Noi, uomini-ombra del fine pena mai… così è meglio morire di Giampiero Calapà Il Fatto Quotidiano, 18 agosto 2013 Carmelo Musumeci ha scritto a Napolitano: “abolite il carcere a vita o uccidetemi”. “A che serve essere vivi, se non abbiamo nessuna possibilità di vivere? Se non sappiamo quando finisce la nostra pena? Se siamo destinati a essere colpevoli e cattivi per sempre? Ci sono delle sere che il pensiero che possiamo rimanere in carcere per tutta la vita non ci fa dormire. E la speranza è un’arma pericolosa. Si può ritorcere contro di noi. Se però avessimo un fine pena, se sapessimo il giorno, il mese e l’anno in cui usciremo, forse riusciremmo a essere delle persone migliori, più buone, più umane. Forse riusciremmo a non essere più delle belve chiuse in gabbia. Signor Presidente della Repubblica, noi uomini ombra non possiamo avere un futuro migliore, perché noi non abbiamo più alcun futuro. E per lo Stato noi non esistiamo, siamo come dei morti. Siamo solo come carne viva immagazzinata in una cella e destinata a morire. Eppure a volte, quando ci dimentichiamo di essere delle belve, noi ci sentiamo ancora vivi. E questo è il dolore più grande per degli uomini condannati a essere morti”. Giorgio Napolitano, la cui attenzione in questi giorni è rivolta alla condanna a un anno dell’ex premier Silvio Berlusconi, ha recentemente stretto fra le mani questa lettera, scritta da Carmelo Musumeci, da oltre vent’anni dietro le sbarre, detenuto nell’alta sicurezza del carcere di Padova. Musumeci è uno dei 1.581 ergastolani rinchiusi nelle patrie galere, due terzi dei quali sono in regime “ostativo”. Proprio come Musumeci, a cui è inibito ogni beneficio penitenziario, nessun permesso è possibile, semilibertà o affidamento ai servizi sociali sono chimere. Al Due Palazzi di Padova gli ergastolani sono 70, gli “ostativi” almeno una decina. Il Fatto Quotidiano ha incontrato alcuni di loro. Premessa. Alcuni si dichiarano innocenti, vittime di errori giudiziari, altri ancora non fanno riferimento ai fatti per cui sono condannati o comunque ritengono di pagare un prezzo troppo alto. Ovviamente le sentenze fanno riferimento a crimini tremendi, fatti di sangue, omicidi, spesso legati all’appartenenza alle mafie. Ma queste persone esistono, murati vivi nelle celle, e la loro condizione merita di essere raccontata. Musumeci è il promotore di una proposta di iniziativa popolare per l’abolizione dell’ergastolo. È stato arrestato nel 1991, aveva 36 anni. In carcere si è laureato in Giurisprudenza con la tesi “pena di morte viva”, ha scritto per Gabrielli Editori “Gli uomini ombra”, “Undici ore d’amore di un uomo ombra” e un libro di favole per bambini, “Le avventure di zanna blu”, con prefazione di Margherita Hack. Nel 2007 ha conosciuto il compianto don Oreste Benzi, aderendo al progetto “Oltre le sbarre” della comunità papa Giovanni XXIII. Ma per la legge italiana è stato il capo catanese di una banda che gestiva brutti traffici in Versilia: fu vittima di un agguato, gli spararono sei colpi addosso. Vivo per miracolo, si è poi “fatto giustizia da solo”. E i suoi colpi sono andati a segno. Omicidio, condanna: “Fine pena mai”. Ha girato le sezioni alta sicurezza di diverse carceri italiane prima di arrivare a Padova. È stato anche all’Asinara, in regime di 41bis, l’isolamento totale riservato ai mafiosi nelle celle con le finestre “a bocca di lupo”, quelle che fanno entrare la luce ma che non permettono di osservare il cielo. Adesso dice: “A Napolitano ho chiesto umanità, commuti il mio ergastolo in pena capitale”. La protesta e la punizione Per gli altri detenuti di Padova Musumeci è un punto di riferimento, il vero leader di una “lotta di civiltà e umanità”, dicono da dietro queste sbarre. Nel giorno in cui il Fatto incontra i detenuti della redazione di Ristretti Orizzonti, Musumeci non può scendere dall’alta sicurezza neppure per la riunione della rivista, diretta da Ornella Favero, con cui collabora insieme ad altri trentacinque carcerati, tutti presenti. Musumeci è in punizione per quindici giorni, perché si è ribellato a una recente misura del Dap (il Dipartimento di amministrazione penitenziaria): i posti sono pochi anche al Due Palazzi di Padova, carcere considerato modello, così una struttura costruita per 450 persone adesso ne deve “ospitare” 900. Il che significa che, anche nel braccio dell’alta sicurezza, dentro le celle, con buona pace per il caldo opprimente di agosto, bisogna starci in due. Ad altri detenuti, anche in regime “ostativo”, ergastolani e non, è stato invece permesso di partecipare, di varcare la soglia a doppia e tripla mandata, scendere le scale e poter sedere nella sala redazionale del piano terra, insieme ai cosiddetti “detenuti comuni”. Ristretti Orizzonti conta 35 detenuti-redattori, ma il “gruppo di discussione” è più ampio, così attorno al tavolo e al direttore Ornella Favero, ci saranno almeno cinquanta persone. Tutti voglio parlare, raccontare la propria storia. Essere più di uomini-ombra per un paio d’ore almeno. Giuseppe Avignone ha 75 anni, calabrese, quattro figli e dodici nipoti, sulle spalle tutto il peso di una detenzione cominciata nel lontano 1977. Con quella maledetta formula, “fine pena mai”, che accompagna la sua esistenza. “Sono detenuto da oltre 36 anni. Non ho reato ostativo. Ma il 27 aprile scorso, per l’ennesima volta, mi è stata rigettata l’istanza di liberazione condizionale”. La voce di Avignone s’incrina. Poi riprende: “Ho fatto per anni il 41bis e tutt’oggi mi trovo all’alta sicurezza. Cinque mesi fa la direzione del carcere di Padova mi ha declassificato, spostandomi dall’alta sicurezza alle celle dei detenuti comuni. Ho anche avuto un permesso. Era gennaio. Al ritorno in carcere sono stato rispedito all’alta sicurezza, perché il Dap si è espresso contrariamente alla direzione del Due Palazzi. Quindi quelli che mi conoscono dicono: “Tu devi essere declassificato”. Il Dap, che non mi conosce, da Roma, decide di no. E non ho capito perché”. Giuseppe, perché sei detenuto? “Io per... omicidio. Ho una fitta corrispondenza con la famiglia della mia vittima e loro dicono che non c’entro niente. Tant’è vero che il 3 luglio scorso la Cassazione voleva riaprire il caso, ma dopo 36 anni non c’è magistrato che possa buttarsi fango addosso. Io sono stato condannato all’ergastolo per sentito dire. Un pentito dice che glielo avrei rivelato nel carcere di Trani”. “Non ho visto nascere mia figlia” Biagio Campailla, 43 anni, quando si è sposato ne aveva appena 14, ha quattro figli, il più grande è nato 28 anni fa. Biagio è in carcere da poco prima della nascita della più piccola, oggi quindicenne, che non lo ha mai visto da uomo libero. Siciliano, è stato estradato dal Belgio e solo da cinque anni non è più in regime di 41bis: “Per tutto quel tempo con la mia famiglia ho potuto avere un solo colloquio al mese, separato dal vetro. I primi sette anni ero addirittura in area riservata, in una cella di un metro e 52, questo ho subito ad Ascoli Piceno. Sono condannato all’ergastolo ostativo. Non potrò mai godere di permessi. Non potrò mai uscire a lavorare. Questa cosa di partecipare al giornale, a questa riunione, è un’eccezione. Mia figlia più piccola non l’ho vista neppure nascere e altri due miei figli quando vedono il carcere, le sbarre, i vetri, si sentono male. E non vengono più. Qui qual è il futuro? Non c’è futuro”. Salvatore Calone, 44 anni. Dentro per tentato omicidio e altri reati. Dal 2001 al 2010 è stato anche lui in regime di 41bis. A Roma, Rebibbia, e a Terni. Adesso, a Padova, è ancora un “ostativo”, in alta sicurezza, nessun permesso possibile, ma almeno la luce la vede. Non è un ergastolano. Fine pena: 2015. C’è quasi. “Mia figlia ha 12 anni. Ha una fobia. Non può entrare in stanze piccole, seppur con i giocattoli. Col 41bis se non sei forte impazzisci. Ricordo che avevo chiesto un libro: Il nome della rosa. Me lo hanno negato. Soffro di una patologia, atti di autolesionismo. Dicevano che quel libro l’avrebbe alimentata. Quel tipo di lettura non andava bene, dovevo accontentarmi di Topolino”. “Sto perdendo anche la ragione” Sono solo alcune delle voci, delle testimonianze, raccolte dal Fatto dietro le sbarre del carcere di Padova. Molti altri volevano parlare, liberandosi, in qualche modo, per pochi minuti. Avrebbe voluto parlare anche Carmelo Musumeci, in punizione appunto. Ha mandato un messaggio al cronista: “Ti confido quanto ho scritto oggi nel mio diario: gli uomini ombra iniziano a morire molto prima che finiscano la loro pena. Ho sempre tentato di conservare i miei sogni, ma da un po’ di tempo non ci riesco più. Superati i 20 anni qui capisci che stai perdendo tutto, anche la ragione. Solo l’amore che c’è in noi si ostina a non voler morire, forse solo per il gusto di farci soffrire”. “Eliminare subito l’ergastolo”, di Ornella Favero (direttrice di Ristretti Orizzonti) Spesso sento dire che in Italia l’ergastolo non esisterebbe più, perché dopo 26 anni si può chiedere la libertà condizionale. Ma non si dice che le richieste che vengono accolte sono circa il 3 per cento di quelle avanzate. Se non viene detto quante poche richieste di condizionale vengono accolte, quindi, non si fornisce un quadro chiaro della situazione. E questo riguarda l’ergastolo normale, non quello ostativo. Il “fine pena mai” non ha nulla di rieducativo, è contro la Costituzione, andrebbe abolito subito. Nel nostro Paese l’informazione ha un ruolo decisivo sul come vengono viste le pene, l’ergastolo appunto, dall’opinione pubblica. Ricordo il caso di Pietro Maso (condannato a 30 anni per aver ucciso i suoi genitori nel 1991, ndr), poco tempo fa un quotidiano ha titolato: “Dopo soli 17 anni già libero”. Questo titolo ci dice che diciassette anni sono niente e che chi comincia un percorso alternativo fuori dal carcere è già libero. Quando noi incontriamo gli studenti riscontriamo esattamente questo tipo di atteggiamento. Ci colpisce parlando con i ragazzi l’idea diffusa che il carcere non tocchi le nostre vite di “regolari”, che riguardi solo gli altri, i cattivi. (testo raccolto alla riunione di redazione di Ristretti Orizzonti) Il Procuratore Gian Carlo Caselli: “S’indebolirebbe la lotta alle mafie” Sul tema di abolizione dell’ergastolo sono in estremo conflitto con me stesso. Il dettato della Costituzione è chiaro: la pena deve tendere alla rieducazione. Difficilmente l’ergastolo può essere considerato compatibile, quindi, con la Carta costituzionale. D’altra parte c’è una sentenza della Corte costituzionale, dice che con permessi e benefici il principio rieducativo non è violato”. Gian Carlo Caselli - procuratore capo a Torino, alla guida dei pm di Palermo dal 1993 al 1999 dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio - teme, però, che da un’eventuale abolizione dell’ergastolo “le mafie possano trarre beneficio”. Dottor Caselli, gli ergastolani “ostativi”, però, non possono ricevere permessi e premi di alcun genere. E la Costituzione? Le mafie sono ancora un gravissimo problema per il nostro Paese e non tenerne conto può essere pericolosamente astratto. Quindi non c’è soluzione? Ogni opinione a riguardo ha assoluto diritto di cittadinanza. Ho fatto sette anni l’antimafia a Palermo e finisce per prevalere in me la convinzione che l’abolizione dell’ergastolo incrinerebbe qualcosa nella lotta alle mafie. Giustizia: Dap impegnato contro dramma suicidi nella Polizia penitenziaria. Sappe critico Adnkronos, 18 agosto 2013 “Quattro suicidi di poliziotti penitenziari in due mesi, sette dall’inizio dell’anno. Dal 2.000 a oggi sono 100 i baschi azzurri che si sono tolti la vita. È una mattanza, basta così”. È netta la denuncia di Donato Capece, segretario generale del Sappe, che all’Adnkronos spiega: “Sono stanco di telefonate che mi annunciano continue aggressioni a poliziotti. Quando poi uno dei nostri colleghi si toglie la vita, è un inferno. Non si può continuare con questi numeri di morte: abbiamo invitato il Dap ad attivare un punto di ascolto per gli agenti in difficoltà ma la risposta dei vertici è stata rimandare a un numero verde presso l’Asl esterna. Se questo è il loro impegno...”. Nei giorni scorsi, in seguito al suicidio dell’assistente capo della polizia penitenziaria, Marcello Pesiri, in servizio nella casa circondariale di Ariano Irpino, il capo del Dap, Giovanni Tamburino ha ribadito l’impegno dell’Amministrazione “per offrire risposte a condizioni di disagio della Polizia e di tutto il personale penitenziario”, anche con iniziative di supporto e ascolto, come il servizio di help-line, recentemente attivato dal Dap in collaborazione con l’Azienda ospedaliera Sant’Andrea di Roma, “nonché con soluzioni lavorative idonee a ridurre lo stress degli operatori”. “Quello di evitare i suicidi è un obiettivo che ci siamo posti come primario - spiega all’Adnkronos il vice capo del Dap, Luigi Pagano - ma nessuno di noi è esperto in suicidi e temo che nessuno, in assoluto, abbia la capacità di saperli pronosticare. Ecco perché - taglia corto - non abbiamo bisogno di critiche generiche, gratuite quanto sterili, ma di soluzioni. Se qualcuno ne ha da proporre, sappia che siamo aperti a qualsiasi contributo ci venga offerto. Da qualsiasi parte provenga”. Le soluzioni messe a punto dal Dap per ora incontrano il pollice verso del sindacato. “È scandaloso - attacca il Sappe - che il Guardasigilli, Annamaria Cancellieri, alla luce di quanto avviene nelle carceri e con lo sfascio in cui versa la polizia penitenziaria, non prenda provvedimenti per commissariare il Dipartimento, inviando un prefetto a coordinare il Corpo dei baschi azzurri. I vertici del Dap fanno della filosofia sulla sicurezza del carcere, giocando sulla pelle dei poliziotti. Devono rassegnare le dimissioni”. “Il lavoro dei poliziotti penitenziari non è solo aprire e chiudere le celle. È un’attività molto più complessa e difficile”, fa notare Pagano. Le polemiche sui suicidi? “Eufemisticamente le definirei strumentali - spiega il vice capo del Dap - solo una volontà pervicacemente prevenuta può pensare che il Dipartimento non metta in campo tutti gli strumenti conosciuti e a sua disposizione per prevenire i rischi di suicidi degli agenti di Polizia Penitenziaria. L’ottica di intervento - rimarca - è stata globale”. “Il suicidio, qualsiasi suicidio - fa notare ancora Pagano - ha dinamiche sottostanti molto complesse e non facilmente intellegibili, neppure agli esperti e neppure in una analisi a posteriori. L’esame delle motivazioni dei diversi suicidi posti in essere da nostri agenti, ad esempio, non ha mai posto in luce che questa decisione fosse da porsi in relazione a difficoltà insorte sul lavoro. Ma non per questo - assicura - abbiamo mai smesso di chiederci cosa noi, come amministrazione, avremmo potuto fare, quale strategia intraprendere per prevenire questi atti drammatici”. “Abbiamo così pensato ad azioni dirette - sottolinea ancora il vice capo del Dap - vorrei ricordare il grande lavoro fatto dalla commissione presieduta dalla presidente Simonetta Matone, ma anche a interventi indiretti, cercando di migliorare il lavoro degli agenti, elevandone la professionalità, valorizzando ancor più il loro ruolo. Un percorso fondamentale non solo nel mantenimento della sicurezza interna agli istituti ma anche nel processo trattamentale del detenuto”. “Il lavoro degli agenti di polizia penitenziaria - fa notare Pagano - è un lavoro usurante come pochi, perché il carcere è terra di frontiera e di contraddizioni. Accanto a un’esposizione diretta al rischio c’è la percezione del dolore altrui, che non può non colpire la sensibilità individuale”. “Queste contraddizioni devono trovare conciliazione, sbocchi credibili e percorribili: occorre dare un senso al proprio lavoro, al proprio ruolo e impegno. E ancor più è necessario che questo venga riconosciuto non solo dagli addetti ai lavori, ma soprattutto dalla società esterna”. “Nessuno - incalza il vice capo del Dap - si è mai domandato come faccia ad esempio un agente a controllare centinaia di persone presunte pericolose? Si può fare in un solo modo: guadagnando autorevolezza nei loro confronti, mostrando che quella divisa che indossa è simbolo e affermazione di legalità. Il riconoscerlo, da parte dei detenuti, è il primo fondamentale passo su cui poi si può costruire un valido percorso di reinserimento sociale”. “Il recupero di una persona - rimarca Pagano - non deve soddisfare il buonismo, ma farci sentire più sicuri perché ogni persona recuperata è un pericolo in meno per la società e di questo i nostri agenti devono poter essere fieri. Abbiamo affrontato a tutto campo il problema dei suicidi degli agenti, cercando di trovare le soluzioni più congeniali da offrire, in condizioni di anonimato, a chi si trovasse a dover affrontare un proprio disagio lavorativo o esistenziale”. “Va dato atto all’impegno, anche personale della presidente Matone - fa notare ancora Pagano - di aver messo intorno a un tavolo esperti della materia che hanno partecipato senza alcun compenso. L’help-line è la traduzione di loro suggerimenti, come quelli riguardanti l’ambiente lavorativo, i rapporti con i colleghi e con i superiori i quali devono abbandonare le logiche verticistiche, conoscere meglio i propri uomini, che sono collaboratori e non meri esecutori di ordini”. Dall’Ucciardone a San Vittore, progetti di supporto ai poliziotti penitenziari È “apprezzabile” l’attenzione del Dap verso il fenomeno dei suicidi da parte di poliziotti penitenziari, concretizzatosi nell’emanazione di recenti misure come un servizio di help line. Il Dipartimento si dimostra così “sensibile ai problemi del personale”, dice all’Adnkronos Rita Barbera, direttrice del carcere palermitano dell’Ucciardone. “Da tempo - sottolinea Barbera - puntiamo sul benessere del personale. All’Ucciardone abbiamo realizzato uno sportello per gli agenti, con l’assistenza di uno psicologo del lavoro e di uno psicologo della Asl, un esperimento che si è rilevato utile, perché potrebbe segnalare eventuali disagi”. Iniziative anche nei penitenziari lombardi: “a San Vittore è attivo un programma avviato con il provveditorato che riguarda strumenti di prevenzione per tutti i tipi di rischio in carcere. Il personale può parlare in maniera riservata delle proprie problematiche”, spiega Teresa Mazzotta, vice direttrice del penitenziario lombardo. “Entro settembre - aggiunge - avvieremo un progetto che prevede incontri con la Asl e con l’azienda ospedaliera S. Paolo per consentire un contatto riservato tra il gli agenti, l’Asl e le aziende ospedaliere. Uno strumento attraverso il quale il personale potrà confidare i propri problemi e ricevere un supporto”. “È stato anche attivato un programma di aiuto al personale - sottolinea ancora Mazzotta - per dare ai poliziotti penitenziari ulteriori strumenti per affrontare situazioni di disagio. Attraverso corsi organizzati per gruppi, si è potuto parlare di problematiche specifiche come ha fatto, ad esempio, chi lavora a contatto con detenuti affetti da problemi psichiatrici”. In una Circolare del 22 luglio scorso, “Prevenzione rischio suicidio negli operatori penitenziari -Linea telefonica di Help-Line”, firmata dal vice capo vicario del Dap, Simonetta Matone, si spiega che la collaborazione con l’Azienda ospedaliera Sant’Andrea di Roma, Facoltà di Medicina e Psicologia, Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, stabilita nell’ambito dei lavori della Commissione per lo studio del fenomeno dei suicidi del personale penitenziario, “ha consentito di avviare una proficua collaborazione con gli esperti del Servizio per la Prevenzione del Suicidio che opera all’interno dell’Ospedale Sant’Andrea”. “Grazie alla disponibilità di Paolo Girardi, direttore della Scuola di specializzazione in Psichiatria e U.O.C. Psichiatria dell’Azienda Ospedaliera Sant’Andrea - prosegue la Circolare - e di Maurizio Pompili, Responsabile del Servizio di Prevenzione del Suicidio, il Dipartimento ha ottenuto che il Servizio fosse rivolto a tutto il personale dell’Amministrazione Penitenziaria che, da ogni parte d’Italia, potrà chiamare il numero 06.33777740 e parlare con esperti della prevenzione del burnout e del rischio suicidio”. Il Servizio, si rimarca, “assicura il rispetto totale della privacy ed è gratuito”. “Grande attenzione - è ancora scritto nella circolare - è stata dedicata alla capacità di ascolto che ognuno di noi dovrebbe porre nei confronti di chi esprime un profondo disagio esistenziale. Ritengo sia importante insistere sull’aspetto della prevenzione, intesa non solo come una competenza specialistica, quanto piuttosto come un richiamo alla sensibilità di ognuno nel percepire, accogliere e sostenere una persona, che sia un collega, un collaboratore, un familiare, un amico, che, anche indirettamente, lancia segnali di forte malessere psicologico”. Le informazioni sulla help line e il testo della brochure sono disponibili sulla home page del sito istituzionale www.polizia-penitenziaria.it. Giustizia: Pannella; anche Papa Francesco vorrebbe firmare per i Referendum Radicali Adnkronos, 18 agosto 2013 Chi vorrebbe che firmasse i referendum promossi dai Radicali? “Ce n’è uno che vorrebbe farlo ma non può: Papa Francesco”. Così il leader dei Radicali Marco Pannella ha risposto alle domande dei cronisti sui referendum, all’uscita dal carcere di San Pietro a Reggio Calabria dove questa mattina ha incontrato la direttrice Maria Carmela Longo e i detenuti. Pannella è tornato a proporre che i cittadini dello Stato del Vaticano possano avere il diritto di voto. “Sarebbe bene che quel tipo di credenti, come Papa Francesco e anche come Giovanni Paolo II, se ritiene di potere avere anche una loro organizzazione territoriale, la ottengano”, ha affermato Pannella ricordando che è una sua proposta “di vent’anni fa”. Rita Bernardini, che ha accompagnato Pannella nella visita in Calabria, ha ricordato che lo Stato del Vaticano ha già eliminato l’ergastolo che è uno dei punti del referendum proposto. “Abbiamo tanto da imparare da loro”, ha dichiarato. Giustizia: Ferragosto in carcere per i Radicali…. nei prossimi giorni a Busto e Varese Ristretti Orizzonti, 18 agosto 2013 Per il quinto anno consecutivo i Radicali passano la giornata di ferragosto nelle carceri. L’iniziativa, quest’anno prevede anche la raccolta firme sui 12 referendum dei radicali. Obiettivo della mobilitazione è di rilanciare il problema del sovraffollamento carcerario e di richiamare l’attenzione per una giustizia giusta. A Roma, a Regina Coeli, questa mattina la visita di Marco Pannella, mentre nel pomeriggio il ministro Emma Bonino ha fatto visita al carcere di Rebibbia. L’iniziativa dei radicali riguarda tutta Italia, con tre giorni di impegno sul fronte-carceri. Tra 15,16 e 17 agosto sono infatti previste le visite dei Radicali, oltre che a Regina Coeli e Rebibbia, anche a Firenze, Napoli, Lecce, Palermo, Trieste e in altre città. Constatata l’impossibilità di avere un autenticatore disponibile per la giornata di domani 16 agosto, per raccogliere le firme per i Referendum Radicali e cercando di ottimizzare la raccolta delle firme all’interno delle carceri lombarde e definito che l’Associazione Enzo Tortora - Radicali Milano, con il prezioso lavoro di Marina Milella, in collaborazione con tutti i Radicali lombardi, sta già programmando la raccolta firme nelle carceri della Regione, come San Vittore, Opera, Monza, Voghera, Vigevano, Pavia, Brescia, Sondrio, Cremona, Como, Lecco, Mantova e Lodi. Tra le carceri che i Radicali intendono visitare anche Busto Arsizio e Varese. Giustizia: Circolare Dap; massimo 450 euro al mese per recluso, contro rischio riciclaggio di Giuseppe Crimaldi Il Mattino, 18 agosto 2013 Nelle carceri italiane, a partire da settembre, i reclusi non potranno più usufruire dei maxi-versamenti che arrivano dall’esterno. Il tetto massimo mensile viene fissato a 450-500 euro al massimo di spese. La circolare del Dap fa riferimento alla crisi economica ma a Napoli assume una dimensione diversa, quella del contrasto al mantenimento e all’affiliazione in cella da parte dei clan dei detenuti. I rigori della crisi economica si abbattono anche sulla popolazione dei detenuti. Nelle carceri italiane - a cominciare da Poggioreale e Secondigliano - a partire da settembre, i reclusi non potranno più usufruire della “manica larga” derivante dal versamenti sul libretti di risparmio che ciascun detenuto ha il diritto di intascare dall’esterno. Una circolare inviata a tutte le direzioni delle carceri dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Dap, (leggi: ministero della Giustizia) rimodula i massimali delle spese programmabili all’interno dei penitenziari. Nella circolare si fa, in premessa, esplicito riferimento alla situazione economico-finanziaria nazionale, e si stabilisce - restringendo i tetti di spesa finora rimasti validi - che per ogni settimana non si potrà superare la soglia dei 150 euro per l’acquisto di tutto quanto è possibile comprare tra le mura del carcere: sigarette, articoli sanitari, ma anche beni alimentari. Il tetto massimo mensile viene Invece ridotto e fissato a 450-500 euro al massimo di spese. E veniamo a Napoli. Sono in molti, i detenuti di Poggioreale, che al vitto della mensa preferiscono quello cucinato in cella. Un diritto previsto per regolamento. Presso lo spaccio interno alla casa circondariale si possono acquistare carne, pasta e olio. Chi può, provvede così al proprio sostentamento. E non sono pochi. Un dato stridente con una realtà acclarata: stando alle cifre e alle relazioni diffuse negli ultimi anni, nel carcere napoletano - che resta il più affollato d’Italia, soprattutto per “densità abitativa” di detenuti per cella –continua a crescere il numero di detenuti “indigenti”. Persone, cioè, prive di una forma regolare di sostentamento. Attenzione a questo particolare. Perché è proprio, tale ultima circostanza ad avere indotto, in diverse occasioni, la magistratura inquirente ad avviare indagini su un sospetto giro di denari che finivano sui libretti di risparmio di centinaia e centinaia di reclusi. Ben al di là della funzione rieducativa -principio fondamentale previsto dalla stessa Costituzione - a Poggioreale resta purtroppo alto il rischio che il carcere per tanti si trasformi, paradossalmente, in uno strumento dì “affiliazione alla camorra”. Insomma in un inferno in terra come questo può corrersi anche questo rischio: che ai detenuti indigenti - come pure a quelli abbandonati da tutti, persino dai parenti - la criminalità organizzata provveda a garantire una quotidiana sussistenza. Anche con il cibo. Ma è una generosità sospetta, sostengono alcuni investigatori. Quella che in gergo criminale viene definita come “fratellanza” è, in realtà, solo una pratica subdola di pre-affiliazione. E non c’è nulla di compassionevole nella munificenza che - per interposta persona - viene elargita da boss e capi-clan. Una storia che si ripete. Già tre anni fa proprio “Il Mattino” denunciò il caso della pioggia di soldi fatta confluire dall’esterno sui libretti di risparmio di alcuni detenuti che serviva anche a foraggiare l’arruolamento delle nuove leve dì una camorra che ha un bisogno indispensabile di trovare nuova manodopera tra i detenuti “comuni”. Un caso sul quale anche la Dda ha deciso di concentrare la propria attenzione. Tutto questo anche perché proprio negli ultimi mesi le norme anti-riciclaggio (con un rigido controllo delle movimentazioni bancarie) sono diventate sempre più stringenti. Ora con la circolare del ministero della Giustizia, voluta dal guardasigilli Anna Maria Cancellieri, e con le relative conseguenze restrittive in tema di spese sia settimana-li sia mensili, bisognerà capire che cosa succederà. Innanzitutto occorrerà attendere le reazioni “interne”, le voci di dentro; e poi verificare se - eventualmente - certe cifre a tre zeri che per anni sono confluite su tanti libretti di risparmio intestati ai detenuti continueranno ad arrivare. Dunque ulteriori verifiche sono state annunciate dal Dap già nelle prossime settimane. Nel qual caso certi sospetti saranno ancora più legittimi. Giustizia: la richiesta di grazia non arriverà… né da Berlusconi, né dai suoi figli di Paola Di Caro Corriere della Sera, 18 agosto 2013 I ministri del Pdl verso le dimissioni dopo il voto sulla decadenza. La decisione è presa e l’ha comunicata ai suoi. “Non mi passa nemmeno per la testa di chiedere la grazia. Non lo farò io, non lo faranno i miei figli, non lo faranno i miei avvocati. E non chiederò nemmeno i servizi sociali, né i domiciliari. Io continuerò la mia battaglia a testa alta, anche dal carcere se servirà. Non l’avranno vinta”. Non è servito un lungo vertice venerdì con i suoi legali, con i familiari, con i collaboratori più stretti ad ammorbidire la posizione di Silvio Berlusconi. Non sono valse a nulla le obiezioni degli avvocati secondo i quali, se accedesse ai servizi sociali, se il clima si rasserenasse e il Pd si disponesse ad attendere almeno la fine dei nove mesi di pena prima di decidere sulla sua decadenza da senatore, magari si riuscirebbe a salvare il salvabile, a tutelarlo, a tenere in piedi il governo e assieme l’agibilità politica del leader del centrodestra. No, raccontano, Berlusconi non ci sta. Non crede più alle promesse. È talmente deluso e infuriato e amareggiato e ferito che adesso vuole vedere i fatti da chi, ne è convinto, glieli aveva promessi. Da quel Quirinale dal quale nel Pdl si aspettavano di più, magari un provvedimento di grazia motu proprio che avrebbe fermato le macchine, cambiato il clima. E dal Pd che non risponde e che, si sta convincendo Berlusconi, porterà il Paese al voto anticipato presto, forse entro l’anno. Infatti, confermano i suoi, alle richieste corali e accorate di tutto il Pdl perché la politica intera si faccia carico - dal Quirinale al Pd - del destino del leader se davvero tengono alla sopravvivenza del governo, non sono arrivate risposte. Né dal Colle né dal Pd né dal capo del governo sarebbero giunte aperture o sarebbe stata manifestata alcuna disponibilità, per ora, a compiere ulteriori passi. Per questo il Cavaliere sembra ormai convinto che la strada del governo sia segnata, e non per colpa sua: “L’atteggiamento del Pd è suicida - è il messaggio consegnato ai suoi in queste ore, per colpa loro finiremo al voto anticipato”. Perché loro, che dovrebbero “votare contro le mie dimissioni da senatore” non lo faranno, e perché Napolitano difficilmente inventerà un sistema che possa fargli scudo dal rischio, una volta persa l’immunità parlamentare, di essere oggetto dell’attacco delle Procure di mezza Italia, da quella di Milano a quella di Napoli a quella di Bari. E se le cose stanno così, è il ragionamento che Berlusconi fa con quelli dei suoi che, come Daniela Santanché, riescono a parlargli direttamente ad Arcore o gli altri che lo raggiungono al telefono in queste giornate infinite, è chiaro che lo scontro è inevitabile. Quando in Giunta per le Elezioni, il 9 settembre o quando sarà, si voterà per la sua decadenza da senatore e Pdl e Pdl si troveranno l’uno contro l’altro “un minuto dopo, Alfano e gli altri ministri si dimetteranno, e sarà la fine dell’alleanza”. Già, e poi? Ormai ad Arcore e nelle bollenti telefonate tra big del Pdl si esamina già lo scenario della crisi conclamata. E raccontano che Berlusconi sia piuttosto scettico sull’ipotesi che possa davvero nascere un governo di scopo per varare almeno la riforma della legge elettorale e la legge di stabilità: “Mi pare molto difficile che Grillo si allei con il Pd per fare un governo”. E questo perché, è il ragionamento che fanno nel Pdl, per lui sarebbe molto meglio andare a votare subito, con questa legge elettorale. Ipotesi, quella di elezioni anticipate già entro l’anno, che lo stesso Berlusconi al momento ritiene la più probabile. Quanto ci sia di reale convinzione, quanto di speranza o quanto di tattica nell’evocazione di questi scenari è da capire nelle prossime ore. Non c’è dubbio che l’alzarsi rapido e drammatico della tensione sia dovuto alla reale angoscia e preoccupazione di Berlusconi, che non vede vie d’uscita dai suoi guai. Ma è anche vero che è proprio la minaccia della crisi e del voto subito l’ultima arma che il Pdl può agitare per tentare di convincere il colle e il Pd a “scendere a patti, trovare una soluzione perché tutto non salti per aria”, come dicono ormai anche le colombe. E però, allo stato, spiragli per uscire dal cul de sac non se ne vedono, né disponibilità a passi che, ammettono anche nel Pdl, sarebbero pesanti sia per Napolitano da una parte che per il Pd dall’altra. Dunque, la sensazione è che ormai la strada sia imboccata: è tempo di accelerare per arrivare a una soluzione che sia un vero salvacondotto, o di andare alla rottura. Per non chiudere la finestra elettorale (strettissima, ma teoricamente ancora percorribile) dell’autunno, e per sfruttare comunque la figura del leader ancora pienamente nel suo ruolo, o addirittura icona del “martirio giudiziario” se in piena campagna elettorale fosse costretto ai domiciliari, impedito ma mai domo, pronto appunto a condurre “la mia battaglia di libertà”. E ormai a dirgli che la via potrebbe essere sbagliata, che c’è da essere cauti, sembra non esserci più nessuno. Volenti o nolenti, nel Pdl sono pronti a seguire il capo in questa sfida. Se fino alle estreme conseguenze, lo diranno le prossime, drammatiche settimane. Padova: dopo suicidio notte di tumulti in carcere, cibo gettato e fuochi accesi nelle celle di Enrico Ferro Il Mattino di Padova, 18 agosto 2013 Ieri l’autopsia sulla salma del giovane suicida: “Assenti segni di violenza”. La procura di Padova ha aperto un’inchiesta dopo quanto accaduto venerdì: guardie carcerarie sotto interrogatorio. Nessun segno di violenza da parte di terzi, né durante l’esame esterno, né dopo l’autopsia. Daoudi Abdelaziz, 21 anni, il detenuto che si è tolto la vita nella Casa Circondariale, non è stato picchiato. O almeno così dicono gli accertamenti medico-legali eseguiti fino ad ora. Saputa la notizia ieri sera i detenuti hanno protestato sbattendo i cucchiai sulle sbarre delle finestre delle celle e rifiutando il cibo: sembra siano stati accesi anche dei fuochi. Prosegue comunque l’indagine della squadra mobile di Padova, come deciso dal pubblico ministero Federica Baccaglini che ha aperto un’inchiesta. Venerdì sera nel carcere padovano è scoppiato il finimondo, con i detenuti in rivolta dopo aver appreso la notizia dalla morte del marocchino: il più giovane detenuto suicida di questo 2013. La rivolta I circa 300 carcerati della Casa Circondariale, tutti in attesa di giudizio e per la maggior parte stranieri, sostenevano che il ventunenne avesse deciso di togliersi la vita perché picchiato dalle guardie carcerarie. La notizia, vera o falsa che sia, si è diffusa alla velocità della luce tra le celle. E così, alle 18, al momento di rientrare dall’ora d’aria, tutti si sono rifiutati in massa. Una situazione esplosiva, con oltre 200 detenuti riuniti in protesta nel cortile. Polizia penitenziaria e polizia di Stato hanno circondato l’area in forze mentre i vigili del fuoco con le fotoelettriche hanno illuminato a giorno il piazzale. Verso le 22 un detenuto scelto in rappresentanza di tutti ha potuto parlare con il pm Federica Baccaglini spiegando i motivi della rivolta. Si è giunti quindi ad una mediazione. E la protesta è rientrata. L’indagine Venerdì sera hanno preso il via immediatamente gli accertamenti degli uomini della squadra mobile di Padova che stanno interrogando sia gli agenti della Penitenziaria che i detenuti, per scoprire cosa è successo veramente a Daoudi Abdelaziz. Bisogna chiarire se le violenze esistono o meno. La polizia vuole verificare la veridicità dell’accusa condivisa in massa dai carcerati. Il suicidio Secondo quanto ricostruito il ventunenne marocchino è riuscito a togliersi la vita impiccandosi con i lacci delle scarpe. A causa di una patologia già esistente doveva presentarsi almeno una volta al giorno nell’infermeria del carcere. Ed è lì che è riuscito a procurarsi i legacci, cosa che non è concepita in una struttura carceraria. Il giovane è stato soccorso immediatamente ma le sue condizioni sono parse subito disperate. È rimasto ricoverato una notte intera nel reparto di terapia intensiva dell’ospedale Sant’Antonio ma nel primo pomeriggio di venerdì è morto. La procura di Padova ha aperto un’inchiesta per analizzare la vicenda da tutti i punti di vista: dalla mancata vigilanza nell’area dell’infermeria per finire con le presunte violenze delle guardie. L’autopsia Ieri in tarda mattinata il professor Claudio Terranova ha eseguito l’autopsia sul corpo del nordafricano ma pare che non sia stato trovato nulla che faccia pensare ad un’aggressione da parte di terze persone. Gli unici segni sul corpo del marocchino sono quelli lasciati dai lacci intorno al collo. Nessuna costola rotta, nessun ematoma su braccia e gambe e nessun segno nemmeno all’addome o alla schiena. Gli interrogatori continueranno anche nei prossimi giorni nel tentativo di raccogliere più testimonianze possibile. Situazione esplosiva Ciò che è successo venerdì chiama in causa la situazione disumana all’interno del carcere di Padova, con casi limite anche di 9 detenuti stipati in 24 metri quadrati. I rappresentanti sindacali della Polizia penitenziaria, tra cui Giampiero Pegoraro della Cgil, si stanno muovendo per ottenere risposte concrete dal ministero dell’Interno per mettere fine allo scempio. Comunicato del Garante dei detenuti della Sicilia, Salvo Fleres La tragedia verificatasi ieri al carcere di Padova, dove un detenuto marocchino, di appena 20 anni, si è tolto la vita, suscitando la reazione degli altri reclusi, che hanno inscenato una fragorosa protesta, potrebbe verificarsi, da un momento all’altro, in qualsiasi altro carcere italiano e siciliano in particolare. Le difficoltà strutturali, il sovraffollamento, la carenza di personale e di agenti, l’insufficiente assistenza sanitaria e psicologica costituiscono una pericolosissima miscela esplosiva a cui può fare da detonatore qualsiasi episodio. Le carceri del nostro Paese rappresentano una criticità di cui lo Stato tarda a vergognarsi ed alla quale tenta di far fronte con provvedimenti inadeguati, affidati ad una altrettanto inadeguata amministrazione penitenziaria. Le carceri sovraffollate siciliane sono tante, da Piazza Lanza a Catania, a Siracusa, a Palermo Pagliarelli etc. Alla luce di una tale situazione, piuttosto che provvedimenti atti a risolvere i problemi più volte segnalati, si preferisce pensare a come ostacolare l’attività del Garante e del suo ufficio, costringendolo a sporgere continue denunce. Napoli: inferno Poggioreale; elle affollate, mancano persino docce e acqua calda manca di Maria Pirro Il Mattino, 18 agosto 2013 Celle sovraffollate e sale operatorie vuote. Questa la situazione a Napoli, stigmatizzata in una lettera inviata al ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri. A intervenire Vittoriano L’Abbate, criminologo, rappresentante nazionale dell’Amapi (sindacato specialisti medici penitenziari), per segnalare “il disagio e la sofferenza dei detenuti che continuano a essere penalizzati anche come pazienti, per il perdurare, immotivato, della chiusura della sala operatoria del centro clinico dì Poggioreale, che comporta a tutt’oggi trasferimenti in altre strutture, dopo addirittura anni dì attesa anche per banali interventi chirurgici con grosso dispendio di ri-sorse economiche e umane”. Una emergenza, quella sanitaria nel carcere di Poggioreale, emersa anche dall’inchiesta condotta dal Mattino nei giorni scorsi. L’Abbate sottolinea che lo stop agli interventi chirurgici nel carcere dura già da quattro anni, ed è off-limits anche il complesso operatorio di Secondigliano. “Più volte è stata segnalata tale situazione anche al Dipartimento amministrazione penitenziaria e al ministero della Giustizia per le proprie competenze senza alcuna risposta operativa così come più volte “Il Mattino “ ha sollecitato i funzionali competetenti dell’Asl Napoli 1 senza che la problematica potesse essere risolta. La direzione del carcere, molto sensibile, mi risulta - scrive il sindacalista - abbia esperito tutti i tentativi che, però, sono risultati vani”. Quindi il nuovo appello. Intanto, dal 2008 la salute dei detenuti - prima rimessa al ministero della Giustizia - è di competenza delle Asl. “Ma l’attuazione pratica della riforma sta determinando non poche disfunzioni”, interviene Mario Barone, presidente campano di Antigone, che aggiunge: “Data la gravità della situazione, l’associazione nei mesi a venire si concentrerà sul problema salute in carcere. Se, per un verso, le principali responsabilità vanno ricercate “fuori le mura”, per un altro verso, ci sono delle responsabilità direttamente imputabili all’amministrazione penitenziaria”. Barone avvisa: “Il carcere, se non è a norma, rischia di diventare un ambiente patogeno: nella maggior parte dei padiglioni di Poggioreale non c’è la doccia in cella con l’acqua calda, come previsto dal regolamento di esecuzione dell’ordinamento penitenziario. I nostri osservatori hanno, poi, potuto riscontrare nelle celle una vera e propria contiguità fisica tra gli igienici e gli spazi utilizzati per cucinare. Sovraffollamento estremo e calura estiva fanno il resto”. Reggio Calabria: visita Radicali Pannella e Bernardini, nel carcere carenze di personale Ansa, 18 agosto 2013 Il leader radicale Marco Pannella e Rita Bernardini, accompagnati dal sen. Nico D’Ascola del Pdl hanno compiuto oggi una visita nel nuovo carcere di Reggio Calabria, nel quartiere Arghillà. “Noi radicali - ha detto la Bernardini - dobbiamo ringraziare il sen. D’Ascola perché ci ha permesso di visitare il nuovo carcere. Non essendo noi in Parlamento non possiamo esercitare il ruolo di sindacato ispettivo. Qui ci troviamo in una situazione particolare con la presenza di circa 150 detenuti. Ma bisogna considerare che i magistrati saranno in ferie fino al prossimo 15 settembre. Immagino che con la ripresa delle udienze la situazione sarà molto diversa e rispecchierà quella che la Corte Europea ha condannato per trattamenti inumani o degradanti nei confronti dei detenuti. Bisogna fare qualcosa”. “L’accoglienza a Marco Pannella - ha proseguito Rita Bernardini - è stata molto affettuosa. Sia da parte dei detenuti, che dalla direttrice e dal personale della polizia penitenziaria. Devo riconoscere che la direttrice si è adoperata per introdurre in questa struttura molte migliorie. Per esempio la sala d’attesa per i familiari che è stata migliorata grazie al lavoro dei detenuti. Ma anche i locali docce. Tutto fatto dai detenuti. Anche in questa casa di reclusione in molti sono in attesa di giudizio. Alcuni attendono da oltre due anni e mezzo la prima udienza del loro processo. C’è carenza di personale della polizia penitenziaria, mancano circa 40 unità e questo pesa sul servizio traduzioni. Non si riesce a far fronte al diritto dei detenuti di presenziare alle udienze che li riguardano. E anche i magistrati protestano. Spesso c’è pure difficoltà ad accompagnare i detenuti a casa ai domiciliari. Una volta assegnati ai domiciliari i detenuti potrebbero raggiungere il loro domicilio autonomamente. Coloro che evadono dai domiciliari sono appena lo 0,5% del totale. Per i casi più gravi basterebbe utilizzare i famosi braccialetti elettronici che allo Stato sono costati circa 110 mln di euro e non si capisce perché non si riesce ad utilizzarli”. Pannella, parlando con i giornalisti fuori dal carcere, ha annunciato che prossimamente si recherà a Platì, comune in cui i radicali in occasione di alcune consultazioni elettorali hanno ricevuto il 20% dei consensi. “Un Paese - ha affermato Pannella - che ha dimostrato di capire quello che l’Italia mostra ancora oggi di non capire”. Bari: Coosp; a Ferragosto turni di 16 ore continuative per agenti di polizia penitenziaria Ansa, 18 agosto 2013 A Ferragosto, nel carcere di Bari agenti di polizia penitenziaria, alcuni in maniera volontaria, hanno fatto turni di 16 ore continuative: lo denuncia in una nota il segretario generale del Coordinamento sindacale penitenziario (Coosp), Domenico Mastrulli. Il Coosp chiede provvedimenti di emergenza da parte del Dipartimento, sottolineando la difficile situazione esistente “nelle carceri pugliesi a causa del sovraffollamento e della carenza di organico per quanto riguarda gli agenti di polizia penitenziaria”. “La Puglia - sottolinea Mastrulli - è una Regione considerata ad alto tasso di criminalità organizzata, con dieci strutture funzionanti adulti ed una minorile (quella di Monteroni di Lecce Ipm è ancora inattiva), una Regione che potrebbe ospitare 2.400 detenuti, mentre alla data odierna risulterebbero 4.300 persone arrestate con un sovraffollamento detentivo del 96% rispetto alla media nazionale”. Taranto: detenuto ricoverato in ospedale aggredisce gli agenti di Polizia penitenziaria www.tarantosera.info, 18 agosto 2013 Solo poche ore prima era stato strappato alla morte da alcuni agenti di Polizia Penitenziaria nel carcere di Taranto. Ma l’uomo li ha ripagati aggredendo altri poliziotti penitenziari. È accaduto nel pomeriggio di ieri, sabato 17 agosto, presso la cella di sicurezza dell’Ospedale Giuseppe Moscati di Taranto. Protagonista un giovane Nigeriano, con problemi di carattere psicologici. Lo stesso che è staso salvato da un tentato suicidio e successivamente ricoverato presso l’ospedale Nord di Taranto. Durante la somministrazione di una flebo, dopo essersi letteralmente estirpato l’ago, ha afferrato con violenza l’asta della flebo inveendo, contro il personale di Polizia penitenziaria di servizio scorte presso il nosocomio. Gli agenti sono riusciti in pochi istanti ad immobilizzare il giocane, riportando però alcune contusioni giudicate guaribili in 4 giorni. A rendere noto l’accaduto è la Cisl Fsn di Taranto e Brindisi. In una nota a firma di Erasmo Stasolla, segretario generale aggiunto della sigla sindacale scrive: “Ora basta! Tanto più che negli ultimi tempi, a fronte di una paurosa carenza di organico, c’è un arrivo al “C. Magli” di detenuti psichiatrici costretti a convivere con gli altri ospiti, pur essendo bisognosi di particolari cure mediche e di specifica assistenza. Manifestiamo la nostra solidarietà ai colleghi che sono in prognosi di guarigione, ma insistiamo nel riproporre la nostra vertenza riguardante almeno la conferma degli organici previsti, pari qui a 357 unità a fronte delle circa 310 esistenti attualmente. Il personale risulta stressato perché sottoposto a turni massacranti, in particolar modo serali e serali festivi, anche in nome di una cosiddetta “sorveglianza dinamica” che vorrebbe dire secondo l’Amministrazione centrale avvalersi dell’uso delle telecamere ma, di fatto, significa che un solo Poliziotto penitenziario è responsabile della sorveglianza di più sezioni detentive, con tutte le difficoltà del caso quando si dovessero rendere necessari gli interventi”. “La media delle aggressioni ai colleghi - aggiunge la nota - è di almeno una a settimana a Taranto e noi continuiamo a chiedere all’Amministrazione penitenziaria Centrale che venga posto fine a questo stillicidio che determina situazioni di stress correlato ed assenze per malattia, senza tacere sull’opportunità che, a fronte della chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, tal genere di detenuti confluiscano in strutture carcerarie idonee a livello regionale, per essere assistiti adeguatamente con servizi alla persona che ne salvaguardino la dignità ma ne affrontino altrettanto adeguatamente le problematicità”. Massa Carrara: detenuti in permesso premio rapinano banca, inseguiti e presi di Giacomo Mascellani La Nazione, 18 agosto 2013 Uno è un viareggino, l’altro un bolognese. È accaduto a Cesenatico. Si erano conosciuti nel carcere di Massa, dove scontavano altre pene. Sono due delinquenti incalliti in permesso premio. E non hanno pensato di meglio che mettere a segno una rapina sulla riviera romagnola. Hanno assaltato la filiale di viale Roma di Cesenatico del Monte dei Paschi di Siena, entrambi armati di coltello ma sono stati presi dopo un drammatico corpo a corpo. Uno di loro abita a Viareggio, Salvatore Antonio Sicali, 42 anni nato a Catania ma residente appunto nella nostra città. L’altro è Franco Balsano, 45 anni, originario di Bologna. Balsano in passato è stato protagonista di rapine, atti di estorsione ed ha persino assaltato un portavalori assieme ad una banda. Sicali è invece un rapinatore di professione, in precedenza condannato anche per aver compiuto otto rapine consecutive. I due si sono conosciuti nel carcere di Massa dove entrambi erano detenuti per scontare condanne da 6 a 8 anni. Erano rinchiusi da tempo ed in questi giorni godevano di un permesso premio di una settimana, con l’obbligo di dimora nei rispettivi comuni di residenza. Ai carabinieri di Cesenatico che li hanno arrestati e ieri hanno reso noto la dinamica del colpo alla Mps, hanno riferito di aver scelto Cesenatico perché Balsano conosce il territorio. Salvatore Antonio Sicali è il rapinatore arrestato dalla pattuglia della stazione dei carabinieri di Cesenatico appena uscito dalla banca con il malloppo, fra gli applausi delle tante persone che hanno assistito alle fasi finali del colpo. Franco Balsano è invece il rapinatore che è fuggito a piedi in viale Roma direzione mare, poi ha imboccato la via Bixio ed è stato fermato dal tenente Luigi Scalingi in abiti civili e fuori dal servizio, che lo ha rincorso. Balsano al termine della colluttazione si è complimentato con il tenente. Il maggiore Emanuele Spiller, comandante della Compagnia dei carabinieri di Cesenatico, è soddisfatto dell’operazione: “L’intervento è stato efficace, non ci sono stati feriti, l’intero bottino di circa 10mila euro è stato recuperato, così come le armi impugnate dai rapinatori e le prove”. Ai due rapinatori sono stati contestati i reati di rapina aggravata, sequestro di persona, resistenza a pubblico ufficiale e porto abusivo di oggetti atti ad offendere. La Daewoo Matiz con la quale hanno raggiunto Cesenatico per mettere a segno il colpo è di proprietà della sorella di uno dei due rapinatori, tuttavia la donna pare estranea ai fatti. Il pm che segue il caso è Alessandro Mancini. Per il momento i due rapinatori sono rinchiusi nel carcere di Forlì, tuttavia è probabile che vengano trasferiti in quello di Massa. Immigrazione: Cie di Gradisca d’Isonzo gli stranieri chiedono di essere trasferiti altrove Messaggero Veneto, 18 agosto 2013 “Non vogliamo più stare qui: trasferiteci altrove, anche in un altro Cie”. Gli immigrati ospitati dal Centro di identificazione ed espulsione di Gradisca - 64 in tutto a ieri - lo hanno chiesto a gran voce nelle scorse settimane ai rappresentanti delle associazioni autorizzate a visitare la struttura, definita “la più a rischio” nel suo genere in Italia dal deputato di Sel, Serena Pellegrino, che ieri ha effettuato un nuovo sopralluogo all’interno dell’ex caserma Polonio. Dove la situazione è tornata tranquilla, dopo i tafferugli dei giorni scorsi, anche grazie all’intervento della Prefettura, che ha deciso di accettare alcune delle richieste dei clandestini che soggiornano nel centro. E per oggi pomeriggio, è previsto un presidio di protesta, con manifestanti che arriveranno anche da fuori regione. È tornata la calma Impossibile, per ovvie ragioni, accettare la richiesta degli immigrati di rivedere il comma della legge Bossi-Fini che dispone la permanenza dei clandestini nei Cie fino a un massimo di 18 mesi. Prefettura e Questura, però, su pressione della Pellegrino, hanno riconsegnato ieri agli ospiti del cento i loro cellulari, sequestrati nei mesi passati. Altra concessione: è stata riaperta la sala mensa, dove gli immigrati potranno consumare i pasti. Fino a oggi pranzi e cene erano distribuite in stanza o negli spazi comuni, “autentiche gabbie, degne di uno zoo”, ha spiegato Jenny, referente dell’associazione Tenda per la pace e i diritti. Nei prossimi giorni sarà ripristinato inoltre il campetto di calcio, chiuso da due anni. “Rispetto ai giorni dei disordini la situazione è certamente più tranquilla, ma all’interno del centro si vive una situazione di emergenza costante - ha spiegato la deputata di Sel. Il Cie gradiscano è quello più a rischio a livello nazionale, è una pentola a pressione. Con, in più, una situazione igienico-sanitaria che resta di alto degrado”. Oggi la manifestazione Per questo pomeriggio (dalle 17) è previsto un presidio di protesta pacifico organizzato davanti al Centro dall’associazione Tenda per la pace e i diritti: “Chiederemo la chiusura del Cie, una struttura nella quale è stato progressivamente tolto tutto - ha spiegato una referente del sodalizio. Un paradosso? Gli operatori ormai non consegnano neppure più il regolamento agli immigrati per timore che questi lo usino per appiccare incendi. Assistiamo a continue violazioni, delle quali è responsabile la Prefettura: per questo chiediamo che il prefetto di Gorizia rassegni le dimissioni”. Tre settimane fa alcuni componenti dell’associazione hanno avuto modo di visitare il Cie e parlare con gli ospiti: “Ci hanno detto che pur di non stare qua sarebbero disposti ad andare in altre strutture analoghe, che in molti casi hanno già visitato, a dimostrazione che quello di Gradisca è uno dei peggiori in Italia”. All’incontro di ieri all’esterno del Cie hanno preso parte anche il garante dei detenuti del carcere di Gorizia, don Alberto De Nadai e don Pierluigi Di Piazza del Centro Balducci di Zugliano: “Nel Cie sono violati tutti i diritti più elementari e costantemente lesa la dignità umana: un luogo come questo va chiuso subito. L’Italia, purtroppo, non ha un vero progetto sull’immigrazione”, ha detto il sacerdote. M5S e Pd: va chiuso “Era prevedibile che il Cie di Gradisca diventasse per l’ennesima volta teatro di episodi di violenza e di disperazione. Fino a oggi non si è fatto nulla per risolvere la situazione”. È la presa di posizione della consigliera regionale del Movimento 5 Stelle Ilaria Dal Zovo, che paventa il rischio che “in regione arrivino almeno 500 immigrati al mese, destinati ad aumentare a dismisura il numero dei clandestini presenti in Fvg. È una situazione insostenibile”. Sulla necessità di chiudere il Cie insiste anche Franco Codega (Pd): “Lo avevamo già detto all’indomani della visita di qualche settimana fa: il centro, almeno così come oggi è gestito, va chiuso - spiega Codega. Le condizioni di vita delle persone ivi trattenute sono inaccettabili. Sono molto più restrittive di quanto previste dalle direttive europee in proposito e sono spesso al limite del rispetto dei diritti umani”. Pellegrino: accesso a Cie per autorità regionali “Mi spiace che i consiglieri regionali e le altre istituzioni non possano presidiare il territorio come i parlamentari. Non capisco perché non possano entrare al Cie”. Lo afferma il deputato Serena Pellegrino (Sel), commentando la manifestazione di protesta svoltasi ieri al centro di Gradisca d’Isonzo (Gorizia). Pellegrino ha invocato l’accesso alla struttura per i consiglieri regionali, “come - ha notato - accade nelle carceri”. Il deputato di Sel ha anche stigmatizzato il comportamento di alcuni cosiddetti disobbedienti nel corso della manifestazione di ieri. “Hanno incitato gli ospiti - ha detto - e questo mi è spiaciuto. Spiace che alcuni abbiano voluto deviare dall’efficace traccia avviata negli ultimi giorni per la soluzione dei problemi contingenti del Centro - ha concluso - lungo la quale erano stati raggiunti concreti risultati”. Stati Uniti: i gulag della democrazia coatta di Luca Celada Il Manifesto, 18 agosto 2013 Il ministro della giustizia Eric Holder squarcia il velo sul dramma dei “sepolti vivi”. 2,3 milioni di persone dietro le sbarre. Gli Stati uniti detengono il 25% dei prigionieri del mondo. Un milione sono afroamericani, ben oltre il 40% del totale malgrado costituiscano a malapena il 10% della popolazione Dopo la questione del razzismo ancora endemico sollevata dal caso Trayvon Martin, e della sanità pubblica, con la prossima entrata in vigore della riforma “obama care”, l’amministrazione Obama si occupa di un altra piaga sociale americana: le carceri. Gli Stati Uniti mantengono un ipertrofico complesso penale-industriale articolato in migliaia di penitenziari, federali, statali e privati; un gulag in cui sono incarcerate 2,3 milioni di persone, una popolazione-ombra che è quintuplicata negli ultimi 30 anni. La scorsa settimana Eric Holder, il ministro della giustizia di Obama, ha pronunciato un discorso “epocale” per il semplice fatto di aver formulato alcuni semplici, evidenti concetti che da anni vanno ribadendo alla nausea sociologi, criminologi, soggetti sociali e associazioni per i diritti civili. Sì, perché la deriva giustizialista degli ultimi 40 anni in America è in buona sostanza un aberrazione di portata storica e planetaria. Da quando Richard Nixon lanciò la sua crociata contro la droga, la famigerata war on drugs, la “tolleranza zero contro la criminalità” è diventata una pietra miliare della demagogia politica, una deformazione codificata negli statuti federali e statali in misura sempre più draconiana, una crociata che ha trovato rinnovato impulso negli anni del reganismo e nell’era neoconservatrice, assumendo infine una sorta di vita propria come celodurismo imprescindibile di ogni campagna politica e ogni pubblica amministrazione: un ossessione proibizionista come strumento di controllo sociale. La carcerazione applicata a interi settori sociali è così diventata incentivo economico impiegato per supplire a deindustrializzazione e delocalizzazione come raccontano i tanti hinterland e piccole province dove le economie azzerate sono state sostituite dalla costruzione di carceri e reclutamento di secondini. Oggi gli Usa, che rappresentano circa il 5% della popolazione mondiale, detengono dietro le sbarre il 25% dei prigionieri del mondo, la gran maggioranza dei quali condannati per droga, reati spesso irrisori puniti con maxipene grazie alle leggi sulle condanne minime obbligatorie, vedi la famigerata 3 strike law che obbliga i giudici a sentenze di molti anni dopo la terza infrazione, anche per reati minori; gli stessi statuti che eliminano la libertà vigilata, vietano i commutamenti di pena e impediscono la riabilitazione. Celata dietro alla retorica dell’ordine pubblico, della lotta alla criminalità e della difesa della cittadinanza è in corso una sorta di spedizione punitiva contro poveri e minoranze come da anni palesano le vergognose discrepanze delle pene previste per la detenzione/spaccio di cocaina rispetto a quelle comminate a chi usa il crack. Le storie di neri e ispanici nei ghetti condannati a 20 anni per detenzione di un cristallo di coca mentre nei quartieri middle-class avvocati o agenti di borsa se la cavano con una condizionale per dieci grammi di polvere fanno ormai parte di una casistica che racconta una nuova segregazione, un tacito apartheid nascosto dietro i muri delle prigioni. Il risultato è leggibile sulle statistiche: i neri d’America sono incarcerati a un tasso sei volte superiore a quello dei bianchi; i prigionieri afroamericani sono 1 milione, ben oltre il 40% del totale malgrado costituiscano a malapena il 10% della popolazione. Contro questi dati e il lungo catalogo di abomini antidemocratici che la carcerazione selvaggia rappresenta, ha dunque parlato l’altro giorno Eric Holder, il primo attorney general a rompere l’omertà istituzionale, che ha articolato bene l’obbrobrio morale rappresentato dall’immagazzinamento delle generazioni di “sepolti vivi” nella “più grande democrazia occidentale”. Una politica oltretutto dagli enormi costi finanziari per cui uno stato come la California (250.000 detenuti) spende più di $100.000 all’anno per un detenuto minorenne e meno di $10.000 nello stesso periodo per uno studente nella scuola pubblica. L’industria penale è promossa da forti lobby (vedi i potentissimi sindacati delle guardie carcerarie che spingono per pene sempre più severe) e rappresenta ormai un giro di affari da $80 miliardi. Oggi la crisi dei bilanci pubblici sembra infine delineare un inversione di rotta, ma Holder non si è limitato ad una questione di pubblica amministrazione - la sua critica è stata politica e morale, parlando del “circolo vizioso di povertà, criminalizzazione e incarcerazione che intrappola troppi americani”, problemi ha ammesso che “il sistema giudiziario ha esacerbato invece di alleviare”. Si tratta, è vero, dello stesso ministro che giustifica Guantánamo, la sorveglianza totale della Nsa e eventualmente le esecuzioni “di terroristi” mediante droni - ma in questo caso si è trattato di un grosso passo nella direzione giusta. Non capita tutti i giorni. Iran: cinque detenuti azeri in sciopero della fame, condizioni critiche Ansa, 18 agosto 2013 Tredici Ong della società civile hanno pubblicato una dichiarazione congiunta relativa ai cinque prigionieri di coscienza azeri che sono entrati nella quarta settimana di sciopero della fame nelle prigioni iraniane. Le loro condizioni di salute sono critiche e si teme per la loro vita. I loro nomi: Latif Hassani, Mahmoud Fazli, Shahram Radmehr, Ayat Mehr Ali e Bayglue Behboud Gholizad.