseguire l’azione giudiziaria”. In ogni caso, conclude, “il rifiuto dei testimoni italiani (Renato Voglino, Massimo Andronico, Antonio Fontana e Alessandro Conte) di venire in India è destinato a ritardare il processo nei confronti dei due marò che risiedono nell’ambasciata d’Italia a New Delhi”. Si deve segnalare infine che secondo il Deccan Herald la Nia, che ha già esaurito i 60 giorni a disposizione per l’inchiesta, “può sempre chiuderla senza interrogare i quattro testimoni, anche se essi sono considerati chiave nella ricostruzione della vicenda”. Usa: in California giudice ordina alimentazione forzata per detenuti in sciopero fame Adnkronos, 21 agosto 2013 Ci sono 136 detenuti in sciopero della fame dall’8 luglio: un giudice ha stabilito che potranno essere nutriti con la forza, anche se avevano chiesto il contrario. Lunedì un tribunale federale del distretto di San Francisco, in California, ha stabilito che i medici e i funzionari carcerari potranno imporre l’alimentazione forzata ai detenuti in sciopero della fame che si trovano in pericolo di vita, anche se questi avessero precedentemente firmato dei documenti in cui chiedevano di non essere sottoposti a rianimazione in caso di perdita di coscienza o arresto cardiaco. Il regolamento delle carceri della California prevede infatti che i detenuti possano protrarre lo sciopero della fame fino alla morte, a patto che abbiano firmato i cosiddetti mandati do-not-resuscitate (Dnr). Il giudice Thelton Henderson ha però deciso che i documenti non sono validi se firmati durante lo sciopero della fame o poco prima di iniziarlo. Il caso è stato portato in tribunale dai responsabili delle prigioni californiane e da una struttura federale che si occupa della salute dei detenuti, che si sono detti preoccupati delle condizioni di salute di 69 persone in sciopero della fame dallo scorso 8 luglio: da quella data hanno rifiutato consecutivamente tutti i pasti serviti dal carcere. Lo sciopero era stato iniziato da 30 mila delle 133 mila persone incarcerate in California, e al momento lo stanno portando ancora avanti 136 persone in sei prigioni diverse. I detenuti protestano contro la pratica molto diffusa in California di rinchiudere in isolamento - nelle cosiddette Security Housing Units (Shus) - i detenuti accusati di far parte di gang formatesi all’interno del carcere o ritenuti pericolosi per gli altri detenuti. Spesso vi restano per anni, anche a vita: non hanno alcun tipo di contatto umano, non possono telefonare né incontrare i loro familiari e comunicano con l’esterno solo attraverso lettere. Le prigioni californiane che praticano l’isolamento sono quattro e all’inizio della protesta le persone che si trovavano nelle SHUs erano circa 4500. I funzionari del carcere potevano già chiedere al giudice di imporre l’alimentazione forzata per un singolo detenuto, ma grazie alla decisione di Henderson potranno applicarla direttamente a tutte le persone incarcerate, senza doversi rivolgere di volta in volta al tribunale. D’ora in poi i detenuti ritenuti in pericolo di vita o in stato di incoscienza potranno venire alimentati con una flebo o con tubicini che arrivano direttamente allo stomaco, nonostante avessero richiesto esplicitamente il contrario. Joyce Hayhoe, portavoce della struttura federale che si occupa della sanità dei carcerati, ha detto che finora nessuno è stato alimentato a forza e che il permesso è stato richiesto per poter agire rapidamente in futuro, dato che la condizione dei detenuti - che non mangiano da un mese e mezzo - può peggiorare rapidamente. Hayhoe ha anche raccontato di aver parlato con due persone incarcerate nella prigione statale di Corcoran, che avrebbero rifiutato cibo e assistenza medica per paura di ritorsioni da parte dei compagni. Ha anche aggiunto che molti hanno firmato i Dnr dopo che il personale medico gli aveva spiegato che era l’unico modo per evitare l’alimentazione forzata. Carol Strickman, avvocato di alcuni detenuti, ha commentato la decisione dicendo che le carceri “stanno esagerando” e che “per quanto non voglia vedere qualcuno morire, delle persone hanno scelto di firmare i DNR e altre no”. Strickman ha aggiunto di non essere a conoscenza di persone obbligate a firmare i documenti. Jules Lobel - presidente del Center for Constitutional Rights, che rappresenta dieci detenuti che hanno denunciato la prigione statale di Pelican Bay per le Shus - ha detto che “l’alimentazione forzata viola la legge internazionale se qualcuno non dà il proprio consenso”. Ha aggiunto che i responsabili delle carceri dovrebbero cercare misure alternative, tra cui fornire ai detenuti una dieta liquida a base di frutta e verdura o negoziare le loro richieste. Lunedì i funzionari carcerari hanno detto che i detenuti possono iniziare una dieta liquida, a patto che preveda soltanto acqua, vitamine ed elettroliti (sodio, potassio, fosfato). Gran Bretagna: detenuti impiegati da call center, ma programma fa discutere Ansa, 21 agosto 2013 Centro prevenzione, "ingenuo", pericolo loro accesso a dati. Fa discutere il programma di riabilitazione adottato in due prigioni inglesi che prevede l'impiego di detenuti in call center, con regolare compenso, per effettuare indagini di mercato per conto di compagnie di assicurazioni. Un programma che il centro per la prevenzione del crimine ha definito "incredibilmente ingenuo", mentre il ministero della Giustizia assicura che tutti i rischi sono stati opportunamente valutati. I dubbi sollevati riguardano l'eventualità che vengano richieste informazioni riguardanti proprietà e beni e che ciò costituisca un rischio per il pubblico. Il ministero respinge le critiche, affermando che i detenuti non hanno accesso a informazioni sensibili, che le conversazioni sono monitorate e registrate e che comunque l'intero programma è stato sottoposto a una opportuna valutazione dei rischi. "Il nostro obiettivo - ha detto un portavoce del ministero della Giustizia - è preparare i detenuti al lavoro all'interno delle strutture, in modo tale che una volta fuori siano in grado di ottenere un impiego e ciò riduce i rischi di un ritorno a delinquere". Corea Nord: al via inchiesta dell’Onu, ex detenuti raccontano di torture e esecuzioni Ansa, 21 agosto 2013 Pubbliche esecuzioni e torture sono all’ordine del giorno nelle carceri della Corea del Nord: lo rivela una drammatica testimonianza di ex detenuti presso una Commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite che ha aperto i lavori oggi nella capitale sudcoreana, Seul. È la prima volta che le violazioni dei diritti umani in Nord Corea vengono esaminate da un gruppo di esperti, anche se il paese, ora governato dalla terza generazione della dinastia rossa dei Kim, nega ogni tipo di abuso e rifiuta di riconoscere la Commissione, negando l’accesso agli investigatori. Alcuni sopravvissuti alle carceri nordcoreane riusciti a scappare hanno raccontato di dita mozzate dalle guardie, detenuti costretti a mangiare rane e di una madre costretta ad uccidere il proprio bambino. Uno di loro, Shin Dong-hyuk, imprigionato per aver fatto cadere una macchina da cucire, ha sottolineato che la commissione Onu è l’unico modo per far pressione sul regime sui diritti umani in un paese così isolato. “Il popolo nordcoreano non può prendere le armi come in Libia e Siria e quindi questa è la prima e unica speranza rimasta”, ha detto Shin. Ci sono 150.000-200.000 persone nelle carceri nordcoreane, secondo stime indipendenti, e i disertori dicono che molti detenuti sono malnutriti o lavorato a morte. Inoltre, dopo più di un anno e mezzo di governo il 30enne Kim Jong Un ha mostrato pochi segnali di volere ammorbidire la durissima disciplina imposta da suo padre, Kim Jong Il, e dal nonno, il fondatore dello stato, Kim Il Sung. Vi racconto le torture nelle prigioni della Corea del Nord (www.giornalettismo.com) Decine di ex prigionieri ascoltati per la prima volta da una Commissione d’inchiesta dell’Onu. Storie che svelano quotidiane violazioni dei diritti umani, commesse dal regime di Pyongyang. Il suo primo ricordo, all’età di soli 5 anni, è l’esecuzione pubblica di alcuni detenuti in un campo di prigionia nordcoreano. “Punizioni” che servivano come minaccia da parte del regime della Corea del Nord, per scoraggiare altri detenuti a compiere gesti che minassero la stabilità di Pyongyang ed evitare le proteste. A raccontarlo, di fronte alla commissione d’inchiesta dell’Onu (i cui lavori sono iniziati ieri nella capitale sudcoreana, Seul, ndr) è un ex prigioniero, Shin Dong Hyuk. Insieme ad altri, riusciti a fuggire, stanno svelando gli orrori degli abusi e delle torture nelle carceri del Paese asiatico, come riporta il New York Tymes. Se il regime di Kim Jong-Un continua a negare eventuali abusi e violazioni commesse nelle proprie galere, negando allo stesso tempo l’ingresso agli ispettori internazionali, i detenuti ascoltati dalle Nazioni Unite stanno raccontando altre verità. Storie di diritti umani negati, ben lontane dal quadro idilliaco e democratico descritto dal senatore del Pdl Antonio Razzi, da non molto ritornato in Italia dopo un viaggio “politico” a Pyongyang. “Io non credo che nella Corea del Nord non siano rispettati i diritti umani. Ho visto che si può tranquillamente uscire e andare dove uno vuole apprezzare”, aveva azzardato il parlamentare azzurro, travolto dall’ironia in rete. Le verità che emergono dal racconto degli ex detenuti nordcoreani sono ben diverse: si racconta di prigionieri costretti a mangiare topi vivi e avanzi degli zoccoli delle capre, gettati via dalle guardie dopo le macellazioni degli animali, pur di sopravvivere. Ma non solo: c’è chi racconta di bambine bastonate per aver rubato qualche chicco di grano e di dita mozzate per aver danneggiato alcune attrezzature, utilizzate durante i lavori forzati. “Spesso non ci davano nulla da mangiare”, ha ricordato lo stesso Shin, un uomo di 31 anni, riuscito a fuggire da un campo di prigionia nel 2005. “Venivamo trattati come bestie, ci massacravano di lavoro e ci sfruttavano. Volevano ottenere il massimo da noi, prima di lasciarci morire”, ha denunciato. Come ricorda il Nyt, il racconto di Shin, seppur drammatico, non svela particolari novità, considerato come le storie dei disertori fuggiti negli ultimi anni si assomiglino, per la crudeltà e il dramma dei dettagli. Quello che era insolito, questa volta, era invece il pubblico che ascoltava le storie: per la prima volta era una commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite, creata proprio per indagare sulle accuse di violazioni dei diritti umani da parte del governo della Corea del Nord. Costituita da tre membri, il suo mandato durerà per un anno: dovrà analizzare le accuse di “sistematiche, diffuse e gravi violazioni”, tra cui possibili crimini contro l’umanità, commesse dalle autorità nordcoreane. Dopo le audizioni di martedì alla Yonsei University di Seoul, verranno ascoltati altri trenta ex detenuti, alcuni fuggiti di recente. Un altro programma di audizioni sarà tenuto in Giappone, dove resta il mistero su decine di cittadini nipponici rapiti e portati in Corea del Nord decenni fa. “Vogliamo contribuire ad aumentare la consapevolezza internazionale sulle condizioni presenti nel Paese, nonostante la contrarietà del governo di Pyongyang a farci entrare nel suo territorio”, ha spiegato Michael Donald Kirby, presidente della commissione. L’invito a partecipare alle udienze è stato mandato dall’Onu alla stessa Corea del Nord, che non ha però risposto, considerando l’iniziativa una sfida alla propria sovranità. Tanto che Pyongyang ha respinto le stesse risoluzioni delle Nazioni Unite a favore di un migliore trattamento della sua popolazione, bollandole come un “complotto politico” per destabilizzare il suo governo. Per gli ex detenuti la preoccupazione internazionale per i missili del Nord e per i programmi sulle armi nucleari non dovrebbe distogliere l’attenzione sulle condizioni di migliaia di persone che vivono sotto “uno dei sistemi più repressivi al mondo”. In una lettera congiunta inviata al collegio dei commissari, un gruppo di disertori nordcoreani ha spiegato come sia necessario, dopo l’inchiesta, incriminare “Kim Jong e la sua cricca” alla Corte penale internazionale. “Noi e nostri familiari siamo stati trascinati in carcere senza alcun processo, costretti a subire torture indicibili e umiliazioni e ad assistere a esecuzioni pubbliche quasi mensili”. C’è anche chi, come Jee Heon-un, una donna di 34 anni, ha svelato come, durante la carestia della fine del 1990, le donne nordcoreane fossero state vendute ai trafficanti cinesi. Chi veniva rintracciato dalla polizia, veniva poi rimpatriato a Pyongyang. La donna ha sottolineato, durante la propria audizione, come molte donne abbiano subito aborti forzati a causa delle percosse. Sono poi state costrette ad altre forme di tortura, commesse dalle guardie nordcoreane, all’interno delle strutture di detenzione: “Una donna che aveva partorito è stata costretta ad annegare il suo bambino”, ha aggiunto l’ex detenuta. La speranza è affidata al lavoro dei commissari delle Nazioni Unite: “Questo è l’unico modo per far pressione sul regime: il nostro popolo non può prendere le armi, così come è avvenuto in Libia e in Siria, voi siete l’ultima possibilità”, ha concluso Shin. Tutto mentre a Pyongyang è arrivato, nelle stesse ore, il presidente del Comitato internazionale della Croce Rossa (Icrc) Peter Maurer. È una missione storica, dato che sono passati 21 anni dall’ultimo viaggio della società nel territorio nordcoreano. Maurer sarà impegnato a discutere di una serie di questioni umanitarie: in particolare, verrà posto il problema della complicata situazione di migliaia di famiglie, separate ormai dalla guerra di Corea.