Giustizia: la “Grande battitura della speranza” promossa dai Radicali ha coinvolto 89 carceri blogdellagiustizia.it, 6 settembre 2012 Per mezz’ora le stoviglie hanno picchiato sulle sbarre delle celle. Una protesta di speranza nel silenzio assordante delle istituzioni. Mentre i detenuti sono di nuovo risaliti a quota 67.000. “Suoneremo così le nostre campane”, aveva annunciato Marco Pannella alla vigilia della “Grande battitura della speranza”. E le campane sono risuonate forti, chiare e numerose. A Catania, Cosenza, Roma Rebibbia e Regina Coeli. E ancora, a Poggioreale, Lecce, Cagliari Buoncammino e Trento, e poi a San Vittore, Genova, Venezia, Bologna e in parecchie decine di altre carceri, ben 89 le adesioni giunte da tutte le regioni di Italia. Già, perché migliaia di detenuti giovedì 30 agosto scorso hanno battuto con le stoviglie le sbarre delle proprie celle, nello stesso istante e per mezz’ora, trasformando così una forma di protesta tra le più tradizionali dell’immaginario carcerario in un messaggio pacifico e collettivo di speranza. Un messaggio che si è levato da quelle che il leader radicale ha definito le “nuove catacombe della democrazia e della giustizia”. La speranza dunque resiste e trova spazio perfino lì dove di spazio ce n’è pochissimo e, talvolta, basta soltanto per respirare. E dove persino lo stare in piedi è un tempo da contrattare con altri detenuti che, nel frattempo, devono stare in branda, perché lo spazio non basta per tutti. La popolazione detenuta, nonostante le promesse e gli “interventi” normativi realizzati, è infatti tornata a sfiorare quota 67mila, mentre la capienza regolamentare (ma non necessariamente effettiva) non supera i 45mila posti. E sebbene il ministro ne abbia annunciati 11mila in più con la costruzione di nuovi padiglioni e istituti, non c’è traccia di assunzioni di nuovo personale. Insomma il piano di edilizia carceraria sembra destinato ad innalzare solo altre cattedrali nel deserto. Ammesso che poi si arrivi a costruirle davvero. Ciò di cui c’è realmente bisogno, invece, sono misure rapide e incisive per uscire dallo stato di illegalità in cui versano le patrie galere e l’intera macchina della giustizia. Schiacciata dal peso di milioni di procedimenti arretrati. Secondo i radicali è l’amnistia la sola strada da percorrere per un ritorno immediato alla legalità; e per restituire un po’ di credibilità al nostro Paese, ripetutamente condannato dalla Corte europea dei diritti umani proprio a causa del malfunzionamento della giustizia. Mentre a Strasburgo, sommersi da oltre mille ricorsi di singoli detenuti, i giudici si apprestano a emettere nei confronti dell’Italia una sentenza pilota per denunciarne le carenze strutturali in materia di carceri. Anche per questo i reclusi d’Italia hanno risposto all’appello del leader radicale. Per invocare il rispetto della legge da parte di uno Stato che punisce loro per averla violata. E al tempo stesso fugge, come un latitante qualunque, dalle proprie responsabilità. Giustizia: le istituzioni totali sono indegne dei paesi civili di Laura Coci Ristretti Orizzonti, 6 settembre 2012 Chi ricorda il giorno, il mese, l’anno della fondazione di Auschwitz? Pochi. Chi, invece, ricorda, e grazie al Giorno della memoria celebra, la chiusura di Auschwitz, il 27 gennaio 1945, quando l’Armata Rossa abbatte i cancelli del più grande campo di sterminio d’Europa? Molti, anche se non abbastanza. Questo insegna “L’educazione europea” (è il titolo del più bel romanzo mai scritto sulla Resistenza, da Romain Gary): libertà, dignità, onore di essere uomo - o donna -, che valgono oltre ogni smentita. Alla luce di questi valori, di un’istituzione totale si celebra non l’inizio, ma la fine. Così è per orfanotrofi, ospizi di mendicità, manicomi. Luoghi di reclusione istituiti nell’età moderna per “sorvegliare e punire”, piegare o quanto meno rendere invisibili i corpi e inoffensive le menti di essere umani ai margini, irriducibili all’ordine sociale, devianti dalla norma costituita, cancellati dalla storia. A una a una, lungo il Novecento, le istituzioni totali cadono. Se il campo di sterminio ne rappresenta la forma estrema, poco meno atroce è l’ospedale psichiatrico, la cui soppressione per legge, nel 1978, è un atto di civiltà. Soltanto una, tra le istituzioni totali, resiste, di una resistenza dettata da principi ben diversi da quelli affermati dall’”educazione europea”: egoismo sociale, logica securitaria, discorso dell’odio. Un’istituzione dispendiosa e inefficace, disumana e - per il degrado in cui versa - indegna di un paese civile. Il carcere. Dispendiosa e inefficace perché il tasso di recidiva, di reiterazione di reato, di chi sconta per intero la pena in penitenziario è altissimo: 69%, tre volte superiore rispetto al 22% di chi ha l’opportunità di accedere a misure alternative (affidamento in prova ai servizi sociali, semilibertà, detenzione domiciliare), che, di norma, consentono anche di inserirsi più agevolmente in ambito lavorativo (fonte: A Buon Diritto). È il fallimento del carcere, in assoluto e in particolare quale luogo di rieducazione ai fini del reinserimento nella società. Nonostante direttori, agenti di polizia penitenziaria, psicologi, educatori, volontari illuminati e consapevoli. Nonostante corsi, concerti, laboratori, iniziative, attività meritevoli ed esemplari. Non potrebbe essere altrimenti: in ragione del suo impianto, il carcere non educa alla responsabilità, ma all’ossequio: per sopravvivere (all’istituzione penitenziaria, alle guardie, ai compagni, a sé stessi) nelle acque insicure della detenzione si impara a “fare il morto”. O si annega. Il carcere non rappresenta un’occasione di crescita, ma di regressione alla minorità, all’infanzia: si dipende in tutto da altri, per soddisfare i bisogni più intimi. Ed è amaro constatare che uomini ben più che adulti si adattano alla reclusione al punto di essere incapaci di condurre la propria vita “fuori”, nella cosiddetta normalità. Dispendiosa e inefficace perché una persona ristretta in carcere costa allo Stato quasi centoquaranta euro al giorno (138,70 - fonte: Antigone). Di questi, soltanto poco più di tre euro sono imputabili al vitto (tanto che, in base all’ordinamento penitenziario, “ai detenuti e agli internati è consentito l’acquisto, a spese proprie, di generi alimentari e di conforto”, indispensabili per non patire la fame): e infatti, scontata la pena, il reo è chiamato a saldare il debito del proprio mantenimento nella misura di circa sessanta euro per ogni mese di detenzione. Non un solo centesimo è ascrivibile al vestiario: se non fosse per le organizzazioni di volontariato, i detenuti poveri non indosserebbero neppure la biancheria intima. Quanto a corsi, concerti, eccetera, gli oneri sono sostenuti grazie a progetti specifici, per i quali si richiedono finanziamenti mirati a istituzioni e fondazioni; o, ancora, attraverso i proventi di manufatti e prodotti realizzati dalle persone detenute (piccola pasticceria, per esempio); oppure non ci sono, perché azzerati dal lavoro gratuito di volontari e volontarie. La somma è dunque quasi interamente riconducibile all’impianto della sicurezza: direttori, agenti di polizia penitenziaria, operatori sociali (pochi, anzi pochissimi). Al contrario, una persona sottoposta a misure alternative costa meno di trenta euro al giorno, in servizi connessi con l’esecuzione penale esterna e attività di controllo da parte delle forze dell’ordine. È giusto, certo, pagare stipendi e straordinari al personale. Non è giusto, invece, sottoporlo a turni massacranti, in ragione soprattutto del sovraffollamento delle carceri. Il carcere è infatti un’istituzione disumana e indegna di un paese civile anche a causa del sovraffollamento, al quale si stenta a porre rimedio: una situazione di degrado desolante, che è costata all’Italia già diverse condanne da parte della Corte europea per i diritti umani, nel rispetto dei valori dell’”educazione europea”. Un’istituzione totale, per sua natura, non rende migliori gli uomini che vi sono rinchiusi e prigionieri. Li peggiora, talvolta senza rimedio. Al bene non si educa attraverso il male. Giustizia: il sovraffollamento carcerario, questione di civiltà di Michela Piliero www.controcampus.it, 6 settembre 2012 Il sovraffollamento è questione di civiltà, ma non solo, anche di legalità. È abbastanza contraddittorio che lo Stato costringa chi ha violato le regole a presidio della legalità in una situazione che palesemente viola quanto disposto dalla legge. Nelle carceri italiane per detenuti ed operatori giudiziari vi sono drammatiche conseguenze: suicidi, aggressioni nei confronti della polizia penitenziaria, gli atti autolesivi, la proliferazione di malattie infettive. Evidentemente manca una rigorosa e completa analisi delle cause del sovraffollamento con conseguente assenza di ogni intervento riparatore; ma soprattutto deve addebitarsi questa disastrosa situazione all’incapacità delle forze politiche di predisporre strumenti indispensabili per la sua definitiva risoluzione. Da non tralasciare che sull’onda dell’emotività, che colpisce l’opinione pubblica a seguito di campagne medianiche fortemente allarmistiche, la nostra classe dirigente è unicamente alla ricerca di un mero consenso elettorale senza riuscire a trovare in Parlamento soluzioni normative adeguate. La situazione carceraria del nostro Paese ha meritato, in senso, negativo l’attenzione della Corte di Strasburgo la quale ha condannato l’Italia a risarcire un cittadino bosniaco detenuto nel carcere di Rebibbia a Roma, per violazione dell’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti Umani (sent. 16 luglio 2009), il quale consacrando uno dei valori fondamentali delle società democratiche proibisce in termini assoluti la tortura e le pene o i trattamenti inumani o degradanti, quali che siano i comportamenti della vittima. La disposizione in esame impone allo Stato di assicurare che le condizioni di detenzione siano compatibili con il rispetto della dignità umana, e inoltre, che le modalità di esecuzione del provvedimento non cagionino all’interessato uno sconforto e un malessere di intensità tale da superare l’inevitabile livello di sofferenza connesso alla detenzione e che, tenuto conto delle necessità pratiche della reclusione, la salute e il benessere del detenuto siano adeguatamente garantiti. Nel caso di specie, secondo la Corte, la mancanza palese di uno spazio personale sufficiente (il ricorrente era stato detenuto in uno spazio disponibile pari a 2,70 mq) configura di per sé un trattamento inumano o degradante, da cui ne discende la ricordata violazione dell’art. 3 della Convenzione. I giudici, infatti, argomentano che “nella fattispecie, l’assenza di preoccupazione da parte dello Stato aggiunge un tocco di indifferenza alla viva sofferenza provocata dal castigo, sofferenza che andava già quasi al di là dell’inevitabile” (sent. 16 luglio 2009) . La sentenza della Corte di Strasburgo non fa altro che confermare la drammatica e degradata situazione di malessere all’interno delle carceri italiane, di certo in chiaro contrasto con lo stato di diritto. Urge, pertanto, una rivisitazione della questione che garantisca, attraverso un’efficace politica di edilizia penitenziaria, una detenzione dignitosa tra le mura carcerarie, in spazi non angusti ma adeguatamente ampi tali da garantire un minimo di benessere personale; vanno altresì potenziate le strutture sanitarie, educative e socializzanti. Certamente quel di cui non si avverte l’assoluto bisogno è la strumentalizzazione politica capace solo di fornire visioni parziali, connotare la discussione di polemiche inutili dettate solo dagli orientamenti ideologici dei protagonisti. Perché, in gioco vi è la dignità del detenuto così come tutelata dall’art. 27 della Costituzione il quale espressamente impone che le pene non consistano in “trattamenti contrari al senso di umanità” dovendo, invece tendere alla “rieducazione del reo”. Di certo non può attuarsi alcuna rieducazione nell’attuale sistema carcerario italiano. Giustizia: alla ripresa dei lavori parlamentari fari puntati su misure alternative al carcere di Simona D’Alessio Italia Oggi, 6 settembre 2012 Riflettori puntati su un capitolo del “pacchetto Severino”, il disegno di legge delega al governo contenente misure alternative alla pena da scontare in prigione, per attenuare il sovraffollamento carcerario (C 5019). Il complesso di interventi che porta il nome del Guardasigilli Paola Severino era in parte compreso nel testo uscito dal consiglio dei ministri del 16 dicembre 2011: partendo dalla possibilità di un’uscita progressiva dal carcere per 3.300 detenuti per usufruire, negli ultimi 18 mesi, degli arresti domiciliari, la delega all’esecutivo istituisce la “messa in prova” che può dare luogo alla sospensione del processo e all’estinzione del resto della condanna, se il periodo di servizio sociale affidato si conclude favorevolmente. È un’opportunità concessa soltanto una volta (o due, purché non si tratti di reati “della medesima indole”), a condizione che il giudice ritenga che l’imputato non diventi recidivo, in caso di reati puniti con pene detentive non superiori a quattro anni. La sospensione del processo con “messa alla provai nasce da una richiesta dell’imputato da formularsi non oltre la dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado: la scelta “alternativa” contempla una serie di prestazioni, tra cui un lavoro di pubblica utilità (presso stato, regioni, province, comuni, o in enti o organizzazioni di assistenza sociale e volontariato). il cui esito positivo determina l’estinzione del reato. Un’altra novità del “pacchetto”, a cui sono state abbinate delle pdl bipartisan orientate a ridurre la popolazione dietro le sbarre (dati recenti contano circa 66mila 600 detenuti per 45mila 742 posti disponibili), riguarda la sospensione del procedimento nei confronti degli irreperibili, escludendo dal perimetro i latitanti e chi è accusato di gravi crimini come mafia, o terrorismo. Il testo, inoltre, stabilisce la facoltà di trasformazione in illecito amministrativo dei reati puniti con la sola pena pecuniaria, con esclusione di quelli relativi ad edilizia urbanistica, ambiente, territorio e paesaggio, immigrazione, alimenti e bevande, salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, sicurezza pubblica; nessuna chance di depenalizzare le condotte di vilipendio comprese tra i delitti contro le personalità dello stato. Giustizia: visite dei parlamentari nelle carceri, in arrivo nuove regole di Gianni Macheda Italia Oggi, 6 settembre 2012 Stretta dell’amministrazione giudiziaria sulle visite “a sorpresa” dei parlamentari nelle carceri. Potranno parlare con i detenuti, ma senza affrontare questioni processuali, senza finalità di indagine e soprattutto dovranno farlo in lingua italiana. Le nuove regole sono contenute in una circolare del ministero della Giustizia che fissa i paletti a quella norma dell’ordinamento penitenziario che consente, appunto, ai parlamentari di piombare in carcere senza autorizzazione e a sorpresa per constatare con i proprio occhi lo stato dei detenuti. Ed è proprio a questo unico scopo che, secondo i tecnici del guardasigilli Paola Severino, vanno circoscritte le visite di deputati e senatori. “La conversazione deve vertere sulle condizioni di vita del detenuto, sulla conformità del trattamento ad umanità, sul rispetto della dignità della persona, senza alcun riferimento aI processo o ai processi in corso”, si legge nel documento. In cui si specifica “che il contenuto dell’eventuale interlocuzione che il visitatore qualificato intenda effettuare con il detenuto non potrà mai fare riferimento alle vicende processuali del medesimo”. Di vicende processuali, dunque, se ne parla nell’aula del tribunale, non certamente nei tête-à-tête tra parlamentare e detenuto. Non solo. Devono essere evitate, secondo il ministero, domande che lascino trapelare l’intento di acquisire informazioni finalizzate a indagini o investigazioni. Anche in questo caso si tratta di domande più di pertinenza di un avvocato che di un rappresentante del popolo. Per non parlare della lingua. Dialetti o lingue straniere sono banditi. Nei colloqui si parla italiano o, al limite, ci si serve di un interprete, in modo che il direttore del carcere o il suo delegato presente al colloquio possano agevolmente rendersi conto di che cosa si stia parlando. E a proposito del direttore, a lui compete il dovere/potere di mettere alla porta, metaforicamente parlando, il parlamentare che non rispetti queste regole. Per norma di buona educazione, il funzionario-accompagnatore richiamerà l’onorevole a comportarsi in modo corretto. Poi, e se non sarà possibile allontanare velocemente il detenuto che stia per fornire qualche informazione off limits, scatterà l’immediata interruzione del colloquio. E se del caso anche la denuncia all’autorità giudiziaria. Questa stretta, specifica la circolare, vale per tutti i detenuti. E in particolare per quelli sottoposti al 41-bis. Gli appartenenti alla criminalità organizzata, dice il ministero, sovente si avvalgono di sofisticati sistemi, anche indiretti e talora criptici, per far pervenire propri messaggi all’esterno. Non lo faranno attraverso i parlamentari, ma comunque, meglio evitare il rischio. Giustizia: il contrario della libertà non è una cella, ma la solitudine di Renato Farina Tempi, 6 settembre 2012 Le case circondariali talvolta circondano dei tesori. Ho resistito per un po’, ma ora - l’avete capito - torno a rompere le scatole al mondo sulle carceri. Non so, forse ci vedo una profezia del mio futuro. Oppure vedo lì, sperimento in quel posto, il triplo concentrato di pomodoro, l’acqua di colonia purissima della nostra vita oggi in Italia. Disperazione e speranza. Di recente con Boris Godunov (nota per i pm: non si tratta di autocalunnia, egli esiste veramente, ma attraversa le porte come Gesù) sono stato in visita alla prigione di Como. Problemi? Quelli soliti. Celle per due occupate da quattro, palestra che non c’è, mancanza di agenti. Il pane pesante e malcotto, immangiabile, come quello delle carceri russe. Dico al comandante Maria Cristina Cobetto, un commissario competente e sensibile: “Noi ci occupiamo di lavoro in prigione. C’è una mia legge che aspetta invano dal governo l’ok per il finanziamento”. Spieghiamo come al solito la rava e la fava, e cioè che conviene a tutti ampliare gli spazi di lavoro vero, perché se uno lavora mentre è detenuto, e poi quello stesso lavoro perdura anche dopo la fine della pena, non si delinque più. Statistiche universali. Così il comandante ci accompagna in una sala piena di computer. Una dozzina di persone sono radunate intorno a un tavolo. Sono quelli del Centro Stampa Homo Faber. Lavorano nel campo della grafica. Si predispongono manifesti pubblicitari o artistici. Roba bella è esposta. Boris è fulminato dalla riflessione di un ragazzo albanese di nome Zef, 580 euro al mese di paga part time: “Non è importante uscire dal carcere o stare dentro”. Ehi, la libertà, tu scherzi... “No, non scherzo. Lo so bene cos’è la libertà. Il contrario della libertà non è stare in carcere. Il contrario della libertà è la solitudine disperata, è essere soli. E questa vale dentro e fuori”. Me lo confessava anche un vecchio, sdraiato sulla brandina, nel settore “protetti” (quelli che se si mescolano ai detenuti comuni finiscono male: sono sex offender oppure “infami”). “Esco a novembre. Non ho nessuno, non ho un tetto, non ho chi mi vuol bene”. La comandante commenta: “Uscire ed essere solo, non avere una casa, è una disperazione tale per molti che compiono poi reati per rientrare”. Nel Centro Stampa Homo Faber vedo, palpo qualcosa di più di un modo per sfangarsela. È il cuore di una vita nuova. Una cellula rivoluzionaria risorta da morte. Non so spiegarmi meglio. Boris dice: “Una fontana nel giardino dello zar”. Apprendo che questa esperienza è a rischio. Questioni di ministeri, di regolamenti. Zef: “Ciò che cambia nel profondo è se esci da solo, e sei solo, oppure se sei legato a un’esperienza di verità, amore e lavoro”. Gli altri intorno, brianzoli o lecchesi, confermano. Tutto nasce da una maestra d’asilo, fondatrice di scuole, Patrizia Colombo. Io porterei gite scolastiche a incontrare realtà così, speranze di un futuro per tutti. Invece di investire denari solo in carceri nuove, si dia la possibilità ad esperienze educative di crescere. Lo dico qui e ora: guai a chi tocca l’Homo Faber. Giustizia: togliere i figli alle famiglie mafiose? meglio aiutare i ragazzi a crescere di Fulvio Scaparro Corriere della Sera, 6 settembre 2012 A prima vista sembra l’uovo di Colombo della prevenzione: se l’ambiente familiare è criminogeno, si allontanino i figli dalla famiglia e vengano educati in luoghi che non risentono dell’influenza nefasta della pedagogia mafiosa basata su omertà, obbedienza e sottomissione. Non ho dubbi che crescere a contatto con genitori e parenti che producono, favoriscono e incoraggiano attività criminali abbia effetti devastanti su bambini e ragazzi. Credo anche di capire quanto sia difficile e rischioso per giudici e forze dell’ordine prendere provvedimenti a difesa dei figli minorenni quando non solo i genitori e parenti ma gli stessi ragazzi sono talmente imbevuti della mentalità mafiosa da considerare intollerabile l’ingerenza dello Stato nelle loro famiglie. Chi, come Rita Atria, ha avuto il coraggio di denunciare il clima di prepotenza e ingiustizia del proprio ambiente e ha avuto fiducia in un servitore dello Stato come Borsellino, è stata condannata dalla famiglia all’ostracismo più radicale che è proseguito anche dopo la sua morte con l’oltraggio alla sua tomba. Malgrado tutto questo, ho forti dubbi che sia materialmente possibile e soprattutto utile troncare i legami familiari immaginando per i ragazzi una sorta di rieducazione e di rinascita fuori dalla propria terra di origine. Se dovessimo allontanare i figli ogni volta che l’ambiente familiare è criminogeno, non solo la Calabria ma molte altre regioni italiane vedrebbero migliaia di ragazzi in movimento verso luoghi ritenuti immuni dal fenomeno mafioso. Don Ciotti ci ha insegnato invece che occorre restare lì dove il fenomeno mafioso è endemico e contrastarlo con iniziative di risanamento dell’ambiente che coinvolgano i giovani, alla luce del sole e con il massimo risalto pubblicitario, visto che alle mafie piace agire nell’ombra. Aiutiamo i ragazzi ad alzare la testa e a non crescere nella paura e nel culto dell’obbedienza del boss di turno. Ogni volta che è possibile, non favoriamo l’allontanamento dalla propria regione ma ravvicinamento del resto d’Italia alle aree dominate dalle mafie per non lasciare soli i giovani aiutandoli a essere protagonisti del cambiamento lì dove sono nati: scuola, lavoro, sport, educazione alla legalità, cultura, tutto contribuisce ad aprire un ambiente che è tanto più criminogeno quanto più resta chiuso. Giustizia: finalmente scarcerato il disabile in cella per aver bevuto due birre di Conchita Sannino La Repubblica, 6 settembre 2012 L’uomo era stato arrestato e condannato per un alcol test del 2009. Dopo la denuncia di “Repubblica”, il Tribunale di Sorveglianza ha disposto gli arresti domiciliari. “È stato un incubo”, dice. “È stato un vero incubo, ora so che il mio Paese purtroppo è anche questo. Il momento peggiore è stato quando mi hanno schedato, spogliato e perquisito: ero un detenuto, era vero”. Scarcerato, ma ancora agli arresti (domiciliari). Marco Penza, finito in carcere “per due birre”, condannato a stare dietro le sbarre per un mese a causa di un alcol test datato 2009, è uscito dalla cella di Fuorni. È l’esito di una storia-limite sollevata da Repubblica: aggravata dal fatto che il detenuto, 40 anni, incensurato, impiegato in una coop di servizi a Casal Velino, è affetto da disabilità, vive con una protesi al posto di una gamba. Nel 2009 è controllato al volante: ha bevuto due birre, il tasso di alcol schizza. Denunciato, gli ritirano la patente, 6 mesi. Tutto normale. Ma quello che accade dopo è singolare: Marco non si preoccupa della denuncia, ha un avvocato che per ignoti motivi non segue a fondo la vicenda, e la condanna diventa definitiva: 30 giorni di carcere. Il giudice non concede la pena sospesa con la condizionale, come avviene perfino per spacciatori o rapinatori. Non si considera né i domiciliari, né misure alternative. E accade nel Paese degli sconti facili, delle mancate notifiche che privilegiano i boss, delle carceri sovraffollate. Oltretutto, la “penitenziaria”, in cella, è costretta inizialmente a togliere il bastone a Marco: per lui niente doccia, niente deambulazione. Scatta la protesta: interrogazioni parlamentari, indignazione di Antigone, il moto di rabbia del web arriva fino al Quirinale. Ma solo dopo 14 giorni, il Tribunale di sorveglianza di Salerno risolve il caso. “Repubblica” chiede ieri mattina spiegazioni al giudice, ma di rimando l’ufficio chiede una mail. Due ore dopo, zero risposte. Poi: “Chiami domani”, dirottano su un funzionario. Alla quarta telefonata, ecco: “Ci stiamo lavorando”. Anche perché c’è un parere favorevole della Procura alla scarcerazione. Due ore dopo, Penza è fuori. È il racconto della giustizia quando si fa muro-di-gomma. E comunque gli ultimi 5 giorni sono trascorsi nel sospetto, ormai pubblico, che si trattasse di un grave eccesso. In serata Marco, al fianco gli avvocati Domenico Lentini e Stefania Palermo, dice: “Ringrazio tutti, mi auguro che non ci siano altri casi come il mio”. Penza non usa la sua malattia: “Sono stato superficiale nel delegare tutto, trascurando una denuncia banale, intanto a Bologna mi amputavano la gamba, ma non ho mai fatto la vittima. Pensavo che contasse essere incensurato, rispettare la legge. Invece sono finito dentro con altri sette detenuti in cella”. Intanto Samuele Ciambriello ed Enzo Morgera (associazioni La Mansarda e Jonathan) scrivono: “Vergogna. Anche gli arresti domiciliari sono un abuso”. Giustizia: storia di fave, di mafia e arresti domiciliari… di Enrico Fierro Il Fatto Quotidiano, 6 settembre 2012 Una storia di mafia, fave e piselli. È la storia di Michele Aiello e della sua allegra scarcerazione dal carcere di Sulmona. Breve riepilogo. Aiello è un ingegnere siciliano con le mani in pasta nel grande business della sanità. Con la sua clinica di Bagheria faceva soldi a palate grazie ad appoggi eccellenti. Quelli di Binnu Provenzano e di Totò Cuffaro, all’epoca governatore e padrone delle casse della Regione Sicilia. Memorabili gli incontri con Totò Vasa-vasa nel retrobottega di una boutique di Bagheria per contrattare rimborsi e convenzioni. Roba da milioni di euro. Quando i pentiti di mafia parlarono delle sue relazioni pericolose, l’ingegnere Aiello mise su una vera e propria rete di spionaggio composta da carabinieri, 007 e impiegati degli uffici giudiziari palermitani, per difendersi dai pm. Tutto inutile: l’ingegnere, che a Palermo e dintorni si era guadagnato l’appellativo di “Re Mida della sanità”, venne arrestato, processato e condannato a 15 anni e sei mesi per associazione mafiosa e corruzione. I suoi beni, 800 milioni in cliniche, ville, appartamenti e barche di lusso, sequestrati. La pena da scontare fuori dalla Sicilia, nel carcere di Sulmona, Abruzzo. Un penitenziario finora noto per il record di suicidi, che ha una particolarità: la dieta imposta ai detenuti, con un menù che prevede una sovrabbondanza di fave e piselli. Preparati e cotti in tutte le maniere. Cibo che per Michele Aiello, documentano i suoi legali e i medici di fiducia, è semplicemente veleno. L’INGEGNERE, infatti, è affetto da favismo, intollerante a fave e piselli. Nel febbraio scorso lo scandalo: Aiello presenta cartelle cliniche e analisi che documentano il suo stato di salute e chiede di essere scarcerato. Bastava cambiare il menù e chiudere la vicenda. Ma non va così, la direzione del carcere non si muove e i giudici del Tribunale di Sorveglianza de L’Aquila decidono di prendere in mano la situazione: si riuniscono e concedono gli arresti domiciliare al detenuto. Aiello torna a casa. La notizia, ovviamente, scatena un mare di polemiche che inducono il ministro della Giustizia Paola Severino ad aprire una inchiesta. Le cui conclusioni sono degne del teatro dell’assurdo. I giudici del Tribunale di Sorveglianza hanno scarcerato l’illustre detenuto, ma non hanno alcuna colpa perché non toccava a loro imporre alla direzione del carcere di variare il menu di Aiello. Cosa che avviene normalmente con altri ospiti dei nostri penitenziari sia per motivi di salute che religiosi. Viene individuato un solo responsabile, il direttore del carcere Sergio Romice, già a maggio trasferito a Pescara. L’accusa nei suoi confronti è di essere stato gravemente “negligente” nel valutare le condizioni sanitarie di Aiello, al punto che il detenuto si è ammalato, ha perso peso. Una brutta vicenda che vede tanti sconfitti, lo Stato, i giudici della sorveglianza e il direttore del carcere. C’è uno solo che gode: Michele Aiello, agli arresti domiciliari nella suo quartier generale di Bagheria. Chi lo ha intravisto negli ultimi tempi parla di un ingegnere in netta ripresa. Si tiene lontanissimo da fave e piselli, ha ripreso colorito e forze. Resterà nella sua villa almeno per un anno prima che altri giudici decidano in quale carcere trasferirlo, e soprattutto quale menu offrirgli. Giustizia: Dap; per contenere spese stop ad acquisto giornali e dismissione del parco-auto Adnkronos, 6 settembre 2012 In merito alle dichiarazioni del Sappe, riportate in una nota di agenzia del 4 settembre, sull’acquisto dei quotidiani, “l’Ufficio Stampa del Dap precisa che l’acquisto dei giornali era una prassi risalente nel tempo e non disposta dall’attuale Amministrazione. Data la necessità di un drastico contenimento della spesa pubblica, dagli inizi di agosto il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Giovanni Tamburino, ha disposto l’interruzione del servizio”. È quanto si legge in una nota dell’ufficio stampa del Dap. “Rispetto poi al riferimento - prosegue la nota - riportato nella stessa agenzia di stampa, alla dotazione del parco auto del Dap, come è ampiamente noto, tali autovetture sono state dismesse da tempo e non vi sono più stati, né ci saranno, ulteriori acquisti in tal senso. Per onestà intellettuale - conclude l’ufficio stampa del Dap - bisognerebbe riconoscere che nella attuale gestione del Dap non è ravvisabile alcuno spreco di risorse per garantire privilegi a chicchessia, alta dirigenza o meno”. Lettere: diritto alla salute in carcere, un congresso per discuterne Ristretti Orizzonti, 6 settembre 2012 Negli anni della crisi economica vi è un luogo dove più che in ogni altro i diritti civili sono quotidianamente calpestati: il carcere. Accade perché chi vi è ristretto prima ha sceso tutti i gradini della società, e anche oltre. Una società che non è stata in grado di arrestare la serie di cadute e di errori che iniziano presto nella vita di centinaia di migliaia di persone , perché nascono in luoghi lontani dai paesi ricchi, perché la violenza e la droga sono compagni di infanzia , perché non si ha la forza di lottare quando si è soli. I detenuti , persone per le quali oggi è sempre più difficile trovare comprensione. Perché? Sono riconosciuti colpevoli - non tutti, un terzo non ha avuto neanche un processo - ed è giusto che paghino. Un sentimento tanto diffuso che ascolterete essere riaffermato come giusto anche dalle stesse persone ristrette in galera. Ma non così, con il non senso, il dolore, l’umiliazione, la deprivazione degli affetti fino ad arrivare alla depersonalizzazione; la pena fine a se stessa che dovrà finire prima o poi , in un modo o in altro; fino alla prossima carcerazione, in un carosello infernale che abbiamo chiamato “ il fenomeno delle porte girevoli”. E in tutto questo il distacco e la diffidenza degli altri preoccupati per il lavoro che non c’è, per i soldi che non bastano più, in una discarica sociale , per dirla con Saviano, di cui parlare è inutile. Tra tutti i diritti violati quello alla salute è forse l’unico che ancora riesce a suscitare pietà. Non è giusto però accettare che la disperazione di chi sta in carcere - ma anche di chi ci lavora - per poter avere ascolto si trasformi in suicidio; non dobbiamo credere ineludibili le centinaia di morti per cancro, per cirrosi o per Aids; non possiamo illuderci che la tubercolosi, che coinvolge il 30% dei detenuti, non travalichi le mura del carcere. Non vogliamo che la giustizia si trasformi in colpevole, violenta, indifferenza. Di questo si parlerà diffusamente dal 26 al 28 settembre a Viterbo, al Congresso Europeo sulla salute in carcere organizzato dalla Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria (Simspe) e dalla Società Italiana di Malattie Infettive (Simit). Oltre ai massimi esperti italiani - la lettura introduttiva sarà svolta da Stefano Vella - responsabile per l’Oms della lotta all’Aids nei paesi in via di sviluppo, saranno presenti esponenti dell’Organizzazione Mondiale per la Salute, Dirigenti Generali del Ministero della Giustizia, associazioni nazionali e internazionali per la tutela dei diritti umani come Ristretti Orizzonti, N.P.S. Lila, Medici senza Frontiere, ecc. Roberto Saviano, sull’Espresso del 3 settembre, invita tutti a “prendersi il lusso” di parlare di carcere. Noi lo faremo affrontando il problema con serietà, impegno, rispetto e umanità . Noi ci saremo. Giulio Starnini Past President SI.M.S.PE. Direttore Unità Operativa Medicina Protetta - Malattie Infettive Ospedale Belcolle Viterbo Lettera: le bufale mediatiche sull’emergenza carceri Tempi, 6 settembre 2012 Riceviamo e pubblichiamo una lettera di Claudio Bottan, detenuto nel carcere di Vicenza. “Caro direttore, il preannunciato ddl che, secondo il ministro Severino, dovrebbe affrontare seriamente l’emergenza carceri, si colloca ampiamente nella lunga serie di bufale mediatiche che da troppo tempo ci vengono propinate. La proposta all’esame delle commissioni giustizia di Camera e Senato, infatti, riguarda il ricorso a misure alternative al carcere per reati che già oggi non lo prevedono; si riferisce a reati che prevedono condanne edittali, nel massimo, fino a 4 anni. Si tratta dei cosiddetti “reati bagatellari” che un serio provvedimento avrebbe dovuto depenalizzare e punire con sanzioni amministrative, sgomberando così i tavoli dei giudici da migliaia di fascicoli che contribuiscono ad ingolfare la macchina della giustizia. Invece, ancora una volta, si fanno annunci roboanti di misure salva carceri che si rivelano inutili, e non si vuole ammettere che il male peggiore della giustizia italiana è rappresentato dall’utilizzo disinvolto, illegale e pretestuoso, che viene fatto della custodia cautelare in carcere. Un abuso che riguarda il 43 per cento dell’attuale popolazione carceraria, cioè 29mila persone che - combinazione - equivalgono all’incirca alla differenza tra capienza regolamentare delle carceri e presenza effettiva di detenuti: solo una coincidenza? Il dato che dovrebbe far riflettere e inorridire, è il 50 per cento di persone innocenti che, secondo le statistiche ministeriali, compongono questa massa di prigionieri della pena preventiva, persone che verranno assolte e, giustamente, chiederanno di essere risarcite per l’ingiusta detenzione, anche se non ci sarà alcun risarcimento in grado di compensare il dramma vissuto. In tempi di spending review, dimentichiamo l’aspetto umano e concentriamoci sui numeri: ogni giorno, compresi domeniche, Natale e Pasqua, in Italia vengono spesi 6 milioni di euro per mantenere in carcere persone che non hanno una condanna definitiva; di questi, 3 milioni di euro riguardano la carcerazione di innocenti. Quanti posti di lavoro, edilizia agevolata, e iniziative sociali si potrebbero attivare con quelle somme? Probabilmente verrebbero anche in parte eliminate le cause che generano i cosiddetti “reati predatori”, quelli dettati dal disagio e dalla fame. Le norme, caro ministro, esistono già nei nostri codici, basterebbe farle rispettare per bloccare il cortocircuito della giustizia cancerogena, che vede nelle prigioni la soluzione a tutti i problemi. Una delle norme, è quella che prevede l’utilizzo del braccialetto elettronico, un progetto che è legge dello Stato italiano ed è già costato 110 milioni di euro alla collettività, ma giace inutilizzato da anni per il solo fatto che mancano informazioni e disposizioni precise ai magistrati che lo dovrebbero applicare quale misura deflattiva del sovraffollamento carcerario. Questa è l’economia del degrado, che ci costa ogni anno più dell’1 per cento di Pil, caro professor Monti, non lo insegnano alla Bocconi?”. Claudio Bottan Casa Circondariale di Vicenza Roma: detenuto di 71 anni si suicida nel carcere di rebibbia nuovo complesso. Ristretti Orizzonti, 6 settembre 2012 È il 13mo decesso nelle carceri del Lazio del 2012. Il Garante dei detenuti nel Lazio Angiolo Marroni: “Ennesimo dramma della solitudine in cella. Senza adeguati supporti, aumenta il rischio di suicidi”. Si è tolto la vita nel cuore della notte, impiccandosi con un lenzuolo all’interno della sua cella singola, nel braccio G 8 del carcere di Rebibbia Nuovo Complesso. È morto in questo modo Luigi Del Signore, un detenuto di 71 anni. Lo rende noto il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni. Ad accorgersi del suicidio sono stati, questa mattina, gli agenti di polizia penitenziaria. Signore è la tredicesima persona morta in un carcere della Regione Lazio dall’inizio del 2012, il quarto per suicidio. A quanto appreso dai collaboratori del Garante l’uomo, originario di Paliano (in provincia di Frosinone), si trovava in carcere per scontare una condanna definitiva a 14 anni di reclusione per un omicidio compiuto nel 2005. Affetto da problemi respiratori, l’uomo aveva un fine pena fissato per il 2015. “È l’ennesimo dramma della solitudine in carcere che siamo costretti a commentare in questo difficile anno - ha detto il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni. Il tredicesimo decesso dell’anno, fra cui quattro suicidi, sono la spia di un estremo disagio fisico e psicologico che si vive all’interno degli istituti di pena della nostra Regione dove, ormai, il numero dei detenuti presenti continua a crescere senza sosta. In queste condizioni, è estremamente difficile per gli agenti di polizia penitenziaria, per i volontari e per gli altri operatori presenti in carcere riconoscere i segni e prevenire il disagio interiore che vivono gli anziani e le altre categorie più fragili di detenuti. Un disagio che, a volte, può far sembrare la morte la via di uscita più facile”. Voghera (Pv): scontro in consiglio comunale su lavori di manutenzione affidati ai detenuti La Provincia Pavese, 6 settembre 2012 Il vicesindaco, l’avvocato Giuseppe Fiocchi, è persona notoriamente mite, ma lunedì sera, alla riunione di maggioranza sul bilancio, ha alzato la voce. E di qualche tono, tanto da essere sentito nelle stanze attigue a quelle della riunione. A farlo innervosire è stata la proposta di Marina Azzaretti, di impiegare una cooperativa di detenuti del carcere di Medassino, per la manutenzione del verde attorno al castello dove, da venerdì 14 settembre, ci sarà l’annuale appuntamento con varie manifestazioni culturali e artistiche. Fiocchi, che è il front-man della Lega nord nella giunta comunale di Carlo Barbieri, ha espresso tutte le sue perplessità. Da lumbard doc, ha detto che, prima di tutto, il lavoro va offerto ai nostri disoccupati e non ai detenuti che vengono da mezza Italia (preferibilmente dal sud). Apriti cielo, la Azzaretti ha rivendicato la bontà della sua scelta e l’idea di far lavorare i detenuti che si sono comportati bene, cercando di favorire,- umanamente e cristianamente - un giusto e graduale inserimento nella società. Ieri, la Azzaretti - unica donna che siede in giunta - non ha voluto commentare l’accaduto, ma ha fatto capire di voler andare avanti per la sua strada: “Non possiamo non offrire un’opportunità a quelle persone”, si è limitata a dire. Mentre l’avvocato Fiocchi, partito per un ultimo scampolo di vacanze, ha gettato acqua sul fuoco: “ Non è successo niente di particolare, si è trattata di una normale discussione. Il progetto della Azzaretti si può anche fare, perché è una cosa molto limitata, giusto per pulire il castello Visconteo. Una sciocchezza - ribadisce il vicesindaco -. Non è un progetto estensibile oltre a quello che è. Al di là di quelle poche ore, i detenuti non faranno nulla”. L’assessore alla Cultura, comunque, non ha fatto un passo indietro. Ha esposto il progetto e quello realizzerà. grazie alla collaborazione di una cooperativa che darà lavoro - molto poco, questo è vero - ai detenuti. “Ci sono volute due riunioni - ha confessato un altro assessore - ma alla fine il progetto è passato”. Frosinone: il Garante; problematica gestione dei detenuti collaboratori di giustizia Dire, 6 settembre 2012 Per garantire loro condizioni minime di sicurezza sono stati alloggiati nelle celle destinate all’isolamento e sono stati organizzati orari diversificati per l’ora di socialità. A denunciare la difficile che stanno vivendo i collaboratori di giustizia nel carcere di Frosinone è il garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni. Già nei mesi scorsi il garante aveva invano segnalato al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria l’estremo disagio della sezione dei collaboratori di giustizia del carcere di Frosinone. Nell’istituto - che dovrebbe contenere 325 detenuti ma che ne ospita, attualmente 543 - sono reclusi anche diversi collaboratori di giustizia. Il loro numero non è fisso, ma varia da un minimo di 3 ad un massimo di 10, a seconda dei processi che li vedono coinvolti. “In un carcere già alle prese con il sovraffollamento e con diverse criticità - ha detto il garante - dover organizzare e gestire anche una sezione per i collaboratori di giustizia rappresenta un supplemento di lavoro gravoso. Per evitare i contatti con gli altri detenuti, i collaboratori di giustizia sono stati alloggiati in celle destinate all’isolamento, non adeguate ad assicurare le naturali esigenze di dignità cui essi hanno diritto. “In definitiva - ha aggiunto Marroni - poche persone stanno rendendo problematica la gestione dell’intero carcere. La conformazione logistica dell’istituto rende difficile la gestione di queste persone, costringendo la polizia penitenziaria ad un aggravio di lavoro. Basti pensare, ad esempio, che per motivi di sicurezza l’intera popolazione viene spesso bloccata all’interno delle proprie celle per consentire il transito dei collaboratori”. Una situazione incomprensibile, secondo Marroni, anche perché la soluzione sia ai problemi di vivibilità del carcere di Frosinone che alle esigenze di sicurezza dei collaboratori di giustizia esiste ed è rappresentata dal vicino carcere di Paliano. “Una struttura penitenziaria, quella di Paliano - ha concluso Marroni - che è dedicata all’accoglienza dei detenuti ammessi al programma di protezione, e può ospitare anche i collaboratori presenti a Frosinone. Per altro, la vicinanza fra i due istituti rende agevole tale trasferimento. Per questo, ho scritto al Dap invitando a prendere in considerazione tale eventualità e di valutarne le ricadute positive soprattutto per quanto riguarda la gestione quotidiana del carcere di Frosinone”. Bologna: la Dozza sta per esplodere; ci sono 1.008 detenuti, a fronte di 483 posti www.bolognanotizie.com, 6 settembre 2012 Il Comitato per la prepotente urgenza, fondato dall’Onorevole Alfonso Papa e dalle Associazioni “Papillon” di Rimini e “Recuperiamoci” di Prato, ha appreso con sgomento i risultati della prima relazione semestrale 2012 svolta dalla Ausl sulla situazione igienico-sanitaria del carcere della Dozza di Bologna. A fronte di 483 posti disponibili si contano nella Dozza 1.008 detenuti. Ma ciò che ci indigna maggiormente è la situazione igienica dei detenuti, con gravi rischi per la loro salute: blatte ed altri tipi di animali infestanti popolano purtroppo ogni sezione, e non a caso si è registrato un caso sospetto di scabbia, oltre ad altri casi accertati di patologie gravi come epatite e tubercolosi. Stupisce poi negativamente il bassissimo numero di detenuti lavoratori, solo il 9%. Tutto questo ci conferma, ancora una volta, il gravissimo stato di abbandono in cui versano le Carceri italiane. Il Comitato ha iniziato uno stato di mobilitazione permanente su questo tema, verranno portate avanti iniziative a favore del lavoro carcerario e del recupero dei detenuti. L’Onorevole Alfonso Papa, che ha già visitato numerosi istituti penitenziari italiani, e sarà presto a Bologna per ispezionare il Carcere, rilancia, perciò, con forza la richiesta di un provvedimento di clemenza, già avanzato oltre un anno fa dal Presidente della Repubblica. Con la ripresa dell’attività parlamentare auspichiamo inoltre che la proposta di legge del deputato Papa sulla limitazione dei casi e della durata della carcerazione preventiva possa finalmente essere approvata, poiché solo misure di grande impatto come queste possono risolvere la grave situazione endemica di disagio del pianeta Carcere. Bologna: Associazione Papillon; depositato al Tar nuovo ricorso contro nomina Laganà Dire, 6 settembre 2012 Ancora un ricorso al Tar contro la nomina di Elisabetta Laganà a Garante dei detenuti del Comune di Bologna. L’associazione culturale Papillon-Rebibbia, assieme a Vito Totire, portavoce del Circolo Chico Mendes di Bologna, ha infatti depositato per la seconda volta un ricorso al Tar contro la nomina di Laganà. E spiega: “Con questo ulteriore atto prosegue la battaglia di civiltà giuridica con la quale la nostra associazione, a tutela dei diritti e della dignità delle cittadine e dei cittadini detenuti della Dozza, intende battersi, con gli strumenti di legge, contro una nomina proveniente da una maggioranza consiliare sempre più orientata verso il riprovevole esercizio di un potere autocratico, sordo ad ogni istanza degli ultimi della scala sociale ed uso all’illegittimità come sistema di governo”. Insomma, non c’è davvero tregua per Laganà, rieletta a fine luglio dal Consiglio comunale dopo che il suo primo incarico (durato pochi mesi) era stato invalidato dal Tar. Papillon, che aveva già presentato il primo ricorso, aveva definito la seconda nomina di Laganà “uno spettacolo desolante” e si era riservata di fare nuove verifiche dal punto di vista giuridico. E oggi il portavoce di Papillon, Valerio Guizzardi, annuncia il nuovo ricorso al Tar. “Ancora una volta - rincara la dose - abbiamo visto in Consiglio comunale solo interessi politici, lobby di potere alacremente al lavoro, ricatti e cedimenti interessati al solo scopo di riuscire a mantenere in equilibrio una maggioranza traballante. Il tutto senza mai considerare, neppure per un istante, l’interesse ed i bisogni di chi è chiuso 22 ore al giorno in insalubri celle sovraffollate, con temperature impossibili da sopportare, privato dei diritti umani più elementari”. Papillon lancia anche “una sottoscrizione pubblica e solidale” rivolta “a tutte le cittadine e i cittadini che hanno a cuore la nostra causa: per sostenere le importanti spese legali di quest’ultimo ricorso abbiamo aperto un conto corrente postale e un conto Postepay per raccogliere contributi in denaro, poiché è evidente che un’associazione di detenuti, per sua natura, ha fondi estremamente limitati e insufficienti a sostenere gli alti costi burocratici derivanti dal sacrosanto diritto giuridico a difendersi dagli abusi”. Il conto corrente postale è IT16M0760102400001008116103 - Conto Postepay: 4023600630474213, intestati a Valerio Guizzardi (presidente Papillon Bologna ricorso Tar 2012). Firenze: a Sollicciano i detenuti costretti ad acquistare merce a prezzo raddoppiato www.clandestinoweb.com, 6 settembre 2012 Anche in carcere anche i soldi fanno la differenza. E si perché essere detenuti ha un caro prezzo da scontare e non si quantifica solo in termini di libertà persa. Anche comprare da mangiare costa più che fuori quando invece dovrebbe essere esattamente il contrario visto che dietro le sbarre i ceti sociali ospitati sono spesso quelli deboli. E per chi, come tanti detenuti stranieri, non ha una famiglia alle spalle? Tutto davvero molto complicato. La denuncia sul costo dei prodotti acquistati nel penitenziario di Sollicciano arriva da Fabio Evangelisti, segretario dell’Idv Toscana che spiega: “Nel carcere di Sollicciano, come più volte denunciato da Italia dei Valori che, nel corso delle nostre periodiche visite, il primo e più grave problema è legato al sovraffollamento: i detenuti ospitati, ad oggi, a fronte di una capienza regolamentare di 480, risultano essere 980, dove mille è ritenuta una soglia psicologica pericolosissima - ha dichiarato in una nota. A questa grave criticità, si aggiunge inoltre un dato fortemente discriminatorio e troppo spesso sottovalutato, che rischia di minare quei caratteri di umanità e giustizia della pena sanciti dalla nostra stessa Costituzione: abbiamo infatti appreso che i prodotti acquistati dai detenuti costano circa il doppio del loro normale valore di mercato”. Evangelisti ha depositato alla Camera dei Deputati un’interrogazione a risposta scritta al Ministro della Giustizia, Paola Severino, per sollecitare un intervento del Governo affinché i prezzi dei prodotti venduti in carcere sia equiparabili a quelli delle merci in commercio. Ecco alcuni esempi fatti dal segretario dell’Idv: “Per fare solo alcuni esempi eclatanti, un dopobarba Denim in carcere costa 4,03 euro, al supermercato 2,99; quello della Nivea costa addirittura 7,16 euro mentre al supermercato 4,23, uno spazzolino da denti 2,58 invece che 1,80 euro; i piatti di plastica arrivano a costare 4,20 contro i 2,40 euro - spiega ancora Evangelisti. Lo scorso anno la questione era stata sollevata dall’associazione Ristretti Orizzonti attirando l’attenzione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che si attivò emanando una circolare mirata allo specifico problema: dopo un anno tutto risulta ancora fermo tanto che lo stesso capo del Dap ha poi ammesso nel corso dell’ultima relazione annuale la mancata risoluzione del problema”. Eboli (Sa): detenuti dell’Icatt hanno lavorato per il Moa-Museum of Operation Avalanche Ristretti Orizzonti, 6 settembre 2012 Nel settembre del 1943, durante la seconda guerra mondiale, il litorale salernitano fu protagonista di un evento unico nella storia del Mediterraneo: una flotta composta da circa 100 navi, 160.000 soldati diede vita al più grande sbarco della storia, superato poi dallo Sbarco in Normandia nell’anno successivo. Nella zona compresa fra il fiume Sele ed il fiume Calore ha avuto luogo, inoltre, una delle battaglie più importanti e decisive della Campagna d’Italia, che costò migliaia di vittime alle truppe impegnate nell’operazione che abbracciò parte considerevole del territorio campano, concludendosi a Napoli il primo ottobre con la liberazione della città. Gli avvenimenti concentrati in pochi giorni situano le comunità che ne furono protagoniste al centro del conflitto più cruento della storia dell’umanità, e ciò è destinato a modificare profondamente l’immaginario collettivo, gli stili di vita, l’organizzazione dello spazio del territorio nella sua successiva evoluzione. Per questo motivo il Comune di Eboli ha destinato una delle sue strutture più importanti, il Complesso Monumentale di Sant’Antonio ad ospitare il Museum of Operation Avalanche nel quale saranno raccolti armi e cimeli dei quattro eserciti protagonisti, documenti ed immagini d’epoca, oltre ad una sala emozionale con un plastico interattivo, unico nel suo genere nel meridione d’Italia. Il Museo sarà inaugurato, alla presenza del Console americano di Napoli il 9 settembre 2012. Il valore aggiunto dell’evento è rappresentato dal ruolo fondamentale svolto nell’intero percorso dalla Casa di Reclusione di Eboli che è stata parte attiva nella realizzazione del progetto denominato, appunto, “Operazione Avalanche”. A seguito del protocollo d’intesa siglato tra il Direttore dell’Istituto ed il Sindaco di Eboli in materia di Giustizia Riparativa, 8 detenuti della Casa di Reclusione hanno collaborato attivamente al recupero e alla ristrutturazione del Complesso Monumentale che ospita il Museo. Conclusa questa fase due detenuti, dopo aver frequentato un corso di formazione ad hoc, saranno assunti con la qualifica di operatori museali. L’iniziativa, in realtà, non è l’unica. Infatti essa si colloca nella scia di una ormai consolidata e “storica” tradizione nata dalla stipula appositi protocolli d’intesa con i Comuni di Eboli e di Battipaglia in base ai quali l’Icatt si assume il compito di provvedere al “recupero ambientale” delle zone a maggior rischio di degrado. Così dal 2007 ad oggi grazie agli impegni assunti dal Direttore, Dr.ssa Rita Romano, i detenuti dell’Icatt hanno pulito la collina di San Donato, sistemando le aree adibite a ritrovo dei cittadini, catalogando ed apponendo cartelli illustrativi sulla flora e sulla fauna autoctona. Hanno ripulito gli otto chilometri di fascia pinetata del litorale ebolitano, così come le spiagge del limitrofo comune di Battipaglia. Nel progetto “centro antico pulito” hanno ripulito il centro storico presso il quale sorge il lo storico Castello Colonna (sede dell’istituto di pena), sistemato e curato le aiuole, così come hanno curato la sistemazione delle aree verdi che sorgono intorno al Complesso Monumentale di San Pietro ai Marmi. Nella loro instancabile attività i detenuti, insieme al direttore, hanno ottenuto il riconoscimento dell’Amministrazione Comunale di Eboli in un’ufficiale seduta del Consiglio Comunale così come quello dei cittadini ed in particolare del Comitato di Quartiere per l’impegno e la cura dell’importante centro storico che ospita l’Istituto. Rita Romano Direttore della Casa di Reclusione di Eboli Castrovillari (Cs): Sappe; detenuto aggredisce agenti, il Sindacato chiede interventi urgenti Adnkronos, 6 settembre 2012 “Oggi pomeriggio un detenuto della casa circondariale di Castrovillari ha aggredito un assistente capo e un sovrintendente della polizia penitenziaria, dopo che lo stesso detenuto aveva aggredito i due compagni di cella. Uno dei due assistenti ha riportato una forte contusione ad una gamba mentre l’altro evidenti graffi alle braccia”. A riferirlo in un comunicato sono Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe, sindacato autonomo polizia penitenziaria e Damiano Bellucci, segretario nazionale. “Le amministrazioni - ammoniscono - devono porre in essere tutte le iniziative disciplinari previste, fermo restando le eventuali denunce all’autorità giudiziaria, perché - spiegano - non è assolutamente tollerabile che succedano cose del genere, anche se, purtroppo, nelle carceri italiane gli eventi critici sono tantissimi”. Nella nota si ricorda inoltre che attualmente a Castrovillari sono presenti 260 detenuti per una capienza regolamentare di 110 posti; nel corso del 2011 ci sono stati 5639 atti di autolesionismo, 1003 tentativi di suicidi, 63 suicidi, 102 decessi per cause naturali, 734 ferimenti, 3455 colluttazioni. Agrigento: domani l’europarlamentare Iacolino visita la Casa circondariale di Sciacca Italpress, 6 settembre 2012 Prosegue il giro conoscitivo dell’europarlamentare e vicepresidente della commissione Libertà civili, Giustizia e Affari interni del Parlamento europeo Salvatore Iacolino nelle carceri siciliane per comprendere meglio criticità, condizioni generali delle strutture detentive e per tenere alta l’attenzione rispetto alle problematiche del sistema penitenziario in relazione alle esigenze dei detenuti e del personale di sorveglianza e amministrativo. Domani, alle 9.30, Iacolino sarà in visita presso il carcere di Sciacca dove, si legge in una nota, vengono segnalati problemi di sovraffollamento dovuti a carenze strutturali che rendono difficile la vivibilità all’interno dell’istituto penitenziario che esigerebbe, invece, standard di sicurezza e di igiene adeguati. Al termine della visita, alle 11.30, Iacolino incontrerà presso il Gran Caffè delle Terme la stampa per illustrare quanto emerso nel corso del sopralluogo. Nel corso della conferenza stampa alla quale parteciperanno, tra gli altri, il sindaco di Sciacca Fabrizio Di Paola ed il presidente del Consiglio Comunale, Calogero Bono verranno, inoltre, illustrati i risultati dell’incontro operativo sulle problematiche del comparto pesca - svoltosi nei giorni scorsi a Bruxelles con i funzionari del Parlamento europeo e della Commissione - al quale hanno partecipato i sindaci di Sciacca, Termini Imerese, Ustica, Isola delle Femmine e Capaci e rappresentanti del comparto ittico siciliano. Milano: Sappe; detenuto nordafricano evade dall’Istituto Penale Minorile “Beccaria” Ansa, 6 settembre 2012 Il sindacato della Polizia penitenziaria Sappe rende noto che un minore nordafricano è evaso dal carcere minorile di Milano Beccaria. L’episodio, ricostruisce il segretario del Sappe Donato Capece è accaduto “mentre i giovani ristretti di una delle sezioni detentive era all’ora d’aria nel campo da calcio”. Il ragazzo “è riuscito ad evadere scavalcando il muro di cinta dell’istituto ed è ancora da accertare se sia stato aiutato da altri minori - spiega Capece . Il collega in servizio ha dato immediatamente l’allarme ma pur essendo intervenuti anche i colleghi fuori servizio che al momento si trovavano in caserma e gli addetti agli uffici non si è riusciti a evitare che si dileguasse”. “Vista la professionalità della Polizia Penitenziaria in servizio che ha dato l’allarme in tempo, ma cos’è andato storto? - si domanda Capece. “Ci due cose da rilevare: il minore era già scappato due mesi fa più o meno nello stesso modo, era stato ripreso e mandato all’Ipm di Cagliari, ma visto che anche all’Ipm di Cagliari dava problemi (ingoiava qualunque cosa per uscire dall’istituto e andare all’ ospedale) è stato riportato al Beccaria nonostante i precedenti”. Pistoia: detenuto riceve multe in carcere e scopre che gli è stata rubata l’automobile Ansa, 6 settembre 2012 Da alcuni mesi riceveva multe a carico della sua auto e così l’uomo, che non poteva usarla poiché detenuto nel carcere di Pistoia dal 2009, ne ha denunciato il furto alle forze dell’ordine. La sua macchina è stata ritrovata ieri dalla polizia in piazza Leopoldo, a Firenze: a bordo un peruviano di 32 anni, denunciato per ricettazione, che stava intralciando il traffico dopo essersi fermato in mezzo alla carreggiata per parlare al cellulare. Secondo quanto emerso, inizialmente gli agenti si sono avvicinati all’auto solo per invitare il peruviano e spostarsi e a liberare la carreggiata, ma dalle verifiche condotte sulla targa il mezzo è risultato rubato. All’interno della vettura, perquisita dalla polizia, sono stati trovati arnesi per lo scasso tra cui cinque cacciaviti e due tronchesi. Immigrazione: dal 15 settembre sanatoria per lavoratori stranieri irregolari Il Sole 24 Ore, 6 settembre 2012 A partire dal 15 settembre sarà possibile regolarizzare gli stranieri extracomunitari che lavorano “in nero” nel nostro paese: un provvedimento atteso questo Decreto Legislativo (n. 109 del 16 luglio 2012) e che va ad attuare la Direttiva europea n. 52/2009. Una sanatoria o regolarizzazione che prevede la possibilità per i datori di lavoro che impieghino lavoratori stranieri “in nero” da almeno tre mesi di chiedere la regolarizzazione del rapporto di lavoro senza vedersi applicata alcuna sanzione. Beneficiati del provvedimento saranno tutti quegli stranieri (extracomunitari) presenti nel territorio italiano ed irregolarmente impiegati in qualsiasi tipo di attività lavorativa: dalle colf ai muratori, agricoltori e quant’altro. È importante rimarcare quest’ultimo aspetto perché, a differenza dell’ ultima sanatoria arrivata nel 2009 che riguardava solo i rapporti di lavoro domestico e di assistenza (colf e badanti), questa del 2012 sarà come detto rivolta a tutti senza distinzioni o preferenze in base al tipo di lavoro svolto. Unico requisito richiesto per la regolarizzazione, che il rapporto di lavoro sia a tempo pieno (eccezion fatta per il lavoro domestico e di assistenza purché non inferiore alle 20 ore settimanali). Un provvedimento discusso ed atteso da molti anche in virtù del particolare interesse che suscita la questione: ma andiamo a vedere meglio e nei dettagli tecnici come funzionerà la sanatoria o regolarizzazione dei lavoratori stranieri in nero. Il provvedimento è rivolto ai datori di lavoro che alla data del 9 agosto 2012 occupano da almeno 3 mesi (quindi a partire dall’ 8 maggio) ed in maniera irregolare lavoratori stranieri non in regola: lavoratori stranieri che a loro volta, per essere coinvolti nella sanatoria, devono essere presenti sul territorio italiano (con o senza titolo di soggiorno) almeno dal 31 dicembre 2011. Un passaggio controverso quest’ultimo poiché se lo straniero è presente sul territorio in maniera irregolare non può essere facile attestarne la presenza a partire dal 31 dicembre 2011: tale attestazione deve avvenire da parte dello straniero tramite documentazione da “organismo pubblico” la cui attendibilità sarà verificata di volta in volta dagli uffici. La regolarizzazione sarà esclusa per gli stranieri che: risultino espulsi per motivi di ordine pubblico o di sicurezza o per motivi di prevenzione del terrorismo; risultino segnalati anche a livello internazionale come non ammissibile in Italia; siano comunque considerati una minaccia per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato italiano o di altro Stato dell’area Schengen a prescindere da un provvedimento di espulsione; risultino condannati anche con sentenza non definitiva o patteggiata per uno dei reati per i quali l’articolo 380 del Codice di procedura penale prevede l’arresto obbligatorio in fragranza. Da parte sua il datore di lavoro che vorrà regolamentare la posizione di un lavoratore in nero dovrà sborsare la cifra forfettaria di 1.000 euro (per ciascun lavoratore da regolarizzare) più almeno 6 mesi di contributi previdenziali. Anche in questo caso sono esclusi dal provvedimento i datori di lavoro che: risultino condannati anche con sentenza non definitiva o patteggiata negli ultimi cinque anni per reati connessi all’occupazione illegale di stranieri, all’intermediazione illecita ed allo sfruttamento lavorativo, al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina o allo sfruttamento della prostituzione o di minori da impiegare in attività illecite; abbiano avviato in passato procedure di emersione fatto richiesta di assunzione dall’estero di cittadini stranieri senza successivamente procedere alla sottoscrizione del contratto di soggiorno o alla successiva assunzione del lavoratore straniero (salvo cause di forza maggiore non imputabili al datore di lavoro). La presentazione della domanda di regolarizzazione (allo Sportello Unico per l’Immigrazione) spetta al datore di lavoro e può essere presentata dal 15 settembre al 15 ottobre 2012. Ricordiamo che il Decreto Legislativo in questione è in attuazione della direttiva 2009/52/CE volta a rafforzare la cooperazione tra Stati membri nella lotta contro l’immigrazione illegale ed introduce norme minime relative a sanzioni e a provvedimenti nei confronti di datori di lavoro che impiegano cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno è irregolare. Tale decreto va ad introdurre sanzioni più dure (saranno previste aggravanti per le quali le pene già esistenti vengono aumentate da un terzo alla metà) per chi dà lavoro a immigrati irregolari oltre a dare la possibilità (e questa è la vera novità del provvedimento) agli stranieri vittime di sfruttamento di denunciare i loro aguzzini ottenendo in cambio un permesso di soggiorno della durata di sei mesi, rinnovabile fino al periodo necessario per la definizione del procedimento penale a carico del datore di lavoro. In sostanza, una sorta di premio per i lavoratori irregolari che denunceranno il datore che li occupa in nero. Il provvedimento è stato concepito in maniera tale da convincere i datori di lavoro, proprio in virtù di quest’ultimo un punto che andrebbe a dare ai lavoratori irregolari un’arma verso il datore stesso, di quanto sia meglio aderire alla sanatoria per evitare di incorrere in pene e sanzioni piuttosto pesanti. Libia: dossier dell’agenzia di assistenza Habeshia “nelle carceri si continua a morire…” Agenparl, 6 settembre 2012 “Nelle carceri libiche migranti, profughi e richiedenti asilo continuano a morire. Soprusi, maltrattamenti, stupri, repressione feroce di ogni tentativo di protesta. Uccisioni anche a freddo”. Lo denuncia un dossier dell’agenzia di assistenza Habeshia. “Nell’indifferenza della comunità internazionale. Dell’Europa e dell’Italia, soprattutto. Dell’Italia che ha rinnovato e mantiene in vita, con il governo rivoluzionario, gli accordi sanciti in passato da Berlusconi e dal dittatore Gheddafi. Il “trattato di amicizia” generale è stato firmato dal premier Mario Monti il 20 gennaio scorso, con l’intesa di elaborare capitoli specifici per alcuni problemi particolari, come il controllo dell’emigrazione. Ignorati tutti gli appelli, come quello dello storico Angelo Del Boca e di varie organizzazioni umanitarie, di subordinare questa ritrovata “amicizia” e collaborazione alla garanzia del rispetto dei diritti umani nel Paese. Nessun cambiamento di rotta neanche dopo che, il 23 febbraio, la Corte di giustizia europea ha condannato l’Italia per la politica dei respingimenti indiscriminati in mare nei confronti dei migranti, voluta dal ministro leghista Roberto Maroni con il governo Berlusconi. Anzi, il 3 aprile, il nuovo ministro dell’interno Anna Maria Cancellieri, ha firmato un nuovo accordo sull’emigrazione che, rimasto inizialmente semisegreto, si è rivelato quasi la fotocopia di quello “leghista” dei respingimenti e della conseguente consegna dei profughi alle carceri libiche. Il Parlamento non ne ha discusso e la stampa non ne ha parlato, nonostante nel frattempo, il 29 marzo, fosse arrivata una seconda condanna per l’Italia, questa volta da parte del Consiglio d’Europa, per la morte di 63 richiedenti asilo abbandonati alla deriva su un gommone nel Canale di Sicilia. A scoprirne i contenuti è stata Amnesty International, che il 12 luglio ha lanciato una campagna per chiederne la revoca. Pochi giorni prima, il 29 giugno, erano emersi concretamente gli effetti di questa rinnovata intesa, con il blocco in mare, da parte di navi militari italiane e libiche, di un barcone con a bordo 76 richiedenti asilo eritrei e somali, consegnati poi alla polizia di frontiera e trasferiti nel centro di detenzione di Sibrata Mentega Delila, nei sobborghi di Tripoli. Tra loro, anche donne incinte e due bambini di poco più di un anno. Il 4 luglio, il quotidiano La Repubblica, con una decina di testimonianze raccolte sul campo, vere e proprie “voci dall’inferno”, ha testimoniato quali sono le condizioni di vita dei profughi nei lager libici. Sibrata Mentega Delila non fa eccezione. Il dossier di Habeshia, ora, conferma ed amplia quelle “voci dall’inferno”, raccontando il dramma di centinaia di profughi schiavizzati, torturati, uccisi. E, in più, a rischio di deportazione: le autorità libiche vogliono riconsegnarli ai paesi dai quali sono fuggiti per sottrarsi a persecuzioni e guerra, pur essendo noto che in molti casi - per gli eritrei, ad esempio - rientrare dopo aver tentato l’espatrio clandestino comporta la condanna a lunghi anni di carcere o addirittura alla morte, specie se si tratta di militari o giovani comunque in età di leva. Il dossier prende in considerazione tre centri di detenzione: Homs, Tuewsha e Bengasi. La situazione è pressoché identica in tutte e tre le prigioni: un inferno di privazioni e soprusi, violenze continue, negazione di ogni diritto. “Già aver messo in carcere giovani, donne e bambini colpevoli solo di essere fuggiti in cerca di libertà e di una vita migliore, è un abuso enorme - denuncia don Mussie Zerai, presidente di Habeshia - Ma addirittura non si rispetta nemmeno la loro dignità umana: non sono detenuti, sono schiavi in balia di aguzzini che ne dispongono come vogliono”. Gli episodi riferiti carcere per carcere sono eloquenti. Homs. Circa 200 detenuti. “In questi giorni - rivela Habeshia - i militari libici stanno costringendo i profughi a farsi registrare presso le ambasciate dei paesi d’origine. È il preludio all’espulsione: la riconsegna allo Stato che li perseguitava al punto da costringerli a scappare. Si tratta di un atto molto grave, a cui i profughi sono costretti a furia di violenze e in contrasto con ogni diritto internazionale umanitario. La Libia sta violando apertamente, in particolare, la convenzione dell’Unione Africana che tutela i diritti dei profughi e dei richiedenti asilo politico. Tra 150 e 200 uomini e donne vedono violentata ogni giorno la loro dignità umana. Subiscono discriminazioni per motivi religiosi e soprattutto gli uomini vengono picchiati continuamente. Alle donne malate o in stato di gravidanza, bisognose di controlli medici, viene negato qualsiasi tipo di assistenza. Ogni accenno di protesta viene punito. Nelle settimane scorse sono stati uccisi quattro giovani: tre eritrei e un somalo. Un ragazzo eritreo è stato colpito a freddo con un coltello dai militari mentre dormiva, forse per punizione. Contro questa serie di soprusi le donne, alle quali viene impedito anche di lavarsi, hanno organizzato uno sciopero della fame. La protesta è stata repressa selvaggiamente. I militari se la sono presa con un ragazzo come capro espiatorio: prima lo hanno pestato di botte e poi gli hanno sparato, senza alcuna ragione. Vedendo quella scena orribile, molte donne hanno iniziato a urlare e i militari, per ridurle al silenzio, hanno picchiato anche loro e sparato numerosi colpi d’arma da fuoco”. Tuewsha. Oltre 600 profughi. “È uno dei centri di detenzione più affollati - rileva Habeshia. Vi sono rinchiusi 550 uomini (500 somali e una cinquantina di eritrei) e sessanta donne: 50 somale e dieci eritree. Tre delle giovani eritree sono in stato di gravidanza: una ha già superato l’ottavo mese. Tutti, incluse le donne incinte, soffrono per la mancanza di cibo e di acqua. Acqua per l’igiene personale ma persino quella potabile, per potersi almeno dissetare. Molti sono là da oltre sei mesi: sei mesi di continui maltrattamenti. Chi ha tentato la fuga ed è stato ripreso, ha subito pesanti sevizie da parte dei militari di guardia: uno ha perso un occhio per le percosse, altri lamentano invalidità fisiche permanenti”. Bengasi. Quattrocento prigionieri. “Questo centro - si legge nel dossier - è gestito teoricamente dalla Mezzaluna Rossa, ma in realtà comandano i miliziani armati della rivoluzione, che entrano quando vogliono e dispongono dei detenuti a loro piacimento. Diverse donne sono state violentate e almeno 140 uomini sono stati portati via per farli lavorare come schiavi. Anche i più giovani, ragazzini minorenni, non sfuggono alle botte e alle torture. Secondo alcuni testimoni, anzi, i miliziani avrebbero inventato un gioco orribile proprio usando questi ragazzini: una sorta di tiro a segno con bersagli umani. Eviterebbero di colpirli ma anche così, se è vero, resta una forma di tortura orrenda. Per puro, sadico divertimento”. Di fronte a tutto questo, don Mussie Zerai lancia un ennesimo appello alla comunità internazionale. All’Unione Europea perché intervenga sul governo libico. All’Italia perché faccia sentire la propria voce, sospendendo intanto l’efficacia dei trattati appena firmati. Alle agenzie delle Nazioni Unite perché tutti i profughi detenuti vengano liberati al più presto e trasferiti in centri di accoglienza gestiti dalla Commissione Onu per i rifugiati”. “Da una Libia democratica - protesta don Zerai - ci aspettavamo maggiore rispetto dei diritti umani e una seria lotta contro il razzismo nei confronti degli Africani: una lotta serrata contro ogni forma di discriminazione per motivi religiosi, etnici, razziali. Non è in alcun modo comprensibile questo accanimento contro i profughi. Ed appare assurdo, assordante il silenzio della comunità internazionale”. Stati Uniti: Human Rights Watch denuncia torture Cia su detenuti in Afghanistan Adnkronos, 6 settembre 2012 Almeno 14 cittadini libici avrebbero subito torture durante gli interrogatori della Cia mentre erano detenuti in Afghanistan, incluso - in un caso specifico - il ricorso alla tecnica del waterboarding. A denunciarlo è l’ultimo rapporto di Human Right Watch, che raccoglie una serie di testimonianze di cittadini libici trasferiti nei penitenziari del loro paese nel 2004 e rimasti rinchiusi in quelle carceri fino alla rivoluzione che ha deposto l’ex dittatore Muhammar Gheddafi. Le 154 pagine di relazione - di cui riferisce il Washington Post - includono le deposizioni di 14 ex detenuti, che raccontano di aver subito torture dalla Cia. Il rapporto sembra rimettere in questione la tesi da tempo sostenuta dall’agenzia americana che ammettendo pubblicamente il ricorso al waterboarding aveva limitato il numero dei casi in cui questo era avvenuto a tre, relativamente a detenuti tuttora rinchiusi a Guantanamo. “L’agenzia ha dichiarato ufficialmente che ci sono stati tre casi confermati in cui è stata applicata la tecnica del waterboarding” ha chiarito la portavoce della Cia, Jennifer Youngblood, sottolineando come l’agenzia statunitense “non possa commentare le accuse specifiche” mosse dal gruppo di attivisti, ma ricordando che “il dipartimento di Giustizia ha riesaminato gli standard di trattamento di oltre 100 detenuti nel periodo successivo all’11 settembre, rinunciando a procedere in ciascuno di essi”. Russia: oppositrice condannata a otto anni, non aveva voluto testimoniare contro marito Tm News, 6 settembre 2012 Ha presentato appello contro la sua condanna a otto anni di carcere Taisiya Osipova, attivista d’opposizione russa al centro di una controversa vicenda giudiziaria che ha visto l’intervento in suo favore del premier Dmitri Medvedev. “Chiedo che il verdetto sia riconosciuto illecito e ingiusto e che sia respinto” ha detto la legale di Osipova Svetlana Sidorkin. “Chiedo anche che l’indagine penale nei confronti di Osipova sia chiusa”. La donna, 28 anni, diabetica, madre di una bambina di cinque anni, è stata arrestata nel 2010 e condannata a 10 anni di carcere per detenzione di stupefacenti a fine 2011 dopo il ritrovamento da parte della polizia di quattro grammi di eroina nella sua casa di Smolensk. Osipova sostiene che la droga è stata messa nel suo appartamento dalla polizia dopo che si è rifiutata di testimoniare contro suo marito, Sergei Fomchenkov, un leader del movimento d’opposizione Altra Russia. Medvedev, allora presidente, a febbraio ha definito la sentenza “troppo severa”. Poco dopo la Corte d’appello ha stabilito che il processo andava rifatto daccapo. La scorsa settimana la nuova condanna a otto anni di carcere, sulla quale Medvedev ha commentato di non aver cambiato idea.