Giustizia: l’Italia era conosciuta come la “culla del diritto”… ora ne è diventata la bara? di Valter Vecellio Europa, 20 agosto 2013 Che la giustizia italiana versi in uno stato drammatico, è innegabile; e la situazione delle carceri ne è l’appendice più dolorosa e scandalosa. “Ferragosto in carcere. Per l’uscita dalla flagranza criminale dello Stato, per l’amnistia e i referendum”. All’insegna di questo slogan che descrive anche una vera e propria agenda di lavoro offerta a tutte forze politiche, Emma Bonino, Marco Pannella, Rita Bernardini, e decine di altri dirigenti radicali per il quinto anno consecutivo hanno dato corpo a un’iniziativa che prevede visite di sindacato ispettivo e raccolte delle firme sui 12 referendum radicali in molte carceri italiane. Un’iniziativa, dice Pannella, “non contro, ma a sostegno delle posizioni del ministro della Giustizia Cancellieri, del presidente della commissione Giustizia del Senato Nitto Palma, del vicepresidente della Camera Giachetti”. Si potrà o meno condividere l’iniziativa referendaria, l’opportunità o meno di questo o quel quesito; ma che la giustizia italiana versi in uno stato drammatico, è innegabile; e la situazione delle carceri ne è l’appendice più dolorosa e scandalosa. Si prenda il caso di Poggioreale a Napoli, una vera e propria emergenza sanitaria. Secondo quanto riferisce il senatore Luigi Compagna, reduce da una visita ispettiva di un paio di giorni fa, ci sarebbero “oltre 300 detenuti in attesa di ricovero e assistenza sanitaria. C’è un’emergenza nell’emergenza. Un detenuto può aspettare anche mesi, schiacciato dalle procedure burocratiche prima di potersi sottoporre ad una chemioterapia”. È evidente che tutto ciò non ha nulla a che fare con l’esigenza di garantire sicurezza alla collettività. E se in una struttura che può ospitare 1500 detenuti, ne sono invece stipati 2500, la cosa si commenta da sola. Non è solo Poggioreale. La stessa situazione la si può riscontrare a Bologna come a Palermo, a Roma come a Torino, e un pò ovunque. Si dirà: cosa c’entrano i referendum con questa situazione? C’entrano, perchè molti dei quesiti referendari toccano direttamente questioni che hanno a che fare con la giustizia: dall’abolizione dell’ergastolo al rientro nelle funzioni proprie dei magistrati fuori ruolo; dalla necessità di superare le leggi Bossi-Fini e Fini-Giovanardi che tanti guasti hanno provocato, alla responsabilità civile dei magistrati e la separazione delle carriere, fino a più rigidi limiti per la custodia cautelare in carcere. Si dirà che lo strumento proposto non è il più opportuno, che altre sono le soluzioni rispetto quelle offerte. Benissimo. Se ne discuta, ci si confronti, si apra finalmente un dibattito su tutto questo, e se ne rifletta pubblicamente, nelle televisioni e sui giornali. Non potrà che essere positivo e salutare. Chi ha più filo, tesserà. Intanto salutiamo come positivo il fatto che detenuti, gli ultimi tra gli ultimi, si appropriano di uno strumento costituzionale come il referendum, e invece di fare ricorso alla violenza, per l’affermazione di diritti che sono di tutti, si “armano” di matita e moduli. Già questa è una conquista. Ma veniamo alla questione che urge e preme, e che “il Ferragosto in carcere” pone in evidenza: la giustizia. Decine di film e telefilm come il classico “Perry Mason”, ci hanno fatto credere - più propriamente si dovrebbe dire sognare - in una giustizia rapida, efficiente, dove le udienze si succedono una dietro l’altra. Chiunque abbia avuto a che fare con i tribunali italiani sa che la realtà è ben diversa. Quando si aprono gli Anni Giudiziari, le relazioni dei Procuratori Generali denunciano sempre gli stessi problemi, le stesse doglianze: anno dopo anno si denuncia la lunghezza dei processi, l’incredibile numero di procedimenti prescritti, la scarsità di mezzi e personale. Per la Corte dei diritti dell’Uomo di Strasburgo l’Italia è una sorta di sorvegliato speciale: a causa delle ripetute violazioni accertate nel solo 2012 il nostro paese dovrà pagare la bellezza di 120 milioni di euro di indennizzi, la cifra più alta mai sborsata da uno dei 47 stati membri del Consiglio d’Europa. Il nostro Paese è nel mirino per quella che viene definita “l’irragionevole durata dei processi”, che riguarda oltre la metà dei ben 14.500 ricorsi pendenti. Per dare un’idea: un processo civile in Italia dura tre volte di più che in Germania, e il 70 per cento degli altri paesi. Dal Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa Nils Muisnieks, un lettone di formazione anglosassone, giungono parole severe: “Solo un cambiamento radicale della cultura giudiziaria può accelerare i tempi dei tribunali italiani”. Processi lunghi che scoraggiano il cittadino, e minano il rapporto di fiducia con la giustizia. La durata media di un processo penale è di otto anni e tre mesi, il doppio del tempo che serviva nel 2010. Ma il 17 per cento dei casi può richiedere anche più di 15 anni. Ancora peggio quello che accade in ambito civile dove il 20 per cento dei procedimenti si protrae dai 16 ai 20 anni. È caso davvero di dire: Giustizia lumaca. Soprattutto se si fa il confronto con quello che accade in altri paesi. In Italia, solo per il primo grado un contenzioso civile chiede 492 giorni, 289 giorni in Spagna, 279 giorni in Francia, 184 giorni in Germania. In secondo grado la media sale a 1.267 giorni, oltre 3 anni. Pesante anche la situazione presso le corti d’Appello: il settore penale registra un costante aumento della durata dei procedimenti, con 998 giorni: 194 in più dal 2008 e ben 213 dal 2006. E volete sapere, in media naturalmente, a quanto ammontano i giorni di attesa della sentenza per far rispettare un contratto? Se vivete in Francia bastano 390 giorni. In Germania dovete attendere 4 giorni di più. In Regno Unito impiegano 399 giorni. In Italia? In Italia ne occorrono almeno 1.210. La giustizia lumaca costa alle imprese qualcosa come circa 2 miliardi e 300 milioni l’anno. Il costo medio sopportato dalle imprese italiane è di circa il 30 per cento del valore, contro il 19 per cento della media OCSE. Proviamo a quantificarli, i costi della mancata giustizia civile. Se per le procedure di fallimento avessimo la durata che hanno in Germania, durata che è inferiore di un terzo rispetto che l’Italia. Potremmo risparmiare 1,2 miliardi l’anno. Se in generale i tempi della giustizia civile si riducesse almeno dell’1 per cento, noi potremmo ottenere un decimo di punto di Pil, 1,6 miliardi. Con queste condizioni di sostanziale incertezza del diritto nella proprietà e nella possibilità di potersi vedere riconosciuti i propri diritti, in un simile contesto, fare “impresa” è sempre più difficile. Una situazione che da una parte disincentiva l’investitore straniero a venire in Italia; e, al contrario, incentiva l’imprenditore italiano ad andare all’estero. D’altra parete, se un investitore può scegliere tra Italia, Francia, Germania e Inghilterra, dove non solo la giustizia civile è molto più efficiente, perché si dovrebbe venire in Italia? E infatti il risultato è che noi abbiamo una distanza rispetto a paesi come Spagna e Germania, del 50 per cento in termini di afflusso di investimenti. Non solo. I detenuti in custodia cautelare nelle carceri italiane sono circa 68mila. Il 42 per cento è in attesa di giudizio definitivo, sconta una pena prima della condanna. La metà di questo 42 per cento verrà dichiarata innocente. C’è chi sconta ingiustamente, c’è chi non sconterà mai: ogni anno circa 165mila fascicoli vanno in prescrizione, di fatto un’amnistia strisciante e quotidiana. Un colpevole che non pagherà mai la sua colpa, un cittadino che ha subito un torto che non sarà mai risarcito. Per lo Stato il tutto si traduce in uno spreco di circa 84 milioni di euro l’anno, calcolando prudentemente che ogni processo che va in fumo costi 520 euro. Torniamo all’iniziale questione: perché Ferragosto in carcere? Italia culla del diritto, si diceva un tempo. Perchè non sia, come oggi, la sua bara. Giustizia: in Gazzetta Ufficiale la Legge di conversione del decreto “svuota-carceri” di Giovanni Galli Italia Oggi, 20 agosto 2013 Una stretta sulla custodia cautelare in carcere, che può essere disposta solo per delitti per i quali sia prevista la pena della reclusione pari o superiore a cinque anni. Sgravi contributivi per l’inserimento lavorativo di persone svantaggiate impiegate in cooperative sociali. Sono solo alcune delle misure contenute nel cosiddetto decreto svuota carceri, 78/2013, la cui legge di conversione (legge 9 agosto 2013, n. 94) è stata pubblicata ieri sulla Gazzetta Ufficiale n. 193. La filosofia del decreto, al fine di ridurre gli ingressi in carcere e di dare attuazione a una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, è quella di estendere il beneficio della sospensione della pena e dell’applicazione di misure alternative alla detenzione, ampliando la possibilità per i detenuti di prestare attività a titolo volontario e gratuito in progetti di pubblica utilità. Le principali modifiche apportate dalle camere sono l’applicabilità anche al reato di finanziamento illecito dei partiti della custodia cautelare, che può essere disposta solo per i delitti per i quali è prevista la reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni; l’elevazione a cinque anni della pena massima per reati persecutori; l’esclusione del furto pluriaggravato dal novero dei reati cui si applicano i benefici del provvedimento; il ripristino della disciplina di maggior favore per i condannati cui è applicata la recidiva reiterata specifica; la soppressione della disposizione che consentiva al commissario straordinario per le infrastrutture carcerarie di derogare a norme in materia urbanistica. Cuore del provvedimento è la liberazione anticipata. Quando la residua pena da espiare, computando le detrazioni previste dall’ordinamento penitenziario (45 giorni per ogni semestre di pena scontata), non supera i tre ovvero i sei anni per i reati commessi in relazione allo stato di tossicodipendenza (anche se costituente parte residua di maggiore pena), il pubblico ministero, prima di emettere l’ordine di esecuzione e previa verifica dell’esistenza di periodi di custodia cautelare o di pena dichiarata fungibile relativi al titolo esecutivo da eseguire, trasmette (durante l’esame in prima lettura in senato è stato specificato che la trasmissione deve avvenire “senza ritardo”) gli atti al magistrato di sorveglianza affinché provveda all’eventuale applicazione della liberazione anticipata. In questo caso, il magistrato di sorveglianza provvede senza ritardo con ordinanza adottata in camera di consiglio senza la presenza delle parti. Il senato ha inserito una disposizione che modifica l’articolo 280 del codice di procedura penale, sui presupposti per l’applicazione della custodia cautelare in carcere. Attualmente la custodia cautelare in carcere può essere disposta solo per delitti, consumati o tentati, per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore a quattro anni massimo. Per effetto della modifica la custodia cautelare in carcere può essere disposta solo per delitti, consumati o tentati, per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni. Nei lavori parlamentari si segnala un possibile inghippo applicativo: la modifica non è stata accompagnata dalla modifica del comma 5 dell’articolo 391 del codice di procedura penale, ai sensi del quale, in sede di udienza di convalida, quando l’arresto è stato eseguito per uno dei delitti indicati nell’articolo 381, comma 2, del codice di procedura penale ovvero per uno dei delitti per i quali è consentito anche fuori dai casi di flagranza, l’applicazione della misura cautelare è disposta anche al di fuori dei limiti di pena. Viene innalzato a quattro anni il limite di pena per la sospensione dell’ordine di esecuzione nei confronti di particolari categorie di condannati. Si tratta dei seguenti soggetti: donna incinta o madre di prole di età inferiore a 10 anni con lei convivente; padre, esercente la potestà, di prole di età inferiore ad anni 10 con lui convivente, quando la madre sia deceduta o altrimenti impossibilitata a dare assistenza alla prole; persona in condizioni di salute particolarmente gravi, che richiedano costanti contatti con i presidi sanitari territoriali; persona di età superiore a 60 anni, se inabile anche parzialmente; persona di età minore di anni 21, per comprovate esigenze di salute, di studio, di lavoro e di famiglia. Queste categorie di soggetti, qualora debbano espiare una pena compresa tra i tre e i quattro anni, potranno quindi accedere alla detenzione domiciliare dallo stato di libertà, senza necessariamente fare ingresso in carcere. Per quanto riguarda infine i lavori di pubblica utilità, inserita la previsione per cui le attività a titolo volontario e gratuito sono in ogni caso svolte con modalità da non pregiudicare le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute dei detenuti e degli internati. Giustizia: niente ergastolo… siamo il Pd; i dem vogliono abolire il “fine pena mai” di Claudio Cerasa Il Foglio, 20 agosto 2013 Qualche giorno fa, proprio su questo giornale, il responsabile Giustizia del Pd, l’onorevole Danilo Leva, trentacinque anni, scuola dalemiana, prima esperienza in Parlamento, ha accettato di affrontare in un momento molto complicato (sentenze della Cassazione, reazioni della base del Pd, fragilità della grande coalizione) uno dei temi che per forza di cose, come ricordato ieri anche dal presidente della Repubblica, oggi si trova al centro del dibattito tra i due azionisti di maggioranza delle grandi intese: la riforma della giustizia. Leva, che con il Foglio ha messo sul piatto riflessioni legate alla riforma del processo penale e della giustizia civile, è stato criticato sul Fatto prima da Marco Travaglio e poi da Gian Carlo Caselli, che gli hanno rimproverato (vergogna!) di aver scelto il Foglio (orrore!) per parlare di giustizia (oltraggio!). Ma nonostante le critiche Leva decide di insistere sul tema e, ancora al Foglio (vergogna!), dice che “la giustizia non può essere un tabù che si può affrontare solo quando fa comodo a qualcuno”; rivendica il coraggio del Pd nel “voler riformare adesso la giustizia senza paura dei nostri avversari, e senza timore di mettere a repentaglio la nostra identità, che è più forte di quanto qualche buontempone ci voglia far credere”; e conferma che non appena riapriranno le Camere il Pd presenterà una proposta per applicare l’articolo 27 della Costituzione, quello che dice che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. In che modo? Proponendo l’abolizione dell’ergastolo. “Io mi occupo di giustizia e credo davvero che riformando questo settore si aiuta l’Italia a recuperare competitività. Siccome poi uno dei termometri per misurare lo stato di civiltà di un paese è osservare le carceri è doveroso per un partito come il nostro trovare un modo per cambiare lo status quo”. Leva si spiega meglio e continua la riflessione citando una celebre frase di Albert Camus. “Nella nostra civilissima società la gravità del male è rivelata dalla reticenza con cui se ne parla, diceva Camus sulla pena di morte, e in qualche modo noi oggi potremmo estendere questo discorso all’ergastolo. Ritornare a discutere di carcere a vita, a mio modo di vedere, è più che necessario. La pena dell’ergastolo è la più disumana che esista nel nostro ordinamento, perché ammazza una persona lasciandola viva, togliendole ogni possibilità di guardare al futuro, strappandole capacità e inclinazioni e privandola di qualsiasi prospettiva. Lo stato non può rinunciare a priori al recupero e al reinserimento sociale di un condannato, e se noi diciamo che la Costituzione più bella del mondo è la più bella del mondo non possiamo dimenticarci che è la Costituzione che ci chiede di rieducare i detenuti, e non solo di punirli”. Secondo Leva - che dice di non voler firmare i referendum radicali (che in uno dei quesiti propongono di abolire l’ergastolo) perché è convinto che un partito di governo come il Pd debba fare queste battaglie in Parlamento - “quella sull’ergastolo è una battaglia di civiltà che rimanda all’impianto costituzionale della pena e che è da ricondurre nel solco della cultura giuridica europea; e siccome l’articolo 27 della Costituzione mal si concilia con la prospettiva di una pena edittalmente perpetua” non si può stare a guardare”. Leva, sfidando il tintinnio delle penne dei cronisti ammanettati con le procure, aggiunge un altro dettaglio. “In Italia, anche se qualcuno a volte dimentica di ricordarlo, esiste il così detto ergastolo ostativo ai benefici penitenziari, con il quale è negato ogni beneficio penitenziario, ogni misura alternativa al carcere e si rende la pena un effettivo fine pena mai. In questo senso, la sostituzione dell’ergastolo con una lunghissima e certa detenzione di trent’anni rappresenta il tentativo di rendere effettivo l’articolo 27 della Costituzione, con l’obiettivo di evitare di tenere in carcere una persona quando non sia più necessario. Non si possono confondere questi principi con il lassismo verso la criminalità o, peggio ancora, come un regalo ai boss mafiosi. Credo invece siano maturi i tempi per i quali un grande paese come l’Italia, per un simile tema, si interroghi e discuta; perché, in fondo, si tratta di un dibattito relativo ad una parte della Costituzione e, quindi, alla nostra identità. E quando dico nostra non parlo solo del Pd, parlo del nostro paese”. Giustizia: troppi detenuti in cella senza processo, i Radicali propongono un Referendom di Andrea Cuomo Il Giornale, 20 agosto 2013 In teoria, per il diritto italiano ogni persona è innocente fino a condanna definitiva. In pratica, molte persone sono colpevoli fino a prova contraria. Nel senso che trascorrono il loro tempo in carcere pur non essendo condannati. Secondo il IX Rapporto nazionale sulle condizioni di detenzione redatto dall’Osservatorio di Antigone delle 66.685 persone detenute al 31 ottobre 2012 ben 26.804, il 40,1 per cento, non scontava una condanna definitiva ma era in custodia cautelare. Un dato sconvolgente, che ci fa arrossire se confrontato col 23,7 per cento della Francia, col 15,3 della Germania, col 19,3 della Spagna, col 15,3 dell’Inghilterra, col 28,5 per cento della media dei Paesi del Consiglio d’Europa. E che ci è valso anche una bacchettata da Thomas Hammarberg, commissario dei Diritti Umani del Consiglio d’Europa, che ha invitato il nostro Paese a porre un freno alla custodia cautelare detentiva. Già, perché la custodia cautelare è uno strumento di emergenza trasformato in una sorta di anticipazione della pena. Decine di migliaia di inquisiti si trovano a vivere l’attesa della sentenza definitiva in carcere in condizioni incivili. Un abuso che i radicali vogliono cancellare con uno dei 12 referendum su cui stanno raccogliendo le firme e sui quali gli italiani potrebbero essere chiamati a esprimersi tra qualche mese. In realtà la custodia cautelare, un tempo meno ipocritamente definita carcerazione preventiva, un suo scopo ce l’ha. Impedire che una persona la cui colpevolezza è ancora da dimostrare ma su cui gravino fondati sospetti che abbia commesso un reato grave possa reiterare il suo comportamento, fuggire o inquinare le indagini. Motivazioni forti e di indubbio interesse sociale. Peccato che negli ultimi anni però i magistrati non abbiano sempre badato a verificare con rigore il ricorrere di queste circostanze prima di rinchiudere un presunto innocente dietro le sbarre. Con il doppio risultato di violare il principio costituzionale della presunzione di innocenza e di aggravare il già drammatico sovraffollamento delle carceri italiane. Che senso ha, infatti, invocare periodicamente amnistie, indulto o altre misure “svuota carceri” quando quattro detenuti su dieci in linea di principio dietro le sbarre non dovrebbero starci (o almeno non ancora)? Di abuso di custodia cautelare si iniziò a parlare all’epoca di Tangentopoli, venti anni fa, quando si levò l’accusa di un uso disinvolto da parte del pool mani pulite della carcerazione preventiva come strumento di spettacolarizzazione dell’inchiesta e di pressione su persone che in genere non avevano né il fisico né l’attitudine psicologica a sopportare la privazione della libertà. Anni dopo Italo Ghitti, a quell’epoca gip della Procura di Milano, in un’intervista televisiva avrebbe ammesso che nel biennio di fuoco 1992-93 spesso accoglieva senza battere ciglio le richieste forcaiole della Procura della Repubblica, non avendo il tempo di vagliare tutte le posizioni. Di “vero scandalo del nostro Paese” scrisse qualche mese fa sul nostro giornale Bartolomeo Romano, ordinario di diritto penale all’Università di Palermo e componente del Csm, che ammise di essersi aspettato una parola forte sul tema da parte del gruppo di lavoro sulle riforme istituzionali creato dal presidente della Repubblica: “Il pensiero che moltissime persone sono assolte dopo lunghissimi (e ingiusti) periodi di custodia cautelare, che rovinano loro per sempre la vita, e peraltro costano alla società somme ingenti, è - per me - prevalente”. Come non essere d’accordo? Giustizia: il totem dell’immunità parlamentare abbattuto dai giustizialisti di Mani pulite di Dino Cofrancesco Il Giornale, 20 agosto 2013 Ecco i danni dell’ondata giustizialista post Mani pulite che ha spazzato via il totem dell’immunità parlamentare. Fin dalla Magna Carta e dallo Statuto albertino, lo scudo proteggeva la politica dai golpe degli altri poteri. Quando l’ondata giustizialista, che ha sconvolto i fragili equilibri sociali e politici del paese, si sarà ritirata, il 12 ottobre 1993 verrà ricordato come una delle date più nefaste della storia d’Italia, assieme a Caporetto e alla Marcia su Roma. La “grande coalizione” postcomunisti, rifondazionisti, verdi, rete, repubblicani, Lega, Msi, radicali-che nell’aprile non era riuscita a ottenere da Montecitorio l’autorizzazione richiesta dalla Procura di Milano per procedere contro Bettino Craxi, accusato di ogni crimine, ebbe in quel giorno la sua rivincita. Con 525 sì, 5 no e un astenuto, alla Camera, 224 sì, 7 no e nessun astenuto al Senato l’immunità parlamentare venne abrogata. In tal modo, si poteva processare un rappresentante del popolo senza l’autorizzazione della Camera di appartenenza. L’antico privilegio dell’impunibilità di un parlamentare, nel periodo in cui svolge le sue funzioni-sancito nell’art. 68 della Costituzione Italiana-apparve all’opinione pubblica come la negazione, scandalosa e inammissibile, dell’art.3 della nostra Magna Carta che nel primo comma recita: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Certo episodi di collusione e di corruzione dovuti al malaffare della casta ce n’erano stati a migliaia. In dieci legislature non vennero concesse ben 2.202 richieste di autorizzazione a procedere contro le 2.717 presentate. Sennonché, come capita spesso nel bel paese, lo sdegno crescente verso la corruzione non venne indirizzato, dagli organi di informazione e dalle altre agenzie che “fanno opinione” (dalla scuola alle parrocchie), alle cause reali che stavano precipitando l’Italia nel baratro - e in primis l’intreccio perverso di politica e di economia indotto da una terza via all’italiana per cui i destini delle imprese non si decidevano sul mercato ma nei congressi della Dc e del Pci - ma si riversò tutto sulla classe politica, il cui simbolo più scomodo, Craxi appunto, venne messo alla gogna col cappio da forca fatto sventolare dalla Lega e le monetine gettategli addosso da una composita plebaglia postcomunista e postfascista. Che su una questione così complessa e delicata come l’immunità parlamentare si fossero registrate maggioranze bulgare avrebbe dovuto far vergognare i giuristi col “senso dello Stato” che, invece, festeggiarono l’evento intonando il Te Deum al simulacro del Diritto. Il peggio, però, non era questo ma il vero e proprio golpe costituzionale che aveva portato deputati e senatori a disporre di diritti e privilegi - l’immunità parlamentare - conferiti non a loro ma alle funzioni (legislative) che avevano ricevuto dal popolo sovrano. Additati come un’accolita di corrotti e di collusi, avevano messo a disposizione di un altro (presunto) potere, la magistratura, quelle che erano prerogative della carica e non del singolo e momentaneo detentore. Dal Parlamento inglese a quello sabaudo dello Statuto albertino, l’immunità parlamentare ha sempre garantito la dignità e l’indipendenza dei rappresentanti del popolo dall’arbitrio di altri poteri “irresponsabili”. Questi ultimi che, un tempo, erano costituiti dai monarchi oggi potrebbero far capo ad altri ordini dello Stato come, ad esempio, la magistratura che, in Italia, si considera a torto un “potere” che sovranamente sottopone a giudizio i propri membri incorsi in qualche “incidente” ma non riconosce a un vero potere, quello legislativo, il diritto di occuparsi delle proprie pecore nere. Ma è poi un potere quello dei magistrati? Ed è pertinente il frequente richiamo a Montesquieu e allo Spirito delle Leggi? In realtà, come hanno rilevato studiosi come Domenico Fisichella e Giuseppe Bedeschi, “Montesquieu non solo non annovera il giudiziario tra i poteri fondamentali della monarchia, ma tutti i suoi sforzi sono diretti a porgli dei limiti ben precisi”. Inoltre, nella lettera del 1753 a un membro del Parlamento di Parigi (nell’ancien régime una sorta di alta corte di giustizia), ammoniva che “l’applicazione dei principi dipende dalle circostanze... Voi non dovete determinarvi e decidervi che in base a un solo principio: la salute dello Stato è la legge suprema”. Può darsi che i 5 giudici della Corte di Cassazione, che, con la loro sentenza, hanno dato una spallata decisiva alla crisi di regime in atto, abbiano agito in nome del Diritto ma i loro estimatori lascino perdere Montesquieu. Non c’azzecca! Giustizia: Chiarelli (Pdl); su carceri e geografia giudiziaria la Cancellieri ascolti di più Adnkronos, 20 agosto 2013 Sul problema del sovraffollamento delle carceri italiane e della nuova geografia giudiziaria “è importante che il ministro Cancellieri cambi decisamente rotta disponendosi ad un maggior ascolto, e comprenda che non si può pensare di risolvere i problemi imponendo il suo punto di vista”. Lo scrive, in una nota, il deputato del Pdl Gianfranco Chiarelli. “Escludendo le questioni che riguardano la vicenda Berlusconi e le sorti del governo, il ferragosto è stato caratterizzato -si legge- da due emergenze di particolare rilievo: sovraffollamento delle carceri e nuova geografia giudiziaria. Si tratta di due questioni tra loro legate che possono trovare soluzione solo se si mette mano ad una seria riforma della giustizia”. Da qui l’appello del deputato al Guardasigilli. “Ritengo che per la nuova geografia giudiziaria sia irrinunciabile -conclude- un rinvio di almeno un anno, mentre per le l’emergenza carceri occorre rivedere ancora il sistema della carcerazione preventiva, la velocizzazione dei processi e in ultimo la individuazione di pene alternative per i reati meno gravi”. Lazio: il Garante; dalla Regione più attenzione nella tutela della salute dei detenuti Asca, 20 agosto 2013 Il bilancio sulle ultime novità in tema di tutela del diritto alla salute dei reclusi nel Lazio è contenuto in una lettera inviata dal Garante dei Detenuti Angiolo Marroni. Nonostante le difficoltà economiche nel settore della sanità, il Lazio si conferma all’avanguardia nella tutela dei diritti dei detenuti. Nella metà delle carceri della regione (7 su14) e nell’Istituto Penale Minorile di Casal del Marmo, infatti, le prestazioni mediche di prevenzione, diagnosi e cura per i reclusi sono oggi descritte, regolate e garantite da una Carta dei Servizi Sanitari per cittadini detenuti. Il bilancio sulle ultime novità in tema di tutela del diritto alla salute dei reclusi nel Lazio è contenuto in una lettera inviata dal Garante dei Detenuti Angiolo Marroni al Presidente della Regione Nicola Zingaretti. Il Dpcm del 01.04.2008, che ha reso irreversibile la riforma, ha definito le modalità, i criteri e le procedure per il trasferimento, dal Ministero della Giustizia alle Asl, delle funzioni sanitarie e delle risorse finanziarie, umane e tecnologiche relative alla sanità penitenziaria. Per agevolare il passaggio tra vecchio e nuovo assetto, il legislatore ha previsto una serie di strumenti come l’Osservatorio regionale, i tavoli tecnici congiunti e, appunto, le Carte dei servizi sanitari per i detenuti (prevista dal D.Lgs 230/1999), che riepilogano le prestazioni mediche cui il recluso ha diritto, oltre alle modalità e alla tempistica per la loro fruizione. Da mesi il Garante ha svolto un’opera di moral suasion per favorire l’adozione di tali documenti da parte delle Asl interessate e per la nascita dei Tavoli tecnici congiunti tra Aziende sanitarie, Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, direzioni delle carceri e Garante istituiti per realizzare una cabina di regia chiamata a monitorare la ricaduta della riforma sulla vita dei detenuti e sull’efficacia dell’organizzazione sanitaria territoriale. “Ad una anno dalla prima Carta dei servizi adottata nel Lazio, a Civitavecchia - ha detto il Garante - raccogliamo i frutti di un paziente lavoro. Le Carta finora adottate coinvolgono sette carceri: le due di Civitavecchia, Regina Coeli e le 4 del complesso polipenitenziario di Rebibbia, per un totale di 4.468 detenuti sui 7.234 attualmente reclusi. E in altre quattro realtà, Latina, Viterbo, Rieti e Velletri, sono state avviate le procedure per l’adozione del documento”. Nel dettaglio, le Asl RmA (Regina Coeli), RmB (complesso di Rebibbia) e RmF (i due istituti di Civitavecchia) hanno deliberato l’adozione della Carta dei Servizi Sanitari e l’istituzione del Tavolo Tecnico di monitoraggio. La Asl di Rieti e quella di Latina hanno deliberato l’istituzione del Tavolo ed hanno avviato l’elaborazione della Carta, la Asl RmH (che ha competenza sul carcere di Velletri), sta elaborando la delibera per la costituzione del Tavolo ed anche la Asl RmE (che ha competenza sull’Ipm di Casal del Marmo) ha accettato la proposta di costituire il Tavolo tecnico. Nessuna risposta alle sollecitazioni del Garante è, invece, arrivata dalla Asl di Frosinone, che sul suo territorio ha le carceri del capoluogo (543 reclusi), di Paliano (59 detenuti) e di Cassino (310). “Quello alla salute - ha concluso il Garante Angiolo Marroni - è il diritto maggiormente violato in carcere. Un dato, questo, che nel Lazio assume una valenza ancor più rilevante vista la situazione in cui versa il sistema sanitario regionale. In questo contesto di emergenza, l’adozione delle Carte dei servizi sanitari per i cittadini detenuti è un segnale di speranza e di civiltà. È per questo che ho voluto comunicare lo stato dell’arte al Presidente Nicola Zingaretti. La completa adozione, da parte delle Asl, degli strumenti previsti dalla normativa porterà ad una ancora più stretta correlazione tra carcere e territorio, aumentando l’efficienza e l’efficacia della erogazione dei servizi sanitari e riuscendo così a garantire il fondamentale diritto alla salute anche ai cittadini privati della libertà personale”. Sicilia: Uil-Pa; da ottobre la “vigilanza dinamica” nelle carceri… ecco di cosa si tratta www.strettoweb.com, 20 agosto 2013 A partire da ottobre sarà attivata negli istituti siciliani la cosiddetta vigilanza dinamica, prevista da una circolare del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria, che prevede una sorta di carcere a “regime aperto” che, per i detenuti a media e bassa pericolosità, potenzi gli spazi dedicati a lavoro, sport, attività ricreative e culturali, perchè prevalga l’aspetto riabilitativo della pena. “Come organizzazione sindacale siamo stati gli antesignani di questo nuovo modo di concepire la sicurezza e la vigilanza nelle carceri - commenta Gioacchino Veneziano, coordinatore regionale della Uil-Pa Penitenziari - fermo restando che reputiamo imprescindibile la modifica dell’art. 387 codice penale (colpa del custode), e l’ammodernamento del regolamento di servizio, così come l’abbandono delle terminologie militari”. La Uil-Pa spiega che il Dap ha previsto alcuni step, con inizio dall’ottobre prossimo, in modo che il 25% dei detenuti ristretti in Sicilia possa usufruire di una permanenza fuori dalle celle per almeno 8 ore. Il percorso di rinnovamento sarà portato a compimento a maggio del 2014, con portando tale percentuale al 75%. Il leader siciliano ricorda poi alcuni dati: “degli attuali 6.825 detenuti classificati media e bassa sicurezza, ovviamente rimarrebbero esclusi da tale innovazione i 1.217 detenuti alta sicurezza. Considerato che in ambito regionale già beneficiano del regime di vigilanza dinamica 469 reclusi, e 146 detenuti sono già in regime di semilibertà, quindi di fatto i potenziali beneficiari potrebbero essere 5.462 detenuti rinchiusi nei 25 penitenziari siciliani”. La parte principale riguarderà i penitenziari delle aree metropolitane. Questo nuovo concetto di vigilanza, spiega ancora Veneziano, “pone al centro dell’attenzione la Polizia Penitenziaria non più come un custode, ma con un operatore di sicurezza con veri e propri servizi di pattugliamento, per questo che sollecitiamo che il Provveditore delle carceri Siciliane dia l’input affinché vi siano dei confronti sindacali a livello regionale e locali. Deve esserci un impegno corale affinché la Sicilia abbia un congruo aumento di personale di Polizia Penitenziaria - conclude il sindacalista - che ad oggi si attesta a 800 unità mancanti dalla pianta organica ministeriale”. Padova: detenuto suicida in cella, il pm viene avvertito dopo 20 ore di Cristina Genesin Il Mattino di Padova, 20 agosto 2013 Solo a morte avvenuta il magistrato di turno informato del tentativo del detenuto di impiccarsi, poi finito tragicamente. Perché il pubblico ministero Federica Baccaglini è stata informata del tentato suicidio di Abdelaziz Daoudi (purtroppo finito tragicamente) solo quando il giovane è deceduto nel primo pomeriggio di venerdì 16 agosto all’ospedale Sant’Antonio? E perché al magistrato inquirente di turno non è stato comunicato subito lo scontro accaduto nella casa circondariale tra un agente di polizia penitenziaria, rimasto ferito, e il detenuto nonché il tentativo di quest’ultimo di togliersi la vita appena rinchiuso in una cella d’isolamento, due gravi episodi che si erano verificati almeno una ventina d’ore prima del decesso? Non esiste un “obbligo” di informare il pm quando un carcerato cerca di uccidersi e, quindi, di compiere un atto di autolesionismo. Tuttavia è una questione di opportunità visto che, in gioco, è la vita di un uomo privato totalmente della libertà personale. E, in questo caso, si trattava di un ragazzo di vent’anni (era nato il 22 settembre 1992) che - almeno in base alla versione ufficiale - avrebbe avuto un violento alterco con un agente, in seguito al quale si è impiccato con un paio di lacci da scarpe. Lacci che non dovrebbero essere lasciati nella disponibilità dei detenuti inclini ad atti di autolesionismo, secondo le norme del regolamento carcerario. Come risulterebbe dalla scheda redatta da personale specializzato (psicologi e medici), Abdelaziz Daoudi, marocchino con un permesso di soggiorno scaduto, non era stato ritenuto un ragazzo con problematiche psicologiche al momento dell’ingresso nella casa circondariale, il 19 luglio scorso. Quel giorno era stato arrestato dai carabinieri del nucleo operativo radiomobile nella zona di Forcellini con l’accusa di detenzione di un etto di hascisc: appena due mesi prima era tornato libero dopo aver scontato 10 mesi per un altro episodio di spaccio. Resta, dunque, l’interrogativo della mancata comunicazione al pm di quanto avvenuto giovedì, un fatto che merita chiarezza tanto più di fronte a un episodio di violenza nei confronti dell’agente al quale, in ospedale, è stata riscontrata una lussazione alla spalla che avrebbe potuto far ipotizzare a carico del giovane detenuto - ritenuto l’aggressore - il reato di lesioni personali: un elemento “forte” per mettere a conoscenza il pm di turno di quanto successo. Così, invece, non è stato. Al momento l’inchiesta aperta dal pm Baccaglini è senza indagati, però gli accertamenti vanno avanti. Già tra venerdì e sabato sono stati sentiti detenuti e agenti, mentre altri ospiti della casa circondariale e personale dipendente sono stati ascoltati pure ieri per ricostruire ogni dettaglio. La morte del ragazzo risulterebbe compatibile con l’impiccagione da quanto emerso nel corso dell’autopsia, il che non sgombra il campo da dubbi su possibili negligenze e omissioni. Che cosa è accaduto davvero intorno alle 18 di Ferragosto? Abdelaziz Daoudi, rinchiuso in una cella con altri cinque detenuti, chiede di raggiungere l’infermeria per farsi consegnare dei medicinali. In un atrio della casa circondariale, nel quale convergono più “bracci” della struttura, sarebbe avvenuto l’alterco con l’agente di polizia. Il ragazzo, in forte stato di alterazione, viene rinchiuso in isolamento in uno stanzino che s’affaccia lungo l’infermeria, utilizzato per le perquisizioni. E qui rimane da solo, senza un controllo a vista costante. Poco più tardi, la tragedia: formando un cappio con i lacci delle scarpe, Daoudi s’impicca. Trascorrono alcuni minuti e il gesto estremo viene scoperto. Scattano i soccorsi con le manovre rianimatorie, ma le condizioni del detenuto appaiono serie: intorno alle 20 il trasferimento urgente in ospedale. Inutile. Nel primo pomeriggio di venerdì il ventenne muore. Solo allora è informato il pm Baccaglini. Appena la notizia si diffonde nella casa circondariale (oltre 245 detenuti a fronte di una capienza di 97 posti) si scatena la rivolta per chiedere giustizia e chiarezza, un obiettivo al quale sta lavorando la procura. Intanto nelle prossime settimane nella casa circondariale è prevista la visita del sottosegretario alla Giustizia Giuseppe Berretta : “L’abbiamo sollecitata e l’ha garantita il consigliere regionale Piero Ruzzante” conferma Giampiero Pegoraro, coordinatore provinciale della Cgil polizia penitenziaria. Modena: dal Garante regionale nuovo controllo a Casa di Reclusione di Castelfranco Asca, 20 agosto 2013 L’ufficio del garante regionale dell’Emilia Romagna per le persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale ha effettuato il 12 agosto una visita alla casa di reclusione di Castelfranco Emilia (Mo) per sostenere colloqui con gli internati. L’intervento dell’Ufficio era stato richiesto da un carcerato e poi sollecitato dall’amministrazione penitenziaria, in quanto questi aveva intrapreso a scopo dimostrativo uno sciopero della fame, ora cessato, per richiamare l’attenzione sulla sua vicenda detentiva, richiedendo della possibilità di lavorare per mantenere la famiglia. Lo si apprende da una nota del consigliere regionale dell’Emilia Romagna. La magistratura di sorveglianza ha riscontrato diverse difficoltà a procedere alla revoca della misura di sicurezza per la mancanza di una rete di riferimento che possa supportare queste persone all’esterno: spesso non hanno una famiglia, e se c’è, i rapporti si sono nel tempo deteriorati. Non hanno neanche la possibilità di avere un alloggio, mancano concrete opportunità di lavoro e, nella progettazione di percorsi all’esterno, risulta difficile la presa in carico da parte dei servizi del territorio. Alcuni carcerati sono anziani e per questo sarebbe opportuno ragionare di cessata pericolosità sociale per raggiunti limiti di età, con conseguente revoca della misura detentiva. Inoltre i percorsi trattamentali di alcuni internati non vanno a buon fine per oggettiva mancanza di collaborazione da parte degli stessi, che non sempre riescono a rispettare le prescrizioni imposte nei percorsi all’esterno, anche in ragione di condizioni personali particolarmente critiche. Particolarmente complessa è la situazione degli internati stranieri senza permesso di soggiorno, i cui percorsi di regolarizzazione sono difficili e la cui mancanza di una rete di riferimento all’esterno è ancor più acuta. Quanto alle pratiche relative ai permessi di soggiorno, si segnala positivamente la recente iniziativa del Comune di Castelfranco Emilia, che ha iniziato ad entrare periodicamente in carcere per offrire assistenza a chi ne necessita. Nei mesi scorsi, l’ufficio del garante ha posto formalmente al Dap (dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) due questioni relative alla struttura modenese. La prima, si legge nella nota, riguarda il timore che in una struttura che già si caratterizza per una rilevante presenza psichiatrica, con la chiusura dell’Opg di Reggio Emilia possa aumentare il numero degli internati già portatori di problemi psichiatrici, collocati in un luogo comunque inidoneo per mancanza di personale dedicato. La seconda riguarda la “territorializzazione” delle misure di sicurezza detentive, agevolando, laddove possibile e utile, il rientro e l’avvicinamento ai luoghi di residenza o comunque di frequentazione abituale, favorendo la presa in carico da parte dei servizi. A questo fine, potrebbero essere utilizzati appositi spazi degli istituti penitenziari esistenti, soluzione consentita dall’ordinamento penitenziario; va ricordato che una parte degli internati sfollati a causa del terremoto da Saliceta San Giuliano (Mo) è stata assegnata in via definitiva in una apposita sezione del carcere di Padova. Viterbo: i Sindacati di Polizia penitenziaria contro la direzione “problemi non risolti” Il Messaggero, 20 agosto 2013 Dallo stato di agitazione alla manifestazione in piazza. Continua la protesta degli agenti della Polizia penitenziaria del carcere viterbese, che chiedono “il commissariamento della Direzione”, Sotto accusa, per le sigle sindacali del personale Sappe, Uil-pa, Osapp, Sinappe, Cisl-Fns, Ugl-Pp e Cgil-fp, “la gestione da parte della direttrice Teresa Mascolo che attua una linea troppo soffice in un Istituto di Massima Sicurezza come quello viterbese”. I problemi di Mammagialla, nonostante le proteste reiterate, non sono stati risolti. “Il personale è demotivato, stanco e sfiduciato da una Dirigente che impone una politica gestionale non condivisibile e che tende a rispondere alle aggressioni con le parole”. I sindacati degli agenti riconoscono che “un cambio al vertice alla Direzione, da noi richiesto, non sarà la panacea di tutti i mali, ma deve costituire la base attuare, sia dai vertici regionali quanto quelli dipartimentali, una serie di misure che impediscano che Viterbo continui a essere un contenitore per soggetti con problematiche di varia natura, comportamentali e psichiatrici”. E anche se Viterbo ha uno scarso indice di criminalità sul territorio, “non deve essere la scusa per l’amministrazione penitenziaria per riempire il carcere con soggetti spesso pericolosi, che provengono da altre realtà. Auspichiamo che sia il Comune che la Provincia, prendano una posizione netta su questo. Altresì occorre una verifica della struttura, sorta negli anni ‘90 e lasciata al degrado strutturale a causa di mancanza di fondi. Sappiamo di gravissimi problemi al sistema antincendio, l’igiene poi lascia a desiderare”. Da qui la decisione di organizzare un ulteriore incontro con il personale, “che farà da cappello a una manifestazione che porterà in piazza tutta la delusione del personale di Polizia penitenziaria che chiederà alla Direzione e al dipartimento più rispetto per la propria professionalità e maggiore sicurezza nelle proprie mansioni”. Siracusa: cibo scarso e sovraffollamento, protestano detenuti e agenti penitenziari www.siracusanews.it, 20 agosto 2013 Sovraffollamento e cibo scarso tra i problemi delle carceri. A lamentare tale questioni proprio i detenuti della casa circondariale di Cavadonna. “Pane e frutta sono di qualità scadenti” segnala il detenuto Sebastiano Guzzardi, affermando anche che "se finora non c'è stata traccia di malcontento è stato solo per la responsabilità dei reclusi che cercano di rendere più costruttiva la loro detenzione". La condizione delle carceri è sotto accusa anche da parte della Polizia penitenziaria; Sebastiano Bongiovanni, Consigliere nazionale Ugl, affronta spesso il tema dei numerosi suicidi da parte di “baschi azzurri” sottolineando che operano all'interno di caserme che “dovrebbero essere chiuse per quanto fatiscenti”. Quest'ultimo rivolge infine un appello al Presidente della Repubblica, da sempre attento al problema delle prigioni, augurandosi che possa interessarsi per trovare una soluzione a tali e importanti problemi. Cagliari: Sdr; detenuto malato trasferito dal Centro Clinico di Buoncammino a Nuoro Ristretti Orizzonti, 20 agosto 2013 “Le condizioni di salute, in particolare la necessità di effettuare costanti sedute di fisioterapia per non perdere l’uso di un braccio, alleviare i forti dolori e rimediare alla scarsa mobilità della mano per la parziale amputazione dell’avambraccio sinistro, avevano reso indispensabile il ricovero di Michele Ascone nel Centro Clinico di Buoncammino. Trasferito temporaneamente in Calabria per un processo, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria tuttavia lo ha assegnato al carcere di Badu e Carros di Nuoro. Un atto che conferma la scarsa attenzione verso i cittadini privati della libertà”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, avendo appreso da una lettera della vittima protagonista del ritorno a Nuoro del cittadino calabrese privato della libertà. “Michele Ascone - sottolinea Caligaris - era stato trasferito da Badu e Carros a Cagliari proprio perché in assenza di un’apposita terapia correva il rischio che il braccio e la mano perdessero la sensibilità. Recentemente però il Dipartimento ne aveva disposto il trasferimento in Calabria per permettere al detenuto di partecipare alle udienze relative alla sua posizione giudiziaria. Anziché farlo rientrare nella Casa Circondariale del capoluogo sardo, dove avrebbe dovuto proseguire la fisioterapia, è stato invece riportato a Nuoro annullando il provvedimento con cui il Dap ne aveva disposto l’assegnazione a Cagliari”. “È assurdo - conclude la presidente di SdR - che i funzionari del Dap non ricordino i provvedimenti che hanno assunto nei precedenti mesi. Un segnale inequivocabile di come la burocrazia sia insensibile alle istanze dei detenuti e come dimentichi i propri atti. In questo caso specifico inoltre sembra quasi un accanimento ad personam”. Non è la prima volta infatti che Michele Ascone, 34 anni, di Gioia Tauro, subisce un atto di ingiustizia dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Nel 2010 il DAP non aveva adempiuto ad un’ordinanza del Magistrato di Sorveglianza di Nuoro che aveva dichiarato l’illegittimità dell’assegnazione del detenuto alla Casa Circondariale di Badu e Carros. Successivamente mentre l’uomo si trovava per un’udienza a Vibo Valentia, nonostante il dirigente sanitario avesse richiesto che il paziente venisse sottoposto ad un ciclo di chinesi ed elettrostimolazione, venne riportato a Nuoro dove non può essere curato. La vicenda era stata portata all’attenzione della Procura della Repubblica a cui il detenuto si era rivolto. Ascone aveva infatti denunciato il mancato rispetto del diritto costituzionale alla salute. Trento: “quale carcere” nella nuova puntata di Formart programma televisivo provincia Asca, 20 agosto 2013 “Il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni”: le parole di Fedor Dostoevskij hanno fatto da filo conduttore ad una giornata di riflessione organizzata dall’ordine degli avvocati di Trento e dalla camera penale sul tema delle carceri, uno dei più attuali e complessi dei nostri giorni. È un appuntamento che si ripete da alcuni anni ed è arricchito da mostre fotografiche incontri e convegni per mettere a fuoco un argomento politico, umanitario ma anche tecnico e normativo. Se ne parla nella nuova puntata di Formart, il programma televisivo dedicato alle iniziative culturali della provincia autonoma di Trento. È quanto si legge in una nota della Pat. Immigrazione: chiuso Cie Crotone, devastato da una rivolta dopo morte di un detenuto di Raffaella Cosentino La Repubblica, 20 agosto 2013 Il decesso di un marocchino all’origine della protesta che ha portato alla chiusura del Centro di identificazione e di espulsione di Isola Capo Rizzuto. L’uomo sarebbe morto per un malore, di cui non si conoscono le cause. Si chiamava Moustapha Anaki, era marocchino e aveva 31 anni. È morto in circostanze ancora non chiarite mentre era trattenuto nel Centro di identificazione e di espulsione “Sant’Anna” di Isola Capo Rizzuto, vicino a Crotone. Ufficialmente il decesso è stato causato da un non meglio specificato “malore”. L’uomo era recluso nel Cie da circa un mese perché immigrato irregolare in attesa del rimpatrio ed era stato trasferito nel centro calabrese dopo avere scontato una pena nel carcere di Salerno. Si trovava in Italia da sette anni, sempre senza permesso di soggiorno, condizione che dal 2009 anche in Italia costituisce reato, anche se non punito con la detenzione in carcere. La notizia è trapelata dai familiari che vivono a Roma e in parte in Calabria. Dopo la morte dell’uomo, avvenuta il 10 agosto, nel Cie è scoppiata una violenta protesta che ha portato, secondo quanto riferisce la prefettura, alla totale inagibilità del centro fino alla chiusura intorno a ferragosto. Il Centro è stato così svuotato da tutti i trattenuti che avevano condiviso la detenzione amministrativa con Anaki. I reclusi, che il ministero dell’Interno chiama “ospiti”, sono stati sparpagliati in vari altri centri di detenzione amministrativa italiani. “È un caso abbastanza singolare quello che è successo” spiegano dalla prefettura di Crotone, dove confermano che il 12 agosto c’è stata una rivolta, “a seguito della morte di un ospite per un malore”. Questa la versione ufficiale comunicata in Prefettura sia dalla questura, sia dall’ente gestore, le Misericordie di Isola Capo Rizzuto, fondate da don Edoardo Scordio. Le Misericordie hanno vinto l’appalto per la gestione dal 2012 al 2015 e sono responsabili anche dell’assistenza sanitaria all’interno. Il vicepresidente nazionale Leonardo Sacco parla di “una morte naturale, Anaki soffriva di cardiopatia. La protesta era invece legata ai tempi di permanenza”. Il funzionario della prefettura incaricato di occuparsi del Centro era in ferie e afferma di avere notizie solo frammentarie, in attesa di comunicazioni sugli esiti dell’autopsia. Dalla prefettura di Crotone fanno sapere anche il Cie è chiuso “temporaneamente”, ma “a tempo indeterminato”, a causa dei danni particolarmente ingenti. La struttura, secondo quanto si apprende, è andata completamente distrutta ed è stata anche incendiata dai trattenuti. La causa della chiusura improvvisa del centro, sarebbe quindi la rivolta e non la morte di uno degli internati. Il Cie, la prigione amministrativa, era stato aperto nel 2009, poi chiuso nel 2010 dopo un’altra rivolta e riaperto solo nel 2012, appena ristrutturato. Il centro sorge all’interno di un’ex area militare che comprende anche il Cara, il centro di accoglienza per richiedenti asilo, dove in questo momento sono ospitate 1700 persone, il doppio della capienza massima, in seguito ai trasferimenti da Lampedusa e da Reggio Calabria. Sempre secondo la prefettura, i migranti nel Cara sono “in sistemazione temporanea”, in attesa di ulteriore trasferimento. Anche questo centro è gestito da quindici anni dalle Misericordie e sarà visitato mercoledì 21 dalla ministra dell’Integrazione Cecile Kyenge Kashetu. I Cie restano strutture difficilmente accessibili per la stampa. Abbiamo fatto richiesta alla prefettura di Crotone a febbraio scorso per poter entrare e verificare di persona le condizioni di trattenimento, ma non è stato possibile “per motivi di ordine pubblico”. Abbiamo rinnovato la richiesta per il Cie e per il Cara un mese fa, ma siamo ancora in attesa di risposta. Il Cie di Crotone è stato gestito con il budget più basso d’Italia, di soli 21,4 euro a persona, secondo quanto riferisce l’indagine “Arcipelago Cie” dell’associazione Medici per i diritti umani. Un’ispezione diretta effettuata dal tribunale di Crotone alla fine dello scorso anno, ha rilevato “che gli immigrati sono stati trattenuti nel Cie in strutture al limite della decenza”, e ancora “costretti a dormire su materassi luridi privi di lenzuola con coperte altrettanto sporche”, “con lavabi e bagni alla turca luridi, asciugamani altrettanto sporchi” e “costretti a mangiare senza sedie né tavoli in quantità insufficienti”. Per questo, a dicembre 2012 il giudice Edoardo D’Ambrosio ha assolto tre immigrati dall’accusa di avere danneggiato il Cie nel corso di una rivolta, affermando che hanno agito per legittima difesa. Secondo la sentenza, il loro trattenimento era illegittimo e “gli imputati non avevano altro strumento per difendere i loro diritti che quelli in concreto impiegati”. Immigrazione: Manconi (Pd); Cie peggio di un carcere, rivolte ne provano il fallimento di Maria Elena Vincenzi La Repubblica, 20 agosto 2013 Luigi Manconi, presidente della commissione diritti umani del Senato: all’interno dei Cie condizioni di vita disastrose. “Quello dei Cie è un sistema estremamente dispendioso, spesso disumano, largamente inefficace. E gli episodi di Gradisca e Crotone sono la tragica conferma di un fallimento che deve indurre a ripensare da capo l’intero sistema. La proposta del ministro Kyenge di ridiscutere la Bossi-Fini può essere l’occasione giusta: quella normativa oltre a essere profondamente iniqua, si è rivelata inefficace perfino rispetto alle finalità di esclusione che intendeva perseguire. È tempo di considerare l’immigrazione come un’opportunità e una ricchezza possibile, non come una minaccia sociale”. Non usa mezzi termini il presi-dente della commissione Diritti Umani di Palazzo Madama, Luigi Manconi. Senatore, davvero le condizioni in questi centri sono così terribili? “Mi limito a due esempi. Sul piano giuridico il centro non è un carcere e i trattenuti hanno diritto di comunicare con l’esterno. Tuttavia, nella struttura friulana i telefonini sono stati consentiti appena qualche giorno fa e solo grazie all’intervento della deputata Serena Pellegrino. A Crotone, grazie alla gara al ribasso, la spesa quotidiana per trattenuto è scesa a21 euro: sul piano dei diritti e della condizioni di vita è un disastro”. È solo un problema di costi? “I Cie sono 13 e le persone lì trattenute sono mediamente un migliaio. Ogni struttura è organizzata in maniera diversa perché non esiste un unico ente amministratore. La gestione viene affidata con gare di appalto vinte riducendo al minimo il costo pro-capite e pro-die. Cifre spesso ridicole che non permettono di rispettare i diritti fondamentali e nemmeno di osservare le linee guida del Viminale. Tanto che in moltissimi centri si lamentano paurose carenze sanitarie. Anche per questo, con la Commissione stiamo visitando tutti i Cie e il 10 settembre saremo a Gradisca”. Le cronache di questi giorni raccontano anche altri disagi… “La cosa che più colpisce, parlando le persone trattenute, è la loro difficoltà a capire che cos’è quel posto e perché sono finiti lì. Molti degli “ospiti” (così vengono chiamati, ed è una definizione che suona beffarda) provengono dal carcere e, dopo avere scontato la pena, scoprono di dover subire la sanzione accessoria dell’espulsione. Espulsione che, in realtà, arriva solo per poco più del 40% di coloro che passano per i Cie”. Ma chi sono questi “ospiti”? “Le persone straniere prive di documenti: chi non ha presentato in tempo la domanda di protezione umanitaria, chi aveva un permesso di soggiorno e l’ha perso perché ha perso il lavoro, chi non è mai riuscito a regolarizzarsi per le più svariate ragioni. La gran parte di essi - ed è ciò che sfugge all’opinione pubblica-non ha commesso alcun reato, bensì solo quello che fino a poco tempo fa era un illecito amministrativo. Per questo oggi si trovano in una struttura che è spesso assai peggiore di un carcere”. Perché? “L’una accanto all’altra, si trovano sia persone che parlano benissimo italiano e hanno già svolto percorsi di integrazione andati a buon fine, sia chi, da poco arrivato, avrebbe bisogno di essere accolto in strutture capaci di offrire un primo orientamento. All’interno di questi centri quasi mai viene organizzata alcuna attività, con il risultato che il tempo passa e la frustrazione aumenta. Un tempo vuoto, da trascorrere dentro vere e proprie gabbie, dove domina l’incertezza: perché sono qui, quanto rimarrò, dove andrò dopo?”. Immigrazione: ministro Kyenge, su Cie aprire discussione con Viminale Ansa, 20 agosto 2013 “È importante aprire con il Viminale, che si occupa di queste situazioni, un fronte di discussione. Isola Capo Rizzuto non deve essere visto come un caso locale ma nazionale”. Lo ha detto il ministro Cecile Kyenge tornando a parlare del Cie calabrese chiuso una decina di giorni fa in seguito ai danni alla struttura provocati da una protesta di migranti conseguente alla morte di uno degli ospiti dovuta, secondo la autorità, a cause naturali. Ass. Funzionari Polizia: no Cie per scarcerati “Al fine di ridurre le rivolte nei Cie occorre evitare, il più possibile, che gli scarcerati vi facciano ingresso perciò, attraverso una seria collaborazione interistituzionale tra i Ministeri dell’Interno, della Giustizia e degli Esteri si trovi la soluzione, anche normativa, affinché si possano avviare le procedure di espulsione per l’extracomunitario irregolare il giorno stesso del suo ingresso in carcere”. È quanto sottolinea Enzo Marco Letizia, segretario nazionale dell’Associazione Nazionale Funzionari di Polizia. “Andrà, altresì, favorita - continua - l’identificazione dei soggetti sprovvisti di documenti negli istituti di detenzione con protocolli di intesa con le autorità consolari accreditati in Italia. È essenziale per la sicurezza dei Cie accompagnare direttamente alla frontiera gli scarcerati senza che essi transitino per il Centro di identificazione, sono soggetti che hanno già mostrato la loro pericolosità attraverso la commissione di reati”. Immigrazione: Messina (Idv); chiudere Cie che si trasformano in lager 9Colonne, 20 agosto 2013 “La rivolta degli immigrati nel Cie di Isola Capo Rizzuto in seguito alla morte del marocchino Moustapha Anaky desta molta preoccupazione. Chiediamo al ministro Kyenge di mandare un’ispezione presso questo centro d’accoglienza e in tutti i centri italiani dove sono avvenuti fatti analoghi”. È quanto afferma in una nota il segretario nazionale dell’Italia dei Valori, Ignazio Messina, che aggiunge: “Bisogna chiudere i Cie se questi si trasformano in lager e se venissero riscontrati maltrattamenti o condizioni che vanno contro la dignità umana. Abbiamo già detto in passato che il nostro Paese ha nel suo Dna la cultura dell’accoglienza che non è compatibile con la legge Bossi-Fini che va radicalmente cambiata”. “Il bellissimo episodio dei bagnanti siracusani che formano una catena umana per salvare alcuni immigrati siriani, ci fa capire e ci dimostra quanto i cittadini italiani siano avanti rispetto ad alcuni politici”, conclude Messina. Immigrazione: Unione delle Camere Penali; interrogarsi su livello di civiltà dei Cie Adnkronos, 20 agosto 2013 “Già in passato il Cie di Crotone era stato oggetto di rivolte, e rispetto a quei fatti, che oggi sono ripetuti tanto da portare alla chiusura del Centro, il giudice del luogo ha assolto gli ospiti accusati di danneggiamento in ragione delle condizioni disumane riservate agli immigrati, tali da rendere giustificata e comprensibile la ribellione”. A denunciarlo è l’Ucpi, che aggiunge: “due mesi fa era stata proprio l’Unione delle Camere Penali a denunciare la persistenza nel centro calabrese della intollerabile situazione di illiceità e violazione dei diritti umani, situazione purtroppo comune a quella di altri Cie, dei quali a questo punto dovremmo attendere e sperare la chiusura soltanto a seguito di analoghe giustificate devastazioni da parte dei reclusi, magari conseguenti al decesso di qualche migrante”. “È il caso, peraltro, di rammentare - continua l’Ucpi - che gli extracomunitari sono costretti a permanere in veri e propri lager, nei quali non vige alcun rispetto neanche delle condizioni di vivibilità previste per le carceri, nonostante gli stessi non siano detenuti ma soltanto trattenuti per mesi in attesa di espletamento delle pratiche amministrative che consentano il rimpatrio”. La prosecuzione di questi trattamenti nei Cie, ai quali si affianca “l’inadempienza dell’Italia rispetto ai diritti dei detenuti, già riconosciuta dalla Cedu e non ancora risolta - conclude in una nota l’Ucpi - pone un serio interrogativo sul livello di civiltà e attenzione ai diritti dell’uomo esistente nel nostro paese”. Immigrazione: i Medici per i Diritti Umani chiedono il superamento del sistema dei Cie Adnkronos, 20 agosto 2013 Medu, Medici per i Diritti Umani, esprime “profonda costernazione per il decesso del giovane Moustapha Anaki trattenuto presso il Centro di Identificazione ed Espulsione (Cie) Sant’Anna di Isola Capo Rizzuto (Crotone)”. Il Cie, si legge in una nota, è stato visitato dai medici e gli operatori socio-legali di Medu lo scorso gennaio e in quell’occasione venivano rilevate gravi carenze. Il Cie appariva infatti in pessime condizioni strutturali” “Le criticità specifiche riscontrate a Crotone non sono estranee ai restanti Cie, in particolar modo in seguito all’introduzione dei bandi di gara al massimo ribasso, che adottano come unico criterio di assegnazione quello dell’offerta economica minima, indipendentemente dalla qualità dei beni e dei servizi garantiti. Ciò - viene rilevato - ha inevitabilmente determinato un ulteriore scadimento delle strutture e dei servizi”. “Quello di Crotone - prosegue Medu - non è un caso isolato, ma la prevedibile conseguenza di un sistema, quello della detenzione amministrativa, incapace di garantire il rispetto dei diritti umani fondamentali e della dignità umana, inefficace e inefficiente al fine di contrastare l’immigrazione irregolare (attraverso i Cie si stima che venga rimpatriato ogni anno appena l’1% dei migranti irregolari presenti in Italia), realisticamente non riformabile a quindici anni dalla sua istituzione”. Medu “torna a chiedere con forza il definitivo superamento dei Cie, ormai urgente e indifferibile, e l’adozione di nuove strategie per la gestione dell’immigrazione irregolare più efficaci e rispettose della dignità umana”. Immigrazione: un Tavolo con le Associazioni… così verrà archiviata la Legge Bossi-Fini di Massimo Solani L’Unità, 20 agosto 2013 Permessi di soggiorno per la ricerca di lavoro, superamento del sistema dei Cie e abolizione del reato di clandestinità. A settembre il tavolo con le associazioni. Abolire il reato di clandestinità. Cambiare la Bossi-Fini è possibile. Lo ha detto Mara Carfagna dividendo il Pdl, lo ha confermato la ministra Kyenge ricordando che a settembre si aprirà un tavolo con le associazioni. Tra le proposte anche il superamento dei Cie. Alle associazioni e ai sindacati, il ministro dell’Integrazione Cecile Kyenge la promessa l’ha fatta lo scorso 30 luglio in occasione della presentazione del piano nazionale antirazzismo: “a settembre convocheremo il tavolo immigrazione creato dall’allora ministro Riccardi e in quella sede si comincerà a parlare di modifiche alla legge Bossi-Fini”. Il tema dei temi, il totem voluto dalla Lega e dalla destra che ha usato per anni il tema immigrazione per le sue battaglie propagandistiche. Un totem che adesso, instabilità e maggioranze parlamentari trasversali permettendo, potrebbe iniziare a vacillare davvero. “La legge va rivista - ha annunciato infatti il ministro - ma seguendo un metodo fondato sulla condivisione e sul coinvolgimento di tutti gli attori sociali, senza preclusioni e ascoltando anche chi ha idee alternative”. E sul tavolo del gabinetto del ministro, le proposte non mancano. Riflessioni e dossier che le associazioni non hanno smesso di produrre in questi anni e che adesso tornano d’attualità in vista degli incontri che lo staff del ministro fisserà. Fra le tante proposte, però, ce ne sono alcune che in questi anni di attività sul fronte immigrazione hanno già ricevuto il plauso di Cecile Kyenge e che adesso, è la speranza, orienteranno il dibattito attorno alla riforma della Bossi Fini. Il primo punto nell’agenda ministeriale, come più volte suggerito da sindacati e associazioni che si occupano di immigrazione, è quello relativo al meccanismo che lega il permesso di soggiorno ad un contratto di lavoro e che prevede la cessazione del diritto di restare in Italia dopo sei mesi da disoccupati (il termine è stato alzato ad un anno nella scorsa legislatura). L’idea, infatti, è quella di introdurre una forma di permesso di soggiorno (dalla durata di un anno) proprio per la ricerca di una occupazione con quote fissate all’interno dei decreti flussi. “Una soluzione -spiega Marco Paciotti, Coordinatore Forum Nazionale Immigrazione Pd - che introdurrebbe dei criteri di doverosa flessibilità e che incentiverebbe gli ingressi regolari al contrario delle norme “spot” volute dalla Lega che sono diventate di fatto una fabbrica di clandestini, come testimoniato dalle sanatorie che hanno seguito l’introduzione della Bossi-Fini”. “Resta il fatto che per noi - conclude Paciotti - quella legge non può essere emendata. Va gettata nel cestino e stravolta nella sua concezione fondante che, assieme ai pacchetti sicurezza dell’ex ministro Maroni, ha unicamente creato precarietà anche fra gli immigrati regolari”. Allo studio, inoltre, anche la possibilità di reintrodurre la figura dello “sponsor” che garantisce per l’ingresso in Italia del migrante con la possibilità di allargare l’istituto non solo ai singoli, ma anche alle categorie datoriali o ai sindacati per garantire così una maggiore possibilità di incontro legale fra la domanda e l’offerta di lavoro. Il secondo punto allo studio, e sostenuto con forza da tutte le associazioni, è quello relativo al superamento del sistema dei Cie. Un tema già caro al ministro Kyenge: “Gli immigrati - ha infatti spiegato a più riprese - non possono essere trattenuti per un anno e mezzo in Centro di identificazione ed espulsione solo perché non hanno i documenti”. La pensa allo stesso modo anche l’Europa che sul tema ha più volte bacchettato l’Italia. “Per quanto ci riguarda si tratta di un elemento fondamentale e discriminante - spiega Filippo Miraglia, responsabile immigrazione Arci - perché basato unicamente su una concezione repressiva ai danni di chi non ha commesso alcun reato. Non si possono chiudere le persone fino a 18 mesi in luoghi in cui sono sospesi i diritti soltanto perché non hanno documenti. È arrivato il momento di chiudere la stagione del diritto speciale”. In quest’ottica, poi, rientra anche la cancellazione del reato di immigrazione clandestina introdotto dall’ex ministro Maroni con il suo pacchetto sicurezza. Una ipotesi di reato che ha ingolfato le procure di tutta Italia, che non ha praticamente prodotto alcun risultato (secondo la Direzione generale della giustizia penale nel primo anno e mezzo di applicazione aveva prodotto soltanto 12 condanne e 18 patteggiamenti) e che anche la Corte di Giustizia europea ha “cassato” bocciando la reclusione, inizialmente prevista, da 1 a 4 anni. “I soldi che l’Italia ha speso in questi anni per cause assolutamente inutili che spesso hanno contribuito a paralizzare le procure - attacca Miraglia - non hanno contribuito in nessun modo alla sicurezza, ma sono stati spesi esclusivamente per le campagne elettorali della Lega”. Non è tutto, però, perché le soluzioni allo studio in queste settimane per andare oltre la Bossi Fini sono tante e insistono su punti, magari meno conosciuti, ma da anni al centro del dibattito. Come il riconoscimento dei titoli di studio conseguiti all’estero, la “reversibilità” in patria dei contributi versati in Italia o l’affidamento all’amministrazione civile di tutte le pratiche (dai tempi interminabili) per la concessione o il rinnovo dei permessi di soggiorno. Senza dimenticare il dibattito, ampiamente avviato, sullo “Ius Soli”. India: italiani condannati all’ergastolo, tra due settimane processo alla Corte suprema Ansa, 20 agosto 2013 Dopo quasi sette mesi di attesa si aprirà tra due settimane il processo di terzo grado per Tomaso Bruno ed Elisabetta Boncompagni, i due italiani (lui di Albenga, lei di Torino) chiusi da oltre tre anni e mezzo nelle carceri indiane con l’accusa di avere ucciso l’amico Francesco Montis. Martedì 3 settembre, la corte Suprema di New Delhi inizierà a esaminare il ricorso con cui l’avvocato Mukul Rohatgi ha chiesto l’annullamento dell’ergastolo inflitto ai due turisti dal tribunale di Varanasi nel luglio 2011 e confermato dall’alta corte di Allahabad, l’equivalente della corte d’appello italiana, nell’ottobre 2012. Il 4 febbraio scorso i giudici di New Delhi avevano dichiarato ammissibile la richiesta di ridiscutere le prime due sentenze. I parenti e gli amici di Bruno e Boncompagni auspicano che la Cassazione indiana rispetti i tempi seguiti per gli altri procedimenti. Potrebbero bastare una o due udienze per arrivare al verdetto. Stati Uniti: sostenibilità ambientale e carcere, il progetto di Washington compie 5 anni www.greenreport.it, 20 agosto 2013 Nei 12 istituti penitenziari dello Stato di Washington si studiano le scienze naturali e si mettono in pratica. Per il beneficio di tutti: comunità carceraria, spesa pubblica, autodeterminazione dei detenuti. Ha compiuto i 5 anni il meritevole e innovativo progetto del Dipartimento di Correzione dello Stato di Washington, creato e portato avanti insieme all’Evergreen State College. Si tratta di un progetto nato per connettere i temi della sostenibilità ambientale ed economia alla gestione delle carceri, intesa sia come gestione logistica dei consumi e dei bisogni delle strutture penitenziarie, ma anche rispetto al lavoro dei detenuti, che in questo modo si confrontano con temi e valori importanti, che riguardano spesso la loro stessa vita all’intervo della prigione, ma non solo. SPP - è la sigla del progetto “Sustainability Prison Project” - oggi può vantare la presenza in tutte e 12 le carceri di Washington, dove porta avanti non solo una politica di riduzione dei consumi, ma anche una politica detentiva rispettosa dei diritti umani e compatibile con le finalità di recupero e reinserimento sociale dei detenuti, per i quali il tempo, in questo modo, è scandito dall’apprendimento di conoscenze utili e dal lavoro sano. Il Dipartimento di Washington si occupa di oltre 17.000 detenuti nelle 12 prigioni dello Stato: una mole piuttosto importante che richiede impegni economici statali di oltre 1 miliardo di dollari all’anno. In fondo, si fa notare, le stesse carceri sono delle piccole città operative 24 ore su 24, con necessità e costi spesso elevati, e se i principi di sostenibilità devono valere per le città è necessario che valgano anche per le istituzioni carcerarie. È ciò che ha pensato lo stesso Dipartimento, già dai primi anni 2000 quando ha avviato una rigida politica di riduzione dei consumi, di energia, di acqua, di rifiuti. In seguito, nel 2008, è stato anche avviato il progetto pilota - che ha compiuto 5 anni quest’anno - per connettere scienziati e detenuti nello studio della sostenibilità - e la connessa mole di lavoro - all’interno della vita carceraria. Il progetto, che inizialmente coinvolgeva 4 prigioni, è cresciuto e si è concentrato su tre pilastri: formazione scientifica, conservazione biologica e operazioni sostenibili, con specifici programmi per ciascuna delle 4 istituzioni carcerarie. Le attività vanno dal riciclo artigianale di oggetti di uso comune, alla creazione di compost e al giardinaggio, ma anche riparazione di biciclette e interventi veterinari, come la cura di cani e gatti “convalescenti” che attendono un’adozione. E così accade che al Cedar Creek Correction Center ci si concentri proprio nel riuso, nell’orticultura biologica, nell’allevamento di arnie, risparmio idrico ed energetico, mentre al Mission Creek Correction Center for Women ci sono anche squadre che operano insieme al dipartimento per le risorse naturali nella riapiantumazione di alberi e salvaguardia boschiva antincendio. Nel Washington Correction Center for Women c’è anche una fattoria biologica la cui produzione va a incrementare le locali scorte alimentari, e in tutte le prigioni si alterna lo studio delle scienze naturali al lavoro pratico nei campi o nei laboratori. Affascinante ad esempio il progetto di ripopolamento della rana macchiata dell’Oregon, esemplare in via di estinzione, o delle farfalle Checkerspot di Taylor o della conservazione delle piante autoctone della prateria. Al progetto hanno preso parte, in questi anni, l’Università di Washington, la Washington State University e l’Università dello Utah, come partner accademici dell’Evergreen State College, l’istituto di ricerca da cui sono nati i progetti di SPP. Le voci dei detenuti, raccolte regolarmente nel sito del progetto, raccontano di un’esperienza ben riuscita e dal grande potenziale sociale: “Mi è stato proposto di trasformare un’area colma di erbacce e rovi in un giardino”, commenta uno dei tanti detenuti che hanno preso parte al programma. “Non avevo particolari conoscenze di orticultura, ma ho accettato lo stesso. Da allora ad oggi questo è diventato più che un lavoro: è quasi una vocazione. Ho realizzato che la sostenibilità è un elemento fondamentale di una società sana, così ho cominciato a studiare e ad applicare ciò che imparavo per portare avanti la mia futura “oasi”. Sono grato all’universo per l’opportunità che mi è stata data”. Iraq: giustiziate 17 persone per terrorismo, lo scorso anno 120 esecuzioni capitali Adnkronos, 20 agosto 2013 Le autorità irachene hanno giustiziato 17 detenuti condannati a morte per terrorismo. Lo riferiscono i media locali, citando il ministro della Giustizia di Baghdad, Hassan al-Shammari, secondo cui tra i detenuti giustiziati ci sono anche un cittadino egiziano e due donne. Sono state 120 le condanne capitali eseguite lo scorso anno in Iraq, la maggior parte delle quali per terrorismo. Le ong per i diritti umani hanno spesso criticato la legge sul terrorismo in vigore nel Paese arabo perchè prevede la pena di morte non solo per coloro che eseguono atti di terrorismo, ma anche per chi li progetta. La revisione della legge è una delle richieste avanzate dall’opposizione sunnita al governo guidato dallo sciita Nuri al-Maliki. Francia: rivolta nel carcere di Blois dopo la morte di un detenuto, è tornata normalità Ansa, 20 agosto 2013 Una sessantina di detenuti del carcere di Blois oggi si sono rifiutati di rientrare nelle loro celle dopo aver appreso della morte di un altro detenuto. Ma la rivolta, riferisce la stampa locale, scoppiata in tarda mattinata, è durata solo poche ore. David Daems, segretario nazionale del sindacato Fo-Penitentiaire, ha detto che il detenuto “è deceduto per morte naturale”, ma i prigionieri hanno protestato contestando le spiegazioni date dalla direzione del carcere. Daems ha precisato che i detenuti hanno commesso atti di vandalismo, ma che il personale non è stato ferito. Per placare la rivolta, sono stati inviati come rinforzi da Parigi circa 40 membri delle squadre regionali di intervento e di sicurezza (Eris). Rivolta domata La rivolta esplosa a fine mattinata nel carcere di Blois, nel centro della Francia, dove circa 60 detenuti hanno saccheggiato un’ala del penitenziario, è stata domata e la situazione è ora sotto controllo. Lo riferisce il sindacato dei lavoratori dei penitenziari e la notizia è confermata dall’amministrazione del carcere. Il movimento di protesta era scoppiato per il ritrovamento del corpo senza vita di un detenuto, questa mattina nella sua cella. L’uomo, stando ai medici, è morto per un aneurisma. La rivolta è stata domata con l’intervento di una quarantina di agenti specializzati. Alla fine, non è stato segnalato nessun ferito. Irlanda: proteste davanti ambasciata egiziana per chiedere rilascio detenuti irlandesi Reuters, 20 agosto 2013 Proteste a Dublino davanti all’ambasciata egiziana. Una manifestazione cui hanno preso parte un centinaio di persone per chiedere la liberazione di 4 cittadini irlandesi detenuti al Cairo. Si tratta di 3 sorelle tra i 20 e i 27 anni e del fratello diciassettenne. “Siamo qui per i nostri amici” dice una delle manifestanti. “Li definiscono dei terroristi, ma non sono combattenti. Non sono terroristi. Sono 4 civili, 3 donne e un ragazzo. Vogliamo solo che tornino. Ecco la sola ragione per cui siamo qui. Non abbiamo altro scopo”. I 4 giovani sono i figli di Hussein Halawa, Imam una delle più importanti moschee di Dublino. Il Ministero degli Esteri irlandese sarebbe in contatto con le autorità egiziane. I 4 sono detenuti dalle forze di sicurezza da sabato scorso, fermati assieme ad alcune centinaia di militanti islamici quando gli agenti del Cairo hanno liberato la moschea Fath nella quale molti manifestanti si erano rifugiati dopo gli scontri tra sostenitori del Presidente deposto Morsi e le forze di sicurezza. Iran: condanna a dieci anni di carcere per cristiano che diffonde il vangelo Ansa, 20 agosto 2013 Un uomo iraniano, convertito dall’Islam al cristianesimo, è stato condannato a dieci anni di carcere per “crimine contro la sicurezza dello Stato”: la colpa imputata è quella di aver distribuito copie del Vangelo nel Paese. Mohammad-Hadi Bordbar, noto come Mostafa, originario della città di Rasht, è stato accusato di cospirazione e condannato. Come riferito all’Agenzia Fides, dagli atti giudiziari risulta che l’uomo avrebbe confessato di “aver lasciato l’Islam per seguire il cristianesimo” e, “considerando l’evangelizzazione un suo dovere, ha distribuito 12.000 vangeli tascabili”. Dopo aver ricevuto il battesimo, Mostafa, aveva avviato una “house church”, una assemblea di culto domestica, con incontri di preghiera in casa, che sono considerati “illegali”. Mostafa è stato arrestato a Teheran il 27 dicembre 2012, dopo un blitz della polizia in casa sua. Gli agenti di sicurezza hanno arrestato e interrogato per ore tutti i presenti alla riunione, circa 50 iraniani cristiani. Nella sua abitazione la polizia ha rinvenuto materiale e pubblicazioni cristiane, come film, libri, Cd e oltre 6.000 copie del Vangelo. Mostafa era già stato arrestato nel 2009, per la conversione al cristianesimo, giudicato colpevole di apostasia, poi liberato su cauzione. In un altro recente caso, segnalato a Fides dall’agenzia iraniana cristiana “Mohabat News”, un tribunale della città di Robat-Karim, a Sud di Teheran, ha condannato a un anno di carcere e a due anni di esilio al giovane Ebrahim Firouzi, un altro cristiano iraniano, per “attività di evangelizzazione e distribuzione di Bibbie”, considerate “in opposizione al regime della Repubblica islamica dell’Iran”. Nella sentenza, il giudice descrive Ebrahim Firouzi come “colpevole di atti criminali per aver tenuto incontri di preghiera in casa e diffuso i fra i giovani la dissolutezza e dubbi sui principi islamici”. Il giovane era stato arrestato nel marzo 2013. Come ricordano le Ong “Barnabas team” e “Christian Solidarity Worldwide”, impegnate per la difesa dei cristiani nel mondo, negli ultimi anni l’interesse dei giovani iraniani verso il cristianesimo ha reso la conversione al cristianesimo un problema preoccupante per le autorità iraniane. Molte chiese di lingua Farsi sono state chiuse a Teheran e in altre città, mentre la pressione sui cristiani convertiti dall’islam è in aumento. Il nuovo presidente iraniano, Hassan Rouhani, ha parlato di una possibile “riforma dei diritti civili”, chiedendo di recente al clero religioso islamico di “fermare l’ingerenza dello stato nella vita privata delle persone”.