Forse gli Usa tolgono l’ergastolo automatico al terzo reato per droga di Elton Kalica Ristretti Orizzonti, 19 agosto 2013 Il capo del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti, Eric Holder, ha annunciato che cambierà il modo in cui il suo Dipartimento applica l’ergastolo automatico al terzo reato per droga. In sostanza, l’amministrazione ha trovato un modo per aggirare la legge emergenziale che stabilisce le condanne minime obbligatorie definite dall’Anti-Drug Abuse Act. La legge in questione è quella nota anche come “Three strikes and you’re out”, vale a dire, alla terza condanna, c’è automaticamente il carcere a vita. Si tratta di una legge federale voluta della presidenza Ronald Reagan che negli anni 80 aveva basato la sua politica penale sulla guerra alla droga. In pratica, la legge introduceva una tabella all’interno della quale erano stabilite le condanne minime corrispondenti alle quantità e alle tipologie degli stupefacenti. Questa norma toglie la discrezionalità al giudice, il quale non può infliggere una pena inferiore a quella indicata nella legge federale. Le pene minime previste raddoppiano al secondo arresto, mentre alla terza volta la condanna diventa ergastolo effettivo, quindi senza possibilità di uscire in misura alternativa. Alcuni stati hanno esteso il principio di “Three strikes and you’re out” anche ad altri reati, costringendo così i giudici a condannare automaticamente all’ergastolo chi commette per la terza volta anche un reato di lieve entità. Da qualche anno, un gruppo di avvocati, docenti universitari, studiosi e personaggi famosi del cinema e dello spettacolo, sensibili ai diritti civili, ha dato vita ad un movimento il cui ultimo atto è stato la sottoscrizione di una petizione attraverso la quale chiedevano al Presidente Obama di chiudere con l’emergenza reaganiana e porre fine alla “Guerra alla droga”. Ovviamente ci vuole l’intervento del Congresso per cambiare la legge, ma nel frattempo Eric Holder, il primo afro-americano alla guida del Dipartimento di Giustizia, ha trovato il modo per evitare qualche ergastolo: con una circolare ha invitato i procuratori a non incriminare se si tratta di persone fermate per piccole quantità e non appartenenti alla criminalità organizzata. In questo modo, se il procuratore non incrimina il sospettato, si evita il meccanismo dell’ergastolo automatico alla terza condanna per droga. Quella che potrebbe sembrare una rivoluzione copernicane per gli Usa in realtà è anche il frutto di un dibattito importante che si sta svolgendo a livello internazionale in tema di ergastolo. Non a caso Holder ha deciso di pubblicizzare la sua decisione. Dopo l’abolizione dell’ergastolo nello Stato drl Vaticano e mentre la Corte Europa dei Diritti dell’Uomo condanna la Gran Bretagna per la sua forma di ergastolo effettivo, l’amministrazione Obama forse ha voluto dimostrare di avere abbastanza coraggio da rimettere in discussione l’ergastolo anche negli Usa. Già nel 2010, con il “Fair Sentencing Act”, Obama aveva preso posizione eliminando i 5 anni di pena minima obbligatoria per l’uso e il possesso di stupefacenti, ed ora potrebbe essere il momento buono per spingere il Congresso ad abrogare l’ergastolo come pena automatica al terzo reato per droga, e quindi chiudere definitivamente con quella serie di leggi emergenziali che hanno trasformato gli Stati Uniti nel paese con maggior tasso di carcerizzazione. E in Italia? In Italia delle leggi cosiddette “emergenziali”, che sono sempre cattive leggi, che nascono in momenti di particolari difficoltà di un Paese e dovrebbero per lo meno durare pochissimo, molto spesso invece non si riesce più a liberarsi: e così, da più di vent’anni ci troviamo con quell’articolo 4 bis, che rende più difficile l’accesso alle misure alternative, e in alcuni casi lo preclude del tutto. Possibile che non si riesca almeno a tornare a un sistema, in cui non esistono reati “ostativi” ed è affidata sempre alla discrezionalità dei magistrati la decisione, se concedere o meno i benefici penitenziari? Si tornerebbe così a rispettare la Costituzione e a dare quindi una speranza a tutti, anche a quegli ergastolani “ostativi”, che oggi invece sono condannati a morire in galera. Giustizia: carceri e crisi economica, le risposte che non sono date Agenzia Radicale, 19 agosto 2013 Pure quest’anno la consueta visita ferragostana nelle carceri da parte dell’On. Marco Pannella e dei Radicali italiani si è snodata in varie tappe che appaiono sostanzialmente sempre improntate alla necessità di non lasciar dimenticare il dovere morale, prima ancora che giuridico e politico, di tutelare i diritti umani e le condizioni di vita di quanti si sono visti infliggere dall’ordinamento una pena detentiva. Il sovraffollamento degli spazi, unitamente alla inadeguatezza delle strutture, alla insufficienza del personale addetto ed alla mancanza di politiche di pianificazione e di risoluzione dei problemi pure in questo settore, rendono il “problema carceri” ormai molto difficilmente gestibile. In tutto questo l’attività di sensibilizzazione svolta dai Radicali è un segnale che oltre che smuovere la coscienza, individuale e collettiva, dovrebbe potere andare in realtà ben oltre, nel senso che il dibattito e l’azione politica non dovrebbe poter coinvolgere soltanto l’apparato della amministrazione carceraria e penitenziaria, quanto piuttosto tutto il sistema complessivo dell’ordinamento statale oltre che sovranazionale ed internazionale. In questo campo cioè l’azione dei Radicali, con la richiesta di amnistia e l’impegno alla sensibilizzazione, se non adeguatamente supportata dall’apparato statale complessivo, (lo stesso dicasi per l’impegno di Amnesty International se non supportato dai vari ordinamenti statali), non potrà che rimanere, tranne che in pochi rari casi, semplicemente una pura opera di sensibilizzazione e niente di più. Per quel che riguarda l’ordinamento italiano se da una parte è vero che per la giurisdizione italiana la inflizione della sanzione penale deve avere funzione rieducativa, oltre che punitiva, repressiva e sanzionatoria, è anche vero tuttavia che le condizioni insostenibili in cui versa buona parte della popolazione carceraria poco hanno di portata e potenzialità rieducative se, come riportano le cronache degli ultimi anni, il numero di suicidi nelle carceri ha registrato un notevole incremento numerico. Ancora una volta cioè, alla bontà dei proclami (funzione rieducativa, tensione al reinserimento nella vita sociale al termine della pena), non corrisponde, nella realtà dei fatti, quanto l’ordinamento dovrebbe poter essere in grado di approntare per onorare i compiti che si era proposto di svolgere. “Nessuno tocchi Caino” è dunque un imperativo che ormai dovrebbe essere completato da una seconda esortazione del tipo “...e non lo si induca a suicidarsi”. Disquisire soltanto in questi termini sarebbe però ancora semplicistico e superficiale, dal momento che per l’ampliamento dei luoghi di pena o la creazione di strutture carcerarie maggiormente capienti, così come per il reclutamento di personale aggiuntivo, occorrono, evidentemente, ingenti quantità di risorse che lo Stato italiano, così come altri colpiti dalla crisi economica, difficilmente potranno reperire. Piuttosto la crisi economica che l’Italia sta attraversando non solo probabilmente non permetterà di risolvere questi problemi ma e` destinata ad aggravarli oltre misura. Da una parte infatti gli effetti distruttivi cagionati dall’ondata di licenziamenti che si è abbattuta sul Paese e che continua a mietere vittime, capitali ed imprese, sembrano essere stati sufficientemente attutiti da un sistema di welfare abbastanza solido ed efficiente da reggere in qualche modo alla crisi. D’altra parte tuttavia, non bisogna trascurare circostanze quali per esempio il fatto che un istituto come la Cassa Integrazione, nato in origine come sistema di superamento di crisi aziendali sufficientemente limitate nel tempo e nello spazio, si è trasformata, specie negli ultimi anni, in una prestazione a sostegno del reddito al quale si è costretti a fare riferimento di continuo e con durata tendenzialmente non più di fatto davvero predeterminabile; con tutte le pesanti ed inevitabili conseguenze che si ripercuotono sui bilanci dello Stato. Né si può sottovalutare il fatto che il progressivo dilagare della povertà, unitamente alla crescente difficoltà dello Stato e delle Regioni di reperire risorse utili per il finanziamento delle misure a sostegno del reddito, rischia di condurre ad un disastro che assumerebbe altresì le fattezze di un brusco aumento del tasso di criminalità, sia a livello individuale ed imprenditoriale che a livello finanziario, fiscale e societario. Si concretizzerebbe in tal modo il diffuso e dilagante sentimento di ribellione nei confronti delle strutture e delle istituzioni democratiche, percepite progressivamente come sempre più inadeguate e portatrici di politiche vessatorie ed inaccettabili. Con la facilmente prevedibile e terribile ulteriore conseguenza che sarebbero vanificati altresì gli sforzi compiuti negli ultimi anni contro la criminalità organizzata, la quale in condizioni di inadeguatezza delle risposte da parte dello Stato ai cittadini , ritroverebbe le migliori opportunità per una nuova “rivincita” contro la legalità e le istituzioni. A tutto ciò si deve aggiungere la considerazione del fatto che soprattutto in Italia, prima ancora che in altri Stati europei, i flussi migratori di matrice africana, medio-orientale ed orientale, non faranno che aumentare il numero di quanti avranno bisogno di lavoro e di adeguati mezzi di sostentamento per poter condurre nella legalità una esistenza onesta, libera e dignitosa. Il problema riportato all’attenzione dunque, prima ancora che essere giuridico, organizzativo e di tutela dei diritti umani, postula in realtà la risoluzione di problematiche ben più complesse; si pensi alla impellenza di sconfiggere la crisi economica, oltre che alla necessità di una seria opera di prevenzione contro una consistente recrudescenza della criminalità, nonché ad un indispensabile rafforzamento delle politiche sociali, del lavoro e della immigrazione. Soltanto il tempo saprà dire se le politiche italiane e comunitarie riusciranno a trovare sistemi utili per il conseguimento di obiettivi basilari, quali la ricreazione delle opportunità di lavoro “bruciate” dalla crisi e la tutela delle condizioni di vita dei propri cittadini; nel frattempo i problemi delle carceri non debbono certo essere dimenticati. Giustizia: un sistema penale da Paese normale di Mario Cavallaro L’Unità, 19 agosto 2013 Quando, sempre troppo tardi, ci saremo stancati di occuparci dei problemi giudiziari di B. come se fossero affari di Stato e di quelli dello Stato come se fossero affari di B., converremo tutti che il nostro sistema penale effettivamente non funziona, per i ritardi, l’arretrato di milioni di processi e per la diffusa sensazione che gli sforzi della magistratura e delle forze dell’ordine non producano quei risultati tempestivi ed efficienti che un Paese non certo tranquillo come il nostro meriterebbe. L’importante è ripartire non da altre strampalate idee che pure girano, come la centralità del dibattito intorno ad amnistia e indulto, istituti eccezionali e in qualche misura arcaici, destinati a segnare eccezionali cambiamenti di sistema e non certo a far andare a passeggio colpevoli e sgombrare i tavoli dei magistrati, ma dagli insegnamenti che proprio a noi italiani non dovrebbero mancare, primo fra tutti quello di chi non certo a caso intitolò un suo fondamentale saggio ai delitti ed alle pene. Ripartire perciò, in primo luogo, non solo da un catalogo aggiornato e realistico di delitti che destano allarme sociale, selezionando quelle condotte che ripugnano e che creano disordine sociale offendendo il principio di uguaglianza ed il rispetto della persona umana, ma anche da una loro più moderna gerarchia, che è data dalla misura e dalla specie di pena. Non basta la ormai vecchia giaculatoria di una revisione del codice penale, che non ricomprende le ormai numerosissime fattispecie penali che abbiamo prodotto negli ultimi decenni sempre predicando al depenalizzazione; occorre introdurre il principio generale della eccezionalità, residualità e severità draconiana della repressione penale, che deve intervenire, e robustamente, quando i rimedi amministrativi non hanno dato i loro effetti, sia contro chi viola le norme, sia contro i pubblici ufficiali che non abbiano saputo prendere tempestivi ed adeguati provvedimenti. Se si rovesciasse l’inefficace punto di vista panpenalistico, edilizia ed urbanistica, ambiente, trattamento dei rifiuti, energia avrebbero ad un tempo una minore pressione penale ed una più sicura ed efficiente salvaguardia dei diritti dei cittadini e del buon andamento della pubblica amministrazione. Lo stesso discorso vale per le norme sulla famiglia e sui diritti delle persone, inutilmente presidiati da norme penali invocate sempre più rigide, inutili se poi non sono invece punite le condotte di tolleranza sociale da cui il delitto scaturisce e se non si determinano sistemi di intervento efficaci anche sotto il profilo della prevenzione. Abbiamo bisogno, inoltre, di un diritto penale più orientato verso le vittime dei delitti, dove si può anche giungere ad una mediazione conciliativa, ma alla condizione che si accerti la verità e che i danni siano risarciti alla vittima e non solo formalmente. Ed infine, dobbiamo riprogettare anche un sistema di pene che non siano soltanto le detenzione, ma tengano conto della condizione del reo, della necessità costituzionale di una rieducazione di chiunque, anche di chi si presenta autore del crimine più efferato, ed anche di un adattamento della pena alla sua attitudine punitiva; la generica trasformazione delle sanzioni detentive in pecuniarie è per il ricco un insperato favore e per il povero un modo per acuire ancor di più la sua rabbia ed il suo disagio sociale. Per tutti, una diseguaglianza che vanifica la funzione stessa del diritto penale. La pena deve essere individuale, progettata e stabilita per ogni specifica situazione, pur nell’ambito ovviamente di regole generali uguali per tutti. Né si può dimenticare l’enorme peso ancora visibile della criminalità organizzata, che ci distingue fra l’altro - in un campo di cui andare assai poco orgogliosi - da tutti i grandi Paesi europei. Riprendere con misure draconiane il sogno di Falcone è divenuto anche una necessità economica e di buone relazioni europee; il tema non è dunque anche qui ergastolo sì ergastolo no, visto che persino il Vaticano ha ormai compiuto il passo di civiltà dell’abolizione del fine pena mai, ma quali strumenti sono effettivamente a disposizione per fiaccare e debellare finalmente riconducendolo a dimensione fisiologica, il fenomeno della criminalità organizzata nel nostro Paese. Quindi dobbiamo preoccuparci non di una astratta misura ormai riservata a poche decine di persone, ma a come rendere perpetuamente innocui i boss ed i grandi criminali, ad isolarli anche sotto il profilo sociale ed economico e a continuare a dare misure premiali ben amministrate a chi decide di dare un contributo informativo serio alla lotta al crimine, come strumento generale di una più moderna strategia di contrasto. In questo quadro, anche l’astratta discussione fra tifosi e detrattori dell’obbligatorietà dell’azione penale perderebbe interesse, perché tutti convergerebbero sulla strategia di un impegno condiviso sulle priorità sostanziali della politica giudiziaria e di repressione del crimine. Di buon materiale ce n’è tantissimo giacente in Parlamento e negli atti della repubblica, comprese ben quattro commissioni ministeriali che hanno affrontato il tema della revisione del sistema penale e del codice e studi corposissimi, che ne hanno individuato i presupposti e le possibili linee di indirizzo. Un motivo in più per ritornare ad essere un Paese normale. Giustizia: quel passo indietro della politica con la rinuncia all’immunità di Michele Ainis Corriere della Sera, 19 agosto 2013 Il conflitto tra politica e giustizia è il frutto avvelenato della Seconda Repubblica. Ce lo trasciniamo dietro da vent’anni, ma non se ne vede mai la soluzione. Per forza: a mettere pace servirebbe una riforma di sistema, invece tutti pensano a “sistemare” (in un senso o nell’altro) Silvio Berlusconi. Ed è un errore, perché questa baruffa tra poteri dello Stato è cominciata prima che lui scendesse in campo. A occhio e croce questa baruffa continuerà anche dopo, quando Berlusconi sarà uscito dal campo. A meno che non riusciremo a separare i due pugili sul ring, giudici e politici. Dopotutto è la vecchia idea di Montesquieu, su cui abbiamo edificato il nostro Stato di diritto: “che il potere arresti il potere”. Ma in Italia non c’è separazione fra politica e giustizia. C’è piuttosto un condominio, un territorio di competenze sovrapposte. Quando è successo? E come? Con una doppia revisione costituzionale, battezzata durante Tangentopoli. Nel 1992 venne pressoché reciso il potere di clemenza delle Camere: da allora serve la maggioranza dei due terzi. Significa che è più facile correggere la Costituzione (dove basta la maggioranza assoluta) che sfollare le carceri attraverso un’amnistia. E infatti nei 21 anni successivi ne abbiamo celebrata una soltanto (l’indulto del 2006), quando nei 150 anni precedenti ne erano state concesse 333, oltre un paio l’anno. Insomma, per castigare l’abuso abbiamo finito per vietare l’uso. Ma al tempo stesso il Parlamento ha perso l’ultima parola sulla giustizia dei reati e delle pene, decretando il primato della magistratura. Poi, nel 1993, interviene la resa. Quando la politica riscrive l’articolo 68, rinunziando alle vecchie immunità. Nel testo dei costituenti c’era l’autorizzazione a procedere, ossia il visto obbligatorio delle Camere per sottoporre a processo penale ciascun parlamentare; e c’era l’autorizzazione agli arresti, anche in seguito a una sentenza definitiva di condanna. Insomma, con le vecchie regole sul caso Berlusconi avrebbe deciso il Parlamento. Ma al di là di Berlusconi, con le vecchie regole ogni potere aveva la sua regola. Certo, a dirla così rischi il linciaggio. Non è forse vero che l’immunità parlamentare offende il principio d’eguaglianza? Vero, ma nessuno potrà mai tacciarla come un’idea incostituzionale, dato che a concepirla furono i costituenti. Anzi: relatore era Mortati, il maggiore fra i nostri costituzionalisti. E l’idea a sua volta replica una pagina di storia. Quando nel 1790 venne incriminato il deputato Lautrec, l’Assemblea nazionale francese reagì con un decreto: i parlamentari potranno essere arrestati “conformemente alle ordinanze” deliberate dai medesimi parlamentari. Da qui il rafforzamento delle assemblee legislative, da qui una diga fra politica e giustizia. Ecco, è di quella diga che c’è ancora bisogno. Magari con qualche variante in corso d’opera, per evitare gli abusi passati: un tempo certo per decidere da parte delle Camere (altrimenti l’inerzia si trasformerà in consenso tacito all’autorizzazione), una motivazione congrua sul fumus persecutionis, l’interruzione della prescrizione. D’altronde in ultima istanza resterebbe pur sempre la Consulta. Invece adesso ci resta solo un po’ di nostalgia per i bei tempi andati. Succede per le immunità, succede per la legge elettorale, dove in tanti rimpiangono il vecchio Mattarellum. D’altronde se mettessimo a confronto la Costituzione timbrata nel 1947 e quella sfigurata da 15 restyling, difficilmente premieremmo la seconda. Si stava meglio quando si stava peggio. Giustizia: beffati i 39 psicologi che avevano vinto il concorso per lavorare in carcere di Alberto Samonà www.resapubblica.it, 19 agosto 2013 Oltre al danno la beffa per i 39 psicologi che nel 2006 avevano vinto il concorso per entrare a far parte dell’amministrazione penitenziaria. Quella loro è una vicenda che si trascina da anni e che adesso potrebbe addirittura peggiorare: in tutto questo tempo, infatti, nonostante non siano mai stati assunti, avevano comunque potuto usufruire di incarichi temporanei. Adesso, una circolare del 9 agosto prevede che i consulenti esterni del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria possano addirittura ottenere priorità nell’avere assegnati questi incarichi rispetto a chi aveva vinto regolarmente il pubblico concorso. Una doccia fredda per questi 39 sfortunati psicologi, molti dei quali sono siciliani. Quattro sono, infatti, della provincia di Palermo, altrettanti di Catania, due di Caltanissetta, uno, rispettivamente, di Agrigento e di Ragusa. Spesso si dice che gli psicologi sarebbero in numero esiguo rispetto alla popolazione carceraria. Ed è vero, ma è altrettanto vero che la carenza di assistenza psicologica in ambito penitenziario è connessa proprio alla mancata assunzione di questi 39 aspiranti lavoratori, che avevano vinto un concorso nel 2006 e che, ad oggi, non sono stati ancora assunti, nonostante numerose sentenze (alcune già passate in giudicato) abbiano ribadito il loro diritto all’assunzione. “Riteniamo incomprensibile - sottolineano - il comportamento dell’amministrazione penitenziaria che da un lato nega il diritto al lavoro per 39 professionisti che hanno vinto un concorso pubblico e dall’altro il diritto dei detenuti ad un adeguato sostegno psicologico. Riteniamo eticamente non condivisibile la scelta del Dipartimento di non darci la possibilità di lavorare dopo la vittoria nel merito dei ricorsi o dopo il passaggio in giudicato dei alcune sentenze”. Pretestuose, secondo loro, le argomentazioni addotte per non assumerli, quali il passaggio di competenze sanitarie dal ministero della Giustizia al Servizio sanitario nazionale (già previsto dal 1999, molti anni prima che fosse indetto il concorso), o ancora l’attuale mancanza di pianta organica degli psicologi (cancellata senza alcun atto amministrativo). Se si pensa, poi, che in tutto il territorio nazionale risultano assunti regolarmente sono 2 psicologi alle dipendenze del Ministero della giustizia e 15 alle dipendenze delle Aziende sanitarie, che si dovrebbero occupare dell’assistenza psicologica di oltre 65 mila detenuti, allora si comprende come mai l’assistenza psicologica in ambito penitenziario sia a dir poco insufficiente. Per tappare i buchi, poi, l’amministrazione penitenziaria si avvale di circa 500 consulenti esterni, che adesso potrebbero addirittura scavalcare i legittimi vincitori di concorso. Speriamo che il riposo di ferragosto porti consiglio ai vertici del Dap e del Ministero della Giustizia. Giustizia: la lettera del presidente della Società di psicologia penitenziaria www.resapubblica.it, 19 agosto 2013 Riceviamo e pubblichiamo questa lettera. Abbiamo letto con stupore l’articolo “Beffati i 39 psicologi che avevano vinto il concorso per lavorare in carcere” pubblicato su “Resapubblica.it” il 15 agosto 2013 a firma del direttore Alberto Samonà. Non pretendiamo assolutamente che si conosca una vicenda come quella degli psicologi e criminologi penitenziari cosiddetti “esperti” previsti nell’art. 80 dell’Ordinamento Penitenziario del 1975 e che hanno avviato la loro collaborazione con l’Amministrazione Penitenziaria a partire dal 1978 dopo avere superato una selezione pubblica per titoli ed esame. Sarebbe stato più corretto, a nostro avviso, titolare: “Beffati da una recente Circolare del Dap gli esperti ex art. 80 impegnati in carcere dal 1978 e i 39 psicologi che avevano vinto il concorso nel 2006 e mai immessi in ruolo”. Abbiamo già contestato - come Società Italiana di Psicologia Penitenziaria così come lo ha fatto il Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi - la Circolare del Dap dell’11 giugno 2013 che di fatto mette fine al lavoro degli “esperti” e non si occupa dei “39 vincitori di concorso”. La carenza di assistenza psicologica è una realtà e non è, ovviamente, legata tanto alla mancata assunzione di 39 psicologici in tutta Italia (sono circa 200 gli istituti penitenziari e i detenuti sono oltre i 65.000), ma il non aver mai creato un servizio di psicologia penitenziaria e data una stabilizzazione ai circa 450 esperti che da 35 anni garantiscono gli interventi in tutti gli istituti penitenziari e, da alcuni anni, anche negli Uffici Esecuzione Penale Esterna: la stabilizzazione avrebbe creato lo spazio anche ai “39 vincitori” di concorso che hanno assolutamente il diritto di essere immessi in ruolo. Ci permettiamo di osservare che è ingeneroso e non corretto affermare che “Per tappare i buchi, poi, l’amministrazione penitenziaria si avvale di circa 500 consulenti esterni, che adesso potrebbero addirittura scavalcare i legittimi vincitori di concorso”. Abbiamo già detto che quelli che chiamate “consulenti esterni” sono i cosiddetti “esperti ex art. 80 previsti” dalla Legge 354 del 1975 e le uniche e “legittime” figure che in 35 anni hanno operato prima di qualche concorso di poche unità (trasferite nel 2008 alla sanità) e dello sfortunato concorso dei “39”, comunque, partito male poiché in quel concorso non si riconosceva l’esperienza a chi già lavorava da decenni. Da molti anni chiediamo all’Amministrazione Penitenziaria di investire a favore degli interventi psicologici (più ore, compensi adeguati, contratti stabili) e promuovere un vero servizio di psicologia penitenziaria per garantire una adeguata assistenza a tutti i detenuti: solo in questo modo si sarebbero creati gli spazi per gli “esperti”, per i “39 vincitori di concorso” ed aperta la strada anche a giovani colleghi. Nei mesi scorsi abbiamo lanciato anche un appello al Presidente della Repubblica “Operatori e detenuti travolti da un insolito destino” e messo in atto altre iniziative come si può verificare nel nostro sito (sipp.jimdo.com) per evidenziare le difficoltà degli interventi psicologici in carcere. Speriamo anche noi che il “riposo di ferragosto” abbia portato consiglio ai vertici del Dap, del Ministero della Giustizia ed anche ai colleghi vincitori di concorso che invitiamo nuovamente ad evitare polemiche tra psicologi (una guerra tra poveri) e a fare fronte comune insieme agli “esperti” rispetto al Dap per dare finalmente un adeguato sostegno psicologico a tutti i detenuti. Alessandro Bruni (presidente Società Italiana Psicologia Penitenziaria - Sipp) Giustizia: prodotti "made in carcere", 500 articoli nel catalogo virtuale on-line Agi, 19 agosto 2013 Vestiti, borse, bigiotteria, oggetti di arredamento. Ma anche dolci, vini, birre, formaggi. E persino presepi, bomboniere e accessori sportivi. Sono quasi 500 gli articoli "made in carcere" raccolti in un grande catalogo virtuale sul sito del ministero della Giustizia (www.giustizia.it): "articoli artigianali, creazioni e prodotti agricoli curati dai detenuti", che è possibile comprare in una serie di negozi, non solo del circuito equosolidale, presenti un po' in tutte le regioni e in qualche caso anche on line. Elementi comuni della 'collezionè, l'alta qualità dei manufatti, l'originalità delle creazioni e una buona dose di autoironia: quella che porta a scegliere marchi come "Dolci evasioni" o a ribattezzare una falanghina "fresco di galera". Curiosando tra un "annuncio" e l'altro (i prodotti si possono selezionare anche a partire dall'istituto penitenziario che ha avviato l'impresa) si scopre che la 'top fivè dei più cliccati è guidata dalle borse da viaggio "Rebibbia Fashion", realizzate "interamente a mano, in pelle o cuoio" dalla cooperativa sociale Artemisia. Al secondo posto "Il Fuggiasco", un rosso della zona di Velletri (le cantine sono quelle della onlus Lazzaria) che la scheda promette "con riflessi violacei, dal profumo ampio, fruttato, con note di kirsch" e al terzo le Collane Retro' "Fumne" realizzate "con particolari in lana, preziosi, pizzi e piume assemblati su base in pelle" nei laboratori dell'associazione culturale lacasadipinocchio di Torino: sono le detenute più esperte a insegnare alle colleghe come si fa. Quarti e quinti due alimenti. La Noce del Santo "Giotto", fatta con noci, nocciole, mandorle, farina integrale di frumento, miele, zucchero di canna e lievito naturale dalla Work Crossing di Padova (è "dedicata" a Sant'Antonio che nel 1231 chiese e ottenne dal Comune di liberare le vittime dell'usura dalla pena del carcere) e la Birra Taquamari che "si ispira" allo stile delle Weizen, le birre di frumento, "interpretato in modo del tutto originale con l'impiego di tapioca, quinoa, amaranto e riso basmati": la cooperativa Pausa Cafè di Torino, punti vendita in dieci regioni, ne produce altre due, la Pils e la Tosta. Diciotto le categorie merceologiche, con una decisa prevalenza di abbigliamento (143 proposte), alimentari (102) e arredamento (57). Vastissima la scelta di borse, zaini, foulard, pochette, guanti e cappelli: in catalogo figurano anche i pigiami da donna della linea "Gatti galeotti", gli abiti della sartoria San Vittore (linea "Evadere dal quotidiano"), le t-shirt di "made in Jail". Alla voce "food", i formaggi sardi di "Galeghiotto", i biscotti di "Dolci libertà" (sfornati dalla pasticceria artigianale del carcere di Busto Arsizio), i gelati dei "Prigionieri del gusto" (il laboratorio della Jobinside di Monza), il miele targato "Fuori C'entro" e poi pasta di mandorle, miele, caffè, tartufi, crema di pistacchio e una ricca "carta" di vini dai nomi evocativi come "Il recluso rosso", "Sette mandate" e "Il Fuggiasco". Le doti artigianali dei reclusi trovano sfogo in tavoli, sedie, cassettiere, mensole, scaffali, lampade e vasi ma dietro le sbarre si realizzano anche quaderni, creme, shampoo e bagno schiuma, profumi e strumenti musicali. è il caso, tra gli altri, della lira calabrese, ricavata da un unico blocco di legno stagionato (ciliegio, sambuco, eucalipto, pioppo) su cui si incolla una tavola armonica, prodotta a Catanzaro, e dei violini milanesi di "Opera": i detenuti hanno frequentato un corso di formazione specialistico in liuteria artigianale classica. Padova: rivolta dopo suicidio detenuto 21enne, arriva la task-force al Due Palazzi di Carlo Bellotto Il Mattino di Padova, 19 agosto 2013 Venti agenti in più al Circondariale per sedare la protesta dopo il suicidio di un ventenne: i detenuti incendiano le lenzuola. Venti agenti di polizia penitenziaria in più in servizio per la giornata di ieri. La decisione potrebbe essere confermata anche per oggi e per i giorni prossimi. La situazione resta tesa nel carcere Circondariale del Due Palazzi. La protesta dei detenuti della casa circondariale per ora non si è allargata al penale. I detenuti seguono i telegiornali e leggono i giornali e quindi si stanno tenendo aggiornati sulla situazione che riguarda Daoudi Abdelaziz, 21 anni, il detenuto che si è tolto la vita impiccandosi con dei lacci di scarpe nella sua cella: il fatto è accaduto giovedì sera e lui, dopo la notte in ospedale, è morto nella mattinata di venerdì. I detenuti vogliono la verità. C’è una tensione palpabile tra i detenuti che contestano alla polizia penitenziaria di aver picchiato il giovane nordafricano che poi si è tolto la vita. “Nessuno di loro ha visto la presunta scena, ma c’è stato un passaparola incontrollato” chiarisce Giuseppe Pegorago della Cgil “I detenuti vogliono sapere come sono andati i fatti e anche ieri hanno sbattuto le posate sulle inferriate per protesta. L’altra notte avevano anche legato delle lenzuola lanciandole infiammate giù dalle finestre delle celle”. Anche tutta la notte di sabato una macchina della polizia penitenziaria ha sorvegliato di continuo il perimetro del carcere di via Due Palazzi. Chi abita vicino alla struttura penitenziaria ha avvertito una certa tensione: rumori dei detenuti che venivano avvertiti anche nelle abitazioni vicine e un viavai di forze dell’ordine insolito. Si percepiva che qualcosa di grave era successo. Messa dedicata al suicida. Ieri i detenuti del penale hanno chiesto al cappellano del carcere, don Marco Pozza, di dedicare la messa al ragazzo che si è tolto la vita. Una richiesta che il sacerdote ha accolto, citando il suicida nell’omelia. Tra i presenti c’è stato un dolore composto e dignitoso, senza nessun accenno di protesta. L’indagine della procura. Il sostituto procuratore Federica Baccaglini ha aperto un’inchiesta che vuole far luce sui fatti. Come è maturato il suicidio del detenuto, che era in prigione per spaccio di droga? È stato veramente picchiato dagli agenti poco prima di compiere quel gesto? Inoltre il magistrato vuole chiarire perchè il detenuto avesse con sé i lacci delle scarpe con i quali si è impiccato, visto che in carcere è vietato averli. La polizia è delegata alle indagini e il sostituto procurato dispone già della relazione del dottor Claudio Terranova dell’Istituto di Medicina Legale che ha effettuato l’autopsia sul corpo della vittima. Da quanto si è appreso non ci sono segni di percosse imputabili quindi ad una colluttazione o ad un pestaggio. Gli unici riscontri pare siano quelli legati alle lesioni dell’impiccagione. Un carcere che sta scoppiando. Il sovraffollamento del Due Palazzi è una storia vecchia. La struttura penitenziaria del Due Palazzi si divide nella casa di reclusione dove, dato di inizio anno, sono ospitati 886 detenuti a fronte di una capienza regolare di 350 e di una capienza tollerabile di 700 e nella casa circondariale dove sono presenti altre 245 persone a fronte di una capienza regolamentare di 97 e una tollerabile che arriva a 136 (il dato contribuisce alla multe dell’Ue all’Italia per il sovraffollamento). Nella casa di reclusione ci sono i detenuti che devono scontare condanne definitive (gli stranieri sono il 60%), al circondariale trova alloggio chi è in via di giudizio (stranieri oltre il 90%) e i detenuti cambiano rapidamente. Il Garante dei detenuti, in Comune non c’è C’è in tutti i municipi capoluogo con l’eccezione di Treviso e Padova. Il Garante dei detenuti può effettuare colloqui con i detenuti e visitare gli istituti penitenziari senza autorizzazione. Una figura indipendente che assicura non solo il rispetto dei diritti di chi viene privato della libertà o sconta una pena. Istituito per la prima volta in Svezia nel 1809 il Garante dei detenuti (sia pure con nomi e funzioni di nomina diverse) è presente in 22 Paesi dell’Unione europea e nella Confederazione Elvetica. A livello regionale, il Veneto ne è ancora privo. La Provincia di Padova, invece, ha assegnato i compiti al Difensore Civico istituito dalla delibera del consiglio numero 19 del 18 febbraio 2010. In Comune, la proposta giace da tempo. Due mozioni invitano l’Amministrazione di palazzo Moroni ad istituire il Garante dei detenuti. Una è firmata dalla consigliera Pd Nona Evghenie, l’altra da Daniela Ruffini di Rifondazione comunista. Finora senza mai arrivare in aula. Quest’anno 35 suicidi, “Aziz” il più giovane Abdelaziz è il più giovane detenuto fra quelli che si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno. Dal 2000 si sono registrati 787 casi di suicidio avvenuti nelle carceri italiane. E altre 1.403 persone sono morte in carcere per motivi diversi dal suicidio (malattie, “incidenti”, overdose, omicidi, cause da accertare). “Aziz” è l’ultimo dei 35 detenuti che si sono tolti la vita nel 2013. L’Osservatorio permanente (costituito da Radicali Italiani, dalle associazioni Il Detenuto Ignoto, Antigone, A Buon diritto, da Radio Carcere e dalla redazione di “Ristretti Orizzonti”) snocciola le statistiche. È di 40 anni l’età media dei detenuti suicidi: Francesco Pasquini (77 anni) il più anziano. Sono 19 gli italiani e 16 gli stranieri che si sono uccisi, tra questi ultimi (che rappresentano il 34% della popolazione detenuta) si è quindi registrata la frequenza maggiore. Sono morti così: 24 impiccati, 8 asfissiati con il gas e 3 dissanguati. Di 26 si conosce nome e cognome, mentre di altri due solo le iniziali, l’età, e la nazionalità. Sette restano “detenuti ignoti”. Questi, invece, i numeri del circondariale di Padova: 35 celle in teoria riservate a 98 detenuti, che in realtà sono oltre 200. Con punte massime di 270 detenuti, come a fine 2012. Sono una trentina appena quelli che possono lavorare fra cucina, pulizie e manutenzione. Celle di 25 metri quadrati, con nove letti impilati in castelli di tre: detenuti in piedi a turno. Permanenza media, da quattro mesi a due anni, con uomini stipati e sovraffollamento perfino nella sala incontri: 12 posti per i detenuti che hanno diritto a due visite di due ore la settimana. Milano: a lezione di giardinaggio dai detenuti di Bollate Il Giornale, 19 agosto 2013 Con l’arrivo dell’autunno il vivaio del carcere di Bollate fiorisce. Di corsi, di iniziative, ospiti e attività ordinarie e non, da ampliare ed estendere sempre di più alla città. Intanto la porta resta sempre aperta per i volontari ma “che siano persone realmente interessate al vivaismo, perché qui non si tratta di fare beneficenza e assistenza, i detenuti vivaisti insegnano a chi arriva come fare e cosa fare. La logica è ribaltata: i nostri 6 esperti sanno il fatto proprio, e come rendere rigogliose le piante, i volontari vengono per imparare e aiutare”. È Susanna Magistretti della cooperativa sociale Cascina Bollate a spiegare come gira il mondo in questo ettaro di verde incastonato tra le mura del carcere, un ettaro che ospita molti diversi tipi di piante in un’ottica non di consumo ma di coltivazione. “Non teniamo solo i soliti fiori di stagione che vendono nei centri giardinaggio, con la fioritura pronta, abbiamo anche piante insolite, come il fiordaliso: sembra banale, ma non lo si trova in giro”. È sempre Susanna a tenere i corsi, più teorici, non nel vivaio stesso ma in uno spazio appena fuori dal carcere: 5 o 6 tematiche trattate parallelamente per cicli di lezioni da qualche ora e ripetuti più volte. A ottobre si ricomincia: piante erbacee perenni, l’abc del giardinaggio, la potatura, erbe ornamentali, graminacee: la scelta è ampia e sono numerosi i cittadini che hanno voglia di approfondire teorie e tecniche. “Fino a 5-6 anni fa venivano quasi tutti over 50, in maggioranza donne, e i pochi uomini erano fissati solo sulla potatura e gli alberi da frutto - racconta Susanna - da qualche anno tutto è cambiato”. Oggi ci sono infatti tante giovani coppie e giovani donne anche di 25-30 anni, e qualche uomo in più: siamo quasi a 50 e 50. In generale si tratta di persone che hanno un giardino, magari in una seconda casa e non vogliono affidarsi solo ai giardinieri”. Roma: "Prima che cali il silenzio" di Laura Scanu a Regina Coeli www.romatoday.it “Prima che cali il silenzio” di Laura Scanu varca la soglia del carcere Regina Coeli di Roma, nell’ambito del ciclo di incontri settimanali “Leggere e conversare in carcere”, cui tutti i detenuti sono invitati a partecipare. "Prima che cali il silenzio" di Laura Scanu varca la soglia del carcere Regina Coeli di Roma, nell'ambito del ciclo di incontri settimanali "Leggere e conversare in carcere", cui tutti i detenuti sono invitati a partecipare. Lunedì 26 Agosto 2013 dalle ore 9:15 alle 11:00, tramite L'Associazione "A Roma, Insieme", con il Patrocinio della Regione Lazio e della Provincia di Roma, Laura Scanu con la volontaria Misa Chiavari presenterà il suo libro "Prima che cali il silenzio", Laura Capone Editore, Milano copyright 2012, patrocinato dalla Provincia di Rieti e dall'Associazione Nazionale "La Caramella Buona" contro la pedofilia. Un'esperienza forte come l'argomento che l'autrice andrà a presentare - la pedofilia - cercando un confronto con una realtà dura quale quella del carcere, e con chi, più che mai, odia questo crimine abbietto. Prima che cali il silenzio parla di pedofilia in maniera nuova e coraggiosa, senza voler romanzare il terribile fenomeno. Laura Scanu è abile nel ribaltare la prospettiva del lettore, che si trova davanti non la vittima, come ci si aspetterebbe, bensì un uomo qualunque, che vive all'interno della propria famiglia in un'apparente normalità: il pedofilo. Questi non è presentato come un pazzo né come un malato, anzi, egli è un uomo con una vita sociale che rientra nella media, con i suoi affetti e la sua regolarità. È, insomma, un insospettabile, padre e marito affettuoso che diventa man mano vittima del suo stesso desiderio sessuale e, in un crescendo, sempre più avido ed egoista, perde totalmente la cognizione ed il controllo. Immigrazione: Lauri (Sel); basta alibi, chiudere qil Cie di Gradisca Asca, 19 agosto 2013 "Parole autocritiche sulle politiche migratorie ora vengono anche dalla deputata del Pdl Mara Carfagna: bene, ora non ci sono più alibi, Governo e Parlamento non perdano altro tempo e comincino ad agire chiudendo subito il Cie di Gradisca, la situazione ha raggiunto il limite". Lo ha dichiarato Giulio Lauri, capogruppo di SEL in Consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia, all'indomani della manifestazione organizzata ieri davanti al Centro di identificazione ed espulsione di Gradisca da movimenti e associazioni impegnate nella promozione dei diritti umani dei migranti. "La legge Bossi-Fini va abolita e i Cie vanno chiusi, a cominciare da quello di Gradisca, a detta di tutti il peggiore in Italia. "Nelle prossime settimane sono prevedibili nuovi arrivi di migranti in fuga dall'Egitto e dagli altri paesi del Nord Africa e del Medioriente - continua Lauri -. Farli arrivare a Gradisca sarebbe irresponsabile, come gettare altra benzina sul fuoco. "Le associazioni che da anni si battono per ottenere trasparenza e rispetto dei diritti umani all'interno dei Cie meritano solo il nostro rispetto e il nostro ringraziamento: è grazie a loro che chi sta dentro riesce a ottenere a volte un po' di aiuto per vedere rispettati i propri diritti, è grazie a loro che si sa quello che avviene dentro i Cie, è grazie a loro e alla società civile che in questi anni si è mobilitata e ha manifestato che l'attenzione è sempre restata alta. "Quanto alle istituzioni, la regione con la presidente Serracchiani ha assunto una posizione netta, la prossima Giunta si riunirà a Gradisca e insieme a diversi consiglieri della maggioranza continueremo a entrare e a vigilare su quello che succede all'interno del Cie, fino alla sua chiusura. Lo stesso è utile facciano con continuità i parlamentari, che possono entrare liberamente, senza i lunghi preavvisi a cui sono sottoposti i consiglieri regionali, e verificare costantemente le condizioni di trattamento dei migranti che vi sono rinchiusi. "Certamente il compito delle istituzioni e delle forze politiche democratiche - conclude Lauri - non è quello di contenere le proteste dei migranti e della società civile; il nostro compito, piuttosto, è quello di cambiare le leggi che hanno istituito i Cie e li tengono aperti, e di sostenere invece tutte le azioni dei movimenti delle associazioni e degli stessi migranti perchè i diritti umani e la Costituzione italiana lì dentro non continuino a venire calpestati e perchè la società civile sia sempre più informata, e possa prendere la parola e manifestare le sue posizioni". Stati Uniti: in 2 milioni dietro le sbarre, e Holder pensa a leggi svuota-carceri di Luca Borsari www.huffingtonpost.it, 19 agosto 2013 “Con una popolazione carceraria fuori misura e inutilmente ampia, dobbiamo assicurarci che la detenzione sia utilizzata per punire, scoraggiare e riabilitare. Non solamente per rinchiudere in un deposito e dimenticare”. Questa frase - che potrebbe essere stata pronunciata da uno qualsiasi dei Guardasigilli italiani degli ultimi vent’anni, viene invece da un ministro americano. Anche le prigioni statunitensi sono sovraffollate, con un sistema giudiziario iniquo verso i poveri e le minoranze. E il segretario alla Giustizia Eric Holder ha deciso di passare all’azione. Con una serie di iniziative che sono condivise dall’opposizione repubblicana, preoccupata per il costo esorbitante del sistema carcerario Usa, “inefficiente e insostenibile”. Si tratta di uno dei pochi fronti di azione bipartisan per l’amministrazione Obama che oggi si trova sotto pressione su diversi fronti: politica estera, per la gestione della crisi egiziana; economia, per la problematica elaborazione del bilancio e per la difficile scelta del nuovo presidente della Fed. Per non parlare delle polemiche, che non accennano a diminuire, sulle intercettazioni di cittadini americani da parte della Nsa. Le cifre elencate da Holder alla platea dell’assemblea annuale degli avvocati statunitensi riunita a San Francisco parlano da sole. La ‘terra dei liberi’ conta il 5% della popolazione mondiale ma il 25% dei detenuti: in tutto ci sono 2,2 milioni di uomini e donne dietro le sbarre delle prigioni Usa. La legge, oltretutto, non sembra proprio essere uguale per tutti. Il ministro ha citato un “rapporto profondamente preoccupante” secondo il quale i cittadini neri di sesso maschile giudicati colpevoli hanno ricevuto condanne mediamente superiori del 20 per cento rispetto a quelle comminate a cittadini bianchi per reati simili. “Anche se l’incarcerazione ha un ruolo da svolgere nel nostro sistema giudiziario - ha sottolineato il ministro - il diffuso ricorso al carcere a livello federale, statale e locale è sia inefficace, sia insostenibile. Impone un onere economico significativo - pari a 80 miliardi di dollari nel solo 2010 - accompagnato da costi morali e umani che è impossibile calcolare”. Parole che lasciano il segno. Come le storie di ordinaria ingiustizia del sistema carcerario Usa. The Economist cita la vicenda paradigmatica di Ricky Minor, un pesce piccolo nello spaccio di droga. La polizia gli trovò in casa 1,2 grammi di metanfetamina, una dose sufficiente a tenere su di giri un tossicodipendente per una giornata. Gli trovarono in casa anche fiammiferi, acetone e medicine per il raffreddore e ciò indusse gli uomini della Drug Enforcement Administration, la polizia antidroga Usa, a ritenere che avrebbe potuto preparare altri 192 grammi della sostanza stupefacente. Minor, un tossicodipendente a corto di denaro, si dichiarò colpevole: non era mai stato in carcere prima, anche se era stato condannato per aver spacciato piccole quantità di marijuana e cocaina e per aver sparato a un vicino che gli aveva avvelenato il cane oltre che per aver spintonato un poliziotto e per aver guidato sotto gli effetti della droga. Precedenti di piccola entità che non hanno evitato a Minor una condanna all’ergastolo senza possibilità di ottenere la libertà condizionale mentre il giudice, ammettendo la sproporzione della pena rispetto ai reati commessi, si è giustificato sostenendo di essere stato vincolato dalle leggi sulle condanne obbligatorie minime. Molte delle proposte dell’amministrazione Obama, che puntano a risparmiare decine di milioni di dollari in costi carcerari, godono del sostegno bipartisan di democratici e repubblicani e il ministro Holder non prevede che siano politicamente controverse. D’altronde, esiste già un forte consenso dei conservatori Usa per riformare il sistema carcerario ma anche per mettere mano alle leggi sulle condanne minime obbligatorie - lasciando così più libertà d’azione ai giudici. I tassi di criminalità americani si trovano attualmente ai livelli minimi da quarant’anni e, venendo meno la pressione sui politici innescata dalla paura per la criminalità, alcuni stati hanno cercato di trovare alternative agli altissimi costi connessi al regime carcerario. Gli esempi virtuosi a cui guarda l’amministrazione Obama sono quelli di stati come il Texas e l’Arkansas che hanno trovato pene alternative al carcere per i reati di droga di entità minore. Le soluzioni trovate sono ad ampio spettro: dalla conversione delle pene in programmi di riabilitazione e cura, alla scarcerazione dei più anziani o dei detenuti che hanno evidenziato una buona condotta, al rafforzamento dei programmi di reinserimento sociale e di avviamento al lavoro. Un’agenda di lavoro che, nello spirito di misure, ha più di un punto di contatto con il decreto Svuota Carceri recentemente approvato in via definitiva dal Parlamento italiano. Francia: dal carcere al palcoscenico, la sfida vinta della famiglia Costa Adnkronos, 19 agosto 2013 Criminale e poi militante di Nap e Br il padre, straordinari danzatori sei dei dieci figli. Stefano nel balletto nazionale di Lima, Francesco a Vienna, Chandra e Joshua a Nizza. Oltre 20 anni trascorsi tra galera e manicomi criminali; militante, in carcere, dei Nap e delle Brigate Rosse; amico, in galera, di Luciano Liggio e Mario Moretti, di Curcio e Cutolo; anarchico e rivoluzionario, sempre in fuga dalla vita, oltre che dai penitenziari, e salvato dalla follia da un appello di Franca Rame e Dario Fo. Un’esistenza come un feuilleton di Dumas e Balzac, quella di Agrippino Costa, origini siciliane, ma stabilitosi a Lecce, ‘il rapinatore gentilè salvato dalla poesia, dalla musica, dalla pittura. A lui il regista Piero Cannizzaro ha dedicato un docu-film, Ossigeno (2012); oggi è padre di dieci figli, di cui sei straordinari danzatori, guest nelle maggiori compagnie europee. A 14 anni la prima fuga da casa per il giovane Agrippino, figlio di un carabiniere, già orfano ad un anno. Il ‘68, la Francia, Marsiglia. Operaio, contadino, pizzaiolo, buttafuori in bordelli e club privati. “Ero un vero anarchico - ha raccontato all’Adnkronos Costa. Credevo nella rivoluzione, in un cambiamento della società. Non accettavo né Dio, né nessun altro padrone”. “Forse ero un idealista, un sognatore, chissà. Me lo disse un giorno, nella sua cella Luciano Liggio. Un amico, un filosofo, come Renato Curcio, menti aperte. Parlavamo di politica, ma soprattutto di Aristotele. “Siete degli illusi”, mi disse Liggio, “pensavate di trasformare il mondo. E non ci siete riusciti”. “E aveva ragione - ha proseguito Costa. Eravamo lontani anni luce da quello che accadeva intorno a noi, rispetto al livello di coscienza dell’umanità”. “Militante dei Nap e della Brigate Rosse lo sono diventato in carcere. In fondo il mio primo colpo, sul lago di Ginevra nella villa del presidente della Croce Rossa internazionale, lo feci per amore. Volevo strappare una prostituta, di cui mi ero innamorato, al suo protettore. Fu il colpo del secolo: oro, gioielli, soldi, preziosi dipinti, tra i quali una Venere del Botticelli e opere di Guardi e Buonconsiglio. Purtroppo venni preso. Lei ritornò a fare la prostituta e io per la prima volta andai in carcere, con una moglie e una figlia in arrivo”. Un’esistenza segnata dalla morte, quella di Agrippino Costa. Prima la madre. Poi tre fratelli che il padre aveva avuto da un secondo matrimonio. E intanto continuava a fuggire, mentre le pene aumentavano. Indisciplinato, insubordinato, guascone Agrippino è però un leader, sa come farsi rispettare. Arringa le folle, dei detenuti, organizza scioperi e rivolte, ma scrive anche canzoni, poesie. In carcere scopre il disegno, la pittura. “Passione che ho trasmesso ai miei figli. A Jeshua, per esempio, al più piccolo, Jonathan Enea, 13 anni. Jonathan disegna meravigliosamente bene, studia danza al Teatro dell’Opera di Roma, suona il pianoforte, senza averlo mai studiato, e compone musica”, ha aggiunto. E a proposito dei figli, il ‘rapinatore gentilè non ha dubbi: “In fondo dalla vita ho avuto molto di più di quello che io seminato”. È curioso che su dieci figli, sei abbiano studiato danza e tutti con straordinario successo. Stefano il più grande, per esempio, è stato danzatore a Lima nel Balletto Nazionale del Perù, Francesco Daniele ha vinto l’audizione per entrare nel corpo di ballo del Teatro dell’Opera di Vienna. Mentre Chandra Emanuele e Joshua Eugenio, dal prossimo settembre, saranno nella compagnia del Teatro dell’Opera di Nizza, diretta da Eric Vu An. Poi c’è Alessandro Eliseo, e Jonathan Enea che ancora studia al Teatro dell’Opera di Roma. “È strano eppure mia moglie voleva diventare ballerina, ma la sua famiglia glielo ha impedito - ha raccontato ancora Costa -. Anch’io ho sempre amato la danza. Aneliti libertari di corpi in movimento. C’è forse qualcosa di inconscio in questa mia passione. Gli oltre 20 anni trascorsi spesso in celle strettissime, senza vedere la luce. Ecco perché i miei quadri, astratti, immateriali, intangibili, sono carichi di luce e colori. Ecco perché forse, nelle mie poesie ho voluto esorcizzare in qualche modo tutte le mie paure e i miei desideri, persino la morte”. “Troppo spesso ho pensato al suicidio in quelle carceri anguste - ha sottolineato ancora Agrippino Costa. La ricerca di un raggio di sole, di uno spicchio di luce era quello che chiedevo ai miei carcerieri dal penitenziario dell’Asinara o da Augusta”. E ha aggiunto ancora: “Ho sempre pagato il mio prezzo, più del dovuto. Sono stato torturato fisicamente, psicologicamente. Sono anche stato nella prigione criminale di Barcellona Pozzo di Gozzo. Ho il corpo martoriato da ferite. Purtroppo mi porto dentro energie negative - ha aggiunto - tensioni, traumi, dolori”. “Sono stato soprannominato ‘il rapinatore gentilè. Non sono mai stato un violento, un uomo brutale, prepotente. Ricordo una rapina a Torino. Rassicuravo le mie vittime. Negli oltre 20 anni trascorsi in carcere sono stato ‘condannato’ a resistere - ha confessato. O si diventa folli, o si diventa saggi. Però ho sempre pensato che il letame può anche essere trasformato in fertilizzanti. E in fondo la mia vita è stata proprio così”. E la mia passione nei confronti della danza e del teatro - ha spiegato Costa - è forse un desiderio profondo che si è trasformato, a livello genetico, in un’onda energetica, presente nel mio Dna. Ha investito tutta la mia famiglia, soprattutto i miei figli, nei quali ha trovato meravigliose radici, che continuano ancor oggi a germogliare. Del resto, anche se in un piccolissimo ruolo, ho conosciuto anch’io le luci della ribalta, accanto a Franca Rame e Dario Fo in ‘Morte accidentale di un anarchico”. Dei suoi figli, Agrippino Costa ha spiegato che solo Irene, gli somiglia. “Sedici anni, bellissima e ribelle, come ero io in gioventù - ha detto. Con i maschietti è andata diversamente. Sono maturi, responsabili. Ho concesso loro tutta quella libertà che mi era stata sottratta. Ma loro ne hanno saputo fare buon uso”. A parlare a nome dei fratelli è Joshua, 19 anni, scuola al Teatro dell’Opera di Roma, applaudito al Teatro Verdi di Gorizia nel gala di danza dedicato ad Elisabetta Terabust, curato da Daniele Cipriani; pronto a salpare con un altro fratello, Chandra Emanuele, per il Teatro dell’Opera di Nizza, dopo aver vinto un’audizione. “I nostri genitori ci hanno educato ad amare l’arte e la bellezza. Non siamo una famiglia benestante - ha ricordato Joshua. Mia madre è insegnante, mio padre è in pensione. Ma sin da piccoli ci hanno insegnato che la nostra vera ricchezza è saper sfruttare al massimo le nostre doti, a essere soprattutto umili. Avevamo la coscienza di quello che la nostra famiglia aveva fatto per noi. Anche se, per esempio, alla Scuola del Teatro dell’Opera di Roma, siamo riusciti a frequentare le classi grazie alle borse di studio ottenute tramite l’interessamento della direttrice Paola Jorio”. Mai parlato di politica con papà? “Tutti noi figli conosciamo la sua storia, il suo passato -ha risposto il giovane danzatore. Ma nostro padre si è sempre speso per sostenere un’ideologia, non ha mai fatto parte della lotta armata. Ci ha insegnato, lo ripeto, ad amare l’arte e la bellezza. Quello che ci rimprovera, a volte, è il caos, la confusione in casa. Ma siamo tanti, oltre 20 persone quando ci riuniamo tutti insieme. Lui era abituato ad una tranquillità diversa, al silenzio, a quel vuoto a volte insopportabile, estenuante”. È forse per questo motivo che Agrippino Costa ha sempre cercato di evadere dai penitenziari. Rimettendoci, nella fuga, costole, gambe, braccia, ginocchia e guadagnandoci qualche pallottola. “Fui il primo e forse l’unico - ha ricordato orgogliosamente - a evadere da un carcere di massima sicurezza, come quello di Augusta, in Sicilia, un antico maniero di Federico di Svevia. Fuggivo, mi colpivano, mi arrestavano - ha ricordato. Ogni volta si ripeteva la stessa storia. Sono un sopravvissuto”. “Non dimenticherò mai la strana sensazione di libertà la prima volta che lasciai il carcere per ritirare un premio di poesia - ha proseguito. Ho ricordi sconvolgenti. Ero abituato a vivere in una spazio angusto. Due metri per tre. Non riuscivo ad immaginarmi l’orizzonte. Mi colpì in modo scioccante, impressionante. E poi la gioventù, gli abiti, il taglio dei capelli. Non ero più abituato a camminare, a stare in mezzo alla gente. Uno strano stordimento. Ma ero felice. Tutte quelle persone ad applaudirmi. Mi sentivo importante, per la prima volta mi sentivo amato anch’io”. Rinnega qualcosa del suo passato, rimpianti, nostalgia per quello che è stato? “Nessun rimpianto, nessuna nostalgia - ha risposto Agrippino Costa. Solo ricordi, a volte sfuocati, li rincorro, per ricomporre mosaici a cui manca sempre qualche pezzo. Ma è difficile parlare del passato - ha proseguito. Inconsciamente tendo a dimenticare. Eppure sono sempre stato convinto che la nostra rivoluzione fosse giusta. Anche la nostra rabbia. Erano sbagliati i metodi di lotta, ma noi ci credevamo. Ma tutti abbiamo pagato. Nessuno escluso. Qualcuno ha pagato anche con la morte”. “Lo ripeto, mi sento un sopravvissuto, un redivivo in un mondo che forse non mi appartiene più. E pensare - ha aggiunto scherzando - che mi hanno proposto di entrare in politica. Un tempo veniva riconosciuto il valore guerriero dell’uomo. La politica, oggi, è la negazione dell’intelligenza”. Indonesia: 30 detenuti evadono, dopo rivolta e incendio in prigione sovraffollata Ansa, 19 agosto 2013 Una trentina di detenuti sono evasi da una prigione sovraffollata di Labuhan Ruku, nel nord dell’isola indonesiana di Sumatra. Lo hanno riferito le autorità precisando che nel carcere è scoppiata una rivolta e che una trentina di detenuti sono riusciti a fuggire. Le televisioni hanno trasmesso le immagini di diverse parti della prigione in fiamme, mentre poliziotti e soldati dispiegati all’esterno sparavano colpi d’avvertimento. Egitto: 36 detenuti uccisi durante tentativo di fuga, richiesta un'inchiesta internazionale Ansa, 19 agosto 2013 Il ministero degli Interni spiega che è accaduto durante un tentativo di evasione. I 36 Fratelli Musulmani arrestati dalla polizia egiziana e morti ieri durante un tentativo di evasione sono stati asfissiati dai gas lacrimogeni utilizzati dagli agenti: lo ha reso noto il ministero degli interni del Cairo. Il tentativo di fuga è avvenuto durante il trasferimento verso un carcere alla periferia del Cairo: il convoglio militare trasportava circa 600 detenuti, alcuni dei quali hanno cercato di evadere dopo aver sequestrato un agente. I 36 morti si aggiungono agli oltre 600 degli ultimi giorni, dopo i violenti scontri scoppiati tra esercito e sostenitori del presidente deposto Mohammed Morsi. Un'inchiesta internazionale sull'uccisione ieri in Egitto di almeno 36 detenuti, tutti appartenenti ai Fratelli Musulmani. è quanto chiede l'Alleanza per il ripristino della legalità, che sostiene il deposto presidente egiziano Mohammed Morsi, secondo cui sarebbero 52 i prigionieri uccisi dalle forze di sicurezza mentre tentavano la fuga durante un trasferimento verso il carcere di Abu Zaabal, a nord del Cairo. "Riteniamo i leader del golpe, in particolare il capo delle forze armate, Abdel Fattah al-Sisi, e il ministro dell'Interno, Mohamed Ibrahim, responsabili di questo crimine e chiediamo un'inchiesta internazionale su questo e altri crimini da loro perpretrati", è sottolineato in una nota dell'Alleanza. Congo: detenuto norvegese trovato morto in cella, era sospettato di essere una spia Ansa, 19 agosto 2013 Un norvegese in carcere, insieme ad un altro suo connazionale, nella Repubblica democratica del Congo con le accuse di omicidio, spionaggio e cospirazione è stato trovato morto ieri nella sua cella. Lo rendono noto le autorità norvegesi e congolesi. Tjostolv Moland era detenuto insieme a Joshua French dall’omicidio nel 2009 del loro driver nella jungla congolese. I due ex tecnici militari hanno sempre respinto le accuse, mentre la Norvegia ha negato che fossero spie. Il ministro degli Esteri Espen Barth Eide ha affermato di non voler fare speculazioni sulle cause della morte di Moland, aggiungendo però che la Norvegia farà “ogni pressione” per avere chiarimenti dalle autorità congolesi.