Giustizia: carceri invivibili, i numeri di un problema esplosivo La Nuova Sardegna, 5 settembre 2012 Quasi 67mila detenuti dove a stento ce ne starebbe la metà. 27 mila non ancora definitivamente condannati (13.600 in attesa di primo giudizio), poco più di 38 mila definitivi, il 36% stranieri (il 50% africani). Le donne oltre 2.800, delle quali 54 con bambini al seguito. I minorenni, negli appositi 17 istituti, 446, di cui 231 stranieri. 25 mila (un dato enorme) i detenuti tossicodipendenti, che in carcere non possono naturalmente essere curati. Vari i reati commessi, ma con larga prevalenza di quelli contro il patrimonio (oltre 33.600), per violazione delle leggi sulla droga (quasi 27.500), contro la persona (oltre 23.000). Sui 67mila lavorano solo 13.922 detenuti. I suicidi sono in costante crescita. Nel 2012 sono stati già oltre 30. Pessime le condizioni dell’edilizia penitenziaria (con situazioni-disastro, tra le quali il carcere di Sassari, tuttora in attesa di chiusura). Insufficiente l’organico degli agenti di custodia. Scarsi i supporti (necessarissimi) di educatori, psicologi, psichiatri. Questo disastroso bilancio è solo in parte corretto dai pur lodevoli provvedimenti che prima il governo del centrodestra (meno) e poi, con maggiore determinazione, il ministro della Giustizia Severino hanno assunto nel corso della attuale legislatura. Con difficoltà d’attuazione, per altro. Ottima la legge sul divieto dei bambini in carcere, ma entrerà in vigore solo nel 2014. Interessante il provvedimento per le case famiglia destinate a detenute con prole, ma mancano i fondi per realizzarlo. Buona la legge svuota-carceri, che tra l’altro prevede di far scontare ai domiciliari l’ultima parte della pena, ma poco applicabile ad esempio alla grande platea degli stranieri, spesso senza dimora. Bene l’insistenza su semidetenzione, misure alternative, libertà anticipata, ma per ora efficaci solo su minoranze. E quanto al capitolo fondamentale, la depenalizzazione di un codice che - grazie soprattutto all’accanimento del centrodestra - si è andato riempiendo in questi ultimi anni di nuovi reati e aggravandosi nel dosaggio delle pene, siamo, nonostante i buoni propositi, ancora fermi al palo. E intanto le carceri scoppiano. I radicali propongono con forza l’amnistia. Provvedimento estremo, forse ormai da non scartare, data la scandalosa violazione della Costituzione cui stiamo assistendo. Ma chiaramente, anche, un provvedimento-tampone, provvisorio. Almeno se non lo si accompagna con una seria, innovativa politica carceraria. Cristina Cabras, che studia da anni questi problemi dal punto di vista della criminologa, indica gli esempi stranieri. In Inghilterra - dice - molti controlli sono stati affidati a mezzi tecnologici, il personale di custodia è ridotto al minimo, ma soprattutto si punta molto di più che da noi all’inclusione sociale dei detenuti (a Cagliari per altro è in atto un interessante esperimento, “Gagli-Off”, basato sulla valorizzazione del profilo psicologico in vista dell’inserimento lavorativo). In Inghilterra 220 mila detenuti scontano pene alternative e solo 80 mila stanno in carcere. Un altro mondo, insomma. Ma in Italia simili scelte godono di poco consenso. Intanto ci sono le gravi colpe della politica, che spesso diffonde germi “carcerogeni”, facendo credere che basti il tintinnio delle manette per avere più sicurezza. Non è così, perché la paura della detenzione non funziona quasi mai come deterrente. Poi c’è la pigrizia della società, compresi i tanti interessi corporativi di chi nel sistema attuale ci ha fatto il nido e ne trae bene o male qualche rassicurante beneficio. Ma soprattutto c’è la cultura sbagliata delle istituzioni, che puntano tutto sulla penalizzazione, quando invece bisognerebbe fare esattamente l’opposto. Senza soldi si può far poco, d’accordo. Ma senza idee nuove è certo che non si fa niente. Giustizia: violenza, non-violenza e… televisione di Valter Vecellio Notizie Radicali, 5 settembre 2012 Nel giro di pochi giorni si sono verificati due fatti di grande rilievo politico, e che avrebbero dovuto avere anche un rilievo mediatico, che invece non c’è stato. Mi riferisco all’iniziativa che Marco Pannella ha definito “la battitura della speranza”, di giovedì scorso. Battitura che ha avuto luogo in decine di carceri, ha coinvolto centinaia, migliaia di detenuti; e che si collega all’altra grande, straordinaria iniziativa di nonviolenza di massa che sono stati i quattro giorni di digiuno e di silenzio di metà luglio; iniziativa che ha coinvolto parecchie migliaia di persone dentro e fuori il carcere. Rari i servizi televisivi, ancora più rare le cronache sui giornali; nessuno dei pur numerosi editorialisti, commentatori, titolari di rubrica, che pure intervengono su tutto e di più, che abbia prestato la benché minima attenzione a queste due iniziative di nonviolenza di massa. È una riflessione che abbiamo già fatto. Se per esempio qualche militante del movimento No Tav si abbandona a gesti violenti, se durante un corteo si incendiano automobili, cassonetti dell’immondizia o vetrine di banche e agenzie interinali vengono infrante; o peggio, se degli sciagurati come periodicamente accade, inviano pacchi esplosivi o feriscono alle gambe dirigenti di azienda e imprenditori, i mezzi di comunicazione per giorni e giorni diffondono i e i documenti dei violenti, ne propagandano i comunicati e le parole d’ordine; se invece delle gesta sconsiderate di pochi isolati, si tratta di grandi iniziative nonviolente, le si mortifica ignorandole; il comportamento violento viene premiato con il massimo della visibilità; quello del nonviolento censurato. Non è esagerato, credo, sostenere che i responsabili di questo modo di fare, sono complici dei violenti. Questo, naturalmente, non ci deve far desistere dalla pratica nonviolenta, al contrario; occorre essere più ostinati, determinati, convinti della giustezza non solo della causa, ma anche del mezzo, della pratica utilizzate. Però dobbiamo esserne consapevoli e cercare le contromisure. Una settimana fa, per esempio, su “Notizie Radicali” abbiamo pubblicato un lungo e articolato saggio del nostro compagno Claudio Radaelli, “Quale nonviolenza per quale teoria politica?”, una riflessione preziosa, di cui fare tesoro. E sarebbe auspicabile che altri prendano il filo di quella riflessione, e diano altri contributi. A proposito di contributi. Da oggi ha cominciato a collaborare a “Notizie Radicali” anche Roberto Deriu, presidente della provincia di Nuoro, militante del PD. “Sono cento per cento popolare, democratico e radicale”, dice Roberto; e questo suo essere “trino” sarà un prezioso arricchimento per tutti. Giustizia: nascere in carcere… e rimanerci di Valentina Ascione blogdellagiustizia.it, 5 settembre 2012 Bambini dietro le sbarre nel San Sebastiano di Sassari. La denuncia di Maria Grazia Caligaris. Ma per il Ministero non ci sono i soldi per aprire un Icam (Istituto a custodia attenuata per mamme con prole), come in altre città, ad esempio Milano. Due bambini sono appena tornati in libertà, fortunatamente. Ma fino a pochi giorni fa erano ben quattro i piccoli reclusi con le proprie madri, in un’unica cella nido nel carcere di San Sebastiano a Sassari. Uno di loro è venuto alla luce da una sola settimana, o poco più: un amaro fiocco azzurro per una detenuta con al seguito già un altro figlio. Il caso era stato sollevato lo scorso luglio dal deputato sardo Mauro Pili, al termine di una visita ispettiva in cui aveva denunciato l’assenza d’acqua nel braccio di reclusione - circostanza affatto trascurabile in giorni tra i più caldi dell’ultimo decennio - e l’assenza di culle per i neonati. Così la presidente dell’Associazione Socialismo Diritti Riforme Maria Grazia Caligaris ha preso carta e penna e ha scritto al ministro della Giustizia Severino per segnalarle la situazione: “riteniamo che l’Istituto di pena di Sassari, per le caratteristiche strutturali e igienico-sanitarie a Lei ben note, non sia il luogo ideale per far crescere delle creature così piccole”. Non è un segreto per nessuno, infatti, che il San Sebastiano, costruito ai tempi dell’Unità d’Italia, sia uno degli istituti più fatiscenti del Paese. Inoltre, scrive ancora Caligaris: “siamo convinti che non sussistano elementi tali da far ritenere queste madri talmente pericolose da non poter trovare sistemazione in un’altra struttura protetta, in grado di offrire a bambini innocenti esperienze di vita meno degradanti e pericolose per la loro salute fisica e psichica”. I danni della detenzione in carceri malsane e sovraffollate, come quelle italiane, sono evidenti e sempre più gravi. E si traducono nella lunga scia di morti che attraversa questo come gli anni precedenti. Se dunque la galera fa male agli adulti, figuriamoci con quali effetti disastrosi può ripercuotersi sulla vita un bambino cui vengono negate le prime fondamentali attività esperienziali. “La permanenza in carcere provoca, anche in bimbi piccolissimi, dei traumi che si manifestano in momenti successivi - continua Maria Grazia Caligaris - e l’idea che gli eventi registrati nei primi giorni e anni di vita non restino nella memoria è stata ormai abbondantemente superata dagli studi di neuropsichiatria infantile. E seppure vi fossero dubbi, resta il fatto che la coabitazione in ambienti igienicamente non idonei è un fatto gravissimo, vergognoso per il nostro Paese”. Vergognoso, sì. Eppure i bimbi dietro le sbarre in Italia sono ancora alcune decine, tra i 50 e i 60. Figli per lo più di detenute rom e tossicodipendenti, colpevoli di reati di bassa pericolosità. Donne sole, magari disperate, che accettano di tenere i figli al loro fianco, in cella, pur di non correre il rischio di perderli. Visitando il carcere di Sollicciano, lo scorso inverno, il ministro Severino commentò commossa che “vedere i piccoli dietro le sbarre è straziante”, ma la legge varata più di un anno fa sulle detenute madri fissa al 2014 l’istituzione di nuovi Istituti a custodia attenuata per mamme con prole (Icam), come quello che è operativo a Milano. Anticipare la data del 2014 non si può - così viene detto - per mancanza di risorse; tuttavia i dubbi sulla copertura finanziaria restano e nessuno sa cosa accadrà davvero dopo quel termine. Solo una questione di soldi, dunque? Non per Maria Grazia Caligaris, che da consigliere regionale era riuscita a far approvare un emendamento che finanziava l’allestimento di un Icam in Sardegna. Il ministero però, ci racconta Caligaris, ha risposto picche: il numero di detenute con prole in Sardegna è irrisorio rispetto ai costi che comporterebbe una struttura del genere. In parole povere, non ne vale la pena. Nemmeno se ci si limitasse ad attivare la struttura solo all’occorrenza, come propone Caligaris. Quel che conta sono i numeri. È il risparmio, anche di diritti. Giustizia: i giudici tolgono i figli ai boss di ‘ndrangheta di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 5 settembre 2012 L’affido fuori dalla Calabria: “Meritano un altro destino”. Provvedimenti senza precedenti del Tribunale dei minorenni di Reggio Calabria: togliere i figli adolescenti alle famiglie di ‘ndrangheta per sottrarli a un altrimenti ineluttabile destino mafioso e affidarli al servizio sociale in comunità fuori dalla Calabria per dare loro almeno una chance di conoscere un modo diverso di vivere e pensare. Anche prima di sentenze definitive per i famigliari, e persino anche in caso di assoluzione dei ragazzi, i giudici stanno infatti sperimentando provvedimenti di natura civile in presenza di “contesti famigliari permeati da valori “tribali” e da una subcultura di travisato senso dell’“onore” e del “rispetto”“. Togliere i figli minorenni alle famiglie di ‘ndrangheta per sottrarli a un altrimenti ineluttabile destino mafioso e affidarli al servizio sociale in comunità fuori dalla Calabria per dargli almeno una chance di conoscere un modo diverso di vivere e pensare: è la linea senza precedenti che il Tribunale dei minorenni di Reggio Calabria sta sperimentando con alcuni provvedimenti di natura civile, adottati anche “d’urgenza” e “inaudita altera parte”, cioè senza contraddittorio con le famiglie-controparti, differito a un secondo momento in presenza di emergenze improcrastinabili e rischi per l’integrità psico-fisica dei minori da tutelare. È una scelta che terremota il contesto ‘ndranghetista nel quale a cementare le “famiglie”, ancor più che nelle cosche siciliane di Cosa Nostra o nei clan di camorra, sono i vincoli di sangue alla base anche del basso numero di collaboratori di giustizia (se uno sfiora l’idea di pentirsi, sa che i primi di cui dovrà parlare saranno i suoi genitori, figli, fratelli). E difatti non è un caso che fermenti di insofferenza e un clima di percepibile paura stia avvolgendo queste nuove iniziative della giustizia minorile reggina: al punto che alcuni assistenti sociali si sono già dati malati pur di non dover presentarsi a casa dei boss a eseguire i provvedimenti decisi dal tribunale. Non si tratta della decadenza dalla potestà sui figli minori che talvolta viene dichiarata dai giudici, come pena accessoria a una sentenza definitiva, quando un boss viene condannato per associazione mafiosa o altri gravi reati: per quanto rari, casi di questo genere si sono già verificati in Calabria almeno dal 2008, quando un grosso latitante si vide privare della potestà sui due piccoli figli. Adesso è molto più anticipata, e perciò anche molto più delicata, l’inedita frontiera aperta invece dal giudice Roberto Di Bella, 48 anni, messinese, da 10 mesi presidente dell’ufficio dove per 13 anni era già stato gip alle prese con 50 omicidi commessi da minorenni e dove ha ritrovato ormai al 41 bis o all’ergastolo molti degli adolescenti conosciuti in passato. Lo dimostra, ad esempio, la misura adottata per un ragazzo di 16 anni, rampollo di una delle più potenti famiglie di ‘ndrangheta, pizzicato con altri amici attorno a un’auto danneggiata della Polizia ferroviaria di Locri. Il processo per furto e danneggiamento era finito con l’assoluzione per carenza di prove, ma nell’ambito di quelle carte il Tribunale dei minorenni ha messo in fila le tessere di un disastroso mosaico familiare: il padre fu ucciso in un agguato mafioso, i fratelli sono stati tutti arrestati e condannati per associazione mafiosa e omicidi, l’adolescente è segnalato spesso a tarda notte in compagnia di pregiudicati, infila assenze a raffica a scuola da cui infine viene ritirato, parla di sé “con una certa rassegnazione a una vita segnata”, la madre “non appare idonea a contenerne la pericolosità come comprovato dalla sorte degli altri figli”, e “neppure il contesto parentale allargato” (nonni, zii) “offre garanzie per l’educazione del giovane”, avendo la “famiglia” di appartenenza “un ruolo di spicco nella criminalità organizzata del territorio di residenza”. Questo quadro induce i giudici Di Bella e Francesca Di Landro a emettere, su richiesta del pm minorile Francesca Stilla, “un provvedimento limitativo della potestà genitoriale”; a nominare al 16enne un curatore speciale, visto “il conflitto di interessi tra lui e la madre incapace di indirizzarlo al rispetto delle regole civili e tutelarlo”; e a ritenere “indispensabile affidare il minore al servizio sociale per inserirlo subito in una comunità da reperirsi fuori dalla Calabria, i cui operatori professionalmente qualificati siano in grado di fornirgli una seria alternativa culturale”. Per i giudici minorili, infatti, “è l’unica soluzione per sottrarre” il 16enne “a un destino ineluttabile, e nel contempo consentirgli di sperimentare contesti culturali e di vita alternativi a quello deteriore di provenienza”, nella speranza “possa affrancarsi dai modelli parentali sinora assimilati”. Obiettivo che il tribunale persegue ricorrendo a norme che vanno dall’articolo 25 del regio decreto del 1934 all’articolo 330 del codice civile, sino alla Convenzione di New York “nella quale è sottolineato il principio che la famiglia deve educare il minore ai principi di pace, tolleranza, dignità e solidarietà”. I ricorsi delle famiglie contro il nuovo corso, che Di Bella vorrebbe peraltro rendere meno episodico e più organico aprendolo a una sorta di protocollo d’intesa con gli altri uffici giudiziari calabresi, sono stati aspri. Ma nell’unico sinora deciso, la Corte d’appello ha respinto il reclamo e confermato l’affidamento ai servizi sociali in una comunità fuori Calabria dei tre bambini di Maria Concetta Cacciola, “usati dai nonni come strumento di ricatto” sulla giovane collaboratrice di giustizia costretta a registrare in un video una falsa ritrattazione e infine uccisasi con l’acido muriatico: “Pressante è l’esigenza di allontanare i tre minori dal contesto familiare permeato da dinamiche malavitose, e comunque da valori “tribali” improntati a una subcultura con un travisato senso "dell’onore" e del “rispetto“. Giustizia: caso Cucchi; documento medico conferma, lesione vertebrale è del 2003 Ansa, 5 settembre 2012 Mentre si è in attesa dei risultati della maxi perizia affidata dalla Terza Corte d’assise di Roma per stabilire la causa della morte di Stefano Cucchi, il geometra di 31 anni fermato a Roma il 15 ottobre 2009 per droga e morto una settimana dopo all’ospedale ‘Sandro Pertini’, i pm non si fermano e continuano a cercare documenti in grado di fare chiarezza su uno dei punti più dibattuti dalla vicenda: la datazione della lesione lombare trovata sul corpo del giovane nel corso dell’autopsia. Per i consulenti della parte civile la lesione sarebbe contestuale al pestaggio che il giovane avrebbe subito il 16 ottobre 2009 divenendo causa scatenante del precipitare delle sue condizioni; per i consulenti della difesa, invece, non ci sarebbero dati certi che depongano a credere che la frattura a livello lombare fosse da trauma recente. Adesso è stato messo a disposizione delle parti un ulteriore documento medico datato 22 settembre 2003 (quasi sei anni prima della morte di Cucchi) che attesta un ricovero presso l’ospedale di Marino in seguito a un incidente stradale. Nello stesso, i medici attestato una diagnosi precisa: “trauma lombare con frattura amielica di L3”, ovvero proprio nella zona lombare. Attestazione, questa confermata da un ricovero conseguente all’ospedale di Ostia. Fatti, questi, che, aggiunti a un altro certificato medico che, risalente allo 25 agosto 2003, vedrebbe Cucchi all’ospedale Sandro Pertini per dolori lombari in seguito a una caduta accidentale. I referti, quindi, confermerebbero la tesi della Procura e degli agenti della Polizia penitenziaria imputati (uno dei quali difeso dall’avvocato Diego Perugini), secondo la quale Cucchi non morì per quella lesione ma per la negligenza di chi lo ebbe in cura. Tant’è che sotto processo, a vario titolo e a seconda della posizioni, ci sono dodici persone: sei medici, tre infermieri e tre agenti penitenziari. Il 19 settembre prossimo, nuova udienza del processo: i tecnici nominati dalla Corte dovranno rendere noti i risultati della loro perizia, ma non è escluso che chiedano una nuova proroga dei termini per il deposito. Giustizia: caso Cogne; rifiutata la detenzione domiciliare ad Annamaria Franzoni Ansa, 5 settembre 2012 Annamaria Franzoni condannata a 16 anni di carcere per l’omicidio di suo figlio Samuele Anna Maria Franzoni rimane in carcere. Il tribunale di Sorveglianza di Bologna ha negato i domiciliari alla donna condannata nel 2008 a 16 anni di reclusione per il delitto del figlio Samuele. La Franzoni aveva chiesto di scontare a casa il residuo della pena per assistere uno dei due figli. Ma i giudici hanno detto no perché decaduta dalla potestà genitoriale. Già un mese fa la Cassazione aveva negato alla Franzoni la possibilità, per almeno i prossimi quattro anni, di poter usufruire di permessi premio per uscire dal penitenziario di Bologna dov’è reclusa. Il motivo, spiegava la Cassazione, erano le regole fissate dall’Ordinamento penitenziario nei confronti dei detenuti pericolosi e la gravità del reato commesso. Secondo la Prima sezione penale della Suprema Corte, a carico della Franzoni opera il principio della “preclusione temporale”, in relazione alla pena finora espiata, per poter provare a chiedere di trascorrere tre giorni al mese con la famiglia. Per i reati gravi come quello per il quale è stata condannata la “mamma di Cogne”, rilevava la Cassazione, i detenuti, al pari di chi viene condannato per mafia e terrorismo, devono aspettare di aver scontato in carcere “almeno metà della pena”. Rispetto ai sedici anni ai quali ammonta la condanna, la Franzoni deve scontare ancora dodici anni e tre mesi. Quindi dovrà attendere circa quattro anni per tentare di uscire dalla cella. Giustizia: confermato il carcere per Luigi Lusi, “il Senatore è ambiguo e reticente” Il Sole 24 Ore, 5 settembre 2012 Il tribunale del Riesame di Roma ha confermato il carcere per il senatore Luigi Lusi. Nell’udienza svoltasi il 31 agosto i pubblici ministeri si erano detti favorevoli alla concessione degli arresti domiciliari. Ma ieri il riesame ha ribadito che l’ex tesoriere della Margherita deve restare rinchiuso a Rebibbia. La sentenza arriva dopo la pronuncia della Corte di Cassazione che aveva annullato, con rinvio, la decisione del tribunale della libertà sulla custodia carceraria per Lusi. Secondo gli inquirenti gli arresti domiciliari si sarebbero potuti svolgere in un convento abruzzese. I difensori del parlamentare, gli avvocati Luca Pe-trucci e Renato Archidiacono, non avevano formalizzato l’istanza ai giudice delle indagini preliminari in attesa della decisione del Riesame. Lusi è in cella a Rebibbia dal 20 giugno scorso, dopo il via libera al suo arresto pronunciato dall’aula del Senato. Il senatore è accusato, assieme ad altre persone tra cui anche la moglie Giovanna Petricone, di associazione a delinquere finalizzata all’appropriazione indebita. Nel corso dell’indagine il senatore è apparso “ambiguo, reticente e volutamente confuso” scrive il tribunale del Riesame, presieduto da Renato Laviola, nelle motivazioni. Secondo il tribunale la richiesta di scarcerazione o di arresti domiciliari avanzata dai difensori di Lusi non può essere accolta anche perché sussiste “il pericolo di inquinamento delle prove”. Nel provvedimento di motivazioni in cinque pagine i giudici scrivono che nel corso dei suoi interrogatori con i magistrati Lusi “non ha mostrato alcuna resipiscenza”. L’ex tesoriere della Margherita, insomma, non avrebbe fornito ai pm alcun aiuto per la ricostruzione dei fatti. Alla luce di questo quadro indiziario i giudici scrivono che “non c’è allo stato un luogo alternativo al carcere” che possa impedire l’inquinamento delle prove. La decisione di ieri in un certo senso sembra consolidare l’impianto accusatorio dei pm di Roma. Le loro indagini proseguono su altri due milioni di assegni liberi. Al momento gli inquirenti avrebbero tracciato oltre 25 milioni di euro usciti dalla casse della Margherita e finiti nella disponibilità di Lusi. I pubblici ministeri nel giro di qualche settimana dovrebbero concludere gli accertamenti con il deposito degli atti. Il procuratore aggiunto Alberto Caperna e il pm Stefano Pesci attendono che il consulente consegni la relazione definitiva sui soldi che sono stati sottratti alla Margherita. “Si ha la sensazione che la misura in corso non rappresenti null’altro che una sorta di esecuzione anticipata della pena prima del processo” hanno affermato in una nota i difensori di Lusi. Per i legali il Riesame ha ritenuto la sussistenza delle esigenze cautelari “senza indicare in concreto alcun elemento di fatto che possa, in qualche misura, dimostrare la necessità di mantenere la misura in corso. Il ragionamento del tribunale - dice la nota - introduce un pericolosissimo principio in base a quale dovrebbe essere l’indagato a fornire elementi che possano dimostrare l’insussistenza di qualsivoglia esigenza cautelare”. Aggiungono gli avvocati che il tribunale della libertà ha “addirittura affermato l’attualità del pericolo di fuga nonostante il senatore abbia da tempo depositato in procura il suo unico passaporto”. Intanto Francesco Rutelli, per il quale “nessuno può rallegrarsi della detenzione in carcere di un’altra persona”, annuncia: “Inizieranno adesso, da parte delle vittime, le attività per il risarcimento dei danni” visto che emergerebbe la “chiarezza inequivocabile” delle “attività di calunnia, di inquinamento delle indagini e depistaggio mediatico” e anche delle “attività di associazione per delinquere e ruberie di cui è stata vittima la Margherita”. Lettere: c’è chi non ha più una speranza e la cerca nell’aldilà di Carmelo Musumeci (detenuto nel carcere di Padova) Il Mattino di Padova, 5 settembre 2012 “La legge è fatta esclusivamente per lo sfruttamento di coloro che non la capiscono, o ai quali la brutale necessità non permette di rispettarla”. (Bertolt Brecht) Sull’Osservatorio permanente sulle morti in carcere leggo: “Il luglio più “nero” per le carceri italiane, morti 13 detenuti e 3 poliziotti penitenziari”. E si continua a non fare nulla. E i buoni continuano a divorarsi l’ostia della Comunione la domenica durante la Santa Messa. Il Papa Benedetto XVI continua a parlare a vuoto, quando chiede di pregare perché i carcerati siano trattati con giustizia e venga rispettata la loro dignità umana” (Radio Vaticana 28 luglio 2012). I politici e i partiti si preparano per imbrogliare ancora una volta gli elettori per la prossima legislatura. I burocrati di Stato, i colletti bianchi, i faccendieri si preparano anche per il prossimo anno a fare più soldi e a diventare persone più importanti. I mass media aspettano l’autunno per parlare di sport, di politica e di corna. E sono pochi quelli che scrivono e dicono che le carceri in Italia sono diventate dei lager, dei luoghi di morte, d’illegalità e d’infamia dello Stato. Tento di farlo io, che sono anche quello che i “buoni” hanno voluto che fossi: un uomo ombra. Un cattivo, colpevole per sempre. E mi piace ricordare ai buoni, che sono aldilà di queste mura, che per noi prigionieri toglierci la vita in carcere è una vittoria, invece per voi è una sconfitta perché se solo ci amaste un pochino forse potreste salvare la vita di tanti detenuti. Abbiamo bisogno di speranza, ma nessuno ce la dà, per questo molti di noi preferiscono trovarla nell’aldilà. Lettere: l’estate terribile delle nostre carceri di Daniele Marchi (Responsabile Area Giustizia Cooperativa L’Ovile) La Gazzetta di Reggio, 5 settembre 2012 Cinque detenuti impiccati, 3 poliziotti penitenziari suicidi con la pistola di ordinanza, 1 internato nell’Opg di Aversa ucciso dal compagno di cella (gli ha dato fuoco con la bombola del gas), 1 detenuto morto nel carcere di Siracusa dopo 25 giorni di digiuno, 1 internato nell’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto asfissiato con il gas, altri 5 carcerati deceduti per non meglio precisate “cause naturali”. La fonte è il dossier Morire di carcere curato, tra gli altri, dal gruppo di Ristretti Orizzonti (www.ristretti.it) che dal 2000 “tiene il conto” delle morti nelle patrie galere (92 dall’inizio dell’anno di cui 32 suicidi). I 16 decessi elencati sono tutti avvenuti nel mese di luglio 2012. Il mese peggiore degli ultimi 12 anni. Questa è l’ennesima brutta notizia che viene da una parte di società in emergenza-ordinaria ormai da anni; un luogo che spesso sentiamo chiamare “pianeta carcere” quasi a volerlo ulteriormente distanziare (qualche anno luce) dalla quotidianità di chi è “fuori”. Ma il “dentro” ci riguarda e ci deve interessare non per compassione, ma per giustizia. I “tecnici” pare lo sappiano. Il ministro Severino in primis ha più volte sollecitato i “politici” della Commissione Giustizia della Camera a trovare una corsia preferenziale per quel disegno di legge sulle misure alternative alla detenzione, affidato al loro esame. Il neo capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Tamburino e il suo vice Pagano, sono persone attente. Quel che serve è una riforma strutturale dell’intero sistema penal-penitenziario con depenalizzazioni e diversificazione della risposta sanzionatoria che veda nel carcere l’extrema ratio. Tutto questo, pur essendo un’enormità, non basterebbe. Serve un cambio culturale nelle diverse componenti del tessuto sociale, che sappia guardare ai reati come qualcosa che riguarda, seppur in modo chiaramente diverso, tanto chi li commette, quanto chi li subisce e la comunità che li “ospita”; una cultura che vinca la tentazione di un illusorio “buttar via la chiave”, nei fatti impraticabile, inefficace ed inefficiente; una cultura del diritto che sappia rispettare tutte le vite: anche quelle dei criminali. Dobbiamo ridirci che è disumano, “contrario al senso di umanità” (art. 27, comma 3 Costituzione Italiana), vivere in cubi di cemento gelidi di inverno e roventi d’estate; stipati peggio dei polli in letti a castello di tre piani che riservano all’inquilino del terzo 15cm d’aria affumicata; spesso lontani dai pochi affetti rimasti; spesso ammalati nel corpo o nella mente. Dobbiamo indignarci. Questo non ha nulla a che fare con la pena perché non ha nulla a che fare col diritto. Rimane quell’abisso tra realtà penitenziaria e dettato costituzionale già denunciato dal Presidente Napolitano il luglio di un anno fa, ad un convegno organizzato dai Radicali. Abisso nel quale sono caduti 13 detenuti e 3 agenti di polizia penitenziaria in un solo mese. Il più caldo e il più triste. Cagliari: Schirru (Pd); sul carcere di Uta intervenga il ministro Severino Agenparl, 5 settembre 2012 “In una nota inviata al Ministro della Giustizia Severino ho sollecitato un incontro con la Provincia e i Sindacati affinché si trovi una soluzione all’annosa vertenza dell’appalto per il nuovo Istituto Penitenziario di Uta. Stamane ho incontrato i lavoratori dell’azienda Opere Pubbliche in mobilitazione che chiedono, ancora una volta, il rispetto dei contratti e il pagamento degli stipendi arretrati. Queste persone, nonostante i ritardi nelle provvidenze dovute loro, si sono adoperate con indicibile dignità e senso di responsabilità e hanno continuato a lavorare, anticipando finanche le spese di trasporto, pur di garantire finora le prestazioni e consentire il prosieguo dei lavori in cantiere. All’incontro erano presenti le tre organizzazioni sindacali Cgil, Cisl, Uil e l’Assessore Provinciale alle Politiche del Lavoro Lorena Cordeddu ed unitariamente abbiamo ritenuto di stare al fianco dei lavoratori nel sostenere il loro diritto alla giusta remunerazione, vitale per il sostentamento personale e delle proprie famiglie. Si tratta di una situazione difficile e complessa, per la quale avevamo già espresso le nostre preoccupazioni con diverse interrogazioni, ancora in attesa di risposta, e che non si risolverà con il solo pagamento degli oneri pregressi. Mancano materiali e attrezzature, pignorati per le inadempienze verso i fornitori e creditori. Inoltre, con il protrarsi dei lavori e se non s’interviene con urgenza, anche le parti dell’Istituto completate o in procinto di esserlo (lavanderia, sale ricreative, infissi…) avranno da subito bisogno di significativi interventi di manutenzione , con quel che è facilmente immaginabile possa derivarne, in termini di costi e di tempistiche. Ho pertanto chiesto al Ministro che intervenga, perché si affidi al Commissario Straordinario per l’Edilizia Penitenziaria il potere di attivare decreti e provvedimenti aggiuntivi con i quali sanare la situazione, sbloccare i pagamenti ma, soprattutto, consentire all’impresa in difficoltà di poter chiudere i lavori e concludere l’opera in sicurezza e senza ulteriori aggravi di spesa. È evidente che dobbiamo evitare il sopraggiungere di nuove difficoltà, come il blocco totale dei lavori con le disoccupazioni conseguenti , e/o la concessione degli ennesimi ammortizzatori sociali. Si tratta di emergenze che la Regione Sardegna e i nostri lavoratori non sono più in grado di sopportare. Per questo, coinvolgeremo anche il Ministro del Lavoro affinché si apra un tavolo nazionale per la risoluzione positiva della vertenza in atto”. Lo dichiara l’On. Amalia Schirru (Pd). Sassari: omicidi in carcere; “Pino Vandi ordinò un altro delitto” di Elena Laudante La Nuova Sardegna, 5 settembre 2012 Dopo il detenuto di San Sebastiano Marco Erittu, Pino Vandi avrebbe provato ad eliminare un altro recluso, che credeva infame. Si tratterebbe - secondo la ricostruzione dei carabinieri di Nuoro - di quel Francesco Marongiu (in carcere per spaccio) che poi testimonierà, in altro processo, contro il carabiniere algherese Francesco Silanos, sotto accusa per traffico di droga. La storia di Erittu, soffocato nella cella “bianca” del braccio promiscui, il 18 novembre 2007, forse perché conosceva i segreti di Vandi, si arricchisce di nuovi retroscena che emergono dagli atti dell’inchiesta per omicidio sulla sua fine, dal primo ottobre al vaglio della corte d’Assise di Sassari. Davanti alla giuria popolare si presenteranno i sei imputati, con accuse diverse: il reo confesso Giuseppe Bigella, che si dice esecutore materiale dell’omicidio; il presunto mandante, il sassarese Pino Vandi; l’allora detenuto Nicolino Pinna e l’agente della Penitenziaria Mario Sanna. E i due colleghi sospettati di favoreggiamento: Gian Franco Faedda e Giuseppe Sotgiu. Sullo sfondo di questo processo aleggiano ombre terribili: quella del sequestro del farmacista di Orune, Paolo Ruju (1992), e l’omicidio del muratore di Ossi, Giuseppe Sechi (1993), del quale Erittu voleva parlare. Forse, proprio per accusare Vandi. Dalle carte di questo processo, si diceva, emergono spaccati di vita carceraria rivelati da Bigella, le cui testimonianze sono anche alla base di un’altra inchiesta, quella su un sospetto traffico di droga tra le celle di San Sebastiano. E proprio Bigella racconta a verbale di un particolare inquietante, che gli investigatori citano per ribadire “l’attendibilità” del grande accusatore di Vandi. Quarantanove anni, l’esponente di spicco della criminalità sassarese avrebbe progettato l’omicidio di Marongiu, all’epoca - fine estate 2008 - “suo uomo”, assicura Bigella a verbale. Proprio perché detenuto sotto la sua ala, Marongiu doveva rispettare la consegna del silenzio davanti agli inquirenti, quella legge non scritta che condanna senza appello i pentiti. Quattro anni fa, Marongiu decise di infrangere il codice. E parlare con la magistratura. Non era chiaro, forse all’epoca, che il futuro pentito avrebbe “collaborato” nel processo contro il carabiniere Silanos, che nulla ha a che fare con la storia di Erittu e Vandi. Questo, Vandi, forse non poteva saperlo. O forse non aveva importanza. Ecco perché “quando seppe che Marongiu stava collaborando con la magistratura - si legge nell’informativa dei carabinieri di Nuoro alla Dda di Cagliari - Vandi ne progettò e ordinò l’uccisione”. La circostanza viene ritenuta attendibile dagli investigatori coordinati dal pm distrettuale Giancarlo Moi e del collega di Sassari, Giovanni Porcheddu. Non solo perché ne parla Bigella - teste già “sondato” e valutato da giudici preliminari e del Riesame. Ma perché venne ritrovata quella che sarebbe dovuta essere l’arma del delitto. “Dell’omicidio - proseguono i carabinieri - venne incaricato lo stesso Bigella, in quanto già ne aveva commesso uno (il riferimento è al presunto omicidio su commissione di Erittu, ndc) al quale venne messo a disposizione un coltello artigianale, occultato nelle docce”. Ma Bigella - che a novembre 2008, poche settimane dopo, renderà le prime confessioni al pm Porcheddu - “temporeggiò e quindi dell’omicidio venne incaricato un altro detenuto”, anche lui uomo di fiducia di Vandi. Ma a quel punto, “la notizia trapelò, il coltello venne rinvenuto e l’omicidio premeditato dal Vandi non andò a buon fine”. Marongiu - e siamo a settembre 2008 - venne tutelato e trasferito in infermeria. Ovviamente questo episodio non ha alcuna ripercussione penale, non c’è reato se pure il delitto tentato abortisce. Ma è un elemento che gli inquirenti inseriscono tra gli atti d’accusa contro il presunto regista del delitto di San Sebastiano per sottolinearne una supposta capacità “omicidiaria”, la facilità con la quale avrebbe potuto decidere del destino di altri essere umani, da recluso in un carcere di Stato. Bigella lo spiega con la solita accusa, che poi spiegherebbe anche la quantità di droga - hashish e cocaina - che sarebbe circolata tra i bracci, in quel periodo. E cioè la “collusione” - scrivono i militari - di alcuni appartenenti alla polizia penitenziaria, agenti che per la gran parte non sono più in servizio, perché trasferiti dopo procedimenti disciplinari o andati in pensione. Ma questa è un’altra inchiesta: a breve la procura di Cagliari completerà gli accertamenti sull’operazione “Casazza”, che a giugno scorso aveva portato a sette arresti per associazione a delinquere finalizzata al traffico di droga. I sette erano tutti detenuti con un passato di piccoli e grandi reati. Ai pm resta da formalizzare le accuse verso gli ex agenti che quei traffici e le “libertà” di alcuni detenuti, avevano permesso. Sulmona (Aq): detenuto scarcerato per favismo; direttore rimosso, inchiesta archiviata Adnkronos, 5 settembre 2012 Venne scarcerato per favismo e il Ministero della Giustizia avviò un’indagine sui giudici che decisero di rimandare a casa Michele Aiello, l’ex re Mida della Sanità, oggi sessantenne, ritenuto prestanome del boss Bernardo Provenzano. Adesso, come riporta il Giornale di Sicilia, è stata archiviata l’indagine ministeriale sulla concessione della detenzione domiciliare al manager della sanità condannato a 15 anni e mezzo per associazione mafiosa e corruzione e uscito dal carcere, alla fine del febbraio scorso, proprio perché affetto da una forma di favismo. I giudici, nel provvedimento, avevano scritto di avere deciso la scarcerazione perché il vitto carcerario di Sulmona prevede solo fave e piselli. Adesso Aiello è agli arresti domiciliari nella sua villa nei pressi di Bagheria (Palermo). Già trasferito direttore carcere È stata soltanto parziale l’archiviazione dell’indagine ministeriale sulla scarcerazione del manager della sanità siciliana Michele Aiello, al quale il tribunale di sorveglianza dell’Aquila aveva concesso, lo scorso febbraio, la detenzione domiciliare per un anno per l’aggravarsi delle sue condizioni di salute in quanto affetto da favismo. Già lo scorso maggio il direttore del carcere di Sulmona, Sergio Romice, è stato trasferito, sottoposto a provvedimento disciplinare e sostituito da un nuovo direttore, Massimo Di Rienzo. Gli ispettori del Dap - secondo quanto si apprende - avrebbero contestato infatti a Romice la responsabilità di una non corretta gestione della vita detentiva di Aiello. In sostanza, le condizioni di salute del manager sarebbero andate peggiorando perché non gli furono somministrati cibi e farmaci non dannosi o non incompatibili con la sua malattia. Queste “gravi negligenze” avrebbero portato il detenuto alla cachessia (una grave forma di deperimento organico, ndr) e a una considerevole perdita di peso, tanto da rendere incompatibile la detenzione con le sue condizioni di salute. Per questo motivo il tribunale di sorveglianza dell’Aquila ne ha disposto la detenzione domiciliare per un anno. Decisione, quest’ultima, oggetto di ulteriori accertamenti da parte degli ispettori del ministro della Giustizia Paola Severino, che sul punto però non hanno riscontrato irregolarità o abnormità. Cittadinanzattiva: la giustizia di ferma di fronte ad un menù! “La lotta alla mafia e alla corruzione si ferma di fronte ad un piatto di fave e piselli”, questo il commento di Cittadinanzattiva a proposito della conclusione dell’indagine ministeriale sulla detenzione del boss della sanità privata siciliana Michele Aiello. “Sorprende che gli ispettori del Ministero della Giustizia non abbiano trovato alcuna irregolarità nella gestione del caso Aiello. Non si può rimettere nel suo terreno di coltura un mafioso e corrotto conclamato, perché la direzione penitenziaria non è in grado di garantire la sostituzione dei pasti. La giustizia si ferma di fronte ad un menù”, si chiede Laura Liberto, coordinatrice di Giustizia per i diritti di Cittadinanzattiva. “Allo stesso tempo stupisce la disparità di trattamento rispetto ad altri detenuti che - pur responsabili di reati molto meno gravi e con altrettanti o più importanti problemi di salute - restano in carcere a scontare la loro pena. Non possiamo accettare che la giustizia italiana distingua tra detenuti di serie A e B né che venga meno l’impegno necessario per contrastare la reiterazione dei reati di mafia e corruzione. Specie in un momento come questo in cui la società civile e lo stesso Parlamento sono impegnati a promuovere una normativa anticorruzione più efficace”. “Chiediamo dunque che il Ministro della Giustizia Paola Severino riferisca al più presto alle Camere sulle conclusioni di questa indagine, nella speranza che vengano individuate le misure necessarie per garantire la serietà e l’efficacia della pena, pur nel rispetto dei problemi di salute del condannato”. Avellino: il direttore del carcere concede colloqui all’aperto per i detenuti www.ottopagine.net, 5 settembre 2012 Colloqui all’aperto, giostrine e giochi per i bambini, il tutto sorvegliato dagli agenti di polizia penitenziaria. Al carcere di Ariano Irpino si sperimenta l’area verde. È un nuovo forte segnale di efficienza e di accoglienza che parte dalla direzione della casa circondariale di via Cardito, rivolto questa volta soprattutto ai familiari della popolazione detenuta. L’intento del neo direttore Gianfranco Marcello, è quello di aprire sempre di più le porte del carcere alla città. Sin dall’inizio del suo insediamento sta portando avanti questa politica innovativa nel segno della continuità dopo l’era Iuliani con sacrifici, professionalità ed impegno. È stata sua l’idea qualche mese fa di posizionare due panchine davanti al cancello d’ingresso della struttura, in attesa che il comune possa provvedere in seguito a dotare quel punto di attesa di una tettoia. Intanto proseguono i lavori in vista dell’apertura del nuovo padiglione che dovrebbe ospitare altri duecento detenuti. Marcello già nei mesi scorsi aveva lanciato un forte appello alla cittadinanza, quello di aprire l’istituto anche a chi volesse svolgere attività di volontariato in carcere, o dare una mano con attività ricreative, specialmente se orientate ad un minimo di sbocco nel mondo del lavoro. “Noi siamo aperti a valutare qualsiasi possibilità - ribadisce ancora una volta il direttore - che abbia come obiettivo quello di rieducare il detenuto, insegnandogli qualche cosa di utile per il futuro. Posso tranquillamente confermare ancora una volta che Ariano è una bella città, molto viva, solidale ed anche piena di energie. Noi non vogliamo essere un peso per la comunità ma, al contrario, una grande risorsa”. Chiaramente di fronte alla cronica carenza di personale e mezzi, nessuno potrà fare miracoli. L’impegno da parte della direzione è sotto gli occhi di tutti ma va affiancato da quello dall’amministrazione comunale e dal Ministero. Solo se le istituzioni faranno la propria parte, ognuna per le sue competenze si potranno davvero ridurre i disagi. Modena: tre detenuti al lavoro nell’istituto agrario Calvi prolungano loro volontariato Ansa, 5 settembre 2012 I tre detenuti al lavoro dal 27 agosto nell’istituto agrario Calvi di Finale Emilia colpito dal sisma di maggio hanno prolungato il loro volontariato e continuano a raccogliere pere Abate nel frutteto didattico della scuola. Su richiesta esplicita dell’istituto, avanzata dal direttore dell’azienda agraria Davide Daniele Vancini, il progetto è stato prolungato di un’altra settimana. A differenza della prima settimana, ad accompagnarli al lavoro, la mattina sono i volontari dell’Avoc e la comunità dei dossettiani di Monteveglio, cui Cefa (l’Ong che ha organizzato il campo di volontari per far risparmiare alla scuola i 15.000 euro spesi anno per la raccolta) ha chiesto una mano. Appena arrivata la richiesta della scuola, il Cefal - l’ente di formazione che ha curato la parte del progetto rivolto ai detenuti - si è attivato con la burocrazia. La risposta del presidente del Tribunale di Sorveglianza Francesco Maisto è stata immediata. Abdelmajid, Hussein e Hamdi - i tre ragazzi due marocchini e un pakistano - continueranno così a raccogliere frutta assieme altri ragazzi volontari del Cefa. Agrigento: per il Centro studi Pedagogicamente i detenuti vivono in condizioni disumane La Sicilia, 5 settembre 2012 “Il carcere è da chiudere”. La presa di posizione, nei giorni in cui emerge prepotentemente la protesta per le condizioni di disagio che si vivono in molti istituti di pena, ed in particolare in Sicilia, è del Centro studi “Pedagogicamente”, che da tempo conduce iniziative per migliorare la vivibilità delle carceri e che redige progetti di assistenza alle famiglie dei detenuti e di recupero degli stessi. “Una struttura disumana e non a norma - dice il direttore del Centro studi, Antonello Nicosia - da diverse ispezioni emerge una realtà difficile. Anche l’onorevole Bernardini ha relazionato sullo stato dell’istituto, con 12 detenuti in pochi metri quadrati e tanti altri problemi”. Nicosia ricorda che la sala colloqui non è a norma da circa dodici anni e che anche gli agenti di Polizia penitenziaria affrontano ogni giorno situazioni di disagio. I quasi 100 detenuti ospiti in questo momento nell’istituto di pena di via Gerardi, da una settimana portano avanti la protesta “Battitura della speranza”, un’iniziativa promossa in ambito nazionale ed in particolare nelle città sede di carceri che sorgono nei centri storici. Ieri anche un lenzuolo con una scritta con vernice spray da una delle celle che danno su corso Vittorio Emanuele. Il Centro studi ha ricordato la visita nel carcere saccense dell’onorevole Bernardini dei Radicali: “L’abbiamo incontrata e ci ha confermato che il carcere non è vivibile - aggiunge Nicosia - e non vengono garantiti nemmeno i diritti fondamentali dei detenuti, il carcere non può essere strumento che devasta. E poi - conclude - non esiste la figura di garante dei diritti dei cittadini. È il sindacato dei detenuti, un compito che deve assolvere l’amministrazione comunale, spero di avere un incontro con il governo cittadino per sollecitare l’istituzione di questa figura”. Rimini: Sappe; violenta rissa tra otto detenuti tunisini, algerini e marocchini Adnkronos, 5 settembre 2012 Domenica scorsa, nel carcere di Rimini, “c’è stata una violenta rissa tra otto detenuti tunisini, algerini e marocchini, alcuni dei quali sono rimasti feriti; la prognosi, per alcuni di loro, è stata di otto giorni. Nonostante la forte carenza di personale, che la domenica si riduce ulteriormente, per consentire la fruizione del riposo, la polizia penitenziaria è riuscita in breve tempo a sedare la rissa ed a riportare l’ordine, denunciando gli autori del reato all’autorità giudiziaria”. Ne dà notizia Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sindacato di Polizia Penitenziaria Sappe. “Bisogna ricordare che nel carcere di Rimini, durante l’estate, la popolazione detenuta aumenta notevolmente; quest’anno, nel periodo estivo, diversamente dal solito, l’amministrazione penitenziaria non ha inviato agenti di polizia penitenziaria di rinforzo al reparto di Rimini, dove prestano servizio circa 110 unità di personale, per una presenza di circa 230 detenuti. La capienza regolamentare - ricorda il Sappe - è di circa 100 posti, quella tollerabile 160”. Tolmezzo (Ud): Sappe; detenuto straniero ha aggredito alcuni agenti di custodia Ansa, 5 settembre 2012 Un detenuto straniero ha aggredito alcuni agenti di custodia in servizio al carcere di Tolmezzo (Udine). L’episodio è stato reso noto oggi dal segretario generale del Sindacato degli agenti di custodia (Sappe), Donato Capece. Oltre che sugli agenti, l’uomo - un nordafricano - si è scagliato anche contro oggetti e suppellettili della cella. “Questa ennesima aggressione - prosegue Capece - ci preoccupa. La carenza di personale di Polizia Penitenziaria e di educatori, di psicologi e di Personale medico specializzato, il pesante sovraffollamento delle carceri italiane sono temi che si dibattono da tempo, senza soluzione, e sono concause di questi tragici episodi”. Il Sappe auspica infine “urgenti interventi dell’Amministrazione Penitenziaria per sfollare il carcere di Tolmezzo e potenziare il Reparto di Polizia”. Castiglione Olona (Va): asilo rimesso a nuovo, imbiancato da ex detenuti Varese News, 5 settembre 2012 Oltre 1.300 metri quadri imbiancati da ex detenuti. È accaduto all’asilo di Castiglione Olona, in un progetto che ha coinvolto quattro persone in stato di “esecuzione penale esterna”. L’intervento, che rientrava in un progetto di formazione curato da Enaip grazie al sostegno della fondazione Cariplo al più ampio progetto “Non solo accoglienza” (c’è anche il blog Carcere 2.0 ospitato nella Blogsfera di Varese News), è durato circa due mesi per 230 ore di formazione, di cui è titolare l’associazione Volgiter di Busto Arsizio. Coinvolta anche l’amministrazione comunale che ha seguito passo passo le persone e ha sostenuto economicamente l’iniziativa per circa 9mila euro, suddivise in materiale, attrezzature, logistica, indennità di frequenza e buoni pasto. “Era dal 1977 che non si imbiancava questa scuola - racconta Laura Biazzi, referente del Coumune, ora finalmente sia la scuola dell’infanzia che l’asilo nido hanno finalmente un accoglienza degna, grazie a un progetto che ha una forte valenza sociale, di integrazione di persone che hanno deciso di ricominciare imparando un’attività. I risultati, anche per loro, sono stati molto soddisfacenti”. Gli spazi interessati dal progetto di formazione sono stati i muri esterni della struttura che oggi hanno colori vivaci e accoglienti al posto del cemento grigio che caratterizzava l’immobile di via Boccaccio. Alla presentazione dei risultati del progetto erano presenti anche il sindaco Emanuele Poretti e gli assessori Pierangela Provinciale ed Erika Salvalaggio. Oltre al responsabile tuto Sergio Preite e al docente che ha seguito i quattro “studenti” Gilberto Basoni: “Si tratta di un percorso con cui abbiamo voluto dare un ruolo al detenuto cercando di aiutarlo a integrarsi nella società, ricucendo uno strappo avvenuto quando è entrato in carcere - ha spiegato Preite. Lo spirito che si è creato è stata una vera collaborazione tra diversi enti e siamo altamente soddisfatti del risultato”. Anche gli ex detenuti, nonostante le poche parole, si sono detti contenti di questi mesi passati: “Torneremmo in carcere solo per raccontare quanto vissuto in questi mesi e raccontare loro quanto ci siamo trovati bene in un progetto come questo”. Voghera (Pv): il Sindaco; Comune vicino al carcere… non solo per il Ferragosto La Provincia Pavese, 5 settembre 2012 “È vero, a Ferragosto non abbiamo nessun contatto con la casa circondariale di Voghera, ma durante i restanti 364 giorni dell’anno la sinergia fra l’istituto penitenziario ed il Comune produce una serie di iniziative che sono apprezzate da tutti, detenuti compresi”. Il sindaco di Voghera, Carlo Barbieri, contesta la presa di posizione del Pd e rivendica un rapporto stretto con il carcere: “Sono contento che il consigliere regionale Giuseppe Villani abbia visitato la nostra casa circondariale, perché è giusto che un’istituzione importante come Regione conosca le singole realtà territoriali. Chi invece dovrebbe conoscerle un po’ di più è il consigliere comunale Roberto Gallotti, che grazie al suo ruolo potrebbe facilmente sapere tutte le attività che sono state realizzate grazie alla collaborazione tra il Comune ed i vertici dell’istituto penitenziario. Innanzitutto il Comune di Voghera ha un proprio referente istituzionale per i rapporti con la Casa Circondariale, che è la dottoressa Simona Guioli, direttrice del Museo di Scienze Naturali - prosegue il primo cittadino. Grazie al suo impegno, a quello della Giunta e di tutta l’Amministrazione solo quest’anno è stato realizzato un corso di recupero dei beni naturalistici, una mostra di pittura durante la Fiera dell’Ascensione, la pulizia del torrente Staffora, il Cineforum oltre a manifestazioni, dibattiti e conferenze che vengono organizzate a cadenza mensile. Inoltre è stata celebrata la festa di San Basilio presso al Castello Visconteo”. Presto prenderà il via un corso per operatori volontari patrocinato dal Comune di Voghera. “In futuro - conclude Barbieri - un’idea potrebbe anche essere quella di avvicinare il carcere alle associazioni cittadine, affinché ci sia una reciproca conoscenza. Magari potremo iniziare dall’Auser…” conclude polemicamente Barbieri, data la vicinanza tra Auser e partiti di centro sinistra. Roma: Renata Polverini in visita a Rebibbia per manifestazione “Evasioni musicali” Dire, 5 settembre 2012 “Visto che questo è l’unico complesso senza un teatro ci siamo fatti preparare un progetto per una struttura polifunzionale esterna, che abbiamo deciso di finanziare”. Con questo annuncio, salutato da un lungo applauso dei detenuti, il presidente della Regione Lazio, Renata Polverini, ha aperto lo spettacolo odierno della manifestazione “Evasioni musicali” - ideata dalla Regione e che durante l’estate ha portato cantanti e artisti italiani in tutti gli istituti di pena del Lazio - che ha visto un’esibizione di musica e cabaret di Mario Zamma e Franco Califano alla casa di reclusione Rebibbia maschile di Roma. Presenti all’evento anche il direttore del carcere, Stefano Ricca, e l’assessore regionale alla Sicurezza, Pino Cangemi. Questo, ha detto Polverini sempre rivolgendosi ai detenuti presenti al concerto dell’acclamatissimo Califfo, “è un programma importante a cui la Regione tiene tantissimo e che ha avuto un grandissimo successo. Abbiamo già portato nelle carceri del Lazio molti importantissimi cantanti italiani - ha concluso la governatrice - e tanti altri ci stanno contattando per partecipare al prossimo progetto. Siamo l’unica Regione a farlo”. Cinema: alla Mostra di Venezia applausi per “Il Gemello” di Vincenzo Marra Adnkronos, 5 settembre 2012 È un film che ha messo d’accordo tutti, pubblico e critica, “Il Gemello” di Vincenzo Marra, in selezione ufficiale alle Giornate degli Autori della Mostra di Venezia. “Il Gemello” è stato girato interamente nel carcere circondariale di Secondigliano ed è un viaggio all’interno dei luoghi fisici e dell’anima di Secondigliano, dagli spazi angusti delle celle, al parlatorio in cui si incrociano le esistenze dei protagonisti tra piccoli e grandi avvenimenti. “Ho cercato di filmare la vita - spiega il regista - cercando come un segugio la drammaturgia e l’anima delle persone e dei luoghi”. Raffaele - il protagonista - ha 29 anni e due fratelli gemelli. È entrato in carcere all’età di 15 anni per aver rapinato una banca, da 12 vive li dentro. Non è un detenuto normale, ha carisma e gode di grande rispetto da parte degli altri detenuti. Il carcere circondariale di Secondigliano è la sua casa. Lì, in quel luogo di dolore, vive con il suo compagno di stanza Gennaro; coetaneo e condannato all’ergastolo. Con lui lavora alla raccolta differenziata dei rifiuti e grazie a questo lavoro mantiene la sua famiglia d’origine. Ma quando uscirà tutti scommettono sul suo futuro di boss. Raffaele ha un rapporto speciale anche con Niko, il capo delle guardie carcerarie con cui parla e si confronta. Niko sta cercando di introdurre nelle sezioni carcerarie che dirige regole più umane e attente all’individuo. “In carcere c’è solo sofferenza e si vive per metà ma vado avanti come un gladiatore ed è giusto che paghi”, dice il protagonista Raffaele Costagliola (non presente alla proiezione veneziana perché il Giudice di Sorveglianza non aveva autorizzato la sua trasferta al Lido), in una lettera fatta pervenire al regista e letta dallo stesso Marra durante l’incontro con il pubblico al termine della proiezione. “Sono fiducioso nelle persone che mi circondano e soprattutto credono in me e possono darmi un futuro fuori da questo mondo di sofferenza. Il film - aggiunge Costagliola - mi ha fatto riacquistare la fiducia in me stesso ….e per questo ringrazio il mio amico Vincenzo Marra”. Il film è stato prodotto da Gianluca Arcopinto, Marco Ledda, Vincenzo Marra, Angelo Russo Russelli. Una produzione Axelotil e Settembrini Film. Afghanistan: lunedì Usa cedono controllo prigione Bagram Adnkronos, 5 settembre 2012 La famigerata prigione afghana di Bagram, finora in mano agli Stati Uniti, passerà lunedì sotto il controllo completo delle autorità di Kabul. Lo ha annunciato l’ufficio del presidente afghano Hamid Karzai. Sono circa tremila, tra presunti Talebani e membri di al-Qaeda, i detenuti nel carcere di Bagram, situato accanto a una grande base americana, circa 60 km a nord della capitale Kabul. Il 9 marzo scorso Usa e Afghanistan hanno siglato un accordo per l’avvio di un periodo di transizione di sei mesi nel controllo del centro di detenzione. “Il trasferimento della prigione di Bagram alle autorità locali è un grande successo per l’Afghanistan. Una splendida cerimonia si terrà il 10 settembre per il trasferimento completo”, si legge nella nota della presidenza. Iran: Amnesty; rilasciare subito giornalista Zhila Bani-Yaghoub Tm News, 5 settembre 2012 Amnesty International ha sollecitato le autorità iraniane a rilasciare Zhila Bani-Yaghoub, prigioniera di coscienza, giornalista e attivista per i diritti delle donne, che il 2 settembre è entrata nel carcere di Evin, nella capitale Teheran, per scontare un anno di carcere per i reati di “diffusione di propaganda contro il sistema” e “offesa al presidente”, seguiti da 30 anni di interdizione dalla professione giornalistica. Zhila Bani-Yaghoub, premio Coraggio nel giornalismo dell’International Women’s Media Foundation nel 2009 e premio Libertà di stampa di Reporter senza frontiere nel 2010, era stata già processata e assolta tre volte per i medesimi capi d’accusa. Nell’aprile 2011 era stata ulteriormente incriminata per “avere un blog personale senza autorizzazione governativa”. Nel 2009, poco dopo la contestata rielezione del presidente Mahmoud Ahmadinejad, Zhila Bani-Yaghoub era stata arrestata insieme al marito, Bahman Amoùi, anch’egli giornalista. Era stata rilasciata dopo due mesi. Bahman Amoùi sta invece scontando una condanna a cinque anni di carcere per “riunione e collusione con l’intento di danneggiare la sicurezza nazionale”, diffusione di propaganda contro il sistema”, “minaccia alla pubblica sicurezza” e “offesa al presidente”. Il 26 giugno 2012, Bahman Ahmoùi è stato trasferito dalla prigione di Evin a quella di Rajài Shahr, in condizione di “esilio interno”. Per i primi 50 giorni, non ha potuto incontrare i familiari. Amnesty International continua a chiedere il rilascio di altri prigionieri di coscienza, tra cui il giornalista e attivista Isa Saharkhiz, arrestato nel 2009 e condannato nel settembre 2010 a tre anni di carcere per “diffusione di propaganda contro il sistema” e “offesa al presidente”. La condanna è stata aumentata di altri due anni nell’agosto 2011 per accuse collegate alla sua attività di giornalista. È in cattive condizioni di salute. Dopo aver trascorso gli ultimi sei mesi in ospedale, il 28 agosto 2012 è stato riportato nella sezione 209 di Evin, diretta dal ministero dell’Intelligence. Quel giorno ha intrapreso uno sciopero della fame e il 3 settembre ha cessato di assumere medicinali. Sono decine i giornalisti minacciati, arrestati e condannati negli ultimi anni in Iran. Alcuni di essi versano in cattive condizioni di salute, come Mohammad Sadiq Kaboudvand, curdo, condannato a 10 anni e mezzo di carcere per reati di opinione. Barhain: Amnesty; condanna attivisti è sentenza oltraggiosa Adnkronos, 5 settembre 2012 “Una sentenza oltraggiosa”. Così Amnesty International definisce il verdetto della Corte d’appello del Bahrain che ha confermato la condanna di tredici attivisti dell’opposizione e prigionieri di coscienza, per i quali l’organizzazione per i diritti umani chiede l’immediato e incondizionato rilascio. Tra i condannati, colpevoli di aver partecipato con un ruolo di coordinamento alle manifestazioni contro il Governo avvenute nel 2011 - ricorda Amnesty in una nota - c’è anche il noto attivista Abdulhadi Al-Khawaja e l’oppositore politico del regime Ebrahim Sharif. Durante il lungo iter processuale che ha portato alla condanna, Amnesty International ha sempre denunciato “le torture, le minacce di violenza sessuale e la lesione dei diritti fondamentali che i tredici attivisti hanno subito, soprattutto nel 2011, quando erano nelle mani dell’Agenzia per la sicurezza nazionale”. Hassan Mshaimà, Abdelwahab Hussain, Abdulhadi Al-Khawaja, Abdel-Jalil al-Singace, Mohammad Habib al-Miqdad, Abdel-Jalil al-Miqdad, Sàeed Mirza al-Nuri, Mohammad Hassan Jawwad, Mohammad Ali Ridha Ismàil, Abdullah al-Mahroos, Abdul-Hadi Abdullah Hassan al-Mukhodher, Ebrahim Sharif, Salah Abdullah Hubail al-Khawaja sono i nomi dei condannati. Per “riunione illegale” è stato condannato a tre anni di carcere anche un altro attivista vicino ad Amnesty, Nabeel Rajab, presidente del Centro per i diritti umani del Bahrain e direttore del Centro per i diritti umani del Golfo. La sua vicenda è simile a quella di un altro “prigioniero di coscienza”, Mahdi ‘Issa Mahdi Abu Dheeb, ex presidente dell’Associazione degli insegnanti del Barhein, condannato a dieci anni di carcere per aver indetto uno sciopero. Stati Uniti: detenuto ergastolano cambia sesso, il carcere paga le spese mediche www.today.it, 5 settembre 2012 Per il giudice si tratta dell’unica soluzione possibile per aiutare Michelle-Robert Kosilek, condannata all’ergastolo, che già in due occasioni aveva tentato il suicidio. È una sentenza che farà storia quella del tribunale federale del Massachusetts, che ha imposto alle autorità giudiziarie di pagare le operazioni chirurgiche per il cambiamento di sesso di un detenuto. Michelle Kosilek, una volta conosciuta con il nome di Robert, è stata condannata all’ergastolo nel 1990, per aver ucciso la propria moglie. Da allora ha tentato il suicidio per ben due volte, e in almeno un’occasione ha cercato di castrarsi. Proprio per questo motivo il giudice Mark Wolf ha stabilito che “l’unico trattamento possibile” per aiutare Kosilek è appunto un’operazione chirurgica che gli consenta di cambiare sesso. “È la prima volta che un tribunale ordina ad una prigione di provvedere alle spese per un’operazione chirurgica di cambiamento di sesso, intesa come un trattamento medico necessario per un detenuto transessuale” ha spiegato alla Cnn Ben Klein, avvocato e membro dell’organizzazione ‘Gay and Lesbian Advocates and Defenders’. Kosilek ha iniziato una cura ormonale 12 anni fa, e continua a vivere come una donna in un carcere maschile. Prima di allora Robert-Michelle si era però vista negare le cure mediche di cui aveva bisogno. “Molto spesso alcuni importanti trattamenti vengono rifiutati sulla base di pregiudizi contro le persone transessuali” ha spiegato lo stesso Klein. La decisione della corte ha suscitato anche alcune critiche. Il senatore Scott Brown ha parlato di un “abuso oltraggioso dei soldi dei contribuenti”. Stando ai dati forniti dalla “American Society of Plastic Surgeons”, per l’operazione saranno spesi complessivamente tra i 30mila e gli 80mila dollari (tra i 23mila e i 63mila euro), tutti soldi provenienti dalle tasche dei cittadini statunitensi. Michelle si è detta però soddisfatta. “È molto eccitata, e veramente molto contenta” ha spiegato ai giornalisti Francis Cohen, uno dei legali di Kosilek. “È molto felice del fatto che il giudice abbia riconosciuto la necessità di questo tipo di operazione”.