Giustizia: nelle carceri una situazione drammatica, urgono soluzioni di Sheyla Bobba Ristretti Orizzonti, 7 settembre 2012 Seicento persone si sono tolte la vita negli ultimi 10 anni, dall’inizio del 2012 sono state 36. Non erano in regime di 41bis, il loro carcere “non era duro”. Si continua a chiedere l’amnistia, ci sono scioperi della fame e “battiture della speranza”, ed ora è ripresa la “campagna non violenta, in nome della legge e del popolo sovrano” citando Marco Pannella, leader dei Radicali che da anni porta avanti questa lotta pacifica. Ad una recente intervista al Tg 5 rincara la dose togliendo altri veli sulla Giustizia Italiana: “25 milioni di cittadini sono oggi coinvolti da 5 milioni di processi penali e 5 milioni di cause e procedimenti civili, siamo condannati perché lo Stato si comporta in modo criminale”. Qualche dato: in Italia abbiamo 9 milioni di processi arretrati, per una sentenza definitiva attendiamo circa 10 anni, 170 mila processi non arrivano alla sentenza finale perché cadono in prescrizione. Da 25 anni le Corti europee condannano la nostra realtà perché contro la giurisdizione, il diritto europeo e i diritti umani. I detenuti sono 67mila per 45mila posti; di questi il 40% è ancora in attesa di giudizio, il 50% di questi dopo mesi o anni, risulterà innocente. La Ministra Severino ha recentemente dichiarato che presto potremo contare 11.573 nuovi posti in nuove carceri, Napolitano ha dichiarato: “è una questione di prepotente urgenza sul piano costituzionale e civile, è una realtà non giustificabile in nome della sicurezza che ne viene più insidiata che garantita” ma era il 28 Luglio 2011, durante un convegno dei Radicali. È proposta Radicale, da decenni, quella dell’amnistia che risulta essere l’unico modo per realizzare quanto richiesto dalle corti europee, consegnando un giusto risarcimento alle vittime senza lasciar cadere i processi in prescrizione e permettendo quasi di delinquere. Il carcere deve essere via di espiazione, sostegno e insegnamento, oggi in Italia il carcere è tortura: celle destinate a 4 detenuti che ne ospitano 6/8, condizioni igienico sanitarie oltre l’indecenza, mense e servizi al limite del disumano. Il personale è abbondantemente sotto il numero necessario, i volontari, i medici, gli psicologi e pure i cappellani scarseggiano. Di oggi la discussione sull’ipotetica chiusura del carcere di Marsala, mentre l’associazione Detenuto Ignoto continua a proporre la petizione per chiedere al Governo l’introduzione del reato di tortura nell’ordinamento italiano, alla riapertura dei lavori della Camera l’on. Rita Bernardini depositerà una mozione riguardante l’equiparazione degli appartenenti alla Polizia Penitenziaria a quelli di altre forze di Polizia. Diritto e dovere d’informazione sembrano quantomeno difficili, dai media nazionali infatti sono state poche le notizie sullo sciopero della fame che a Luglio ha coinvolto oltre 30 mila tra detenuti e personale carcerario. Un caso che non ci sia stato alcun suicidio in quei 4 giorni: forse i detenuti stanno chiedendo di essere ascoltati? Giustizia: Csm; ok ddl depenalizzazione, ma rischia di non riuscire a ridurre affollamento Ansa, 7 settembre 2012 Va nella giusta direzione il ddl del governo sulla depenalizzazione e che introduce la sospensione del processo con la messa alla prova e due nuove pene detentive non carcerarie. Ma per le restrizioni che prevede e per problemi pratici irrisolti rischia di avere un impatto limitato, rispetto agli obiettivi che si pone di ridurre i carichi di lavoro degli uffici giudiziari e ridare così efficienza alla macchina giudiziaria, e di diminuire il sovraffollamento nelle carceri. La Sesta Commissione del Csm in un documento di 15 pagine indirizzato al ministro della Giustizia Severino (relatore il togato di Unicost Paolo Auriemma) e che sarà discusso la prossima settimana dal plenum, nella prima seduta dopo la pausa estiva, esprime il suo “convinto parere positivo” sulle linee generali del provvedimento, ma ne evidenzia anche i limiti. Bene dunque la scelta di ridurre gli illeciti penali, trasformandoli in amministrativi, visto che è proprio l’eccessiva dilatazione dell’area dei comportamenti penalmente rilevanti a rallentare sensibilmente il funzionamento del sistema giudiziario. Ma bisognava fare di più: la lista dei reati che non saranno più tali è troppo prudente: sono escluse intere materie come edilizia, ambiente e immigrazione. E tutte queste esclusioni porteranno a risultati inferiori alle attese sul piano della riduzione dei carichi di lavoro degli uffici giudiziari. Discorso analogo per altre misure, come la sospensione del procedimento con messa alla prova, cioè prestando un’attività lavorativa di pubblica utilità a titolo gratuito: aver escluso da questa possibilità reati molto frequenti come per esempio il furto aggravato o la detenzione di stupefacenti, avrà un effetto deflattivo sui processi e sulle carceri probabilmente inferiore alle attese. E se senz’altro va apprezzata la scelta di introdurre due nuove pene detentive non carcerarie (la detenzione presso l’abitazione o altro luogo di privata dimora) per i crimini meno gravi, superando così l’idea che il carcere sia la sola risposta alla devianza, anche in questo caso il rischio è quello di un pratico insuccesso dell’obiettivo di ridurre il sovraffollamento delle carceri. E la ragione è evidente: la gran parte dei detenuti è costituita da soggetti legati alla marginalità sociale (extracomunitari, tossicodipendenti, disagiati psichici e psichiatrici) per i quali è spesso complesso, se non addirittura impossibile avere la disponibilità di un’abitazione idonea ad assicurare la custodia del condannato. Giustizia: Dap; colloqui parlamentari-detenuti solo in italiano e vietato parlare di processi Adnkronos, 7 settembre 2012 Se si trasformano in colloqui su procedimenti in corso, le conversazioni tra parlamentari e detenuti “devono essere interrotte”. È il passaggio saliente di una circolare con la quale il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Giovanni Tamburino, interviene sulle “Visite in istituto ex art. 67”, quelle cioè effettuate dai parlamentari. “Il contenuto dell’eventuale interlocuzione che il visitatore qualificato intenda effettuare con il detenuto - si legge nel documento - non potrà mai fare riferimento alle vicende processuali del medesimo, vicende che trovano istituzionalmente altre sedi, altre autorità, altre garanzie dove e attraverso le quali essere affrontate”. Il documento fa riferimento a “recenti episodi hanno censurato l’improprio utilizzo della facoltà di visita degli istituti, concessa ai membri del Parlamento” dall’art 67 dell’ordinamento penitenziario, “dando luogo a reazioni che suggeriscono l’opportunità di tornare sull’argomento delle suddette visite”. Sullo sfondo, le polemiche sulle visite in carcere di Giuseppe Lumia, parlamentare del Pd, e Sonia Alfano, europarlamentare dell’Idv, ad alcuni boss mafiosi in carcere. La circolare, che ha l’obiettivo di integrare il paragrafo 4 della circolare del 2009, fissa i paletti per i colloqui e mette in chiaro: “Qualora la interlocuzione del visitatore qualificato violi le previsioni normative per il fatto di riferirsi o estendersi ad argomenti diversi da quelli consentiti, l’Autorità penitenziaria che lo accompagna (direttore dell’Istituto o suo delegato) dovrà dopo un primo richiamo finalizzato a rammentare detti limiti normativi, prontamente intervenire, con cortesia pari alla fermezza, per interrompere immediatamente il colloquio stesso”. Se “la irragionevole persistenza dell’interlocutore nel suo comportamento illegittimo non consenta altra modalità di intervento”, il documento prevede “il pronto allontanamento del detenuto che partecipi alle interlocuzioni non consentite, in modo da impedire che la violazione possa condurre a pregiudizi maggiori”. In altri termini la conversazione deve vertere sulle condizioni di vita del detenuto, sulla conformità del trattamento ad umanità, sul rispetto della dignità della persona, senza alcun riferimento al processo o ai processi in corso. Le visite, si legge ancora nella circolare, “sono funzionali a quella co-assunzione di responsabilità della società rispetto al carcere, e in particolare sia con riguardo alla tutela del principio dell’umanità dello stato di detenzione a cui si correla il trattamento di sostegno degli imputati, sia rispetto alla finalità essenziale della pena detentiva consistente nella “tendenza” alla rieducazione, voluta dalla norma costituzionale”. Al punto 7, si ribadisce che “il dialogo con il detenuto nel corso della visita deve avvenire in italiano, salvo quanto previsto dalla Circolare del 2009, paragrafo 4, in ordine alla possibilità di avvalersi di un interprete. Pertanto, anche nel caso in cui il visitatore perseveri nell’uso di una lingua o un dialetto non immediatamente intelligibili, l’Autorità penitenziaria preposta darà corso alla interruzione della interlocuzione”. Tutte le indicazioni della circolare del Dap “valgono nei confronti di qualunque detenuto”. “È peraltro doveroso sottolineare - rimarca la circolare - che un’attenzione peculiare va riservata ai detenuti sottoposti al regime di cui all’art. 41-bis della legge. È noto che detto regime restrittivo ha come finalità essenziale quella di ostacolare i rapporti impropri del detenuto con le organizzazioni criminali esterne ed è altrettanto noto che i detenuti sottoposti al regime speciale sovente si avvalgono di sofisticati sistemi, anche indiretti e talora criptici, per far pervenire propri messaggi all’esterno. Occorre dunque - conclude il testo - che il rispetto delle disposizioni sopra richiamate sia particolarmente rigoroso quando la interlocuzione dei visitatori di cui all’art. 67 si rivolga a detenuti sottoposti all’art. 41-bis”. Giustizia: Fleres; colloqui tra parlamentari e detenuti stranieri spesso in inglese o francese Comunicato stampa, 7 settembre 2012 Le disposizioni recentemente annunciate dal Ministro Severino, circa le restrizioni che sarebbero imposte ai parlamentari in visita nelle carceri, è il maldestro tentativo di mettere a tacere quelli che si stanno battendo per modificare l’indegna condizione delle strutture penitenziarie del nostro Paese, peraltro note in tutto il mondo e oggetto di precisi richiami degli organismi europei e dell’Onu. Il Ministro non sa di che parla soprattutto quando pretende che i colloqui si svolgano solo in lingua italiana o in presenza di interpreti, che, immagino, dovrebbero essere appositamente incaricati e pagati, in piena spending review! Nelle carceri italiane sono reclusi migliaia di migranti che non conoscono affatto la nostra lingua, che talvolta si esprimono in francese o inglese, che non sempre conoscono il motivo della loro detenzione ma soprattutto non ci sono interpreti. Invece di occuparsi di queste problematiche, il Ministro Severino farebbe bene ad accelerare le procedure per il varo delle più volte annunciate, ma ancora non adottate, disposizioni in materia di pene alternative, dopo il clamoroso fallimento della legge “Svuota Carceri 2” che ha tanto voluto. Nelle more, insieme alla rete dei Garanti dei diritti dei detenuti presente in Italia, continuerò a promuovere il risarcimento dei reclusi per il sovraffollamento e le condizioni poco dignitose della detenzione nel nostro Paese. Insomma, se il Ministro non intende attivare procedure di spesa per rendere civili ed a norma le nostre carceri, si rassegni a spendere per risarcire i reclusi. Salvo Fleres Garante dei detenuti della Sicilia Giustizia: l’On Vitali (Pdl) sarà il relatore dell’emergenza carceri al Consiglio d’Europa Asca, 7 settembre 2012 Il parlamentare e giurista italiano Luigi Vitali sarà il relatore dell’emergenza carceri in Europa. Il mandato gli è stato affidato dalla Commissione politica dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa che si è riunita oggi a Parigi. “Il problema del sovraffollamento carcerario e delle condizioni talvolta disumane in cui vivono i detenuti non è più solo italiano: l’emergenza si è purtroppo estesa a tutta l’Europa. Ecco perché l’Assemblea ritiene opportuno studiare il problema a fondo per emanare, poi, una direttiva unitaria che impartisca regole, ma anche parametri di vita in cella accettabili”, ha dichiarato, orgoglioso della nomina, l’On. Vitali, che da quattro anni è anche Presidente della delegazione parlamentare italiana a Strasburgo. “Credo che sarà necessario un anno di studio per individuare le pecche del sistema”, ha proseguito il deputato Pdl, che, da penalista, ha spesso sollevato il problema in sede italiana ed europea. “Comincerò ovviamente dall’Italia, che, però, non è più il solo paese ad essere condannato dalla Corte europea dei Diritti dell’Uomo per la ristrettezza dell’ambiente in cui i carcerati vivono”. Giustizia: la Cedu condanna l’Italia per non aver perseguito seviziatore di ragazza rom di Patrizio Gonnella Italia Oggi, 7 settembre 2012 L’Italia è stata nuovamente condannata dalla Corte Europea dei diritti umani per trattamenti disumani e degradanti. Con decisione del 31 luglio scorso la Corte di Strasburgo ha stigmatizzato il comportamento delle autorità giudiziarie e investigative italiane che nulla a loro dire avrebbero fatto a seguito di una denuncia circostanziata di violenze e sevizie subite da una giovane ragazza di nazionalità bulgara. I fatti risalgono al lontano 2003. Purtroppo anche la giustizia europea è molto lenta. Per una decisione si sfiorano i dieci anni. Nella vicenda giudiziaria in esame la storia è quella di una famiglia proveniente dalla Bulgaria di origine rom che si ritrova a Milano a seguito di un invito lavorativo da parte di un signore di nazionalità serba. Costui, dopo avere minacciato i genitori della ragazza, avrebbe tenuto quest’ultima sotto sequestro, l’avrebbe violentata e sottoposta a sevizie varie. A seguito della denuncia presentata dai genitori la polizia interviene e libera la ragazza. A dire della madre e del padre della vittima la polizia avrebbe trattato male proprio i denuncianti, li avrebbe accusati di dire il falso, nonché ingiuriati. La ragazza sarebbe stata trattenuta indebitamente per quattro, cinque ore in una camera di sicurezza della Polizia senza un motivo plausibile. Nonostante le loro ripetute denunce (anche per iscritto) nessun procedimento penale sarebbe stato aperto nei confronti del signore serbo e della polizia. Ovviamente la versione delle autorità italiane è di tutt’altra natura. Essa sarebbe confortata dall’apertura di un procedimento per calunnia nei confronti dei ricorrenti di origine bulgara. La Corte non crede fino in fondo alla nostra Avvocatura. I ricorrenti avevano chiesto la condanna dell’Italia per violazione degli articoli 3, 4, 13 e 14 della Convenzione del 1950. Alcune delle accuse non sono state ritenute credibili. Una di esse è invece considerata fondata. È stata giudicata ineffettiva l’azione investigativa svolta dai giudici italiani per verificare la veridicità delle accuse di maltrattamenti subiti dalla ragazza bulgara da parte del signore serbo. Secondo la Corte, ai fini della responsabilità dello Stato per tortura e maltrattamenti (articolo 3), è equivalente esserne direttamente autori oppure non fare nulla per punirne gli artefici. Il governo italiano non ha dato ai giudici strasburghesi sufficienti prove dell’impegno giurisdizionale e investigativo profuso. Negli ultimi anni si sono moltiplicate le sentenze di condanna nei confronti dell’Italia per avere violato l’articolo 3 della Convenzione. Pendono davanti alla Corte ben più di cento ricorsi, molti dei quali collettivi, per un totale di circa mille detenuti che si sono tutti rivolti alla Corte per violazione dello stesso articolo. In questo caso viene lamentata la condizione disumana di vita interna alle galere determinata dagli spazi insufficienti e dal sovraffollamento. Esiste già un precedente a riguardo che concerne l’Italia (caso Sulejmanovic). Esso è del luglio del 2009. In quella circostanza la Corte sostenne che un detenuto non potesse avere mai meno di tre meno quadri a disposizione. Assegnò al ricorrente mille euro a titolo di risarcimento. Se ai nuovi ricorrenti dovesse essere concessa analoga somma, il governo Italiano dovrebbe sborsare circa un milione di euro. Non aiuta inoltre la mancanza del reato specifico di tortura nel codice penale italiano. Una lacuna normativa molte volte stigmatizzata dalle autorità internazionali. La Commissione Giustizia del Senato ne sta discutendo. Chissà se si arriverà a una deliberazione prima della fine della legislatura. Giustizia: Di Giovan Paolo (Pd); servono pene non detentive, per non morire di carcere Adnkronos, 7 settembre 2012 “L’ennesimo suicidio in carcere, questa volta a Rebibbia, dimostra che bisogna accelerare sul fronte dell’attivazione di pene non detentive”. Lo scrive in una nota il senatore del Pd Roberto Di Giovan Paolo, presidente del Forum per la Sanità Penitenziaria. “Se tali misure fossero approvate già nelle prossime settimane esse avrebbero un effetto positivo sulla vivibilità di molte carceri. Dobbiamo pensare a interventi che abbiano un effetto duraturo e strutturale sulle carceri - conclude Di Giovan Paolo. Interventi tampone oramai non servono più”. Catarci: misure alternative per non morire di carcere “È di ieri la notizia dell’ennesimo suicidio in carcere, il quarto nel Lazio solo nel 2012 (13 già le morti in totale nell’anno negli istituti penitenziari), Luigi Del Signore 71 anni, che avrebbe terminato la sua condanna nel 2015, si è tolto la vita impiccandosi con un lenzuolo all’interno della sua cella singola di Rebibbia. È necessario incentivare l’utilizzo delle misure alternative per far scontare le pene fuori dagli istituti penitenziari, disumanamente affollati. Il Municipio Roma XI promuove da anni iniziative in tal senso, in collaborazione con l’associazione il Viandante e le altre realtà del territorio. Ma è veramente troppo poco quello che in generale si produce nel progettare e realizzare percorsi di reinserimento sociale e lavorativo. Ogni evento luttuoso come quello odierno chiama in causa l’insieme delle Istituzioni e della società che non possono restare sorde e mute”. Lo dichiara Andrea Catarci, Presidente del Municipio Roma XI. Giustizia: Franco Corleone al governo Monti “cambiare la Fini-Giovanardi sulle droghe” Dire, 7 settembre 2012 “La legge ha provocato un disastro nelle carceri: sono aumentati i tossicodipendenti, i consumatori e i detentori di sostanze stupefacenti”. “Da Firenze parte una richiesta al Governo per un decreto legge per cambiare la legge Fini-Giovanardi sulle droghe, per non far entrare i tossicodipendenti e i consumatori in carcere. Il Governo dei tecnici si muova”, altrimenti “rischia d’essere uguale se non peggio al Governo Berlusconi”. Lo ha detto Franco Corleone, garante dei detenuti del Comune di Firenze, a margine di una tavola rotonda in Palazzo Vecchio sul tema “Tossicodipendenza e carcere: sei anni di applicazione della legge antidroga”. Il convegno è stato preceduto dalla presentazione del volume “Consumo di droghe e sanzioni amministrative”, a cura di Franco Prina. “Non si capisce - ha proseguito Corleone rispondendo alle domande dei giornalisti - perché un Governo che va avanti a decreti legge e a colpi di fiducia non affronti questo aspetto”. “La legge Fini-Giovanardi - ha proseguito - ha provocato in questi anni un disastro nelle carceri con l’aumento dei tossicodipendenti presenti, l’aumento in carcere di consumatori o detentori di sostanze stupefacenti e di possessori di canapa. Questa legge - ha aggiunto - ha comportato un risultato disastroso tra le forze di polizia impegnate nella repressione, per i tribunali e poi per le carceri. Accanto a questo c’è la drastica riduzione delle misure alternative per i tossicodipendenti. È una legge - ha concluso - che va cambiata”. Giustizia: Barbato (Idv); spending review cominci con revisione sistema scorte ai politici Agenparl, 7 settembre 2012 “Procedere alla revisione del sistema scorte nonché comunicare lo stato attuale e reale complessivo delle scorte e loro costi”. Lo chiede Francesco Barbato (Idv) in un’interrogazione al Ministro dell’Interno e al Ministro della Giustizia. “Secondo il segretario generale aggiunto Luca Frongia del sindacato di polizia penitenziaria Lisiapp - si legge nel testo - lo Stato italiano spende troppo per garantire la sicurezza delle personalità, come ex ministri, ex sottosegretari e alti dirigenti della giustizia e del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria proponendo perciò una revisione totale del sistema scorte e dei suoi servizi, dove sono coinvolti gli uomini della polizia penitenziaria”. “La spending review ha imposto tagli e sacrifici agli italiani, ma per queste situazioni, di tagli ne sono stati visti davvero pochi in particolare poi nel dicastero della Giustizia e nel Dap e, continua il segretario generale aggiunto delle Lisiapp, la Polizia penitenziaria è allo stremo delle sue capacità operative. Il servizio è garantito grazie agli uomini e le donne del Corpo e al loro sacrificio che va al di là del ruolo istituzionale”. “Si evince sempre dalla denuncia Lisiapp - conclude Barbato - che l’acquisto di vetture speciali (per chi?), Bmw serie 3 e 5, Audi serie 6, Land Rover. Per quest’ultima il suo uso era per il trasporto di collaboratori e pentiti. Nel corso del tempo ci siamo accorti che l’uso era cambiato o meglio non è mai stato utilizzato per quel fine, ed assegnato ad alti burocrati della Giustizia e che in molti casi, la protezione dura oltre il proprio mandato, facendo così allungare quel privilegio non più consentito per un paese in grave crisi finanziaria come il nostro”. Giustizia: Osapp; il 12 settembre protesta dei commissari di polizia penitenziaria Adnkronos, 7 settembre 2012 “Viste le attuali condizioni di lavoro nelle carceri, dodici anni di continua sperequazione per i funzionari di Polizia Penitenziaria rispetto a quelli delle altre Forze di Polizia e, più in generale, oltre vent’anni di svilimento delle funzioni e del ruolo istituzionale per tutti i poliziotti penitenziari, non risultano più accettabili.” ad affermarlo in una nota è l’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria) a firma del segretario generale Leo Beneduci. “Quello che i politici non hanno considerato, né ora sembra considerarlo la Guardasigilli Severino - prosegue il sindacato - è che nonostante la disorganizzazione e il progressivo disfacimento dell’Amministrazione penitenziaria, la Polizia Penitenziaria, pressoché abbandonata a se stessa e con scarse risorse di personale e di mezzi, continua comunque a garantire le attività e i servizi essenziali, nonché l’incolumità degli stessi ristretti nell’attuale inferno penitenziario italiano, senza eccessivi danni per la collettività nazionale. Visto che non possono esigersi maggiori disponibilità finanziarie, appare, quindi, assolutamente irrinunciabile che alla Polizia Penitenziaria, attraverso una nuova e migliore organizzazione, si riconoscano assetti, carriere e ruolo pari a quelli delle altre Forze di Polizia, a partire dai Commissari che ne costituiscono il vertice”. “Per tali ragioni - indica ancora il leader dell’Osapp - unitamente all’Anfap che è l’associazione nazionale dei Funzionari di Polizia Penitenziaria, abbiamo organizzato il prossimo 12 settembre a P.zza Montecitorio a Roma, a partire dalle ore 10,00 un sit-in di protesta, in cui i Commissari del Corpo faranno appello al Presidente della Repubblica, quale comandante in capo di tutte le forze armate, perché, in assenza di cambiamenti, ne garantisca almeno il transito negli omologhi ruoli delle altre amministrazioni”. Conclude, quindi, Beneduci: “Il 12 settembre in P.zza Montecitorio saranno anche pubblicamente riconsegnate le insegne della qualifica di Vice Commissario, che solo la Polizia Penitenziaria continua a mantenere (la analoghe carriere in Polizia di Stato e nel Corpo Forestale dello Stato iniziano da Commissario Capo), nell’auspicio che i Parlamentari e l’opinione pubblica, anche attraverso i mass-media, comprendano l’entità di un disagio sofferto del tutto gratuitamente sino ad oggi e si adoperino per un tangibile cambiamento”. Roma: il cappellano di Rebibbia, don Sandro Spriano “tutti i detenuti potenziali suicidi” Intervista di Lorena Leonardi www.romasette.it, 7 settembre 2012 All’indomani del suicidio di un detenuto nel nuovo complesso di Rebibbia, il cappellano don Sandro Spriano spiega perché “il carcere, così come è, non serve a niente”. Si è impiccato nella notte tra il 5 e il 6 settembre, con un lenzuolo all’interno della sua cella singola, nel braccio G8 del carcere di Rebibbia Nuovo complesso. È morto in questo modo Luigi Del Signore, un detenuto di 71 anni. Si tratta della tredicesima persona morta in un carcere della Regione Lazio dell’inizio del 2012, il quarto per suicidio. Angiolo Marroni, garante dei detenuti del Lazio, ha parlato dell’ennesimo dramma della solitudine in carcere, interpretando l’episodio come “la spia di un estremo disagio fisico e psicologico che si vive all’interno degli istituti di pena della nostra Regione dove, ormai, il numero dei detenuti presenti continua a crescere senza sosta”. Secondo il garante, “in queste condizioni è estremamente difficile per gli agenti di polizia penitenziaria, per i volontari e per gli altri operatori presenti in carcere riconoscere i segni e prevenire il disagio interiore che vivono gli anziani e le altre categorie più fragili di detenuti”. Un dolore, quello vissuto da Del Signore, che nessuno aveva colto: “Non abbiamo avuto la capacità di interpretare il disagio di quest’uomo”, racconta don Pier Sandro Spriano, cappellano nel Nuovo complesso del carcere di Rebibbia: “Era un uomo tranquillissimo. Si riteneva condannato ingiustamente. Aveva ucciso un vicino per una lite riguardante alcuni terreni. Nessuno di noi avrebbe mai pensato che potesse compiere un gesto simile. Partecipava alla Messa. Il suo suicidio, comunque, non è un evento legato alla situazione del carcere”. Dove, in effetti, il sovraffollamento c’è: il nuovo complesso di Rebibbia, infatti, ospita 1.800 detenuti, a fronte dei 1.100 di capienza massima. Don Spriano, che relazione intercorre tra i suicidi nelle carceri e il sovraffollamento? Non farei, a proposito dei suicidi, un’equazione con il sovraffollamento. Da ventidue anni sono convinto che i suicidi in carcere non dipendono dalle problematiche del carcere. Chi entra viene automaticamente messo nelle condizioni di compiere atti di autolesionismo: senza libertà e trasformati in un numero, disperarsi è facile. E allora i detenuti usano il loro corpo, l’unica cosa rimasta. Le ragioni? L’abbandono, una condanna pesante, la mancanza di speranza per il futuro. Il carcere, affollato o no, rende tutti dei potenziali suicidi. Qual è la difficoltà più grande che vivono i detenuti? Il taglio netto con l’affettività, la mancanza della sessualità. Un detenuto incontra la sua famiglia per sei ore al mese, in momenti stabiliti da altri. L’impossibilità di sentirsi utili con il lavoro, perché non ci sono più i soldi per pagare il loro lavoro. Il carcere, così come è, non serve a niente. Solo alla detenzione, nel senso che si limitano i danni all’esterno. Ma manca del tutto la cosiddetta riabilitazione. Come cambia, in carcere, la sua missione? Noi siamo esperti in umanità: faccio il prete non solo per celebrare i sacramenti, ma per accompagnare persone che comunque stanno soffrendo. Mi sento come in missione, mi sento solo. Sono “altro” rispetto a loro, e sono solo rispetto a tutta l’opinione pubblica, che vorrebbe solo buttare via le chiavi delle celle. Quando ho iniziato mi aspettavo di andare al carcere e trovare dei reati: la prostituta, il ladro, il mafioso, il rapinatore. Invece incontravo volti, che di quei reati non dicevano niente. Ho trovato storie di vita, di umanità. Il reato non è la persona. Oggi, ad esempio, la percentuale di detenuti per vicende legate agli stupefacenti si aggira intorno al 35%, ma alla società sembra non interessare, che la droga sia un problema ancora così vivo. Il 33% dei detenuti è straniero, abbiamo 700 persone provenienti da 78 diversi Paesi del mondo. Tutti con un denominatore comune: povertà ed emarginazione. La prima cosa che chiedono è quasi sempre la soddisfazione di un bisogno materiale. Ma, come diceva don Primo Mazzolari, dobbiamo cambiare la domanda. Molti poi fanno un cammino di fede, non hanno più niente e cercano la speranza. C’è qualche storia che ricorda con particolare emozione? Quella di un diciottenne condannato per duplice omicidio a sedici anni. Ha scontato la sua pena e ora si è laureato in ingegneria. Mi sono sentito addosso la paternità di una resurrezione. È vero che dal carcere la gente entra, esce e rientra. Ma se ne hai salvato uno è già un successo. Agrigento: detenuto colto da infarto, salvato in extremis La Sicilia, 7 settembre 2012 Uno dei 450 detenuti del carcere Petrusa potrà riabbracciare moglie e parenti e magari i “coinquilini” della cella grazie agli agenti della polizia penitenziaria. Soprattutto a loro, ma anche alle urla di alcuni compagni di detenzione e al pronto intervento dell’ambulanza del 118. Monenti di paura si sono vissuti mercoledì pomeriggio nel ventre dell’affollatissimo penitenziario agrigentino, dove un uomo di circa 50 anni, originario dell’hinterland agrigentino è stramazzato al suolo, all’interno della cella condivisa con altre due persone. La situazione è subito parsa molto grave, tanto che i due reclusi hanno preso a chiedere aiuto al personale di guardia. Subito accorsi, gli agenti hanno valutato immediatamente la gravità della situazione e senza esitazione hanno fatto scattare l’operazione di salvataggio. Fare uscire dal carcere una persona colta da malore non è facile come farla uscire da un albergo o da una casa. Nel giro di pochi minuti sul posto è giunta l’ambulanza col medico a bordo, il detenuto tenuto in vita con procedure ad hoc è stato tempestivamente trasferito all’ospedale San Giovanni di Dio, dov’è è stato sottoposto a un intervento chirurgico ovviamente al cuore pesantemente infartuato. Le condizioni del paziente pare siano stazionarie, ma dovrebbe farcela, almeno dagli scarni elementi filtrati nelle ultime ore. Tanta apprensione tra gli altri detenuti compagni di cella dell’ultracinquantenne che a momenti stava per essere stroncato. Il detenuto colto da infarto è piantonato nel reparto di cardiologia, in attesa di conoscere l’evoluzione del proprio quadro clinico. Quanto accaduto conferma come in un carcere con 450 “ospiti” abbassare la guardia è impossibile per tanti motivi. Brescia: ricorso alla Corte Europea per decesso nella cella di sicurezza dei carabinieri Giornale di Brescia, 7 settembre 2012 Nuovo ricorso alla Corte Europea per fare luce sulla morte del senegalese Saidou Gadiaga, detto Elhadji, morto nel dicembre del 2010. Lo hanno annunciato in una conferenza stampa a Radio Onda d’Urto l’associazione Diritti per tutti e la comunità senegalese. Saidou perse la vita per un attacco d’asma mentre era detenuto in una cella del comando dei carabinieri di Brescia. Durante la conferenza stampa è emerso tra l’altro un particolare: Saidou aveva una figlia che ora ha due anni, avuta da una ragazza italiana. Como: Farina (Pdl); ristrutturare l’aula-bunker Bassone, con l’aiuto degli enti locali Agenparl, 7 settembre 2012 “Promuovere, di concerto con Regione, Provincia e Comune, la ristrutturazione dell’aula bunker di Bassone di Como, predisponendola per esperienze di lavoro per i detenuti”. Lo chiede il deputato Pdl Renato Farina, in un’interrogazione al Ministro della Giustizia. “Accanto alla casa circondariale Bassone di Como sorge la cosiddetta aula bunker - premette Farina - costruita di fianco al carcere, costata dieci miliardi di lire, utilizzata per tre o quattro volte per un maxi processo negli anni 92/93, ormai da quasi vent’anni abbandonata a se stessa; questa aula bunker è collegata con un tunnel al carcere”. “Non esistono al momento progetti operativi per il recupero della struttura. Il Sappe (sindacato degli agenti penitenziar i) ha già sollevato il problema in passato, non ottenendo risposta. Esponenti della cooperativa sociale Homo Faber, presenti da 9 anni nel carcere con un centro stampa che impegna circa 20 detenuti, hanno manifestato all’interrogante la speranza di un uso del cosiddetto bunker per la collocazione di laboratori per consentire il lavoro dei detenuti e per esperienze pilota di rieducazione”. Cagliari: cantiere del nuovo carcere Uta; sindacati soddisfatti dopo accordo su pagamenti Ansa, 7 settembre 2012 La Cisl esprime la propria soddisfazione per l’accordo sottoscritto davanti al Prefetto di Cagliari insieme a Fillea-Cgil e Feneal-Uil relativo alla vertenza dei lavoratori impegnati nella costruzione del nuovo istituto penitenziario a Uta. L’accordo, che arriva dopo una serie di proteste e occupazione del cantiere, garantisce il pagamento delle competenze ai lavoratori entro lunedì prossimo ed il pagamento di quanto dovuto alla Cassa edile entro 20 giorni. “L’intervento del Prefetto è stato decisivo per la risoluzione di questa vertenza - ha sottolineato Fabrizio Carta, segretario generale Ust-Cisl di Cagliari - tutti i soggetti interessati si sono seduti al tavolo per sottoscrivere l’accordo. I lavoratori hanno dovuto sostenere disagi per recarsi sul posto di lavoro pur senza retribuzione, e solo quando la situazione è diventata insostenibile hanno sospeso il lavoro e dato il via alle azioni di protesta”. Carta aggiunge che “come organizzazione sindacale continueremo a vigilare perché i problemi sinora affrontati non si ripresentino nei prossimi mesi, sia per quanto riguarda il rispetto contrattuale nei confronti degli operai, che il proseguo e la conclusione dell’opera. Non vorremmo trovarci di fronte all’ennesima incompiuta nazionale”. Sassari: Severino; bimbi in carcere, stiamo facendo possibile per permanenza adeguata Ristretti Orizzonti, 7 settembre 2012 “Abbiamo provveduto a chiedere tutte le informazioni del caso al Direttore del Carcere da cui abbiamo appreso che, nonostante la assoluta tristezza che la vicenda evoca, si sta facendo tutto il possibile per rendere la permanenza di questi bimbi adeguata alla tenera età”. È la risposta del Ministero della Giustizia alla lettera della presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme” Maria Grazia Caligaris che aveva segnalato la vicenda dei piccoli “ospiti” con le rispettive madri nel carcere di San Sebastiano. “Si tratta, certamente - si legge nella mail - di un caso che merita attenzione, così come tutti quelli in cui bambini incolpevoli si trovano a vivere forzosamente la detenzione insieme alle proprie mamme. Abbiamo appreso che è presente, solo per i bimbi in questione, una infermiera per la notte, che si sta cercando di attrezzare lo spazio per renderlo il più possibile accogliente per infanti, che il nido sito all’interno della struttura è dignitoso e gestito con grande umanità”. Cittanova (Rc): sei borse lavoro per la reintroduzione lavorativa e sociale di ex detenuti www.strill.it, 7 settembre 2012 Diventerà operativa, dal prossimo mercoledì 12 settembre, la collaborazione di sei soggetti - che in passato hanno contratto problemi con la giustizia - con il Comune di Cittanova. Una collaborazione concreta, destinata a lavori di utilità sociale e pubblica, attraverso la quale sarà possibile tentare la reintroduzione dei destinatari del progetto nella vita attiva della comunità cittadina. Il percorso burocratico inizia con il decreto regionale n. 4686 dell’11.4.2012, con il quale la Regione Calabria ha assegnato alla Conferenza Regionale Volontariato Giustizia della Calabria un contributo per interventi socio - assistenziali urgenti in favore di famiglie di detenuti, ex detenuti, o con problematiche giudiziarie in corso che vivono una condizione di grave disagio sociale. La Conferenza Regionale Volontariato Giustizia della Calabria ha, in seguito, comunicato la disponibilità di poter erogare sei borse lavoro della durata di 3 mesi ciascuna per l’inserimento lavorativo e il conseguente sostegno alla famiglia dei soggetti con problemi giudiziari. L’ufficio di Servizio sociale del Comune di Cittanova - diretto da Ettore Furfaro - ha poi verificato l’effettiva situazione di disagio di diversi soggetti appartenenti alla comunità cittanovese. L’analisi messa in campo dall’ufficio municipale ha fatto emerge due necessità riguardanti i sei soggetti interessati: il recupero sociale e, contestualmente, uno strumento per intervenire nella grave situazione economica personale e del nucleo familiare dei soggetti stessi. La disponibilità dell’Amministrazione comunale ad ospitare le sei borse lavoro e la successiva stipula di una convenzione tra il Comune di Cittanova e con la Conferenza Regionale Volontariato Giustizia della Calabria, si è concretizzata nell’assunzione part time (4 ore giornaliere) per tre mesi, di sei soggetti interessati da problematiche giudiziarie. Soddisfazione l’ha espressa in sindaco di Cittanova, Alessandro Cannata. “Sull’erogazione delle sei borse lavoro per soggetti interessati da problemi giudiziari - ha affermato il primo cittadino - stiamo lavorando da circa un anno. L’assunzione di sei detenuti, per un periodo di tre mesi, ci consente di partecipare fattivamente, e in modo utile per la comunità, al reinserimento di queste persone nella vita della nostra cittadina”. Modena: detenuti-volontari proseguono raccolta frutta Redattore Sociale, 7 settembre 2012 Su richiesta della scuola, il progetto di volontariato che dal 27 agosto coinvolge Abdelmajid, Hussein e Hamdi, reclusi alla Dozza continua anche questa settimana. Cefal ha chiesto di proseguire fino al 14 settembre Abdelmajid, Hussein e Hamdi proseguono la loro esperienza fuori dal carcere della Dozza. Il progetto che li ha portati dal 27 al 31 agosto ogni mattina a Finale Emilia per raccogliere, insieme ai volontari del Cefa, le pere dell’azienda agricola dell’Istituto agrario Calvi danneggiato dal terremoto, prosegue anche questa settimana. “La richiesta è arrivata dalla scuola, in particolare dal direttore dell’azienda agricola dell’istituto, Davide Daniele Vancini, che ha chiesto di potersi avvalere ancora dell’aiuto dei volontari - spiega Giacomo Sarti del Cefal - Abbiamo chiesto che anche Abdelmajid, Hussein e Hamdi potessero continuare l’esperienza e così è stato”. Il Tribunale di Sorveglianza di Bologna ha rilasciato i permessi che consentono ai 3 di uscire ogni mattina dal carcere per andare, accompagnati questa volta dai volontari di Avoc, associazione volontari carcere e da padre Franco, il cappellano della Dozza, a lavorare a Finale Emilia anche questa settimana. Ma, come specifica Sarti, “abbiamo chiesto di farli continuare anche la prossima”, e quindi è probabile che rimarranno fino al 14 settembre. “La scuola ha chiesto aiuto e il sistema ha risposto - continua Sarti - segno che quando ci sono progettualità e responsabilità le cose si possono fare anche con poche risorse”. Dal 27 agosto Abdelmajid, Hussein e Hamdi sono stati coinvolti nel progetto di volontariato promosso dalla Ong Cefa per sostenere l’Istituto agrario Calvi di Finale Emilia: un gruppo di 24 volontari sta raccogliendo le pere dell’azienda agricola della scuola che, in questo modo, può risparmiare i 15 mila euro che ogni anno spende per gli stagionali e investirli nella ristrutturazione dell’istituto, seriamente danneggiato dal sisma dello scorso maggio. I 640 studenti della scuola inizieranno, infatti, l’anno scolastico in moduli prefabbricati messi a disposizione dalla Regione Emilia-Romagna. “La solidarietà ha alimentato una partecipazione positiva - dice Sarti - perché quando si fa qualcosa ad alto valore aggiunto, ognuno di noi va oltre quello che è il proprio dovere”. L’esperienza è stata talmente positiva che Sarti lancia un’idea per l’estate 2013, “creare altre occasioni di volontariato estivo per i detenuti, un po’ come si fa con le summer school”. Libia, un carcere a cielo aperto di Alessia Lai Rinascita, 7 settembre 2012 Carcere per i membri del precedente regime. Carcere per chiunque sia sospettato di avere supportato il governo di Gheddafi. Carcere per profughi, immigrati, richiedenti asilo. La Libia “democratica”, quella nata dall’attacco Nato e dalla vera a e propria consegna del Paese nelle mani delle bande di ribelli islamisti, nell’indifferenza della comunità internazionale, dell’Europa e soprattutto dell’Italia, tiene segregate migliaia di persone. In condizioni disumane, senza processo, nel degrado e nella violenza quotidiani. Mercoledì le celle libiche si sono aperte per Abdallah al-Senussi, l’ex capo dell’intelligence libica sotto il regime di Muammar Gheddafi estradato dalla Mauritania, dove si era rifugiato dopo la caduta del “colonnello”. Se anche l’allineatissima Amnesty International ha espresso il proprio timore per la sorte al Senussi ora che è in mano alle nuove autorità libiche è evidente che le condizioni minime perché venga esercitata correttamente la giustizia non sussistono nel Paese “liberato”. Secondo Amnesty al Senussi dovesse essere consegnato al Tribunale penale internazionale (Tpi) che aveva diramato un mandato di cattura nei suoi confronti per crimini contro l’umanità commessi a Bengasi durante la crisi dello scorso anno. “La decisione del governo mauritano rischia di (...) privare al Senussi del diritto ad avere un processo equo”. L’ex capo dell’intelligence, così come altri dirigenti governativi legati a Gheddafi e detenuti nelle carceri libiche, il figlio di Muammar, Seif al Islam in primis, rischia di essere torturato e costretto a rilasciare delle confessioni. Per Amnesty il mandato di cattura del Tpi è tuttora valido e la Libia ha il dovere di consegnarlo, altrimenti commetterebbe una violazione della risoluzione 1970 del Consiglio di sicurezza dell’Onu che chiede alla Libia “piena collaborazione e assistenza al Tpi”. Tuttavia lo stesso Moreno Ocampo, il procuratore della Corte penale internazionale, giunto mesi fa in Libia per parlare con le autorità del Consiglio nazionale transitorio sulla questione di Seif al Islam, aveva affermato che il figlio di Muammar Gheddafi potrà essere giudicato a Tripoli. Anche l’Aja, quindi, si piega al diktat internazionale secondo cui la “nuova” Libia deve essere lasciata libera di agire come meglio crede. Anche quando tortura, discrimina persone innocenti, magari fuggite da una guerra o dalla miseria, come denunciato da un dossier dell’agenzia di assistenza Habeshia. “Nelle carceri libiche migranti, profughi e richiedenti asilo continuano a morire. Soprusi, maltrattamenti, stupri, repressione feroce di ogni tentativo di protesta. Uccisioni anche a freddo”, ha denunciato ieri sul proprio sito web l’agenzia di cooperazione allo sviluppo puntando il dito contro il “trattato di amicizia” firmato dal premier Mario Monti il 20 gennaio scorso e il nuovo accordo sull’emigrazione firmato dal nuovo ministro dell’interno Anna Maria Cancellieri che prevedono la riconsegna dei profughi che arrivano in Italia alle carceri libiche, luoghi di tortura e repressione. “Da una Libia democratica - ha protestato don Moussie Zerai, p5residente dell’associazione - ci aspettavamo maggiore rispetto dei diritti umani e una seria lotta contro il razzismo nei confronti degli africani: una lotta serrata contro ogni forma di discriminazione per motivi religiosi, etnici, razziali. Non è in alcun modo comprensibile questo accanimento contro i profughi. Ed appare assurdo, assordante il silenzio della comunità internazionale”. Stati Uniti: Human Right Watch; Cia torturò e consegnò a Gheddafi oppositori politici di Valeria Robecco Ansa, 7 settembre 2012 Sulla scia degli attacchi dell’11 settembre si era creata nell’era Bush una stretta collaborazione tra Washington e Tripoli. A rivelarlo è un rapporto dell’associazione newyorkese Human Right Watch (Hrw), basato sulle testimonianze di 14 dissidenti libici. Gli Usa, alla caccia di militanti islamici e membri di al Qaida in tutto il mondo - secondo quanto raccontato nelle 154 pagine dell’indagine - avrebbero consegnato i dissidenti libici all’ex rais Muammar Gheddafi, dopo averli prima sottoposti a torture sistematiche. Alcuni di loro oggi fanno addirittura parte del nuovo governo libico. Gli intervistati hanno spiegato di essere stati detenuti in carcere sotto il controllo della Cia in Afghanistan, Pakistan, Marocco, Sudan e Tailandia. Tra le torture comminate c’era anche la pratica del waterboarding, una forma di annegamento simulato che risale all’ultima amministrazione Bush, nel periodo successivo agli attacchi dell’11 settembre. Una tortura - si denuncia - che, insieme ad altri gravi abusi sui detenuti, è stata praticata molto più frequentemente di quanto è stato riconosciuto sinora dagli Usa. “Non solo gli Stati Uniti hanno consegnato a Gheddafi i suoi nemici su un piatto d’argento - ha spiegato l’autrice del rapporto Laura Pitter - ma sembra che prima la Cia abbia torturato molti di loro. E la portata degli abusi appare molto più ampia di quanto ammesso in precedenza”. I 14 detenuti erano per lo più membri del Gruppo Combattente Islamico anti-Gheddafi, che fuggirono negli anni Ottanta e Novanta in Pakistan, Afghanistan e in alcuni Paesi africani. Tra di loro ci sono Mohammed al Shoroeiya e Khaled al Sharif, sequestrati in Pakistan nel 2003 e trasferiti in Afghanistan, dove sono rimasti dietro le sbarre rispettivamente per 16 mesi e due anni, subendo torture di ogni tipo, prima di essere consegnati al Colonnello. Dopo che gli Usa hanno collaborato a porre fine al regime dell’ex rais, molti degli ex detenuti sono divenuti personalità di spicco del nuovo governo libico. Al Sharif, per esempio, è oggi a capo della Guardia Nazionale Libica. L’indagine di Hrw arriva a pochi giorni di distanza dalla Dichiarazione del Dipartimento di Giustizia americano, il quale ha annunciato che non avrebbe incriminato i membri della Cia per i metodi di interrogatorio utilizzati negli anni passati. Gambia: picchiata e violentata prima di essere uccisa con una iniezione letale… Ansa, 7 settembre 2012 Picchiata e violentata prima di essere uccisa con una iniezione letale e, dopo, mutilata e fatta a pezzi. In Gambia la pena di morte non fa notizia, ma sta suscitando sdegno nel resto dell’Africa la fine di Tabara Samba, una senegalese condannata alla pena capitale per avere causato la morte del marito - un gambiano - versandogli addosso olio bollente mentre l’uomo dormiva. A nulla sono valsi gli appelli per salvarle la vita, tra i quali quelli firmati dalla Federazione africana dei giornalisti e dall’Unione panafricana degli avvocati. Nel Paese, i cui governanti sono convinti assertori della pena capitale, le condanne sono frequenti e messe in atto, tanto da “meritare” una menzione speciale da parte delle organizzazioni di difesa dei diritti umani. Un sito investigativo gambiano, Freedom News Paper, ha raccontato con dovizia di particolari gli ultimi istanti di vita di Tabara, sulla cui fine ha detto l’ultima parola lo stesso presidente-padrone del Paese, Jahya Jammeh, che non solo avrebbe negato ogni possibile atto di clemenza per la condannata, quanto invitato - questa l’accusa formulata da attivisti locali - i soldati chiamati a presenziare alle esecuzioni (con la donna sono stati messi a morte altri otto detenuti) a usarle violenza. Cosa che è accaduta, davanti ai funzionari di polizia, ad un magistrato e ad alcuni medici, forse cubani. Dopo che il cocktail di farmaci e veleni ha fermato il cuore di Tabara, i soldati hanno fatto scempio del suo corpo, mutilandolo (le è stata anche strappata la lingua), per poi gettarlo in una fossa comune e negando in questo modo ai familiari che l’avevano chiesto, la possibilità di seppellirla in un cimitero. “Persone come Tabara Samba - ha commentato il ministro dell’Interno e della Giustizia gambiano, Lamine Jobareth - non meritano di vivere un solo giorno di più. Ha versato olio bollente nell’orecchio di suo marito. Ma quale Paese al mondo potrebbe accettare tutto questo?”. Nel processo alla donna, paradossalmente, è quasi finita in secondo piano la figura del marito, Ibou Niane, un uomo minato da una grave forma di diabete che gli imponeva frequenti ricoveri, e soprattutto non si è parlato molto dei motivi del gesto di Tabara. Il clamore provocato dalla morte della donna senegalese non sembra infastidire più di tanto il presidente Jammeh che, solo il 18 agosto scorso, aveva giurato che avrebbe messo a morte tutti i condannati alla pena capitale entro la metà di settembre. E, per quando possa apparire paradossale, Banjul, capitale del Gambia, è la sede della Commissione africana dei Diritti dell’Uomo e dei Popoli. Pakistan: libera su cauzione Rimsha Masih, la cristiana di 14 anni accusata di blasfemia Reuters, 7 settembre 2012 Torna libera Rimsha Masih, la ragazzina cristiana accusata in Pakistan di blasfemia per aver “bruciato” pagine del Corano. Un tribunale pakistano le ha concesso la libertà su cauzione. La decisione era attesa dopo che il suo accusatore, l’imam Khalid Jadoon, era stato arrestato perché sospettato di aver manipolato le prove contro la piccola. Il processo nei confronti di Rimsha - che ha 14 anni ed è affetta da sindrome di Down - arrestata il mese scorso, è ripreso oggi con la valutazione dei certificati medici che attestano lo stato di salute della piccola. Nel fine settimana la polizia ha arrestato una guida della preghiera della moschea di Islamabad, Khalid Jadoon Chishti, con l’accusa di aver portato lui le pagine del Corano bruciate vicino alla bambina con la volontà di accusarla. Anche il Consiglio degli Ulema del Pakistan si era schierato in difesa della bambina, dicendo che il caso non è altro che un tentativo di scoraggiare l’applicazione della legge sulla blasfemia dimostrando che è concepita per limitare le libertà delle minoranze religiose.