Giustizia: Franceschini gela il sogno amnistia; no a strategie politiche contro le condanne di Amedeo La Mattina La Stampa, 12 agosto 2013 Enrico Letta non intende farsi trascinare nella vicenda giudiziaria di Silvio Berlusconi, logorare sull’Imu, intimorire dalle minacce di crisi di governo che vengono dal Pdl. A Baku il premier ha voluto mettere un punto fermo ai venti di guerra, soprattutto ha di fatto smentito indiscrezioni di stampa secondo cui si starebbe lavorando informalmente per trovare una soluzione al caso giudiziario del Cavaliere dopo la condanna in Cassazione. Il ministro per i Rapporti con il parlamento, Dario Franceschini, la mette così: “Non esistono strategie politiche per uscire da una vicenda giudiziaria”. In sostanza nessuno si faccia illusioni che si possa lavorare a ipotesi tipo amnistia, quindi a una riforma della giustizia che alla fine approdi a questo provvedimento. A Palazzo Chigi non sono piaciute alcune affermazioni di esponenti del Pdl che continuano a ribadire un concetto: non si sono valutate a fondo le conseguenze della questione Berlusconi. Una critica rivolta ai Democratici, al segretario Epifani in particolare, accusato di “intransigenza”. Un’accusa che sembra rivolta anche al premier e a tutti ministri del Pd. Ecco, a questo Letta non ci sta. Si spiegano così le parole del presidente del Consiglio a Baku, quando ha detto che “il governo è impegnato sulle cose da fare, ad affrontare i problemi degli italiani e nulla mi distoglierà da questo”. Appunto, come dice Franceschini, “non esistono strategie politiche per uscire da una vicenda giudiziaria”. Per dirla in maniera esplicita: a nessuno, dentro e fuori la delegazione Pdl al governo, venga in mente di proporre soluzioni parlamentari. L’amnistia, appunto. Così come non ci può essere alcun intervento sulla giunta del Senato che a settembre dovrà decidere la decadenza di Berlusconi. Finora non ci sono state richieste in tal senso dentro il governo, ma l’uscita di Letta è servita a confutare il sospetto, il solo chiacchiericcio giornalistico che tra ministri Pd e Pdl ci sia un lavorio per tirare fuori dai guai giudiziari Berlusconi. Uno stop a un eventuale tormentone estivo, come se il governo non andasse in vacanza per trovare il modo di salvare l’ex premier. Letta si rende conto che tra qualche settimana si potrebbe trovare di fronte a una “reazione imprevedibile” del Cavaliere. Ma il premier sente di avere la coscienza a posto e di mettercela tutta nel trovare un compromesso sull’Imu. Di un compromesso tuttavia si deve trattare, che quindi non può accontentare totalmente il Pdl e scontentare il Pd che preme su altre priorità. Tenuto conto che i conti dello Stato non sono interpretabili, le risorse devono essere distribuite in maniera oculata. Nessuno forzi la mano e faccia pressioni indebite a Palazzo Chigi e al Quirinale. Sono pressioni controproducenti. L’“agibilità politica” di Berlusconi, come viene chiamata dal Pdl la necessità di non fargli scontare la pena, non rientra nei compiti del governo. Per i Democratici nemmeno in quelli del capo dello Stato. A Largo del Nazareno, sede del Pd, si ha la sensazione che ad Arcore si faccia strada la consapevolezza di trovarsi in un vicolo cieco. Questa è la speranza, che cioè il Cavaliere si rassegni a scontare la pena: cominciare quantomeno a scontarla e consentire al Colle di giustificare un atto di clemenza. Se invece si procede al muro contro muro, tutti sono destinati a rompersi la testa. Ma alla fine il risultato sarebbe, come ha sottolineato Letta a Baku, la caduta del governo e, per gli italiani, il pagamento dell’Imu per intero, compresa la rata che non hanno pagato a giugno. Giustizia: Bernardini; sbagliato condizionare dibattito su amnistia al solo caso Berlusconi Panorama, 12 agosto 2013 “Si dice che i giudici dovrebbero parlare attraverso le sentenze e le relative motivazioni. Peccato che in Italia tutto quello che si dice troppo spesso non si fa”. Criticata dal centrosinistra per essere andata a raccogliere le firme per i 12 referendum radicali #giustiziagiusta (che si possono sottoscrivere presso le segreterie di tutti i comuni d’Italia) alla manifestazione “pro-Silvio” di sabato scorso a Roma, Rita Bernardini, ex deputata e membro del comitato promotore, commenta così la bufera che ha investito Antonio Esposito dopo la sua intervista a Il Mattino sulla condanna a Silvio Berlusconi: “Che il presidente della sezione feriale della Cassazione parli al di là della sentenza mi sembra una cosa gravissima”. Ma la gravità in cosa consiste davvero? Nel fatto che a 30 anni di distanza dal caso Tortora le disfunzioni, l’arroganza, la mancanza totale del rispetto delle regole da parte della magistratura sono rimaste le stesse. Il fatto risalta di più perché sia allora che oggi ci sono di mezzo due uomini molto famosi, il problema è che ogni giorno a fare le spese di una giustizia ingiusta sono i cittadini comuni, quelli che quando stanno in carcere noi chiamiamo “i detenuti ignoti”. Berlusconi come Tortora? Non credo si possano fare paragoni, il problema è che noi continuiamo ad avere una giustizia pluricondannata in Europa che ormai, da molti anni, avverte come in Italia lo stato di diritto sia messo seriamente in pericolo. E la responsabilità di chi è? Di tutti i governi e di tutti i parlamenti che, indistintamente, non hanno tenuto minimamente in considerazione un giudizio di tale severità. Perché non l’avrebbero fatto? Marco Pannella dice perché “sono tutti soci” nell’essersi fatti soggiogare da un potere, quello giudiziario, che ha dimostrato tutta la sua inefficienza, ingiustizia e arroganza nell’auto-tutelarsi. La separazione delle carriere è uno dei temi dei vostri referendum. A cosa serve? A dotare il sistema giudiziario di un giudice terzo tra accusa e difesa dell’imputato come sosteneva, con convinzione, anche Giovanni Falcone, osannato dopo morto come martire della mafia ma ignorato totalmente in vita quando parlava di queste cose. Oggi il magistrato che emette la sentenza fa la stessa carriera di quello che ha sostenuto l’accusa. Non è un caso che quando una procura fa un’operazione contro qualcuno, agli occhi dell’opinione pubblica quello sia già un giudizio di colpevolezza. Se poi, durante il processo, quella persona che è stata sputtanata su tutti i media e magari si è fatta anche un po’ di carcere, risulta innocente, al massimo le si dedica un trafiletto. Mentre chi l’ha perseguita, sbagliando, resta indenne. Tra i vostri referendum si può firmare anche per la responsabilità civile dei magistrati? Certo, questo è proprio il referendum “Tortora”, vinto già nel 1987 con l’80,2% dei sì e subito dopo tradito dal governo e dal Parlamento con una legge che ha negato la responsabilità civile. Ecco perché diciamo che nella classe politica sono tutti soci nel volersi ingraziare i magistrati, meno uguali degli altri davanti alla legge ma con stipendi altissimi, carriera assicurata e avanzamenti automatici indipendentemente dalle loro capacità. E che ogni tanto vanno a fare altri lavori… Con i nostri referendum, infatti, vogliamo far rientrare nei Tribunali le centinaia di magistrati attualmente distaccati in altre funzioni, tra cui quella di scrivere le leggi che li riguardano. Un palese conflitto d’interessi? Direi di sì. Figuriamoci se potrà mai passare un emendamento che metta in discussione i loro privilegi. Per non parlare delle conseguenze sui tempi dei procedimenti non solo civili. Nel penale, ogni anno, 160.000 cadono in prescrizione. Da una parte si pretende che tutti i reati vadano perseguiti, dall’altra a decidere quali debbano arrivare a termine e quali no sono, spesso, i singoli pm dotati di una discrezionalità assoluta che gli viene solo dall’aver vinto un concorso ma il cui livello di professionalità lascia spesso molto a desiderare. C’è ancora un altro quesito che riguarda la giustizia, oltre a quello sull’abolizione dell’ergastolo, e cioè la limitazione del carcere preventivo ai soli reati gravi... In Italia il 40% dei detenuti sono in attesa di giudizio, il doppio della media europea. Non è più sostenibile. Mi scrivono gli avvocati per chiedermi una mano come se fossi ancora deputata. Le secca essere rimasta fuori dal Parlamento? Bersani ha messo un veto su noi Radicali. Voleva una legislatura tranquilla. Non mi pare ci sia riuscito molto. Aveva paura dell’amnistia? Il grande errore è proprio questo: condizionare il dibattito su un tema del genere al solo caso di Silvio Berlusconi. Sarebbe ora che il Pd inizi a dire delle cose chiare sul tema della giustizia visto che ancora si candida a guidare questo Paese. E al Pdl cosa consiglierebbe oggi? Intanto inviterei i supporter di Berlusconi a evitare il ridicolo sostenendo oggi una proposta di legge d’iniziativa popolare per l’amnistia che non hanno mai appoggiato nonostante noi la invochiamo da sempre. Vengano, piuttosto, a firmare i nostri referendum, a cominciare da Silvio Berlusconi che ancora non l’ha fatto. Giustizia: quei figli con i padri in carcere… una pena accessoria per gli innocenti di Alessandra Ballerini La Repubblica, 12 agosto 2013 A volte mi capita di sentirmi rimproverare da clienti e assistiti: “lei non può capire”. E per quanto io abbia tentato negli anni di affinare la mia capacità di provare e dimostrare empatia, hanno spesso ragione loro. Io non posso capire, non completamente. Ci sono dolori, esperienze, distacchi che fortunatamente mi sono stati risparmiati. E quindi, quando ascolto le storie di chi mi siede di fronte, posso solo intuire il bagaglio di sofferenza che si sono caricati fin qui. Posso solamente immaginare cosa si provi a non vedere tornare a casa un figlio, un marito, un padre. L’ansia che ti attraversa mentre chiami o ti chiamano in questura o in commissariato per ricevere notizie di un congiunto fermato. O peggio quando agenti, non invitati, bussano alla tua porta per perquisire la casa o portarti via un affetto. Non posso capire, ma immagino. E intuisco nei racconti di tre donne, tra loro sconosciute e differenti per età e origine, la stessa protettiva disperazione alla base del medesimo commuovente inganno che trasforma, a beneficio dei figli, la visita al padre detenuto in un’avventura di spionaggio. Così i bimbi di queste tre donne che si sono visti portare via i padri da divise sconosciute, possono inventare, per il genitore lontano, una vita vincente. Il carcere diventa un quartier generale, il padre una specie di James Bond e le guardie sono agenti incaricati di proteggerlo e obbedirgli. La fantasia di queste mamme intelligenti riesce forse a difendere i figli più piccoli dall’impatto col carcere, ma di certo nulla può contro l’oggettiva miseria di quel luogo e lo strazio dei saluti e del distacco. È la pena nella pena. Ed è una pena anche per gli innocenti. Si discute, in questi giorni in cui stanno approvando l’ennesimo decreto “svuota-carceri”, all’indomani di una decisiva e non isolata condanna all’Italia della Corte europea dei diritti dell’uomo per il trattamento “inumano e degradante”, al quale sono sottoposti i detenuti nelle nostre carceri, sull’efficacia e il senso di pene detentive e afflittive per alcune tipologie di reati (ad esempio il consumo di droga). Antigone, insieme a moltissime altre associazioni, sta raccogliendo firme per presentare tre proposte di legge ad iniziativa popolare per ripristinare la legalità nel nostro sistema penale e penitenziario. Quando mi trovo a fermare passanti per raccogliere le firme, alcuni sono ben informati e consapevoli dell’illegalità delle nostri luoghi di detenzione magari perché operatori del settore oppure perché hanno avuto affetti reclusi. Altri invece, si rifiutano con aggressiva ottusità, di riflettere sull’argomento. “Tutti in galera”, oppure “dovrebbero ripristinare la pena di morte”, questi i loro slogan di battaglia. Quando si chiede “ma tutti, chi?” non sanno rispondere e ripetono “Tutti”. Il tema del carcere nel nostro paese viene affrontato spesso, come molti altre questioni nevralgiche, con spirito da tifoseria calcistica (con tutto il rispetto dovuto ai tifosi seri). Ma quando si vedono, o si immaginano, esseri umani rinchiusi diciotto ore al giorno in venti metri quadri con altri otto sconosciuti, in balia del caldo, del panico, della sporcizia, del vuoto e della rabbia propria e altrui, quando li senti ripetere l’ineccepibile paradosso “questa prigione è illegale”, la comprensione si rafforza. Se poi tra i detenuti ci sono degli affetti l’empatia si fa insopportabile. Michel Foucault già nel 1975 sosteneva, in “Sorvegliare e punire” che “la prigione fabbrica indirettamente dei delinquenti facendo cadere in miseria la famiglia del detenuto”. Nessuno vuole un paese abitato da miseria né da delinquenti, neppure il signore urlante “tutti in galera”. Hanno ragione i miei clienti, bisogna provare a capire. E per provare a capire si può leggere la rivista “Area di servizio” (distribuita gratuitamente nelle biblioteche o sul sito www.carcereliguria.it) redatta da un gruppo di operatori, volontari e detenuti che cercano di descrivere la vita reale dentro le mura di una prigione. Giustizia: la Lega Nord chiede legge per rimpatrio automatico dei detenuti comunitari di Giorgia Cozzolino L’Arena, 12 agosto 2013 Dopo la lettera al ministro Cancellieri, Tosi rilancia la richiesta di nuove sanzioni. L’eurodeputato Lorenzo Fontana sta lavorando a una petizione per una legge che faccia scontare nei Paesi d’origine la pena. Nei giorni scorsi il sindaco Flavio Tosi, segretario veneto della Lega nord, aveva scritto al ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri segnalandole l’inefficacia della normativa che riguarda gli ordini di allontanamento di cittadini di Stati membri dell’Unione Europea. Tosi faceva riferimento a un fatto concreto: il tentativo di allontanamento, per accattonaggio, di una donna di origine romene e senza fissa dimora che aveva al suo attivo più di sessanta sanzioni in tal senso. Il ministro ha risposto al sindaco assicurandolo di aver interessato il suo ufficio e quelli del ministero dell’Interno al fine di trovare “possibili interventi di rimodulazione del quadro normativo di riferimento che consenta di trovare una soluzione ai profili problematici segnalati”. Insomma, la “macchina” è in movimento per trovare un modo per rendere effettivi i procedimenti di allontanamento dall’Italia anche dei cittadini comunitari per ragioni di ordine pubblico. “Ora attendo una proposta concreta che vada a correggere la situazione attuale”, sottolinea il sindaco Tosi che ha già in mente una soluzione al problema: “Si tratta di istituire delle sanzioni, anche penali, come per altro già altri Paesi europei hanno fatto, che vengono applicate a chi non rispetta per un determinato periodo l’allontanamento dalla nazione che lo ha ospitato”. Il sindaco Tosi sottolinea inoltre: “Ci sarebbe poi da cambiare la normativa europea che permette il trasferimento nel Paese UE d’origine di chi è stato condannato a scontare una pena detentiva. Attualmente, infatti, ciò è possibile solo se il detenuto è d’accordo”. E su questo punto ci sta lavorando un altro leghista, Lorenzo Fontana, l’europarlamentare che ha già avviato a Bruxelles una petizione e una Mozione di risoluzione che vanno in tal senso. Fontana spiega: “Il problema del sovraffollamento delle carceri italiane si può risolvere così, facendo scontare in modo automatico la pena nel Paese d’origine senza bisogno del via libera dell’interessato”. E prosegue: “Attualmente gli stranieri nelle carceri italiani sono 20mila, su circa 60mila totali. Non tutti sono comunitari, ma anche sul fronte extracomunitario si può lavorare affinché sia l’Europa e non le singole nazioni europee a trattare gli accordi bilaterali per i rimpatri. Avrebbe sicuramente più potere contrattuale”. L’Europa, fa notare Fontana, ha sempre abbandonato a se stesse le nazioni sul problema immigrazione, ma forse il vento sta cambiando, complice anche la crisi. Perciò l’eurodeputato è fiducioso che la petizione, che ha già raccolto 30mila firme, e la mozione vengano affrontate entro la fine dell’anno. Giustizia: Lumia (Pd); garantire salute Provenzano senza fare sconti, sia curato in carcere Agenparl, 12 agosto 2013 “La vicenda Provenzano non può risolversi alla vecchia maniera, con un accomodamento all’italiana. Il diritto alla salute del detenuto va riconosciuto, ma il sistema carcerario italiano è in grado di garantirlo senza, per questo, fare sconti ad un boss che ha la responsabilità di stragi e omicidi in cui hanno perso la vita molti uomini onesti e servitori dello Stato e che ha la responsabilità di aver inquinato la vita di interi territori, di settori dell’economia e della politica”. Lo dice il senatore Giuseppe Lumia, capogruppo Pd in Commissione giustizia. “Mi auguro - aggiunge - che i figli chiedano conto e ragione sui possibili maltrattamenti che il genitore avrebbe subito, guarda caso dopo che egli aveva dato segnali di una, altrettanto possibile, collaborazione con la giustizia”. Avellino: muore suicida un Assistente Capo della polizia penitenziaria, aveva 46 anni Adnkronos, 12 agosto 2013 “Questa mattina un Assistente Capo della polizia penitenziaria P.M. di 46 anni, in servizio alla Casa Circondariale di Ariano Irpino, al settore colloqui, si è suicidato sparandosi con l’arma d’ordinanza davanti al cimitero di Gesualdo (Avellino)”. Ne dà notizia Eugenio Sarno, segretario generale della Uil-Pa Penitenziari, che in una nota aggiunge: “La notizia giunge mentre mi accingo a visitare uno degli inferni del sistema penitenziario italiano che è il carcere di Buoncammino di Cagliari. Non trovo le parole per illustrare lo sgomento e il dolore per quest’ennesima tragedia che colpisce il Corpo della polizia penitenziaria”. “Conoscevo personalmente il collega - prosegue Sarno - e condivido pienamente con quanti lo ricordano come una persona serena e disponibile che non aveva mostrato, negli ultimi tempi, segnali della decisione che questa mattina lo ha portato via dalla vita”. “Pur delle difficoltà di comprendere le motivazioni di tale gesto, voglio auspicare che non si ceda alla tentazione di strumentalizzare una tragedia umana riportando le motivazioni all’ambiente lavorativo e alle difficoltà del duro lavoro del poliziotto penitenziario. Ora è il momento del dolore e della preghiera. Alla famiglia, agli amici, al Comandante, al Direttore ai colleghi giungano i sentimenti del vivo cordoglio di tutta la Uil Penitenziari”, conclude il sindacalista. Sappe: è il quarto caso in due mesi “Non conosco le statistiche delle altre categorie professionali sui casi di suicidio, ma quelle che riguardano il Corpo di Polizia Penitenziaria sono agghiaccianti. Il tragico caso di oggi, con il collega suicida nei pressi del cimitero del suo paese, Gesualdo, mentre si stava recando al lavoro nel carcere di Ariano Irpino, è il quarto in due mesi: prima di lui, poliziotti penitenziari si erano suicidati a Roma il 19 giugno, a Marcellina il 7 luglio e a Raffadali il 13 luglio. Ed è il settimo caso del 2013. Siamo vicini ai familiari, agli amici, ai colleghi del poliziotto che oggi ha deciso di togliersi la vita, ma sarebbe irresponsabile continuare ad ignorare questa tragica realtà.” Lo dichiara uno sgomento e sconcertato Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa organizzazione dei Baschi Azzurri, alla notizia di un nuovo suicidio tra le fila della Polizia Penitenziaria. “L’Amministrazione Penitenziaria, che non perde tempo ad assumere decisioni assurde come quella di far pagare i posti letto agli Agenti di Polizia che vivono in Caserma ma che non fa assolutamente nulla per il benessere del Personale, continua a trascurare il problema. Ma quattro poliziotti penitenziari suicidi in due mesi mi sembrano davvero una enormità: e questo è il settimo caso, nel 2013. Non solo: dal 2000 ad oggi sono stati circa 100 i dipendenti dell’Amministrazione Penitenziaria (poliziotti, direttori, provveditori) che si sono tolti la vita. È un fenomeno preoccupante e va fatto qualcosa. In Italia non esistono ricerche in questo ambito, forse sono ancora molto forti i tabù culturali che ostacolano l’analisi del problema, tanto che ancora oggi è difficile quantificare il numero dei suicidi e dei tentati suicidi tra gli appartenenti a tutte le forze di polizia e compararne i dati con la popolazione di riferimento. Benché verosimilmente indotti dalle ragioni più varie e comunque strettamente personali, va comunque denunciato che i vertici dell’Amministrazione Penitenziaria, il Dap, trascurano colpevolmente questo grave problema. A livello internazionale sono numerose le ricerche, per lo più anglosassoni, sul fenomeno dei suicidi dei poliziotti, che hanno dimostrato in alcuni casi una correlazione con lo stress lavorativo”. Tamburino (Dap): dolore per suicidio agente in Irpinia "Sono profondamente addolorato per il suicidio, avvenuto stamane, dell'assistente capo della Polizia Penitenziaria, Marcello Pesiri, in servizio nella casa circondariale Ariano Irpino. Il primo pensiero va alla famiglia a cui va la mia vicinanza e il cordoglio di tutta l'Amministrazione". E' quanto scrive, in una nota, il capo del Dap, Giovanni Tamburino. "Non si hanno per ora elementi per ricondurre a disagi nell'ambiente di lavoro i motivi del tragico gesto di Marcello Pesiri -prosegue Tamburino- descritto da chi lo conosceva come persona serena e disponibile". "Ritengo comunque importante -rimarca il Dap- ribadire l'impegno dell'Amministrazione nell'offrire risposte a condizioni di disagio della Polizia e di tutto il personale penitenziario, anche con iniziative di supporto e ascolto, come il servizio di help-line recentemente attivato dal Dap in collaborazione con l'Azienda ospedaliera Sant'Andrea, nonche' con soluzioni lavorative atte a ridurre lo stress degli operatori". Alghero: detenuto 40enne in gravi condizioni, avrebbe ingerito sostanze altamente tossiche Asca, 12 agosto 2013 Un detenuto extra comunitario di 40 anni è stato ricoverato in condizioni gravissime nell’ospedale civile di Alghero. L’uomo nel carcere di San Giovanni dove sta scontando una condanna per reati contro il patrimonio, in occasione del controllo serale di venerdì, è stato trovato dagli agenti di polizia penitenziaria, agonizzante nella sua cella. Dopo un primo controllo nell’infermeria del carcere è stato deciso il suo trasferimento in Ospedale. Le sue condizioni sarebbero gravissime. L’episodio è ancora tutto da chiarire ma sembrerebbe che l’extracomunitario abbia ingerito delle sostanze altamente tossiche e nocive. Da chiarire ancora se si è trattato di un errore o di una precisa scelta da parte del detenuto. Ipotesi quest’ultima che lascerebbe aperta l’ipotesi di un tentato suicidio. Verbania: detenuto tenta suicidio, in perquisizione cella viene ritrovato telefono cellulare Adnkronos, 12 agosto 2013 “Venerdì pomeriggio, nel carcere di Verbania, un detenuto italiano ristretto presso la sezione piano terra ha minacciato di impiccarsi con una maglietta intorno al collo e l’altra estremità attaccata alle inferiate della cella”, perché “voleva una ulteriore terapia di psicofarmaci”. È quanto fa sapere Donato Capece, segretario generale del Sappe, spiegando che “solo grazie all’immediato intervento dei colleghi, lo hanno fatto desistere nel suo intento”. “Dopo quanto accaduto - prosegue il leader dei baschi azzurri del Sappe - si è provveduto a perquisire sia la stanza sia il detenuto”, al quale “è caduto un cellulare completo di batteria e scheda Sim. Nel raccogliere tali oggetti, il detenuto dava uno schiaffo a un assistente capo di polizia penitenziaria, e lo ha spinto procurandogli una contusione al braccio destro”. “Questo collega a cui va tutta la nostra solidarietà - aggiunge Capece - che dopo aver preso schiaffi e pugni subirà dall’Amministrazione penitenziaria pure l’onta di dover pagare il posto letto in caserma”. Dunque, rimarca il Sappe, “mentre l’Amministrazione penitenziaria pensa alle favole come la pericolosa vigilanza dinamica nelle carceri e alle vergogne come quella di far pagare i posti letto nelle caserme ai poliziotti penitenziari, la tensione detentiva è sempre più alta”. Pavia: detenuto evade dal carcere issandosi sul muro con una corda, arrestato dopo 5 ore Ansa, 12 agosto 2013 Un detenuto albanese, che sta scontando un anno di pena per il reato di ricettazione, è fuggito oggi dal carcere di Torre del Gallo a Pavia, dove è recluso. Ma la sua fuga è durata poco più di cinque ore. L’uomo, infatti, è stato intercettato dalla Polizia Penitenziaria vicino ad un bar di Motta San Damiano (Pavia) e nuovamente accompagnato nella casa circondariale pavese. L’episodio è avvenuto questa mattina, attorno alle 10. Il detenuto albanese, che si trovava in uno dei cortili interni del carcere, è riuscito a eludere i controlli degli agenti. Con una corda si è issato su uno dei muri di cinta del carcere e da lì poi si è calato verso l’esterno facendo perdere le sue tracce in uno dei campi di mais che circondano l’istituto. Quando gli agenti hanno notato la corda, ormai l’uomo era fuggito. Le ricerche (coordinate dal Dap) sono subito scattate nella zona di via Vigentina ed in tutta l’area attorno al carcere. Le indagini hanno condotto gli investigatori al vicino comune di Motta San Damiano (Pavia) dove, poco dopo le 15, il detenuto albanese è stato arrestato. L’operazione dei baschi azzurri, sottolineano fonti del penitenziario lombardo, è avvenuta con il coordinamento del Capo del Dap, Giovanni Tamburino, e del suo vice Luigi Pagano. Bolzano: la rivincita con l’arte dei tatuaggi… esce dal carcere e apre uno studio di Susanna Petrone Alto Adige, 12 agosto 2013 Rosario Vicenzi, 48 anni, ha imparato il mestiere e ha cambiato vita dopo 13 anni dietro le sbarre “Ho pagato per quello che ho fatto, ma adesso voglio avere una nuova opportunità”. Quando entri nello studio tattoo “Red Dragon”, in via San Quirino, e incontri lui, Rosario Vicenzi, capisci subito che ha mille storie da raccontare. Lo capisci dalla passione che ha per i tatuaggi, quelli veri, quelli fatti per lasciare un messaggio sul proprio corpo, il cui significato conosci solo tu. E lo capisci anche dalle numerose immagini che ricoprono la sua pelle. Capisci che Rosario ha vissuto tante vite in cui ha viaggiato, ha imparato, ha sbagliato, ha pagato e poi ha ricominciato. Rosario Vicenzi è nato a Pejo, in val di Sole, 48 anni fa, ma per scelta ha vissuto in mille posti diversi. Ha imparato a fare tatuaggi dai migliori maestri. Ha imboccato anche strade sbagliate, che lo hanno portato a scontare molti anni di prigione. Poi, il 5 marzo del 2010, ha lasciato per sempre il carcere di via Dante a Bolzano, si è rialzato e con le proprie forze ha deciso di cambiare il proprio destino. Rosario è un uomo che non rinnega nulla della propria vita. Neanche quei tredici anni che ha passato dietro le sbarre per vari reati. Tra questi c’è l’attentato del 1993. La notte di San Silvestro fa saltare in aria la stazione di partenza dell’ovovia di Pejo, perché la società non lo assume. E poi c’è la sua passione per le armi. Sa di non poterle detenere, ha una condanna alle spalle. Ma è più forte di lui e quando le forze dell’ordine gliele trovano a casa, finisce nuovamente nei guai. Ma questa volta non sconterà la pena a Trento. Viene mandato a Bolzano, dove passerà tre anni della sua vita tra il 2007 e il 2010. I primi passi. Nel 1981, Rosario ha 17 anni. Un amico gli chiede se vuole farsi tatuare. Accetta. Si fa disegnare sul corpo una donna con le ali da pipistrello. Si tratta di un tatuaggio rudimentale, fatto in casa, che però gli fa capire quale sarà la sua passione. “Ho capito che non potevo smettere - racconta, seduto dietro la sua scrivania in via San Quirino. A un certo punto, ho deciso di usare il mio corpo per esercitarmi. Il secondo tatuaggio me lo sono fatto da solo. Ho iniziato a fare tatuaggi agli amici, gratis. Per me era la cosa più bella del mondo”. Rosario decide di lasciare il Trentino e l’Italia. Deve imparare e lo vuole fare dai più bravi. Passa del tempo a Londra e Amsterdam a osservare quelli del mestiere, i nomi importanti. “I più bravi sono anche stati quelli più umili. Non si davano tante arie. Ho avuto il piacere di conoscere persone eccezionali”. Poi si trasferisce a Torino e Milano. Di giorno fa l’operaio e la sera passa ore e ore a guardare i suoi maestri. Torna in val di Sole e iniziano i guai. Lavora presso l’ovovia di Pejo. Poi, però, un giorno, viene mandato via e sfuma anche la possibilità di avere un contratto. Perde la testa. La notte di San Silvestro del 1993 piazza della dinamite a valle e fa saltare in aria un pilone. Viene condannato nel 1996. Il carcere. La vita di Rosario cambia. In carcere impara a conoscere un altro mondo, dove è vietato fare tatuaggi. Ma c’è chi si procura la cannuccia di una penna, un ago per cucire e il motorino del walkman per trasgredire alla regola. “C’è chi li faceva - racconta -. Io no. Ho preferito abbellire con i miei disegni la stanza usata per gli incontri con i parenti e i figli nel carcere di Bolzano, dipingendo le pareti. Ho ricoperto le mura con le figure dei cartoni animati. L’ho fatto per i bambini, così non collegano la visita in carcere a qualcosa di negativo”. Rosario ha passato tre anni nella struttura di via Dante. Ricorda ancora la sua cella: “La numero 28. Eravamo in 12 in una stanza. È sicuramente una delle carceri più brutte d’Italia. Chi sbaglia deve pagare. Sono il primo a dirlo. Io ho pagato e va bene così. Ma nelle nostre galere viene tolta la dignità ai detenuti. Quando si esce si è più arrabbiati di prima. Immaginate di stare in una stanza di 30 metri quadrati con altri 11 uomini. Nello stesso angolo dove c’è il bagno c’è anche il fornello per cucinare. Non serve dire altro. Ho visto persone che hanno perso la testa. Molti detenuti si procurano ferite con i rasoi. In media, una volta al mese c’è chi cerca di togliersi la vita con un lenzuolo attorno al collo. Sarebbe meglio mandare i detenuti a lavorare e far guadagnare loro qualcosina, che tenerli come delle bestie in strutture fatiscenti e vecchie”. Rosario non ha peli sulla lingua. Racconta dei gruppi che si creano in carcere. Per non parlare dei detenuti che nessuno vuole avere accanto: “I pedofili e gli uomini che picchiano le mogli e i figli. È sempre stato così. Per questo vengono tenuti in sezioni separate”. La rinascita. Il 5 marzo 2010, Rosario esce. Ha scontato la sua pena. Decide di non mettere mai più piede in carcere. Fa una scelta di vita. Lo fa per sua figlia. Inizia l’iter burocratico per avere tutti gli attestati necessari per aprire un suo studio di tatuaggi. Fa il corso provinciale. Finalmente ci riesce: in via San Quirino 10 apre il “Red Dragon”. “Sono felice - racconta. Faccio un mestiere che amo e ho la possibilità di incontrare tante persone: giovani, adulti, agenti penitenziari, prostitute, casalinghe, manager. E tutti mi raccontano le loro vite. Lo fanno perché su questo lettino si confrontano con il dolore fisico e quindi è più facile parlare anche delle proprie sconfitte”. Per Rosario il tatuaggio non è una moda, è qualcosa di profondo. Complessivamente, sono 5 gli studi a Bolzano, più una licenza domestica. “Ma in realtà gli abusivi sono molti di più. Non sapete in quanti arrivano qui con la pelle rovinata da un tatuaggio fatto male. E poi devo rimetterli a posto”. Modena: il Cie diventi struttura penitenziaria di media sicurezza di Vittorio Ferraresi (Deputato Movimento 5 Stelle) Gazzetta di Modena, 12 agosto 2013 Adibire il Cie di Modena a carcere di media sicurezza in modo da risolvere il problema del sovraffollamento del Sant’Anna. Altro che alleanza inedita con M5S-Lega-Pd, noi abbiamo votato contro il decreto “svuota carceri” perché non risolve il problema e, soprattutto, apre alla possibilità di enormi speculazioni immobiliari tramite le cessione e la permuta di alcuni istituti penitenziari ad opera del commissario straordinario. Il M5S ha, infatti, ottenuto voto favorevole a un ordine del giorno che impegna il Governo a non alienare alcuni edifici penitenziari e ha presentato un “contro piano carceri” che punta a risolvere l’emergenza in tempi brevi, ridando dignità ai detenuti e a costi contenuti. Secondo questo piano elaborato dai deputati della commissione Giustizia, ogni posto detenuto verrebbe a costare 15mila euro contro i 235mila euro già spesi dal ministero delle Infrastrutture. Una differenza non solo di costi ma anche di concezione della reclusione non solo come pena afflittiva. In questo modo, infatti, i reclusi sarebbero più vicini alle loro famiglie, vivrebbero in un ambiente più salubre e sarebbe favorita il recupero sociale. Il piano, infatti, si basa su ristrutturazioni e rifunzionalizzazioni degli istituti invece della costruzione di nuovi edifici come si può evincere dal dossier elaborato dal M5S alla Camera. Contrari anche all’innalzamento delle misure cautelari da 4 a 5 anni, senza prevedere l’esclusione dei reati di favoreggiamento e di false comunicazioni al pm, Allibiti invece dal fatto che la tanto criticata legge “Salva Previti”, sia stata salvata da quel Pd che nel 2004 si opponeva aspramente all’approvazione e che in aula con i colleghi di Sel invece, ha di fatto salvato respingendo il nostro emendamento che la voleva sopprimere. Stati Uniti: ministro giustizia; riforma sistema penale per ridurre numero detenuti e costi Tm News, 12 agosto 2013 Una riforma per avere più giustizia e meno costi. È questo l’intento del segretario alla Giustizia Eric Holder, che oggi presenterà il suo piano per modifiche sostanziali al sistema di giustizia penale federale. Tra i punti in agenda, spiega Usa Today, c’è quello di ridurre le condanne per i reati non violenti, eliminando il limite minimo di pena che ha causato lunghe detenzioni, aumentando i costi per l’amministrazione. In un discorso che pronuncerà di fronte agli avvocati dell’American Bar Association a San Francisco, Holder parlerà anche della necessità di rilasciare in anticipo i detenuti anziani e malati che non rappresentano più un pericolo per la società. “Non possiamo smettere di essere duri contro il crimine. Ma dobbiamo anche essere più intelligenti. Non possiamo semplicemente perseguire o condannare per diventare una nazione più sicura” dirà Holder, secondo gli estratti del suo discorso ottenuti dal quotidiano. La posizione del segretario alla Giustizia riflette quelle già assunte da molti Stati negli ultimi anni: le autorità, infatti, comprendono di non poter più sostenere i costi per detenere migliaia di persone condannate duramente per reati non violenti - soprattutto legati agli stupefacenti - in un periodo, cominciato più di due decenni fa, in cui il crimine stava aumentando. Arkansas, Kansas, Kentucky e Texas sono riusciti a ridurre la popolazione carceraria, mettendo molti detenuti in terapia o in libertà vigilata; nelle prigioni federali, però, il numero dei carcerati continua ad aumentare, tanto che ora, con 220.000 detenuti, c’è almeno un 40% in più rispetto alla capacità delle carceri, secondo i dati del dipartimento della Giustizia, che spende circa il 25% del suo budget per il sistema carcerario. “Oggi, un circolo vizioso di povertà, criminalità e incarcerazione intrappola troppi americani, e indebolisce troppe comunità” dirà Holder. “Molti aspetti del nostro sistema di giustizia penale potrebbero aver aggravato questo problema, invece di averlo attenuato”. La necessità di una riforma della giustizia è sostenuta da un fronte bipartisan in Congresso: a marzo, per esempio, il democratico Patrick Leahy, che guida la commissione di Giustizia del Senato, e il repubblicano Rand Paul hanno proposto di concedere ai giudici più flessibilità sulle sentenze in alcuni casi in cui ora è previsto il limite minimo di pena. “La nostra dipendenza dai minimi obbligatori è un grave errore. Non sono convinto che riduca il crimine, ma sono convinto che tenga in prigione le persone, soprattutto per reati non violenti, molto più a lungo di quanto sia giusto o benefico” ha dichiarato Leahy. “È il momento di lasciare ai giudici la possibilità di prendere le decisioni in base ai fatti individuali” ha aggiunto, sostenuto da Paul, secondo cui l’obbligo di un limite minimo “riflette un approccio unico che viola il principio che le persone dovrebbero essere trattate come individui”. Yemen: Al Qaida annuncia la liberazione membri organizzazione attualmente detenuti Tm News, 12 agosto 2013 Il leader di Al Qaida nella Penisola arabica, Nasser al-Wuhayshi, ha annunciato oggi la prossima liberazione di tutti i membri dell’organizzazione terroristica attualmente detenuti. In una “lettera ai prigionieri nelle carceri dei tiranni” il capo di al Qaida nello Yemen ha fatto sapere che “la detenzione non può durare”. “La prigionia non durerà e le catene verranno rotte”, ha aggiunto, sottolineando che questo avverrà presto. “I vostri fratelli stanno per abbattere i muri e i troni del male... e la vittoria è a portata di mano”, ha proseguito. Ex collaboratore di Osama bin Laden, Wuhayshi è leader di al Qaida nello Yemen nel 2007, dopo essere fuggito dall’Arabia saudita. Nel 2011 ha giurato fedeltà al successore di Bin Laden, Ayman al-Zawahiri, e oggi è ritenuto il numero due dell’organizzazione terroristica mondiale. Kazakhstan: “Vi racconto che cos’è la galera”… parla la Shalabayeva di Adriano Sofri La Repubblica, 12 agosto 2013 C’è una vita di prima, dovrà esserci una vita dopo. C’è un tratto comune nella vicissitudine di Alma Shalabayeva. Lei non è esistita se non come “moglie di”. La polizia italiana, spinta dall’eccesso di zelo dei suoi responsabili politici, cercava il marito, non l’ha trovato, e ha raccattato con le brutte lei e la bambina. Per consolazione, come in un inventario di reperti: “Documenti cartacei, un computer, banconote, la moglie e la figlia piccola...”. Poi è toccato alle autorità kazake che, per risarcimento della caccia all’uomo provvisoriamente mancata, hanno incamerato “la moglie di”, con l’altro accessorio, la figlia piccola, che fino ad allora non si erano sognati di cercare, improvvisando un’imputazione qualunque. La “moglie di” e la bambina acclusa diventavano una carta da giocare nella caccia all’uomo. L’opinione italiana si è indignata e commossa per la deportazione. Ma anche allora Alma Shalabayeva (e bambina) è rimasta essenzialmente “la moglie di”, e buona parte dei sentimenti manifestati al suo riguardo si è improntata al giudizio sul marito: oligarca, dissidente, truffatore, crapulone o braccato. Lo “scoop” sulla bionda avvocata slava voleva rendere più che mai Alma Shalabayeva “moglie di”: in quella specie di antonomasia maschile che è la moglie tradita. Come se la deportazione illegale e brutale di due persone fosse attenuata o aggravata dalla loro eventuale felicità famigliare. Catturato Ablyazov (sul cui destino peserebbe comunque in patria una giustizia gregaria: e Nazarbayev graziò Ablyazov, già suo pupillo, facendolo tornare agli affari alla condizione che non si occupasse più di politica, impensabile in una democrazia) si poteva pensare che trattenere Alma fosse ormai una seccatura superflua per il governo kazako. Però la “moglie di” può restare una carta pregiata nella pressione per l’estradizione dell’uomo. C’è una sola persona che possa guardare a Alma come “la moglie di”: lei stessa. Il ministro degli esteri kazako, Erlan Idrissov, ha detto che “Alma Shalabayeva è libera di andare dove vuole”. Bisogna pur credere alle parole di un ministro, e lui per primo. “Azhezdy, il paesino in cui sono nata, nella regione di Karaganda - racconta Alma Shalabayeva - faceva così freddo che se sputavi quando atterrava era già ghiaccio. Ho trascorso lì i primi 17 anni, con due sorelle e due fratelli. Mio padre era tipografo, mia madre dottore del pronto soccorso”. Siamo nella casa dei suoi genitori, un po’ fuori Almaty, al bordo di un quartiere che si è intitolato Felicità, e lo inalbera anche in caratteri latini. Alua ha sei anni e ci saluta in inglese e in italiano. Ha un coniglietto bianco, uno vero, si chiama Sasha, fanno un piccolo spettacolo. Alua ci canterà anche a memoria una canzoncina italiana: “Era una casa molto carina, senza soffitto senza cucina...”. Non credo che ne colga l’allusione, e nemmeno nel finale, in via dei Matti, al numero zero. Guardiamo un video su Zhezdy oggi, in abbandono, ci sono restati solo un uomo e una donna anziani, sulla parete diroccata della casa di lei sono appese due foto di famiglia e un profilo di Stalin. C’era una miniera di manganese, è stata dismessa. Allora era un posto grazioso, si piantavano alberi, c’è anche un fiume, si pattinava. E a ballare andava? “Ah no, il padre era severo, e col bel tempo si lavorava alla verdura e la frutta per l’inverno. La cosa più bella era quando andavamo fuori con tutta la famiglia e gli animali, dormivamo nella yurta, la mamma faceva la panna con le sue mani. Avevo paura dei cavalli, quando ero piccola un cavallo all’improvviso mi starnutì addosso, e non mi è passata...”. “Andai all’università ad Almaty, abitavo in un ostello, mi sono laureata in matematica. Ero forte a scacchi, ma non sono mai riuscita a entrare in nazionale. Mukhtar Ablyazov l’ho incontrato così, lui però era in cima alla classifica. C’era un torneo, finiva a notte, sarei tornata sola al buio, lui mi accompagnò. Ero al terzo anno, ne avevo 20, ci siamo sposati il 1° settembre del 1987. Non avevamo dove andare se non nella mia stanza al collegio, ma quando arrivammo era chiuso. Siamo entrati dalla finestra, eravamo giovani e agili. Le belle case londinesi erano lontane. Quando ero già incinta andammo a stare nel suo collegio, che ospitava le coppie, a un’ora da Almaty: la stanza in verità era di 6 metri quadri, bagno e cucina comuni. Poi arrivammo a 9 metri, e l’ultimo anno a 20. Lui si era laureato in fisica a Mosca, ed era assistente ad Almaty. Quando perse il posto bisognò cavarcela con le lezioni private. A quel tempo il commercio tirava, e si mise a vendere macchinari elettronici. Provò anche con le mele, ma il primo carico arrivò che erano già marce. Capitò l’occasione di un piccolo bungalow, senza allacci, tutto andava con la benzina. Tutti quelli che incontrava gli dicevano: Sai che puzzi di benzina. Traslocammo in un appartamento. C’era ancora l’Urss, penuria di merci, si mise a vendere zucchero, sale, fiammiferi. Gli affari crescevano, finché qualcuno riuscì a portargli via quell’attività. Allora decise di impegnarsi nella finanza. Nella prima banca, la Kazkommerz, si accorge in tempo che lo statuto di fondazione è stato manipolato facendone scomparire il suo nome, così ne esce, a mani vuote, e fonda la sua, la Bta”. “Quando i bambini erano più piccoli (dopo la femmina è nato un maschio, nel 1992) lui se ne occupava, e anche della casa. Ora che gli affari assorbono tutto il suo tempo vuole che io ne resti fuori, per non espormi ai rovesci che il successo si porta dietro. Solo a 32 anni mi iscrissi alla Scuola Nazionale di Management, un corso annuale, poi all’Accademia Diplomatica, due anni. In verità stavo sempre coi figli, cucinavo, mi piace fare i dolci, anche se il mio tiramisù non assomiglia mai abbastanza al vostro: era un bel tempo. Nel 2001 un gruppo di giovani progressisti, alcuni avevano lavorato nel governo, fondarono il partito della Scelta Democratica, Ablyazov era il leader. Ci fu un gran meeting pubblico, la tv Tan lo trasmise in diretta, finché qualcuno distrusse a fucilate l’alimentazione elettrica. Dopo, Ablyazov e Galymzhan Zhakiyanov furono arrestati”. “Il presidente Nazarbayev aveva apprezzato Mukhtar, che parlava chiaro sulle questioni economiche ma anche politiche. Dopo la fine dell’Urss la condizione dell’energia era rovinosa, le amministrazioni pubbliche credevano di non dover pagare bollette. Mukhtar impose che pagassero. Il presidente lo convocò per riferire le lamentele dei notabili, lui gli chiese se preferisse che le cose funzionassero o che smettessero le lamentele, e Nazarbayev si mise a ridere e gli disse di andare avanti. Fu nominato ministro dell’economia e del commercio, si impegnò a promuovere l’energia per l’agricoltura. Si attirava malumori e invidie. Intanto la Bta era cresciuta molto. Il pretesto dell’arresto fu che si fosse servito del telefono del ministero... Fu condannato a 6 anni. Mi ricordo la prima prigione, quell’orrore di ferri battuti. Portavo le cose più buone, era una festa per i detenuti. Anche in galera lui provava a far funzionare le cose. Ottenne una bilancia, per verificare che non si imbrogliasse sui pasti. O la doccia due volte alla settimana invece che una. E le pulci: non sai che cosa sono le pulci in galera… Lo trasferirono. I compagni gli volevano bene, alcuni per protesta si tagliarono. Nella nuova prigione lo mettono in mezzo al cortile, fanno venire fuori i detenuti e li picchiano dicendo che devono ringraziare lui per il trattamento. Stava in una cella così fredda che si forzava a non addormentarsi, per paura di morire, si ammalò, fece uno sciopero della fame. Si è persuaso che la sua vita era in pericolo. Gli hanno proposto di incontrare la stampa, di dichiarare che non si occuperà più di politica, e l’ha fatto. Amnesty e Human Rights Watch hanno riconosciuto che la sua era una prigionia politica”. “In molti avevano smesso di frequentarmi, allora. Quando andò in carcere mi chiese di andare via, a Londra. Anche ora qui sono isolata, e anch’io evito i rapporti, non voglio nuocere a nessuno. Per fortuna ho i miei parenti. Non vedevo madre e padre da cinque anni. Mio padre era un uomo sportivo, amato dai ragazzi. Ha 72 anni, da quando ne aveva 65 è malato. D’un tratto mi domanda: Ma come mai sei qui? Perché non sei con tutta la tua famiglia? Allora io gli dico: Papà, non vuoi che stia con te?, e si accontenta. Ho avuto tanta paura la notte in cui sono venuti a prenderci, ma sono grata agli italiani che ci hanno difese. Ringrazio tutti, ne ho molto bisogno. Mi colpisce Emma Bonino, con quell’aspetto così fragile e una volontà così coraggiosa: vorrei trovarmela di fronte. L’ho detto, vorrei tornare dove stanno i miei, mi mancano tanto, mi manca la mia figlia grande, e io a lei. Le donne capiranno: grazie a lei sono diventata nonna, e ha con sé il fratellino di dodici anni. Capisco quello che dici, che si parla di me solo come “la moglie di”: sono una donna, una persona, però io lo posso dire che sono la moglie di, e che lo amerò sempre. Una moviola che ci riporti indietro a una sera di Roma, senza che nemmeno dobbiamo voltarci, è un sogno impossibile. Il ritorno è la mia speranza, e faccio tutto quello che occorre, passo dietro passo. Ho firmato un impegno a non lasciare Almaty, lo rispetto. Abbiamo chiesto al magistrato di sospendere il procedimento aperto contro di me lo scorso 30 maggio. E ho chiesto di poter espatriare, per ricongiungermi con la mia famiglia di cui sento tanto la mancanza, e per la nostra sicurezza”. Abbiamo parlato di molto altro, ma i giornali ne sono già pieni, e poi toccherà ai tribunali. Anche Alma è minuta e ha un aspetto fragile e molte notti senza sonno. Anche lei è coraggiosa, però non bisognerebbe chiedere troppo alle persone. A Ciampino, nelle ore in cui aspettavano, un impiegato gentile le ha detto: “C’è un mucchio di persone armate: ma che cos’ha fatto?” “Sono la moglie di un oppositore kazako”, ha risposto. “Tutto qui?”, ha chiesto lui. Ho imparato tre o quattro parole di kazaco. Una è alma, vuol dire mela, il nome di Alma Ata viene da lì. Però, in memoria del paradiso perduto, vuol dire anche, letteralmente, “Non toccare”. Medio Oriente: Abu Mazen; palestinesi rilasciati non siano deportati o saltano colloqui Aki, 12 agosto 2013 Nessuno dei 26 detenuti palestinesi che saranno rilasciati la notte di martedì dalle carceri israeliane deve essere deportato. Questa la condizione posta dal presidente dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) Abu Mazen (Mahmoud Abbas), pena la mancata ripresa dei negoziati diretti prevista per mercoledì a Gerusalemme tra il ministro della Giustizia israeliano Tzipi Livni e il capo dei negoziatori palestinese Saeb Erekat. Nessuno dei 26 rilasciati sarà deportato “in zone diverse dalla loro patria”, ha detto Abu Mazen, precisando così che 14 dei detenuti potranno tornare nella Striscia di Gaza e gli altri 12 in Cisgiordania. In un incontro con il ministro per gli Affari dei detenuti palestinesi a Ramallah, Issa Qaraqi, Abu Mazen ha confermato l’impegno per il rilascio di tutti i detenuti nelle carceri israeliane, sottolineando che questa è la “massima priorità” dell’Anp, come riporta l’agenzia di stampa Wafa. I 26 che saranno liberati domani e che saranno ricevuti al palazzo presidenziale da Abu Mazen rientrano in una lista di 104 arrestati prima degli accordi di Oslo e sui quali è stato raggiunto un accordo tra israeliani e palestinesi come condizione per la ripresa dei negoziati diretti tra le parti sostenuti dagli Stati Uniti. Medio Oriente: parenti vittime protestano per rilascio dei detenuti palestinesi Adnkronos, 12 agosto 2013 La pubblicazione della lista dei 26 detenuti palestinesi che verranno liberati in vista del prossimo round dei negoziati di pace in Medo Oriente ha sollevato forti proteste fra i parenti delle vittime, alcuni dei quali vogliono presentare ricorso contro il rilascio. “Non è possibile che il nostro sangue valga cosi’ poco. Questi sono assassini che uccideranno ancora”, ha dichiarato in televisione Gila Molcho, sorella di Ian Feinberger, ucciso 20 anni fa. Rabbia anche nella famiglia di Isaac Rotenberg, sopravvissuto del lager di Sobibor che fu ucciso nel 1994 all’età di 67 anni da due operai arabi che lo colpirono al collo con un ascia mentre lui era inginocchiato per riparare il pavimento. I suoi assassini, denuncia il nipote Matan su Facebook, “hanno ora 37 e 42 anni, hanno davanti tutta la vita. Riceveranno un salario mensile da Hamas... saranno accolti come eroi perché hanno ucciso un pensionato”. Molti parenti di vittime mostrano di credere poco alla possibilità che i negoziati portino veramente alla pace. Come Tzvia Dahan, figlia del coltivatore Moshe Beker, ucciso nel 1994. Al sito Ynet news, dice di aver accettato nel 2011 la scarcerazione di uno dei due assassini in cambio della liberazione del soldato Gilad Shalit, ma che ora è diverso: “Allora il dolore fu grande, ma ero felice per la famiglia Shalit... ora che pace sarà?”. Estee Harris non ha osato dire alla madre che verrà liberato l’assassino del padre Israel Tennenbaum, ma auspica che almeno servirà a qualcosa. “Spero solo che il rilascio sia per una buona causa - ha detto a Ynet news - “nessuno può restituirmi mio padre. Ma forse questo salverà altra gente”. Dei 26 detenuti che verranno liberati nelle prime ore di mercoledì, prima del round di negoziati che quel giorno si terrà a Gerusalemme, 20 sono stati condannati per omicidio e gli altri sei per complicità in omicidio. Un gruppo di 14 tornerà nella Striscia di Gaza, mentre altri 12 andranno in Cisgiordania. Su pressione americana l’Autorità palestinese ha accettato di riprendere i colloqui di pace, dopo tre anni di stallo, in cambio della liberazione di 104 detenuti. Gli altri 78 carcerati verranno liberati nel corso dei negoziati, la cui durata è fissata in nove mesi. Nord Corea: trasferito in ospedale cittadino Usa condannato a 15 anni di lavori forzati Tm News, 12 agosto 2013 Kenneth Bae, il cittadino americano di origine coreana condannato a 15 anni di lavori forzati in Corea del Nord, è stato trasferito in un ospedale a causa di un grave deterioramento delle sue condizioni di salute. Lo ha rivelato la sorella in un’intervista alla Cnn. Pae Jun-Ho, conosciuto in America come Kenneth Bae, era stato arrestato lo scorso novembre nella città portuale di Rason, nel nord-est del Paese, con l’accusa di aver cercato di “rovesciare” il regime coreano. Ad aprile, il 44enne è stato condannato “per atti ostili”. Stando a quanto riferito dalla sorella Terri Chung, l’uomo ha forti dolori alla schiena e alle gambe e ha perso circa 23 chilogrammi. La donna ha precisato di aver avuto queste informazioni dal Dipartimento di Stato, secondo cui Bae sarebbe stato visitato venerdì scorso dall’Ambasciatore svedese, che rappresenta gli interessi Usa a Pyongyang.