La lunga estate nel carcere femminile. Il lavoro non c'è, il rapporto con i figli Il Mattino di Padova, 3 settembre 2012 Questa estate si chiude anche nel carcere femminile con un magro bilancio: le risorse per il lavoro diminuiscono, la crisi si fa sentire sempre di più e le donne detenute hanno tutte una gran paura per il loro futuro, paura di non farcela a trovare un'occupazione, a costruirsi una vita dignitosa, a recuperare il rapporto con i figli. Ecco le riflessioni di alcune di loro dal carcere della Giudecca. Luminita: Io per lo meno sono molto contenta di una cosa, di tutto il lavoro che faccio tramite la posta con mio figlio. Gli scrivo, lo interrogo, continuo a tenermi informata sui suoi studi, su quello che fa, a martellarlo di domande sulla sua vita e a raccontargli tutto della mia, e lui ha capito che io ci sono sempre, a differenza di suo padre che, pur essendo libero, non lo aiuta molto. Le lettere mi hanno davvero salvato la vita, e hanno salvato questo rapporto. Mi racconta mia madre che mio figlio ha iniziato a portarmi d'esempio nei confronti del padre, "mamma è cosi, mamma fa, mamma ha un rapporto continuo con me", insomma qualche volta una madre con la forza della disperazione riesce a inventarsi di tutto per essere vicina a suo figlio, e neanche la galera glielo può impedire. Tania: mi è pesato non vedere mia mamma Io questa estate mi sono sentita più sola, i miei genitori li ho visti di meno perché sono anziani e far muovere mia madre con il caldo, per farla venire fino a qui alla Giudecca è un problema. Quando mio padre non poteva accompagnarla, lei mi diceva che voleva venire ugualmente, ma io non voglio perché ho paura che si senta male per strada. Mi pesa non vederli, vorrei essere in un carcere più vicino a casa per vedere i miei due volte a settimana, non posso certo pretendere che una donna anziana si faccia tanto spesso tutta la strada per venire alla Giudecca, che è davvero complicata da raggiungere. Il mio pensiero fisso poi è che quando uscirò mi devo cercare un lavoro perché ho un figlio da mantenere, lui fa cinque anni ad ottobre, e se voglio riallacciare i rapporti con mio figlio non posso pretendere che me lo mantengano i miei genitori, mia madre ha la pensione minima! Ma non è che sia semplice trovare un lavoro che ti renda qualcosa con un bambino da mantenere, sono pensieri che faccio tra me e me sempre più spesso, mi spaventa quando sento parlare della crisi, se è difficile per tutti trovare un lavoro, per noi che siamo state in carcere lo sarà doppiamente. Tania, Venezia Andrea: spero di uscire a fine settembre Io dico che finalmente l'estate è passata e sta per finire. Solo questo aspettavo. Perché d'estate i tribunali funzionano pochissimo, e io invece ho bisogno che le cose comincino a muoversi. Se ho un pò di fortuna a fine settembre esco... io ho una bambina di poco più di tre anni e un bambino di nove mesi fuori, loro stanno con mia suocera, ma hanno bisogno della mamma. Prima non avevo un avvocato perché l'avvocato d'ufficio mi ha chiesto 3000 euro in contanti subito e io non ero in grado di darglieli, adesso ho trovato una persona gentile, un avvocato veramente bravo, con cui da settembre spero di riuscire ad accelerare i tempi per arrivare al processo. Ogni giorno penso a come farò a mantenere due figli piccoli, uno ancora poco più che un neonato, l'altra da portare all'asilo ogni giorno: sono preoccupata per il futuro, vorrei che i tempi della Giustizia fossero più rapidi, non si possono buttare così mesi e anni. Andrea, Venezia Olena: sono qui da otto mesi e ogni volta c'è un rinvio Per me questa è la prima estate che passo in carcere, ed essendo ancora imputata non so "di che morte devo morire". Sono qui da otto mesi e non capisco niente del processo e della mia posizione giuridica, finora ho avuto sei udienze di 2 - 3 minuti l'una, e ogni volta io parto dal carcere con la scorta, arrivo in tribunale e c'è un rinvio, e mi riportano qui. Ho una figlia di tredici anni, ho la casa di mia proprietà perché ho venduto la casa a Kiev e ho comprato la casa qui, ho fatto il mutuo e ho finito anche di pagarlo, avrei il lavoro, perché non mi danno gli arresti domiciliari finché sono in attesa di giudizio? È dura questa avventura, sono incensurata, ma ugualmente gli arresti domiciliari per ora me li hanno rifiutati. Certo io sono straniera ma vivo qui da 18 anni, mia figlia è italiana, il mio ex marito è italiano, siamo stati sposati 14 anni, non 14 mesi. L'estate in carcere è dura perché non si muove niente, e non sai cosa ti aspetta quando i tribunali ricominceranno a lavorare. Le notizie che sento dalla televisione a me fanno rizzare i capelli in testa, l'IMU aumentata, le bollette aumentate, questo aumentato, quello aumentato, a me il futuro mi spaventa davvero tanto, non so neppure più cosa troverò alla fine di questa storia. A volte mi pare che sto impazzendo, quando penso a tutte le cose che non sono a posto fuori, mentre io sto qui e sono impotente... è pesante da reggere questa situazione. Olena, Venezia Sara: qui dentro il tempo non passa mai Per me il carcere è brutto sempre, ma l'estate in galera è il periodo più difficile. Qui dentro il tempo non passa mai, e poi tanto dipende anche dalla posizione giuridica in cui ci si trova. Se una persona è imputata, nel mese di agosto è tutto fermo... ad esempio io avevo bisogno di parlare con il Sert per cercare una comunità e non posso, visto che la persona che si occupa della Giudecca è in ferie per tre settimane, e anche l'avvocato è in ferie. Quindi un mese e mezzo senza poter fare nulla, un mese e mezzo! Non è giusto poi che chi deve farsi qualche anno di pena venga in continuazione stressato da gente che arriva qui dentro e magari va via dopo qualche giorno. È pesante vedersi cambiare continuamente le compagne di cella, dover ogni volta adattarsi e spiegare loro il funzionamento delle cose, che sono complicate perché la convivenza forzata rende tutto più difficile. E poi fuori d'estate, soprattutto per una ragazza giovane come me, quello che vivi è tutto più gioioso, l'estate è la stagione della libertà in un certo senso, d'estate ci si sente più liberi e più libero è anche il modo di vestirsi, di comportarsi. Io sono sempre vissuta al mare d'estate, ho sempre fatto le stagioni come cameriera. Qui ti viene malinconia perché sei chiusa dentro e sai che non puoi andartene da nessuna parte, butti il tempo a non far niente e non sai cosa ti aspetterà poi fuori, in un periodo così difficile, con tutta la disoccupazione che c'è. Se avessi avuto il lavoro non sarei finita qui adesso. Negli ultimi due anni ho avuto lavori molto saltuari: due mesi ho fatto la telefonista, un mese la barista, tutti lavori senza contratto, o con contratto a progetto. Ti mandano via quando vogliono. Non sarei qui perché non avrei fatto quello che ho fatto, se avessi avuto i soldi per pagarmi le cose di cui avevo bisogno. Avevo già trovato un posto per fare la stagione quest'estate, prima di finire in carcere: ti fai quattro mesi di stagione, e in quattro mesi non riesci a prendere la disoccupazione perché devi lavorare almeno sei mesi e poi hai gli altri 8 mesi in cui devi vivere in qualche modo, e allora, se sei fortunato, trovi da fare la telefonista se ti va bene, ma se non riesci a prendere appuntamenti, dopo un mese ti mandano via e sei ancora a piedi, e allora cosa fai? A me e a mio marito piacerebbe avere una famiglia, fare dei bambini, ma come fai a pensare di fare un figlio se non riesci neanche a mantenere te? Io però a dire la verità sono contenta che i bambini non siano mai venuti e che non ne abbiamo perché comunque con i miei problemi con la droga non sarei stata in grado di starci dietro, però adesso che sono qui penso a cosa voglio fare del mio futuro. Sara, Venezia Giustizia: perché nessuno parla di carceri? di Roberto Saviano L’Espresso, 3 settembre 2012 Le condizioni di vita dei detenuti e degli agenti di custodia sono ai limiti di ogni immaginabile umanità. Ma la questione viene ignorata da tutti. E viene il sospetto che creare una “discarica della democrazia”, in fondo, a qualcuno sia molto utile. Che fare per interrompere subito il crimine in corso?”, vorrebbe domandarmelo la parlamentare radicale eletta nelle liste del Pd Rita Bernardini. E vorrebbe farlo mentre insieme a lei - è un invito che accetto volentieri - visitiamo una delle tante carceri italiane in cui le condizioni di vita dei detenuti e di lavoro del personale sono ai limiti di ogni immaginabile umanità. Cara Rita Bernardini ciò che scrive mi è noto, anzi, per quanto io possa forse essere inviso in alcuni penitenziari per le mie origini campane, per aver “tradito” scrivendo Gomorra la mia situazione di reclusione mi porta ad avere una certa empatia di fondo per chi la propria libertà l’ha persa e magari è ancora in attesa di un giudizio. La consapevolezza che 66.500 detenuti e molta parte del personale penitenziario (ogni due mesi, in Italia, un agente di custodia si toglie la vita) vivano condizioni inumane, che il carcere non riesca a essere rieducazione e reinserimento ma solo privazione, punizione e tortura, mi porta, appena possibile, a dare voce alla nostra indignazione. Ho approfittato di qualunque spazio a mia disposizione. Ho parlato di carceri in recensioni, sui social network, in televisione e la reazione più comune è stata “Saviano, smetti di occuparti dei delinquenti, pensa alle persone per bene”. Scrivo di tossicodipendenza? Mi si risponde che farei meglio a parlare di disoccupazione che di drogati. Parlo di Laogai? Sbaglio, la Cina è lontana: dovrei pensare all’Italia. Mi permetto di dire che esiste una Israele che è anche altro rispetto alle politiche dei suoi governi? Che non è solo guerra, così come per venti lunghi anni l’Italia non è stata solo Berlusconi o mafie? Mi danno del sionista. Del tuttologo. “Parla di camorra, Saviano”. Ma la vita non è a compartimenti stagni. Non dovrebbero esistere temi di cui non ci si possa o debba occupare. Allora una cosa l’ho capita. Una cosa semplice e dolorosamente vera nella sua semplicità. Una cosa che non deve scoraggiare, ma solo darci la dimensione del problema, che è molto più grave di quanto non appaia. In Italia necessitiamo di una discarica dove confinare tutto ciò che la nostra democrazia crede sia il peggio che abbia prodotto e da cui costantemente desidera distogliere l’attenzione: il carcere, per intenderci, ci è utile. In carcere mettiamo tutti i problemi che non vogliamo affrontare e risolvere. Mettiamo tutta la “spazzatura indifferenziata” (delinquenti comuni, assassini, tossicodipendenti, piccoli e grandi spacciatori, già condannati o in massima parte in attesa di giudizio) con la quale non vogliamo fare i conti. “Spazzatura” che se non trattata finirà per travolgerci. E io, da campano, di emergenze rifiuti incistate, trascurate, sfruttate, ne so abbastanza. Oggi la Campania è una terra che arde di rifiuti tossici, con falde acquifere e mare inquinati. Ci sono paesi dai quali le persone, pur amandoli, se possono fuggono per non ammalarsi. Ecco cosa sta diventando l’Italia, una terra dalla quale è meglio fuggire, una terra in cui l’unica occupazione del momento sembra essere quella di ridisegnare con ogni mezzo lo scenario elettorale, le alleanze o meglio le accozzaglie, con cui dovremo fare i conti da qui a qualche mese. Giornalisti e celebri giuristi, costantemente impegnati in questo, restano indifferenti al decesso del nostro sistema giudiziario, vero problema per noi che in Italia ci viviamo e per chi in Italia potrebbe decidere di investire. Lo sperimentiamo ogni giorno sulla nostra pelle e ancor più lo vivono sulla loro, le migliaia di detenuti e operatori carcerari abbandonati da tutti. Ma è evidente che i problemi non si vogliono risolti: le carceri rimarranno la cloaca che sono e senza informazione le persone continueranno a pensare e a dirmi che dovrei “piuttosto” occuparmi d’altro. La giustizia non si riformerà, perché è più utile così com’è, e all’occorrenza utilizzarla per ridisegnare gli orizzonti politici, sempre troppo angusti, del nostro Paese. Allora per una volta, questo lusso decido di prendermelo io e vi domando: ma perché non vi occupate “piuttosto” un po’ tutti di carceri? Per scoprire magari che risolvere il problema dei “rifiuti”, in fondo, potrebbe anche convenirvi. Giustizia: Cardinale Carlo Maria Martini, un estratto del suo libro… Famiglia Cristiana, 3 settembre 2012 Carlo Maria Martini, un estratto del suo libro “Sulla giustizia”, edito nel 1999 da Mondadori. L’amministrazione della giustizia penale è una delle strutture essenziali della convivenza sociale. La persona umana è il massimo valore a motivo della sua intelligenza e libera volontà, dello spirito immortale che la anima e del destino che l’attende. La sua dignità non può essere svalorizzata, snaturata o alienata nemmeno dal peggior male che l’uomo, singolo o associato, possa compiere. L’errore indebolisce e deturpa la personalità dell’individuo, ma non la nega, non la distrugge, non la declassa al regno animale, inferiore all’umano. Ogni persona è parte vitale e solidale della comunità civile; distaccare chi compie un reato dal corpo sociale, disconoscerlo, emarginarlo, fino addirittura alla pena di morte, sono azioni che non favoriscono il bene comune, ma lo feriscono. Una domanda pungente. Le leggi e le istituzioni penali di una società democratica hanno senso se sono tese al ricupero di chi ha sbagliato, se operano in funzione dell’affermazione e sviluppo della sua dignità. Spesso mi domando: le leggi, le istituzioni, i cittadini, i cristiani credono davvero che nell’uomo detenuto per un reato c’è una persona da rispettare, salvare, promuovere, educare? Per quanto riguarda le istituzioni, ci vogliono certamente leggi e ordinamenti che difendono e assicurano il rispetto della vita e dell’incolumità di tutti i cittadini. La sicurezza va garantita. Se tuttavia ci confrontiamo con l’esperienza di chi sta in carcere e di chi sta accanto ai carcerati, scopriamo con amarezza e delusione che la realtà carceraria in Italia (e anche altrove!) spesso non contribuisce al ricupero della persona. Il carcere come emergenza. La carcerazione deve essere un intervento funzionale e di emergenza, quale estremo rimedio temporaneo ma necessario per arginare una violenza gratuita e ingiusta, impazzita e disumana, per fermare colui che, afferrato da un istinto egoistico e distruttivo, ha perso il controllo di sé stesso, calpesta i valori sacri della vita e delle persone, e il senso della convivenza sociale. Noi non siamo una società che vive il Vangelo. Se davvero tutti vivessimo il Vangelo e ci sforzassimo di amarci scambievolmente, di praticare la regola del “fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te”, non ci sarebbero né giudici, né condanne. Siamo molto lontani dalla comunità perfetta a cui punta il Vangelo, e quindi abbiamo bisogno di strutture di deterrenza e di contenimento. Ma il cristiano - se vuole essere coerente con il messaggio di Dio padre misericordioso che non gode per la morte del peccatore, vuole anzi che si converta e viva e per lui fa festa - non potrà mai giustificare il carcere se non come momento di arresto di una grande violenza. (...) Pena di morte. Sono ancora molti gli Stati in cui si applica la pena di morte e, purtroppo, si assiste talora a prassi che sconcertano: dalle condanne per reati politici o di opinione a quelle che sanciscono un processo difettoso e iniquo e che si aggiungono a forme di maltrattamento e di tortura; dalle esecuzioni di massa alle esecuzioni le cui vittime sono adolescenti o anziani. La considerazione di questi fatti sconcertanti induce a intraprendere con forza campagne per l’abolizione della pena capitale. Oggi sembra assai difficile che si possano realizzare le circostanze che, nel passato, avevano indotto molti Stati, anche cristiani, ad applicarla, ritenendo che in certi casi rappresentasse l’unico ed estremo mezzo di difesa della comunità e del bene comune. Nell’attuale momento storico, considerando la più diffusa e approfondita consapevolezza del valore della persona e della sua dignità, come pure i progressi realizzati nella conoscenza delle motivazioni profonde e complesse dell’agire umano, siamo persuasi che in ogni società civilizzata l’ordine può essere salvato, la giustizia assicurata, il delitto intimorito con altre pene e provvedimenti senza ricorrere alla soppressione del reo. (...) Pentimento e pentiti. Attraverso una certa legislazione, partita dai tempi del terrorismo, si è giunti a usare il termine pentiti per indicare un atteggiamento che non esprime direttamente l’insegnamento del Vangelo e della Chiesa. Il vero pentimento si verifica quando una persona vuole sinceramente cambiare vita, riconoscendo di aver sbagliato e di aver bisogno di essere perdonata da Dio e dagli uomini. È dunque un evento interiore, nobilissimo, che dice l’anelito a una vita nuova e pulita. Il “pentito” secondo la legge, cioè il collaboratore, può non avere nessuna intenzione interiore di cambiare vita, di riconoscere le sue colpe. Il pentimento cristiano è un cambiare il cuore. (...) Giustizia: incensurato e disabile, finisce in carcere per avere bevuto due birre di Conchita Sannino La Repubblica, 3 settembre 2012 L’incredibile storia di un quarantenne nel Cilento, privo di una gamba, operatore sociale, che è finito in cella, dove ora è recluso, dopo essere stato denunciato tre anni fa per guida in stato di ebbrezza. Da allora un incubo di burocrazia e disattenzioni. Mandato in carcere per due birre, bevute tre anni fa, prima di mettersi al volante. “Trenta giorni di pena” è il prezzo che gli ha inflitto la malagiustizia. Malgrado quell’uomo sia incensurato e abbia una protesi al posto della gamba sinistra. Anzi: quando è entrato in cella, gli hanno tolto l’arto finto. “Mi dispiace, qua dentro può essere un’arma”. Una storia che fotografa la cupa inefficienza, oltreché il volto disumano, della giustizia avviene tra Vallo della Lucania e Salerno. Un vergognoso sberleffo nel Paese degli indulti e delle carceri sovraffollate. È la storia di Marco Penza, originario di Casalvelino (Salerno), onesto cittadino, operatore del sociale, quarant’anni, disabile. Lui è ancora in carcere. Si aspetta che il magistrato titolare del fascicolo “torni dalle ferie”. Marco Penza è finito in carcere dieci giorni fa, prima nell’istituto di Vallo della Lucania, poi in quello di Fuorni, a Salerno, per l’incredibile evoluzione di una semplice e vecchia denuncia. Si tratta dell’alcool test a cui l’uomo è risultato positivo tre anni fa, un posto di blocco di una sera d’estate, 22 luglio del 2009. Può un semplice controllo trasformarsi in un incubo? I suoi amici, il tamtam di reazioni indignate che si è scatenato intorno alla sua vicenda, testimoniano di sì. Può diventare “una storia da paese incivile” se “alla burocratica gestione di un ufficio del pubblico ministero”, si somma “la latitanza di un avvocato” e “l’indifferenza” che tanti pubblici uffici - compresi alcuni palazzi della giustizia - ostentano nel periodo delle vacanze. Marco è affetto dall’infanzia da una grave malattia che poco tempo fa, dopo pellegrinaggi sofferti in vari ospedali, non gli ha risparmiato l’amputazione della gamba. Tuttavia, ha la sua vita e le sue relazioni, si occupa di sociale e lavora nella Coop Marina Service di Casalvelino, nel cuore del Cilento, dove ha scelto di vivere. Questo giovane lavoratore, senza alcun precedente penale, viene dunque denunciato a piede libero per guida in stato di ebbrezza. È competente la Procura di Vallo della Lucania, ma sembra che il magistrato titolare del fascicolo - noto per i suoi eccessi di zelo - non conceda la “pena sospesa” a quel cittadino incensurato. E non basta: perché l’avvocato a cui si è rivolto Marco, per un caso, si dedica nello stesso periodo alla politica, si candida alle amministrative del Comune, finisce evidentemente per dimenticare la “pratica”. Così quel fascicolo diventa il suo girone infernale. Tre anni dopo, ecco la vecchia denuncia diventa un ordine di carcerazione di 30 giorni. Marco se ne accorge troppo tardi, richiama quell’avvocato che ormai è un politico, il quale lo affida ad un civilista: che, a sua volta, non impugna il provvedimento, ma prova a chiedere un alleggerimento con la richiesta degli arresti domiciliari: è peggio perché così la pratica passa al Tribunale di sorveglianza. Che chiede i suoi tempi per l’esame della vicenda. Marco sta già scontando la galera da 10 giorni: prima arriva nel carcere prima di Vallo della Lucania e poi di Salerno. Intanto, lo portano in ospedale per accertarsi delle sue condizioni. Poi torna in cella, dove un operatore della penitenziaria è costretto, dalle norme, a privarlo della protesi alla gamba. “Mi dispiace, non è consentito”. Dopo qualche giorno e dopo le proteste dei suoi amici, finalmente gli restituiscono non la libertà, ma almeno la sua “gamba” sinistra. La storia viene portata alla luce da Silvia Ricciardi dell’associazione Jonathan, che si occupa del recupero dei minori a rischio dell’area penale: “A volte lo sdegno non trova le parole per esprimersi scrive Mi vergogno a vivere in questo paese dove la giustizia non è per i cittadini, ma per chi detiene soldi e potere. Un paese che tiene in galera una persona per un reato sanzionabile con una gradualità di risposte alternative al carcere. Un paese che non ha occhi per vedere né cervello, in alcuni casi, per amministrare pene e sanzioni”. Giustizia: Pannella; sull’amnistia Napolitano doveva fare un messaggio alle Camere Tm News, 3 settembre 2012 “Il problema dell’Italia sembra uno: ci si duole del livello dello scontro istituzionale sulla questione intercettazioni. Ma perché c’è questo livello di scontro?”. Se lo è chiesto Marco Pannella nel corso della consueta conversazione settimanale con Radio Radicale. “Gli intellettuali più prestigiosi - ha detto - non hanno sottolineato una cosa: che questo presidente, così ineccepibile nei modi, opera in assoluta, totale, estraneità alla Costituzione italiana e continuamente è costretto - non è che si sente costretto, è costretto - a dilagare, senza l’aiuto del rispetto della legge, delle norme, delle funzioni. Si dovrebbe discutere di questa visione che chiaramente lui ha”. “Abbiamo avuto - ha proseguito lo storico leader Radicale - quella iniziativa molto bella del professor Pugiotto e degli oltre 130 cattedratici, che si rivolgevano al presidente Napolitano proponendo uno studio pregevole in cui si spiegava per quali motivi si riteneva che il presidente dovesse fare un messaggio alle Camere e perché dovesse farlo in appoggio alla soluzione amnistia, unica atta a garantire l’immediata uscita o sospensione dalla flagranza criminale ufficialmente pronunciata a livello della giurisdizione europea”, ha ricordato Pannella. “Dopo il divorzio - ha ricordato ancora Pannella - abbiamo avuto il nuovo diritto di famiglia. Dopo la uscita dell’amnistia, dovremmo avere una riforma della giustizia. Ma il presidente, anche nel dettaglio, ha detto sì, avete anche ragione, ma insomma facciamoci le vacanze e poi vediamo. E sette giorni dopo aver pronunciato le sue parole sulla “prepotente urgenza”, più di un anno fa, disse che le condizioni per l’amnistia non erano mature. Nonostante abbia continuato a vedere aggravate ogni giorno le condizioni della giustizia, delle carceri, delle denunce europee. E continua a ripetere che non ci sono le condizioni politiche”. “A chi, se non al tutore del diritto, toccava dire “noi, Repubblica italiana, da vent’anni siamo inadempienti a richiami costanti”. Chi doveva invitare le Camere, avvisarle, nella sua funzione di tutore del diritto? Napolitano non lo ha fatto e non lo ha detto”, ha concluso Pannella. Lettere: ricordo di Carlo Maria Martini... di Elisabetta Laganà Ristretti Orizzonti, 3 settembre 2012 La scomparsa di Carlo Maria Martini apre un vuoto di senso difficilmente colmabile per chiunque. Questo momento storico, così permeato da facili scorciatoie e semplificazioni dell’intelletto, perde uno dei suoi più grandi maestri ispiratori di un pensiero che, pur non perdendo mai di vista la riflessione sull’umana complessità, si è fatto pratica e incontro concreto con la persona, soprattutto quella più fragile e nascosta, che egli cercava sia nei luoghi di contenimento che dentro la vita quotidiana, sottolineando decisamente l’opzione preferenziale della Chiesa per i poveri e gli emarginati (Giovanni Paolo II, TMA n. 51). La incessante passione per la ricerca di senso nei temi fondamentali dell’esistenza, e quindi anche nella giustizia, ha costantemente animato la sua riflessione, evidenziando le lacerazioni, forse insanabili, contenute nella “domanda di giustizia” che gli era impossibile non porsi, e sulla quale si era così frequentemente e magistralmente espresso. Le riflessioni sulla difficoltà di elaborare un sistema retributivo capace di coniugare la sicurezza dei cittadini con il rispetto dei diritti della persona reclusa, cogliendone l’apparentemente inconciliabile conflitto, possono configurarsi come possibile continuum con il pensiero eracliteo, laddove scrive “Occorre sapere.. che la giustizia è conflitto” (Eraclito, fram. 80). Conflitto, inteso non solo come una categoria negativa, ma come una dimensione erigente della civiltà; dove la contrapposizione delle posizioni è generata dalla passione per le dimensioni dell’uomo e del mondo e spinge alla ricerca della verità. Martini ha dedicato molte meditazioni al senso della pena e della sua modalità di espiazione e dell’aspetto retributivo. Il diffuso principio che identifica il patimento della pena come strumento di espiazione, viene, in questa concezione, allargato e problematizzato, e intriso dell’elemento soggettivo dell’elaborazione personale: l’espiazione della pena diviene quindi un fatto ed un percorso essenzialmente interiore, che non dipende dalla quantità della pena applicata. Non è pertanto affatto scontato che una pena, soprattutto se notevolmente afflittiva, faciliti la presa di coscienza dell’azione commessa ed aiuti il reo a rielaborarne i contenuti. Come ha affermato nel libro “Sulla giustizia” (Mondadori, 1999): “L’errore indebolisce e deturpa la personalità dell’individuo, ma non la nega, non la distrugge, non la declassa al regno animale, inferiore all’umano. Ogni persona è parte vitale e solidale della comunità civile; distaccare chi compie un reato dal corpo sociale, disconoscerlo, emarginarlo, fino addirittura alla pena di morte, sono azioni che non favoriscono il bene comune, ma lo feriscono”. L’esortazione di Martini muoveva verso una visione più complessiva, più ampia, che comprendesse una visione globale dei fattori. Probabilmente per questo si era interessato alla giustizia che ricompone i conflitti, ad una mediazione che permette di confrontare esperienze, vissuti e punti di vista al fine di ricomporre il conflitto intercorso, nel tentativo di far emergere anche le componenti emozionali delle parti avverse, al fine di favorirne l’incontro su un terreno comune e ricostruire quel tessuto sociale e umano che è stato lacerato. Dove il riconoscimento dell’azione sbagliata può superare il concetto della mera retribuzione e creare un processo di storicizzazione e trascendenza del momento dell’episodio criminoso, aiutando sia chi ha commesso il male che chi l’ha subito. Di questo tipo di pensiero e tanto altro siamo debitori a Martini, la cui scomparsa ci rende più soli nel perseguire, senza indugio, il coraggio delle scelte e nel continuare sulla strada delle riforme e del dialogo. La sua visione globale di una giustizia che metta in gioco le politiche penali, penitenziarie, insieme a quelle economiche e sociali è, ora più che mai, indispensabile per contrastare la progressiva crescita dell’intolleranza e della domanda di penalità. Elisabetta Laganà, Presidente Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia Lettere: ricordo di Carlo Maria Martini... di Marco Pannella Dire, 3 settembre 2012 “Sul Cardinal Martini devo rammentare una piccola cosa che mi riguarda. Lo chiamai tempo fa, anche per parlargli della nostra battaglia sull’amnistia e sulle carceri. Cinque giorni dopo, al Corriere della Sera mandò una lettera sul tema, in cui disse che sentire quello che succede nelle carceri è doveroso. E ricordava di quando arrivò a Milano. E diceva: ora sono turbato dall’apprendere quello che accade”. Lo ricorda Marco Pannella, nella consueta conversazione settimanale con Radio Radicale. “Credo - continua - che un rapporto se non di diretta causalità con quella telefonata ci fosse. So che il suo ascolto era profondo, come per tutti gli uomini di dialogo. Ed è questa la sua principale caratteristica, se vogliamo parlare in termini scontatamente laici. Lui si è rammaricato che i grandi temi di attualità umana e religiosa non venissero dibattuti, non fossero occasione di dialogo”. Marco Pannella, Presidente del Senato Radicale Lettere: ricordo di Carlo Maria Martini... di Francesco Maisto Ristretti Orizzonti, 3 settembre 2012 Padre Carlo Maria Martini, già Vescovo di Milano, ci lascia la ricchezza del suo Magistero e della sua Testimonianza. Testimonianza di forte vicinanza alla “missione” della Magistratura: dal dolore immediato per la morte di Guido Galli in Statale, alle attività per la consegna delle armi dei Co.Co.Ri, alla riunione annuale per gli auguri di Natale in Episcopio, alla pastorale sull’etica della responsabilità rilanciata magistralmente dall’indimenticabile Adolfo Beria d’Argentine nel suo primo discorso di inaugurazione dell’anno giudiziario all’inizio di Mani pulite, alla fondazione della Casa della Carità per la tutela dei soggetti deboli, all’impegno costante per le carceri e per l’umanizzazione della pena. Magistero profondo anche sulla Giustizia ,come parte della quadriga con Fortezza, Prudenza e Temperanza. I suoi volumi “Sulla Giustizia” e “Non è giustizia” restano stelle polari per quanti, come me, hanno ricevuto il dono di collaborare con lui. La lettera di risposta a Pino Borrè che accompagnava il suo saggio per “Il vaso di Pandora” resta memorabile sulla collaborazione e la ricerca tra credenti e non credenti per la realizzazione della Giustizia, come la Cattedra dei non credenti. Francesco Maisto, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Bologna Lettere: ricordo di Carlo Maria Martini... di Franco Corleone Ristretti Orizzonti, 3 settembre 2012 La morte di Carlo Maria Martini unisce nel dolore credenti e non credenti. Martini è stato il cardinale di Milano: un grande cardinale che ha fatto del dialogo con la città la cifra di una pratica costante. Molti ricordano oggi la sua figura di gesuita, di studioso della Bibbia, di protagonista del dibattito nella Chiesa su posizioni di apertura culturale che sarebbe riduttivo definire progressiste. Io amo ricordare la sua attenzione al mondo del carcere e il suo rapporto con San Vittore, il carcere della città, la sua strenua difesa della legge Gozzini quando fu travolta dalla logica emergenziale agli inizi degli anni novanta. Pochi ricordano che il cardinale Martini fu interlocutore sensibile di alcuni protagonisti della lotta armata che scelsero l’Arcivescovado come luogo per consegnare le proprie armi. Nel suo acuto volume sulla Giustizia il cardinale Martini affrontò il nodo del senso della pena e del significato delle misure alternative con profondità e originalità di pensiero. Parole davvero degne di un nuovo Beccaria! Spero davvero che lunedì nel momento dei funerali di Martini nelle carceri italiane si ricordi con amicizia e gratitudine la sua figura. Franco Corleone, Garante dei diritti dei detenuti del Comune di Firenze Lettere: a proposito di identificazione del suicidio nei luoghi di reclusione Ristretti Orizzonti, 3 settembre 2012 Come non essere grati a Giuseppe Maria Meloni, di Clemenza e Dignità, per avere richiamato l’attenzione degli uomini di buona volontà intorno alle storie che fanno da sfondo al computo dei suicidi oltre le sbarre? E non alludo solo alla cronaca delle vite smorzate, ma anche a quella costellazione, mai casuale, di eventi che accompagna ogni morte e in cui si rintracciano approssimazione, accidia, arroganza. L’approssimazione della stessa aritmetica, visto che non risultano morti per auto soppressione nei reclusori quei decessi avvenuti fuori del carcere - nella ambulanza che accompagna il moribondo in ospedale o nello stesso ospedale - ma in seguito a un tentativo di suicidio intra moenia; visto, inoltre, che si continua a insistere sull’aumento del numero dei suicidi, quando questo risulta percentualmente falso (basta paragonare i dati del 2001 e del 2011, come abbiamo già avuto modo di sottolineare). L’accidia di chi non considera come degli aggiustamenti procedurali pensati potrebbero contribuire a ridurre il rischio di morte in carcere, legata non semplicemente al sovraffollamento, ma ad esempio alla impropria concentrazione dei problemi psicopatologici in alcune realtà, al mancato allestimento di aree autentiche di osservazione psichiatrica e di formule affidabili di accoglienza per coloro che fanno ingresso in un penitenziario, alla scarsa conoscenza della organizzazione penitenziaria e sanitaria di presidi della cui funzione e delle cui competenze ciascuno si sente autorizzato a dare una privata interpretazione, con tutti i rischi che ne derivano. L’arroganza di chi non desidera essere disturbato e ostacola una collaborazione interdisciplinare efficace, nella quale a ordini e disposizioni vuoti di senso si sostituiscano tempestive comunicazioni inter istituzionali e il rispetto reciproco dei compiti assegnati. Non serve fare appello alla solidarietà, perché parola sfibrata dal suo abuso nei decenni passati, meglio richiamarsi alla responsabilità e alla apparente magia della passione civile. Di tutte quelle morti sono responsabili l’approssimazione, l’accidia, l’arroganza e chi ne è interprete più o meno consapevole. A questa responsabilità che sta dietro il titolo che Paolo Cendon diede a un suo libro ormai datato, “Colpa vostra se mi uccido”, si contrappone la passione civile in grado di fare miracoli: il miracolo della colomba bianca che entra nella stanza del carcere in cui il Cardinal Martini, con la mente del cuore e con lo Spirito Santo dalla sua, illustra ai detenuti il significato profondo del Giubileo. Un aneddoto lieve, gentile, luminoso per la cui partecipazione agli interessati il grazie va a Luigi Pagano, Vicedirettore del Dipartimento della Amministrazione Penitenziaria. Gemma Brandi, Psichiatra psicoanalista Responsabile della Salute Mentale di Firenze 4 e degli Istituti di Pena di Firenze Lettere: la storia di B., in carcere per aver rubato una cassetta di frutta in un campo Comunicato stampa, 3 settembre 2012 B. è stato condannato per furto. È stato sorpreso in flagranza di reato: in macchina gli è stata rinvenuta una cassetta di frutta, rubata poco prima in un campo. Ora è in carcere, a scontare la pena e condividere la cella con detenuti per crimini più gravi… è impensabile che il trattamento carcerario sia uguale per chi è stato condannato per pedofilia o rapina e chi furto di frutta. Va rivisto il programma di recupero del detenuto, alcune carceri devono diventare delle vere e proprie comunità di recupero dove la condanna non può essere la condizione precaria della vita quotidiana, ma uno sforzo al recupero con personale preparato e adatto professionalmente. Nel 2008 il Consiglio dei diritti umani dell’Onu ha sottoposto il nostro Paese alla procedura di revisione periodica riguardante i diritti umani. Altri Paesi, democratici e civili, si stanno prodigando affinché si affermi il principio del diritto alla dignità della persona, rispetto alla pena da scontare. Il problema del sovraffollamento nelle carceri vìola le norme della Costituzione americana in materia di detenzione. Recentemente la Corte suprema degli Stati Uniti ha imposto al governo della California di rilasciare migliaia di detenuti per ridurre il tasso di occupazione. In Germania la Corte costituzionale ha affermato l’obbligo dello Stato di rinunciare immediatamente all’attuazione della pena nel caso di detenzioni non rispettose della dignità umana. In Italia, per la prima volta, con due diverse sentenze datate 2011 e 2012, è stato riconosciuto dal Tribunale di sorveglianza di Lecce il danno esistenziale nei confronti dei detenuti a causa dell’inadeguatezza del regime penitenziario. In Sicilia hanno sede 33 istituti (case circondariali, case di reclusione etc.) fatiscenti ed antiche, privi dei più semplici requisiti stabiliti dagli organismi di tutela dei diritti umani. Uno Stato civile deve togliere la libertà a chi ha commesso un reato ed è stato giudicato colpevole, ma non può privare le persone della propria dignità e attentare alla loro salute facendoli vivere in gravi situazioni igieniche, senza adeguate cure e nel sovraffollamento delle strutture carcerarie. Le cifre di coloro che muoiono nelle carceri italiane dimostrano che, queste non sono luoghi di rieducazione, come vuole la Costituzione, ma vere e proprie “discariche sociali”. Le cause del sovraffollamento sono molte. Dall’assenza di un piano di edilizia carceraria che risolva il problema e da una legislazione sulla pena alternativa al carcere che è drammaticamente carente. Da “noi”, la Regione Sicilia stanzia 167mila euro per l’ufficio di “garante dei detenuti” che deve monitorare, assistere e tutelare le persone private della libertà da eventuali abusi della pubblica amministrazione, trattamenti umilianti o inadeguati, violazione dei suoi diritti fondamentali. Ma si può fare ben poco, in quanto dei 167.000 euro stanziati, 100.000 euro servono a pagare lo stipendio annuo del presidente. Ad Agrigento, nel carcere di Petrusa dove vi sono ad oggi detenute 482 persone a fronte di una ricettività di 248, c’è anche B., con il peso di 20 chili di frutta. Aldo Mucci, Cgil Villaggio Mosè Trieste: carcere sovraffollato, protestano i detenuti Il Piccolo, 3 settembre 2012 Attualmente sono in 240 ma la capienza è di 150 persone. Presidio di carabinieri e polizia. Colpi secchi delle scodelle e delle posate contro le sbarre. Per oltre un’ora un centinaio di detenuti del Coroneo ha manifestato la propria protesta. La manifestazione ha fatto riferimento all’invito dei Radicali e in particolare del leader Marco Pannella ed è servita per denunciare anche a Trieste oltre che in tutta Italia “lo stato di illegalità nel quale vivono le istituzioni italiane”. L’obiettivo è quello dell’amnistia o dell’indulto. Il rumore è andato avanti per oltre un’ora. E molti dalla strada si sono fermati a guardare cosa stava succedendo. Sono arrivate le pattuglie della polizia e dei carabinieri che hanno stazionato per alcune ore. Le motivazioni: la “drammatica situazione delle carceri italiane”, il sovraffollamento “cresce senza che ancora alcun serio provvedimento venga avviato per fronteggiare quella che non è più una emergenza ma una cronica condizione”. E “come conseguenza del sovraffollamento”, si fa notare, “cresce anche il numero dei suicidi, segnale drammatico delle condizioni di disagio fisico e psichico in cui vivono i detenuti”. Il Coroneo è una potenziale polveriera. Attualmente i reclusi sono 240 con una capienza massima di 150 persone. Continua insomma a scoppiare di detenuti, ben oltre la capienza ufficiale. E li costringe non solo a passare le giornate uno sopra l’altro, ma anche a sopportare pesantissimi disagi causa la vetustà della struttura e dei suoi impianti, peraltro mai soggetti negli anni addietro a una manutenzione quanto mai indispensabile, conseguenza di un progressivo assottigliamento dei fondi statali destinati proprio al funzionamento, all’ordinaria amministrazione delle carceri. In alcune celle, ci sono sciacquoni difettosi e lavandini semi intasati, ancorché utilizzati quotidianamente da una decina di persone chiuse dietro la stessa sbarra. Catania: carceri affollate, in piazza Lanza continua la protesta La Sicilia, 3 settembre 2012 Anche ieri i detenuti del carcere di piazza Lanza, come tutti gli altri ristretti nel resto delle carceri italiane, hanno inscenato per un’ora la loro protesta per reclamare l’indulto, aderendo in tal modo all’invito lanciato da Marco Pannella, promotore, insieme ai componenti del suo partito - con l’onorevole Rita Bernardini in testa - di una lunga e continua azione per ottenere un trattamento umano e dignitoso per tutti i detenuti italiani. La protesta si manifesta con la “battitura dei ferri”, producendo rumore assordante con le pentole e i coperchi battuti contro le grate delle celle per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica sulle condizioni drammatiche in cui è costretto a vivere chi si trova dietro le sbarre. Il problema delle carceri italiane invivibili e sovraffollate è arcinoto e piazza Lanza rappresenta un concentrato tra i peggiori nel panorama penitenziario nazionale. Non è rispettata la dignità dell’uomo e viene impedita ogni attività lavorativa e ogni forma di rieducazione. Parlare di recupero del detenuto è ancora un’utopia e il peggio è che non funziona neppure il sistema sanitario, per cui i detenuti, anche per un banale mal di denti, si ritrovano a soffrire le pene dell’inferno. Il 14 agosto, ricordiamo, i radicali hanno lanciato lo sciopero della fame e della sete chiedendo la convocazione straordinaria del Parlamento su Giustizia e carceri. I Radicali auspicano, oltre a un’amnistia e a un indulto, varie forme di depenalizzazioni e limiti alla carcerazione in attesa di giudizio, e lamentano forti carenze di personale e fondi per il mondo carcerario. Siracusa: nuovo padiglione detentivo per 200 posti, un appalto da 11,8 milioni La Sicilia, 3 settembre 2012 Appaltati, dal commissario delegato per il Piano carceri, i lavori per la costruzione di un nuovo padiglione per 200 posti nella casa circondariale di Siracusa. Impegnati 11 milioni e 7.840 euro. “Un’autentica boccata d’ossigeno per un comparto, quello edile, profondamente in sofferenza a causa di una crisi occupazionale senza precedenti”, sottolineano Mimmo Bellinvia, segretario della Fillea Cgil Siracusa, e Roberto Alosi, segretario provinciale Cgil. “La notizia - aggiungono i due dirigenti della Cgil siracusana - è stata accolta con grande speranza negli ambienti del comparto edile di Siracusa. Essa infatti costituisce l’unica opportunità lavorativa concreta che, da qui a poco, prenderà il via nel nostro territorio. L’inizio dei lavori, nei piani del commissario delegato, dovrà avvenire entro il 2012 e la durata del cantiere è fissata in 18 mesi”. “Adesso - concludono Alosi e Bellinvia - occorre vigilare con grande attenzione sulla stesura del Protocollo territoriale di legalità, previsto dal Comitato di coordinamento per l’alta sorveglianza grandi opere del ministero degl’Interni, che vede riuniti attorno a uno stesso tavolo impresa, sindacato e Prefettura”. In quella sede dovranno quindi essere resi noti l’impresa appaltatrice e il numero di lavoratori da impiegare. Tuttavia, secondo Roberto Alosi, in relazione all’importo e alla durata dei lavori, si può già stimare, con relativa approssimazione, in 200 il numero dei lavoratori edili da impiegare. Naturalmente delle varie categorie del settore: muratori, carpentieri, imbianchini, verniciatori, impiantisti, e via discorrendo. Oltre a quelli dei servizi, a cominciare dai trasporti. è il primo passo, nella nostra provincia, sulla via dell’ammodernamento (ma sarebbe meglio dire per l’umanizzazione) del sistema carcerario. è un cammino che qui è stato avviato proprio per la struttura carceraria di Cavadonna, che è quella di più recenti costruzione ed esercizio. Interventi sostanziali sono ora attesi per le strutture di Brucoli e Noto. Sotto l’aspetto occupazionale gli altri cantieri dei quali il settore edile aspetta (e sollecita) l’apertura sono quelli per il prolungamento dell’autostrada Siracusa - Rosolini fino e Modica e per la costruzione della nuova Siracusa - Catania. Sono entrambe opere attese non soltanto per l’occupazione diretta di manodopera ma anche per lo sviluppo che esse possono /e debbono) innescare per il territorio. Per non parlare del rigassificatore, rimasto nel limbo eterno. Ma su tutto questo la politica tace. Come sempre. Cagliari: operai edili senza stipendio da tre mesi, occupano il cantiere del nuovo carcere Agi, 3 settembre 2012 I lavoratori dell’impresa Opere pubbliche, che ha in appalto la costruzione del nuovo carcere di Cagliari a Uta, hanno cominciato stamane uno sciopero con l’occupazione del cantiere. Gli operai, al rientro da un periodo di ferie di tre settimane imposto dalla ditta, non hanno ricevuto gli stipendi e i versamenti alla cassa edile di giugno, luglio e agosto, nonostante ai primi del mese scorso Opere pubbliche avesse garantito il pagamento delle spettanze. Intanto, i lavori sono rimasti fermi. “A questo punto”, è necessario che il ministero verifichi se Opere pubbliche sia all’altezza di portare a termine i lavori di un’opera definita più volte indispensabile e, soprattutto, dia spiegazioni sulle ragioni che, a dispetto della vertenza irrisolta, hanno portato all’affidamento, alla stessa società, di un nuovo appalto per servizi idrici e rete fognaria”. Foggia (Osapp); detenuto tenta suicidio, salvato dagli agenti Ansa, 3 settembre 2012 Un detenuto di 42 anni, arrestato di recente con l’accusa di estorsione, ha tentato il suicidio nel carcere di Foggia ingerendo liquido chimico utilizzato per le pulizie del bagno e che aveva in dotazione in cella. L’uomo è stato soccorso dagli agenti di polizia penitenziaria e trasportato al Pronto soccorso degli Ospedali Riuniti di Foggia; non è grave. Lo riferisce in una nota il vice segretario nazionale dell’Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria (Osapp), Domenico Mastrulli. L’episodio si è verificato questa mattina, quando nel carcere foggiano, che ospita 720 detenuti, erano in servizio solo 45 agenti di polizia penitenziaria. è la quarta volta, riferisce l’Osapp, che lo stesso detenuto tenta il suicidio; pochi giorni fa era stato salvato dopo aver tentato di impiccarsi in cella. Mastrulli sottolinea nella nota le condizioni molto precarie in cui sono costretti ad operare gli agenti della polizia penitenziaria e i numerosi casi di tentato suicidio, autolesionismo, aggressioni e le proteste che nei mesi scorsi hanno visto protagonisti i detenuti, mentre resta da risolvere il problema della carenza di personale rispetto alla situazione di sovraffollamento carcerario. Castrovillari: Diritti Civili; negato a detenuto di telefonare alla moglie gravemente malata Ansa, 3 settembre 2012 “A un detenuto del carcere di Castrovillari, I.L, di 62 anni, viene negato di poter parlare al telefono con la moglie gravemente malata (è stata operata per un tumore ed è ammalata grave di cuore), che proprio per la gravità delle sue patologie, abitando a molti chilometri di distanza dalla città del Pollino, non può andare a trovarlo”. È quanto afferma, in una nota, il leader del movimento Diritti Civili, Franco Corbelli al quale l’uomo, che deve scontare nove anni di carcere, si è rivolto dopo avere presentato diverse istanze. “Non conosco questo detenuto - sostiene Corbelli - né la sua storia processuale. È grave, assolutamente ingiustificato e non degno di un Paese civile negare ad un detenuto la possibilità di poter parlare al telefono con la propria moglie malata di cuore e operata di cancro. Quello che è certo è che il carcere di Castrovillari non c’entra nulla, perché esegue solo quelle che sono le disposizioni in materia che vengono impartite dal ministero della Giustizia e dal Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria)”. “Questo detenuto - sottolinea ancora Corbelli - scrive che si sente umiliato per questa ingiustizia, che lotta da nove mesi per poter avere colloqui telefonici con la moglie gravemente malata. Ma senza riuscirci. Chiedo alle autorità preposte che questo detenuto venga autorizzato a poter parlare al telefono, una volta a settimana (così come avviene per tutti gli altri reclusi), con la moglie gravemente malata”. Monza: Uil-Pa; piove dentro le celle, sessantacinque detenuti sfollati Il Giorno, 3 settembre 2012 Una ventina di celle dichiarate inagibili oltre alla sessantina già chiusa ormai un anno fa sempre per le pesanti infiltrazioni d’acqua. E non poteva mancare il corto circuito. Sessantacinque detenuti sfollati d’urgenza fra venerdì notte e questa mattina. Una ventina di celle dichiarate inagibili oltre alla sessantina già chiusa ormai un anno fa sempre per le pesanti infiltrazioni d’acqua. E un corto circuito che ha lasciato senza luce né acqua un’intera sezione dell’Alta Sicurezza. È di nuovo emergenza nel carcere di Monza. La violenta e abbondante pioggia fra venerdì e sabato ha riportato a galla un problema con cui detenuti e agenti avevano dovuto fare i conti la sera del 5 agosto 2011 quando un violento nubifragio fece finire sott’acqua anche le salette colloqui, l’ufficio matricola, la palestra e l’auditorium. “Ormai il tetto del carcere è diventato uno scolapiatti - sbotta Domenico Benemia, segretario regionale della Uil penitenziari. Dopo un anno e decine di segnalazioni e denunce nulla è cambiato. Anzi, la situazione è addirittura peggiorata”. I detenuti della sezione numero 5 dell’Alta Sicurezza - rimasta senza energia elettrica e senza acqua - sono stati trasferiti in altri istituti della Lombardia. L’altro reparto cosiddetto AS è agibile solo a metà. Il fatto è che “sono stati fatti dei piccoli interventi tampone sul tetto ma quando piove molto ecco cosa succede - continua Benemia. Detenuti e agenti sono costretti a vivere e lavorare in condizioni pietose e insane”. Latina: detenuto picchiato da due compagni, ricoverato e sottoposto intervento chirurgico www.notizie.com, 3 settembre 2012 Un 25enne di Formia detenuto per rapina a mano armata, e un 26enne di Minturno in carcere per detenzione e spaccio di stupefacenti, sono stati entrambi denunciati per lesioni gravissime alla Procura della Repubblica di Latina per fatti avvenuti venti giorni fa ma noti solo oggi, dopo il trasferimento di entrambi in altri istituti di pena. I due avrebbero picchiato selvaggiamente, all’interno della casa circondariale di Latina, durante l’ora d’aria, un altro detenuto fino ad un intervento in ospedale e all’asportazione della milza. Ad aggravare la posizione dei due pregiudicati, inoltre, il fatto che abbiano agito non per ragioni personali ma come esecutori delle volontà di un altro detenuto: un campano in carcere per rapina. Che avrebbe scatenato la brutale violenza a seguito di un presunto sgarbo subito dalla vittima dell’aggressione. Un episodio poco chiaro che rientrerebbe in una logica di prevaricazione e gruppi tutta interna all’ambiente carcerario e per cui il 26enne è stato trasferito presso la casa circondariale di Velletri, mentre per l’altro in quella di Frosinone, ed infine il campano a Roma. Imperia: detenuto gravemente malato, lettera del direttore al magistrato di sorveglianza La Stampa, 3 settembre 2012 È stata l’ultima iniziativa del direttore del carcere d’Imperia Nicolò Mangraviti, che ha scritto al magistrato di sorveglianza e ai suoi superiori e proprio oggi è andato in pensione dopo 40 anni di servizio. Ha avuto un aiuto insperato, proprio quello del direttore, Fabio Pulina, il detenuto di 36 anni, rinchiuso nel carcere di Imperia per scontare una pena a 8 mesi diventata definitiva, e condannato per il furto di un paio di jeans, episodio del 2008. L’uomo è gravemente malato per una forma di meningoencefalite virale che gli causa difficoltà a camminare e a regolare i bisogni corporali: ha bisogno costante di assistenza soprattutto notturna, quando gli agenti penitenziari sono costretti a chiamare servizi medici esterni. Il caso è stato denunciato dai compagni di cella, sconcertati e preoccupati dal fatto che finora gli appelli per la scarcerazione di Pulina sono caduti nel vuoto. Questa mattina il detenuto è stato portato a fare una Tac in ospedale. Una condizione penosa a cui non è estraneo l’accanimento che il regime e la burocrazia carcerarie spesso mostrano nei confronti di chi non può permettersi una difesa all’altezza. Messina: Osapp; niente soldi per il carburante per trasposto detenuti, processi a rischio Agi, 3 settembre 2012 A rischio tutti i servizi demandati alla polizia penitenziaria della casa circondariale di Messina per la mancanza di soldi necessari all’acquisto del carburante. Lo afferma il vice segretario generale dell’Osapp Domenico Nicotra, che spiega: “Se ai primi di settembre la situazione è questa, è evidente che appena riprenderà regolarmente l’attività giudiziaria, non potranno essere celebrati i processi con immaginabili ripercussioni, compresa la scarcerazione di detenuti perché non comparsi davanti all’autorità giudiziaria”. Se non si troveranno immediatamente adeguate risorse finanziarie, “il sistema andrà in tilt”. Ferrara: alla Festa del Partito Democratico incontro sulle carceri e l’amnistia www.estense.com, 3 settembre 2012 “Si esce dal carcere ma non dalla condanna”. Questo il titolo dell’incontro che si è svolto ieri sera alla Festa di Pontelagoscuro del Pd, cui hanno partecipato, Andrea Pugiotto, ordinario di diritto costituzionale presso l’università di Ferrara e responsabile scientifico ed organizzativo della scuola di formazione per una consapevole cultura costituzionale. Michalis Traitsis, regista e direttore artistico di “Balamòs Teatro” e responsabile del progetto “2Passi sospesi”. Paolo Niccolò Giubelli, segretario dell’associazione Radicali di Ferrara, Marcello Marighelli, garante dei detenuti di Ferrara. Il sovraffollamento di cui soffrono da anni le carceri italiane sono sinonimo di forme di detenzione che privano i detenuti della loro dignità, esercitano nei loro confronti forme inaccettabili di tortura, ledono il principio costituzionale che affida alla pena e dunque alla detenzione carceraria il compito di rieducare i detenuti. Da questo assunto è partito il dibattito che ieri sera ha visto confrontarsi alla Festa del Pd di Pontelagoscuro diverse esperienze e diversi punti di vista. Dal prof. Andrea Pugiotto, ordinario di Diritto costituzionale dell’ateneo di Ferrara, che in una lettera aperta ha sollecitato in giugno il Presidente Giorgio Napolitano a promuovere l’amnistia, a Marcello Marighelli, garante dei detenuti a Ferrara, favorevole a forme alternative di detenzione, alla diffusione del lavoro all’interno del carcere come strumento di restituzione della dignità personale. Favorevole ad amnistia e indulto come strumenti per ripristinare la legalità violata del sistema carcerario italiano il segretario dei Radicali di Ferrara, Paolo Niccolò Giubelli, mentre Michalis Traitsis regista che da anni si occupa delle tematiche della prevenzione e della detenzione attraverso lo strumento delle arti: teatro, cinema, musica, danza. In questi giorni ha organizzato degli incontri con la regista indiana Mira Nair presso la casa di reclusione di Giudecca, a Venezia, in collaborazione con la 69° mostra Internazionale d’arte cinematografica ha sottolineato la complessità del tema, di natura innanzitutto culturale. Amnistia e indulto subito, “in Italia violata la legalità” Pugiotto ricorda i 1.200 ricorsi dei detenuti italiani presentati a Strasburgo, che denunciano il trattamento inumano subito. Amnistia si o no: il dibattito sugli strumenti per alleggerire il sovraffollamento delle carceri italiane - tenutosi ieri sera alla festa Pd di Ferrara, moderato da Elisabetta Soriani - ha visto contrapporsi nettamente le posizioni di Andrea Pugiotto, ordinario di diritto costituzionale per l’università di Ferrara e Marcello Marighelli, garante dei detenuti all’Arginone. Pugiotto ha specificato come non si possa innanzitutto ragionare di amnistia senza che questa venga abbinata all’indulto - “altrimenti i tribunali continuerebbero per anni a lavorare inutilmente su processi che si concluderebbero con una formula di rito: reato estinto” - , e ha poi affrontato il nodo della questione: “da qui a breve esploderà una bomba, a Strasburgo ci sono 1.200 ricorsi presentati dai detenuti italiani, che chiedono la condanna dello Stato per il trattamento inumano e degradante a cui sono stati sottoposti in prigione”. Per il docente l’amnistia è necessaria al ripristino della legalità - “se la legalità è violata bisogna intervenire subito, non si aspetta” - ma altri interventi sarebbero necessari, come per esempio la revisione delle leggi Bossi - Fini in materia di immigrazione, la Fini - Giovanardi in materia di stupefacenti, la Cirielli che ha inasprito i termini della recidiva: “le prime due hanno aperto le porte del carcere a clandestini e tossicodipendenti, la terza ha chiuso la porta a doppia mandata”. L’opportunità di intervenire su questi provvedimenti è forse l’unico punto su cui Pugiotto e Marighelli sono riusciti a convergere, per quanto riguarda l’amnistia il garante è contrario: “in parlamento inizierebbero discussioni infinite su quali reati comprendere e quali no, alla fine uscirebbero dalle carceri in pochissimi. Sarei più disposto a ragionare sull’indulto”. Marighelli ha sottolineato come bisognerebbe impegnarsi di più per favorire gli inserimenti lavorativi e la mediazione culturale: “a Ferrara gli inserimenti sono meno di dieci, e le ore del mediatore sono passate da 20 a 17 a causa dei tagli”. Sulle attività per la rieducazione della popolazione detenuta è intervenuto il regista e attore Michaelis Traitsis, impegnato da anni presso il carcere femminile di Venezia, per ribadire come - a prescindere dalle iniziative legislative che si possono mettere in campo - il problema in Italia sia soprattutto di natura culturale: “è difficile organizzare delle attività in prigione, c’è molta diffidenza. Le istituzioni spesso non agevolano questi progetti. Vince l’idea che lì dentro bisogna soffrire. Ma se tratti le persone come delle bestie, quando usciranno saranno ancora più inferocite. La rieducazione dei detenuti riguarda l’interesse sociale”. Niccolò Giubelli, segretario dell’associazione Radicali di Ferrara, schierato a favore dell’amnistia, ha annunciato l’intenzione del gruppo di promuovere azioni che provochino al più presto un dibattito serio: “l’amnistia è necessaria, ma nessuna misura sarà mai efficace fino a quando lo Stato non sarà credibile, fino a quando non sarà capace di far valere le regole imposte a livello nazionale e a livello europeo”. Torino: al Macef in mostra creazioni detenute del “Lorusso e Cotugno” Redattore Sociale, 3 settembre 2012 Saranno esposte al Macef, il Salone internazionale per la casa che si terrà dal 6 al 9 settembre. Il progetto “Fumne” impiega otto donne di varia nazionalità tra i 25 e i 55 anni. La collezione comprende oggetti per la casa, abiti e accessori. Creare, trasformare, rigenerare: perché nulla è così vecchio o malconcio da dover essere buttato via. E così - mentre giacche sformate, scampoli di tessuto e gomitoli di lana diventano borse, abiti e gioielli - la rabbia e l’inedia che accompagnano la detenzione in carcere si trasformano in creatività, espressività, senso estetico. è quanto accade nel progetto “Fumne”, termine che in dialetto piemontese sta per “donne”. Un atelier nato nel più singolare dei luoghi: la casa circondariale Lorusso e Cutugno di Torino, dove ogni giorno otto detenute - di varia nazionalità ed età compresa tra i 25 e i 55 anni - progettano e realizzano oggetti per la casa, abiti e accessori per la donna. Creazioni che nel tempo hanno raggiunto livelli di eccellenza, tanto che quest’anno, per la prima volta, verranno esposte negli stand del Macef, il Salone internazionale per la casa che si terrà a Milano dal 6 al 9 settembre. Partito nel 2008 da un’idea dell’associazione culturale “la casa di Pinocchio”, il progetto è nato come laboratorio creativo per il recupero della femminilità all’interno del carcere: “la detenzione - spiega Monica Gallo, presidente dell’associazione - tende ad annullare la femminilità, anche solo per il regolamento interno: gli specchi e il trucco sono banditi, non è consentito un certo tipo di abbigliamento, così come le scarpe da donna. La prigionia, poi, spesso accresce una tendenza all’aggressività e all’infantilismo: tutti elementi che, se lasciati all’interno di una cella, possono rivelarsi esplosivi. Le donne che frequentano il nostro gruppo hanno un innato rifiuto per le regole: hanno un che di eccessivo rispetto alle altre detenute che, se artisticamente veicolato, produce genialità anziché devianza”. Nei locali delle vecchie cucine del “Lorusso” è stato realizzato un laboratorio in cui le detenute, tutte regolarmente assunte, creano utilizzando le tecniche del lavoro sartoriale. “Le nostre lavoratrici hanno la possibilità di abbandonare ogni giorno la condizione di ozio forzato all’interno della cella” continua la Gallo. “Si sentono utili e sono indirizzate a usare saggiamente la loro immaginazione. In loro si sono verificati degli importanti cambiamenti: oggi sono più rilassate, hanno molta più cura di loro stesse e hanno una maggiore predisposizione alla socialità”. Le 8 detenute, infatti, si occupano anche dei corsi di “FumneLab”, scuola artigianale di rigenerazione tessile dove possono insegnare le loro competenze alle donne libere. “Questa - prosegue la Gallo - è la parte più interessante del nostro progetto e credo che abbia prodotto degli effetti sociali oltre che individuali. Si tratta di un autentico ponte tra dentro e fuori, che porta a un reciproco arricchimento delle parti. Le partecipanti ai nostri corsi, ad esempio, hanno costituito una specie di gruppo di acquisto solidale, portando all’interno del carcere prodotti che non sono presenti nella lista dello spesino per le detenute, come creme per il corpo e prodotti di bellezza. Anche il contatto con le donne libere, quindi, è stato molto importante per il recupero della femminilità delle detenute, che a loro volta sono molto brave nel trasmettere l’amore per il lavoro sartoriale”. Al Macef, per la prima volta l’atelier presenterà una vera e propria collezione. Tutti gli oggetti saranno accompagnati da un cartellino con il logo “Fumne” e con le informazioni sulla loro storia: l’origine dei materiali, le ore necessarie alla lavorazione e alla progettazione, il numero di serie. “La presenza al salone - conclude la Gallo - sarà un banco di prova importante per noi. In passato abbiamo venduto i nostri oggetti nei bookshop dei musei, oltre ad esporli alla Biennale di Venezia; ma finora non avevamo mai realizzato una collezione ripetibile in serie da presentare al mercato. Nel caso in cui i nostri prodotti vendano bene, c’è una piccola azienda già pronta ad aiutarci nella produzione della nostra collezione”. Verona: l’Altra Platea; quattro detenuti in permesso, al debutto del Festival VenerAzioni MicroCosmo, 3 settembre 2012 Venerdì, ultimo giorno di agosto, quattro persone detenute escono in permesso premio per assistere al Teatro Nuovo di Verona, in alternativa per riparo dalla pioggia sul previsto Teatro Romano, al debutto del Festival VenerAzioni con il concerto di Petra Magoni e Ferruccio Spinetti, un duo di fama internazionale che ruota, voci e corpi, intorno al contrabbasso. La voce di Petra e la musica di Ferruccio catturano non solo gli spettatori del tutto esaurito del teatro cittadino. L’indomani mattina, primo giorno di settembre, anche lui piovoso dopo una lunga secca estiva, ha portato in carcere la musica espressiva e potente di questo gruppo fatto di essenziale, nelle persone, negli strumenti, sola voce e contrabbasso, e nell’energia intensa di Musica Nuda. È uno degli appuntamenti della Rassegna Estiva de L’Altra Platea, organizzata da ormai tre estati dalla Redazione del carcere di Verona, MicroCosmo, promossa dal direttore Mariagrazia Bregoli e dal Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Verona, Margherita Forestan. Incontrati nei camerini del Teatro qualche attimo prima dell’inizio della serata, ci hanno accolti anche Gianmarco D’Alessandro e Alessio Lotti, manager dell’agenzia ‘Cose di Musicà l’uno e fonico l’altro, insieme ai musicisti, per gli ultimi accordi organizzativi. La disponibilità gratuita è stata totale e la presenza attenta e vivace. Nello spazio normalmente adibito a chiesa, per l’occasione concesso dal cappellano don Maurizio, sono scesi i detenuti e una rappresentanza delle detenute. Petra e Ferruccio hanno interpretato ben nove brani spaziando come genere tra jazz, pop e soul, reinterpretando in chiave originale brani noti ma anche di loro composizione (Io sono metà, Lei colorerà, e un’ironica Professionalità). L’apertura del concerto è stata assegnata a Eleanor Rigby, un brano dei Beatles, seguito da Roxane dei Police, la prima canzone che hanno cantato insieme circa dieci anni fa; poi un sorprendente rifacimento di Bocca di rosa di De Andrè; una spassosa rielaborazione di Tuca Tuca; e ancora, Fever di Cooley e Davenport e, a conclusione della loro performance, I will survive, conosciuta ai più per l’esecuzione di Gloria Gaynor. È stato facile “evadere” lasciandosi catturare da Complici, il loro ultimo Cd, dal quale sono stati ascoltati due brani, vere e proprie narrazioni musicali. L’incontro è stato anche caratterizzato da dialoghi, aneddoti, domande e risposte, a conferma del grande coinvolgimento dei presenti che hanno risposto calorosamente e vivacemente. I detenuti hanno preparato per loro un buffet di prodotti da forno per condividere insieme un momento di convivialità, durante il quale ognuno ha potuto scambiare qualche parola con i musicisti per approfondire interessi e curiosità musicali. Prima di uscire, per scattare alcune foto autorizzate, i detenuti “fornai” si sono accomodati sui primi banchi della chiesa per ascoltare a vera viva voce nuda un assaggio delle esecuzioni di Petra su accompagnamento di Ferruccio, con il suo “vissuto” contrabbasso, anch’esso senza microfoni o amplificatori. Le emozioni non sono certo mancate in questa grigia giornata di pioggia settembrina, tra saluti e ringraziamenti, come una festa tra amici. Grazie! La Redazione di MicroCsomo Busto Arsizio: basket in carcere… i detenuti vanno a canestro Il Giorno, 3 settembre 2012 Busto Arsizio, si comincia a lanciare a canestro giovedì 6 settembre. Tutti gli effetti un percorso rieducativo che concorre alla riabilitazione del detenuto, in nome di quel valore rieducativo della pena. Nuova sfida per “Amici del Campetto” l’associazione bustocca che dal 1999 si occupa dell’organizzazione di manifestazioni sportive e di iniziative ludico - aggregative legate al basket e allo street basket in tutto il Nord Italia. In collaborazione con Uisp Varese e col contributo della Fondazione del Varesotto, Adc parte con una nuova iniziativa sociale denominata “Basket in carcere”. Il progetto partirà giovedì 6 settembre nel carcere di Sant’Anna a Busto Arsizio. Lo sport in carcere è a tutti gli effetti un percorso rieducativo che concorre alla riabilitazione del detenuto, in nome di quel valore rieducativo della pena. Con questo intento l’associazione vuole promuovere la pratica della pallacanestro come sport ad alta valenza educativa. La presidente di Amici del Campetto, Luna Tovaglieri dice: “Il basket è uno sport in cui sono fondamentali il lavoro di squadra e la gestione del proprio corpo, in quanto è previsto il contatto fisico. Inoltre è fondamento del basket una concezione del fair play e della correttezza in campo che in altri sport non è sempre presente. Queste peculiarità fanno del basket lo sport perfetto per gli obiettivi che ci siamo prefissati con questo progetto e che siamo certi che l’intera comunità avrà modo di apprezzare”. Il progetto prevede l’organizzazione di allenamenti a cadenza settimanale, organizzazione di partite e di veri e propri tornei street 5v5 e 3vs3. Libri: “Più alto del mare”, di Francesca Melandri (Rizzoli, pag. 238, euro 17,00) Intervista di Alessandro Censi Gazzetta di Parma, 3 settembre 2012 L’isola dell’Asinara, dove la scrittrice Francesca Melandri ha ambientato il suo secondo romanzo “Più alto del mare” (Rizzoli, pag. 238, 17,00), è un lembo di terra di selvaggia bellezza dove fino a pochi anni fa era attiva una colonia penale che aveva tutte le caratteristiche della società isolata e del microcosmo territoriale. I protagonisti, Paolo, ex professore di filosofia, e Luisa, una modesta contadina, in visita al carcere di massima sicurezza, sono il padre di un terrorista e la moglie di un assassino: entrambi hanno ucciso, uno per motivi ideologici, l’altro per motivi comuni. I due personaggi stanno attraversando un tratto buio della loro vita. Luisa, da dieci anni viaggia per visitare il marito detenuto, mentre Paolo, il padre del giovane terrorista, anche se viaggia da meno anni ha addosso un peso di tragedia ancora più grande e straziante, perché si sente responsabile delle scelte del figlio. Nell’ultimo viaggio, il destino impone una permanenza sull’isola più lunga di quelle che di solito erano le loro visite ai parenti detenuti, e in questa occasione Paolo e Luisa - di cifra opposta, si potrebbe dire - s’incontrano. Questo incontro innesca una breve storia d’amore, anche se resta preponderante l’aspetto politico del romanzo che rievoca i terribili anni di piombo. Ma per Paolo e Luisa, ancora stravolti da quello che ha portato in prigione i loro cari, quel breve intermezzo sentimentale colora il resto della vita. Incontriamo la scrittrice Francesca Melandri, che con questo romanzo è finalista alla cinquantesima edizione del Premio Campiello, che sarà assegnato domani sera a Venezia. Che cosa accomuna Paolo e Luisa? Sono due persone normali che non hanno nulla in comune, eppure s’incontrano in un posto di grande bellezza e succede loro qualcosa. Lei, credente, tira avanti da sola la fattoria e cinque figli; lui è un professore di storia e filosofia del liceo, di una città che potrebbe essere Torino. Col libro volevo esplorare la natura nuda dei sentimenti e ho messo i due personaggi in una natura aspra dove anche il dolore è nudo, e pure loro sono intimamente esposti all’incontro l’uno con l’altra. È il senso della relazione primaria fra due esseri umani che la vita ha spogliato di tutto. La natura, nei suoi libri, ha sempre una importanza primaria? In generale nei miei scritti, la natura ha sempre molta importanza. Nel mio primo romanzo, “Eva dorme”, erano protagoniste le montagne, le vallate e gli abitanti del Sud Tirolo /Alto Adige. Nel rapporto fra le esperienze di ogni essere umano, non necessariamente metafisiche, e la natura, sento che c’è qualcosa che mi riguarda, anche se non so bene perché. Io mi percepisco sempre come un essere umano che vive dentro un contesto spaziale, geografico, anche quando cammino in città per me la natura è molto importante. Inevitabilmente quindi trasferisco questo anche nei miei personaggi. Che cosa le ha ispirato l’idea di un romanzo ambientato all’Asinara, fino a pochi anni fa sede di un penitenziario di massima sicurezza? L’idea iniziale è nata proprio da una visita all’Asinara. Ancora non avevo scritto neppure il mio primo romanzo, ma restai affascinata dalla natura dell’isola. L’Asinara adesso è un parco naturale e dato che non c’è più il carcere si può visitare con delle guide ma non vi si può soggiornare, e credo che chiunque vada lì non può non essere travolto dal contrasto tra la strepitosa serenità e varietà della natura - le montagne, gli asinelli bianchi, i cavalli bradi, i prati, il mare turchese - e le terribili vicende umane di dolore e violenza che qui si sono susseguite: prima covo di pirati, poi lazzaretto per le malattie infettive, poi campo di prigionia per i criminali di guerra, carcere e infine carcere di massima sicurezza. Anche se gli anni di piombo sono lontani, non le è sembrato rischioso scriverne, sia pure in modo marginale? Tutto ciò che è marginale, luoghi, punti di vista, sentimenti sono, per mia indole, qualcosa che sento affine e che mi serve per capire il mondo. Il romanzo è ambientato nel 1979: un anno dopo il rapimento di Aldo Moro, un anno prima della strage alla stazione di Bologna, e l’anno della rivolta nel carcere dell’Asinara. Quegli anni avevo interesse a raccontarli, ma volevo starne ai margini, sul bordo. E quindi ho pensato di avere come protagonisti dei parenti di carcerati, figure che sono raccontate molto poco, ma che io, sento più prossime. In qualche maniera sono coloro che, come il resto della società, hanno convissuto, senza essere protagonisti ma subendone l’onda d’urto, quella violenza politica che ci ha assediato per tanti anni. L’Agente di custodia, è una sorta di Virgilio che l’accompagna nel mondo complesso del carcere? Il terzo protagonista, l’agente di custodia Nitti Pierfrancesco, mi era necessario per entrare nell’universo carcerario di massima sicurezza, chiuso al mondo e con regole tutte sue. Attraverso questo personaggio volevo raccontare che anche una persona di sentimenti semplici ma veri, messa in una situazione che non è umana, in un universo chiuso di segregazione, quasi un inferno, non può non diventare lui stesso il male. Questo non è un giudizio sulla persona ma sul sistema. raccontare anche questa cosa. Immigrazione: rivolta nel Cpa di Ragusa; feriti quattro agenti, quindici tunisini fermati La Repubblica, 3 settembre 2012 È accaduto nel centro di prima accoglienza di Pozzallo, in provincia di Ragusa. Lo scorso 20 agosto un’altra rivolta era stata domata a fatica e il centro era stato totalmente distrutto. Quindici i nordafricani fermati. Ennesima rivolta nel centro di pronta accoglienza di Pozzallo e nuovi arresti per devastazione, saccheggio e resistenza e violenza a pubblico ufficiale. Accade tutto in un giorno e si ripetono scene già viste undici giorni fa. La nuova rivolta di migranti tunisini che protestano per la decisione del rimpatrio coatto scoppia nella tarda mattinata quando una ventina di cittadini tunisini, trasferiti in mattinata da Porto Empedocle, dopo aver chiesto cibo e bevande hanno cominciato a protestare e a scagliarsi contro poliziotti e carabinieri preposti al loro controllo, nel momento in cui sono stati avvertiti di prepararsi per il rientro in patria. Qualcuno ha provato a fuggire e a piazzarsi sul terrazzo della struttura di Pozzallo. Il pronto intervento dei rappresentanti delle forze dell’ordine ha fatto sì che non si ripetessero i disordini del 20 agosto quando il centro venne occupato e quasi distrutto. Allora al termine della rivolta risultano feriti un poliziotto e un carabiniere. Proprio a seguito di quegli scontri, polizia e carabinieri arrestarono 14 migranti. Stavolta la rivolta provoca cinque feriti, seppure in forma lieve: quattro poliziotti e un carabiniere. Distrutti infissi e suppellettili, divelto il parquet del centro e le aste di legno utilizzate per minacciare gli agenti. Polizia, carabinieri e guardia di finanza dopo aver sedato la rivolta hanno arrestato quindici migranti tunisini, ritenuti i responsabili della rivolta e rinchiusi nelle carceri di Modica e Ragusa. Stati Uniti: l’esperienza degli “Shock Camp”, carceri alternative a minima sicurezza www.ilpost.it, 3 settembre 2012 Sono prigioni alternative statunitensi a minima sicurezza, utilizzano programmi basati sulla disciplina, e sembrano dare qualche risultato. Secondo quanto riporta un articolo dell’Associated Press pubblicato ieri dal Wall Street Journal, i circa 45 mila detenuti statunitensi che hanno vissuto l’esperienza degli “Shock Camp” negli ultimi 25 anni, una volta usciti di prigione hanno mostrato tassi di recidiva molto più bassi della media. I cosiddetti “Shock Camp” sono strutture di detenzione a minima sicurezza attive negli Stati Uniti a partire dagli anni Ottanta come alternativa alle classiche prigioni. Queste strutture, secondo quanto scrive un rapporto del dipartimento della Giustizia statunitense del 1994, “forniscono un ambiente terapeutico dove i giovani autori di reati non violenti ricevono un trattamento di rieducazione, un’educazione accademica e l’assistenza necessaria per promuovere il loro reinserimento nella comunità”. Questi centri di detenzione, che hanno una sorveglianza minima, si trovano quasi sempre tra i campi e non sono dotati di muri o barriere di reclusione, possono entrarci soltanto i detenuti giudicati colpevoli per reati non violenti che acconsentano al trattamento firmando un contratto. Il periodo di reclusione dura sei mesi, durante i quali i detenuti vivono in un clima altamente disciplinato, basato su orari fissi, con rassegne da parte degli ufficiali per controllare l’igiene dei detenuti, pranzi in comune, ma anche esercizi mirati a fortificare il fisico e a potenziare la fiducia reciproca tra loro. In questo momento nello stato di New York ci sono 3 campi di questo tipo e con poco più di mille detenuti, scrive AP. I campi sono quello di Moriah, nei monti Adirondack, quello di Lakeview ad ovest della contea di Chautauqua, e quello di Monterey, nella regione dei Finger Lakes. Fino al 2011 ce n’era un quarto, quello di Albany, scrive sempre AP, ma è stato chiuso nel 2011 per problemi economici, anche se questo sistema rieducativo, mirato a ridurre la pena dei detenuti, ha fatto risparmiare secondo gli organizzatori del programma oltre 1 miliardo di euro in 25 anni. Anche i dati forniti dagli organizzatori e citati da AP nell’articolo sembrano essere incoraggianti: pare infatti che, a distanza di un anno dalla fine della pena, i detenuti che hanno vissuto l’esperienza degli Shock Camp mostrino tassi di recidiva decisamente più bassi del normale: di quasi un terzo rispetto ai detenuti normali a un anno dal termine della pena (7% contro 19,9) e di circa la metà a 3 anni di distanza (26,4 contro 42). Medio Oriente: sciopero della fame in carceri israeliane, due palestinesi in pericolo di vita di Riccardo Noury Corriere della Sera, 3 settembre 2012 Hassan Safdi e Samer al - Barq, in sciopero della fame da diversi mesi, sono stati trasferiti d’urgenza dal centro medico della prigione di Ramle, vicino a Tel Aviv, a quello di Assaf Harofeh. I due uomini avevano iniziato a rifiutare il cibo rispettivamente il 22 maggio e il 21 giugno per denunciare la detenzione amministrativa, in base alla quale le autorità militari israeliane possono imprigionare palestinesi dei Territori occupati senza processo e a tempo indeterminato, qualora siano sospettati di costituire una “minaccia alla sicurezza”, giudizio basato su prove segrete che non vengono rese note né ai detenuti né ai loro avvocati. I palestinesi sottoposti a detenzione amministrativa possono restare in carcere per sei mesi, trascorsi i quali il periodo può essere rinnovato a tempo indeterminato. Non vengono formalmente incriminati, poiché non vi è l’intenzione di sottoporli a processo (nella foto l’arresto di un palestinese che protesta contro gli insediamenti nella Cisgiordania occupata). Secondo Amnesty International, al-Barq “non sta ricevendo le cure adeguate dal personale ospedaliero”. Il 13 agosto alcune guardie carcerarie avrebbero picchiato Safdi e al-Barq per essersi rifiutati di cambiare cella e unirsi a dei detenuti che non stavano attuando lo sciopero della fame. “Ora - spiega Amnesty International - la loro salute si sta deteriorando e la loro vita è in pericolo”. Secondo il portavoce dell’amministrazione penitenziaria israeliana Sivan Weizman, “i prigionieri sono trattati conformemente al loro stato di salute e seguendo le informazioni dei medici”. Il loro caso è seguito anche dalle organizzazioni israeliane per i diritti umani, tra cui Physicians for human rights. Circa 2000 detenuti palestinesi, lo scorso aprile, avevano partecipato a uno sciopero della fame collettivo per protestare contro la detenzione amministrativa. La protesta si era conclusa il 14 maggio con un accordo con l’amministrazione penitenziaria israeliana, che prevedeva tra l’altro la fine del rinnovo del periodo di detenzione amministrativa per tutti i palestinesi nei confronti dei quali non fossero emerse nuove prove, la fine dell’isolamento per 19 prigionieri e il ripristino delle visite dei familiari ai detenuti originari di Gaza. Pakistan: bimba “blasfema”; imam accusatore arrestato per aver alterato le prove Ansa, 3 settembre 2012 L’imam Khalid Jadoon, uno dei protagonisti della vicenda che ha portato in carcere per blasfemia la bambina cristiana Rimsha Masih, è stato arrestato ieri sera dalla polizia dopo che testimoni lo hanno accusato di avere manipolato le prove contro la piccola aggiungendovi pagine del Corano bruciate. Lo riferiscono i media ad Islamabad. Alla luce di questo colpo di scena, il presidente del Consiglio degli ulema del Pakistan, Tahir Ashrafi, ha chiesto al presidente Asif Ali Zardari di far liberare subito Rimsha. La stampa indiana riferisce con molti particolari oggi la svolta avvenuta nella vicenda. Il quotidiano The News International la ricostruisce sulla base di una testimonianza scritta e presentata alla magistratura di Hafiz Mohammad Zubair che si trovava nella moschea al momento dei fatti. Altri due fedeli musulmani, Hafiz Awais and Khurram Shahzad, pure presenti, hanno convalidato questa versione. “Un abitante del villaggio di Mehrabadi di nome Amaad e diventato poi il firmatario dell’accusa contro Rimsha - scrive il quotidiano - ha portato all’imam Masjid (principale predicatore della moschea) Mohammad Khalid Jadoon pagine bruciate di un Namaz (preghiere) e di un Noorani Qaeda (testo per apprendere la lettura del Corano)”. Ma Jadoon, aggiunge, “vi ha aggiunto altre pagine bruciate del Corano. Quando Zubair gli ha fatto notare che questo era scorretto, l’imam ha risposto, davanti anche agli altri due testimoni, che il suo obiettivo era di espellere tutta la comunità cristiana dal villaggio”. Reagendo a questo, il presidente del Consiglio degli ulema pachistani, Tahir Ashrafi, ha chiesto al presidente Zardari di intervenire immediatamente. “Non solo alla luce di quanto avvenuto deve far togliere la bambina dalla custodia della polizia - ha dichiarato - ma deve anche dare direttive per proteggerne la sua sicurezza”. Infine Ashrafi ha chiesto al presidente della Corte Suprema, Iftikhar Chaudhry, di avocare a se il caso sottraendolo alla giustizia ordinaria. Ancora in carcere la bimba cristiana accusata di blasfemia Rimsha Masih, la bambina cristiana finita in carcere per aver bruciato pagine del Corano, resterà in prigione almeno fino a venerdì. Mentre è stata spostata al 7 settembre, per uno sciopero degli avvocati, l’udienza per esaminare la libertà dietro cauzione della 13enne affetta da sindrome di Down. Ieri è stato arrestato Hafiz Mohammed Khalid Chishti, il principale accusatore della ragazzina e imam della moschea del quartiere dove abita Rimsha. L’imam è stato accusato di aver manipolato le prove a carico di Rimsha.