Giustizia: meno recidiva, più crescita di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 27 settembre 2012 La recidiva ha un costo sociale ed economico: riduce il livello di sicurezza collettiva, scoraggia gli investimenti, pesa sul bilancio dello Stato. Abbattere la recidiva significa quindi contribuire alla crescita di un Paese in termini di legalità, risparmio e competitività. A un ministro della Giustizia come Paola Severino, che fin dal suo insediamento ha fatto del carcere una priorità dell’azione di governo, non poteva sfuggire anche questo aspetto. “Abbattere la recidiva” è dunque il suo obiettivo ma per raggiungerlo bisogna “convincere l’opinione pubblica che le misure alternative alla detenzione sono la strada maestra e che il carcere è l’extrema ratio”. Bisogna superare i “pregiudizi” della gente, “sostituire alla reazione emotiva una reazione razionale”, evitare gli “sbandamenti” della politica che hanno prodotto solo dosi massicce di carcere, senza ridurre la recidiva. Per fare tutto questo è importante un “approccio scientifico” al problema e quindi il ministero ha dato la sua piena collaborazione alla ricerca condotta dall’Einaudi Institute for Economics Finance (Eief), dal Crime Research Economic Group (Creg) e dal Sole 24 Ore per valutare l’incidenza delle misure alternative e del lavoro in carcere sulla recidiva. Collaborazione preziosa perché il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) consentirà l’accesso alle informazioni necessarie alla ricerca, aprendo “per la prima volta” i suoi archivi all’esterno. “Un’operazione di trasparenza di cui ringrazio il ministro anzitutto come cittadino”, ha detto Daniele Terlizzese, direttore dell’Eief (Istituto di ricerca indipendente fondato dalla Banca d’Italia nel 2008), durante la conferenza stampa in cui il ministro ha presentato l’avvio dell’indagine, insieme al capo del Dap Giovanni Tamburrino e al direttore del Sole 24 Ore Roberto Napoletano. Severino ha ricordato che subito il governo si è mosso considerando il carcere l’extrema ratio e rilanciando le misure alternative, su cui, però, c’è un “pregiudizio diffuso” della collettività, convinta che “buttare la chiave” sia l’unica risposta efficace alla delinquenza. Non si tratta soltanto di risolvere il problema - peraltro gravissimo - del sovraffollamento, ma di dare un senso alla pena nell’interesse del detenuto, delle vittime, della collettività. “È straordinario che in questo momento l’Europa stia affrontando il problema con lo stesso approccio”, nota Severino, citando Regno Unito e Francia (si veda Il Sole 24 del 26 settembre) dove, peraltro, c’è un ricorso alle misure alternative che è il triplo del nostro: qui la pena si sconta in carcere nell’82,6% dei casi mentre lì il 75% delle condanne è eseguito all’esterno. Ma anche negli Stati Uniti c’è stato un ripensamento della politica della “tolleranza zero” che aveva riempito le carceri negli anni passati, e si comincia a puntare sulle misure alternative. “Il carcere non è l’unica pena. Ci sono altre sanzioni in grado di garantire la sicurezza”, dice Tamburrino secondo cui “dare una base scientifica al rapporto di causalità tra misure alternative/lavoro e riduzione della recidiva, ci consentirà di fare un importante passo avanti”. “Ci consentirà - aggiunge Severino - di dare risposte razionali e non emotive e di misurare l’efficacia delle riforme approvate, convincendo operatori e soprattutto cittadini che le misure alternative alla detenzione e il lavoro carcerario non sono un pericolo ma una soluzione”. Per il direttore del Sole 24 ore Napoletano, “l’iniziativa si inserisce nel filone scientifico culturale che connota la linea editoriale del giornale. Come abbiamo fatto con il Manifesto della cultura, anche in questo caso ci anima la volontà di dare base scientifica a un impegno di civiltà che appartiene ai tratti fondanti del Sole”. Non che finora ci fosse il buio. Nel 2007, una rilevazione del Dap, pur non avendo il crisma della scientificità, indicava chiaramente la via da seguire: la recidiva di chi sconta la condanna con misure alternative è del 19% laddove quella di chi sconta la pena chiuso in prigione sale al 68%. Nel 2001, poi, si calcolò che la diminuzione di un solo punto percentuale della recidiva corrisponde a un risparmio di circa 51 milioni di euro all’anno. Ciò nonostante, dal 2006 a oggi c’è stata una stretta sulle misure alternative e l’affidamento in prova al servizio sociale è addirittura crollato del 50%. Quanto al lavoro in carcere, la legge Smuraglia del 2000 (che prevede sgravi fiscali e contributivi per le imprese che assumono detenuti) è rimasta da un anno senza fondi. Il governo si sta impegnando per rifinanziarla perché oggi i detenuti che lavorano in carcere sono 13mila, su 66mila presenti, ma solo 2.215 dipendono da imprese esterne. Il presupposto scientifico di questa nuova indagine è la selezione dei dati. Lo spiega bene Terlizzese: “Se confrontiamo il tasso di mortalità tra chi, in un determinato anno, è stato in ospedale e chi non c’è stato, scopriamo che nel primo caso è molto più alto che nel secondo. Nessuno, però, si azzarderebbe a dire che andare in ospedale fa morire le persone, perché chi va in ospedale è malato ed è questa la causa di maggiore mortalità rispetto a chi, non essendo malato, non va in ospedale. I due gruppi di persone non sono quindi campioni casuali perché c’è un qualche fattore che influenza l’appartenenza all’uno o all’altro”. In gergo tecnico si dice che c’è un problema di selezione. Con la recidiva e le misure alternative si pone lo stesso problema. “Se confrontiamo il tasso di recidiva tra chi ha scontato la pena fruendo di misure alternative e chi lo ha fatto soltanto in carcere - prosegue Terlizzese - vediamo che nel primo caso è più basso. Ma probabilmente c’è anche qui un problema di selezione: se le misure alternative sono accessibili solo per chi si ritiene abbia una minore propensione a delinquere, la differenza tra i tassi di recidiva rifletterà appunto questa diversa propensione e non sarà imputabile, se non in parte, alle misure alternative”. L’analisi dei dati presuppone quindi che ci siano due campioni casuali, il più possibile simili, e quindi confrontabili, salvo il fatto che alcuni hanno usufruito delle misure alternative e altri no. “Il confronto tra il tasso di recidiva nei due campioni ci darà quindi una misura abbastanza attendibile dell’effetto causale delle misure alternative”, conclude Terlizzese. Una volta appurato il nesso causale, si passerà alla fase 2 della ricerca, per calcolare costi e benefici di recidiva e misure alternative. Giustizia: Napolitano; intervenire su cause sovraffollamento anche con misure di clemenza Italpress, 27 settembre 2012 “Nel ricevere il professor Pugiotto e altri firmatari di una lettera aperta a me indirizzata sui temi della situazione carceraria, ho con loro condiviso una dura analisi critica e l’espressione di una forte tensione istituzionale e morale per una realtà che non fa onore al nostro paese, ma anzi ne ferisce la credibilità internazionale e il rapporto con le istituzioni europee”. Lo afferma in una nota il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che ha ricevuto stamani al Quirinale una delegazione rappresentativa dei sottoscrittori, accademici e giuristi, della lettera aperta sul tema dell’efficienza della giustizia e della realtà carceraria guidata da Andrea Pugiotto, estensore e primo firmatario dell’appello, e formata dai professori Francesco Di Donato, Fulco Lanchester, Renzo Orlandi, Tullio Padovani, Marco Ruotolo, Vladimiro Zagrebelsky, e Franco Corleone. Hanno partecipato all’incontro il sottosegretario alla Giustizia, Sabato Malinconico, e il capo del Dipartimento per l’Amministrazione Penitenziaria, Giovanni Tamburino. Napolitano prosegue: “Ho ribadito l’allarme e l’appello che nel luglio scorso rivolsi al Parlamento in occasione di un importante convegno svoltosi al Senato e a cui è seguito peraltro - mi è sembrato giusto sottolinearlo - uno sforzo intenso del governo, nel rapporto con le forze politiche che lo sostengono, per intervenire in materia con molteplici proposte e interventi. Sono state così affrontate - conseguendosi già dei risultati - scottanti esigenze di riduzione della popolazione carceraria e di creazione di condizioni più civili per quanti scontano sanzioni detentive senza potersi riconoscere nella funzione rieducativa che la Costituzione assegna all’espiazione di condanne penali”. “Ho rinnovato l’auspicio che proposte volte a incidere anche e soprattutto sulle cause strutturali della degenerazione dello stato delle carceri in Italia trovino sollecita approvazione in Parlamento - conclude il capo dello Stato. A cominciare da quelle, già in avanzato stadio di esame, per l’introduzione di pene alternative alla prigione. Restano nello stesso tempo aperte all’attenzione del Parlamento - in questa legislatura ormai vicina al suo termine e in quella che presto inizierà - sia le questioni di un possibile, speciale ricorso a misure di clemenza, sia della necessaria riflessione sull’attuale formulazione dell’art. 79 della Costituzione che a ciò oppone così rilevanti ostacoli”. Corleone: a Napolitano abbiamo chiesto un messaggio alle Camere “Al presidente Napolitano abbiamo riproposto la questione del carcere, dell’amnistia e dell’indulto e quella più generale della giustizia, a partire proprio dalle parole dello stesso capo dello Stato sull’urgenza del problema. E gli abbiamo espresso la richiesta di un messaggio alle Camere su questi temi”: è quanto spiega Franco Corleone, Garante dei detenuti di Firenze, che ha fatto parte della delegazione ricevuta stamani al Quirinale dal presidente della Repubblica. “L’Italia è indietro rispetto all’Europa, ad esempio per quanto riguarda la lunghezza dei processi, la carcerazione preventiva. Il presidente ha fatto capire che sul tema troverà modo per intervenire nuovamente. Lo abbiamo sollecitato anche sulla questione delle misure alternative al carcere: io stesso gli ho detto che ciò che noi garanti chiediamo è un intervento per interrompere questa situazione di sovraffollamento, che è dovuta soprattutto agli effetti della legge sulle droghe, la Fini-Giovanardi. Ho ricordato davanti al capo dello Stato come è stata approvata questa legge, e ho detto che almeno per togliere le storture più macroscopiche occorrerebbe un decreto legge”. “Il presidente mi è sembrato convinto della necessità di intervenire”, ha concluso Corleone. L’incontro di oggi al Quirinale segue l’invio di una lettera-aperta sull’emergenza giustizia e carceri al Presidente della Repubblica sottoscritta da 100 docenti universitari e dai garanti dei diritti dei detenuti il 27 aprile, a cui ha fatto seguito, il 25 luglio, la risposta di Napolitano. “Nel corso dell’incontro - racconta il professor Marco Ruotolo, tra i firmatari della lettera-aperta - si è ribadita l’urgenza di ricorrere a misure come l’amnistia e l’indulto. E il Presidente ha ribadito quanto già scritto nella sua risposta”. Napolitano il 25 luglio scriveva: “Ho già detto in altre occasioni che non escludo pregiudizialmente neppure l’adozione dei provvedimenti clemenziali dell’amnistia e dell’indulto. Essi richiedono però, come prescrive l’articolo 79 della Costituzione, un ampio accordo politico di cui attualmente non ravviso le condizioni e la cui assenza consiglia il pronto ricorso ad altri tipi di intervento in grado di alleggerire la pesante e penosa situazione penitenziaria, fonte anche di discredito per il paese. La delegazione e il Presidente - prosegue Ruotolo - hanno convenuto sull’importanza che la pena debba tendere alla rieducazione del condannato e dunque sull’urgenza di intensificare il ricorso alle misure alternative al carcere”. Di Giovan Paolo (Pd): grazie a presidente Napolitano “Ringraziamo il Presidente Napolitano per l’attenzione al sistema carcerario. È vero servono misure alternative, e queste potrebbero riguardare il 40% dei detenuti”. Lo afferma il senatore del Pd Roberto Di Giovan Paolo, presidente del Forum per la Sanità Penitenziaria. “Sono anni che diciamo che varare le misure alternative al carcere sarebbe un vero atto di civiltà, un modo per avvicinarsi di più all’Europa - continua Di Giovan Paolo. Mi auguro che davvero si possa arrivare a conclusione dell’iter parlamentare entro fine anno”. Giustizia: Osapp; carceri senza futuro, intervenga il Presidente della Repubblica Ansa, 27 settembre 2012 “Quello attuale è il peggior periodo degli ultimi 30 anni dell’Amministrazione penitenziaria e, di conseguenza per coloro che nel carcere vivono o lavorano” ad affermarlo è l’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria) in una nota a firma del segretario generale Leo Beneduci e indirizzata al Presidente della Repubblica e ai Gruppi Parlamentari di Camera e Senato. Secondo l’Osapp: “dall’insediamento del Governo Monti lo scorso 19 novembre e dopo le misure della Ministro Severino, la popolazione detenuta è diminuita solo dell’1,8% (67.668 contro gli attuali 66.398), i posti letto in carcere sono praticamente invariati (+0,58% pari alla differenza tra 45.581 e gli attuali 45.849), mentre l’endemica carenza di organico della polizia penitenziaria del 15,5% pari a 6.930 unità, solo parzialmente mitigata nel corrente anno, diverrà drammatica nei prossimi 3 ani a seguito del mancato turn-over stabilito dalla spending review” “A riprova di una situazione senza ritorno - prosegue il sindacato - significative le decurtazioni di bilancio per le spese vive destinate alla popolazione detenuta per un complessivo 8,1% e tali che per ciascun giorno trascorso in carcere sono oggi disponibili per ogni detenuto 4,64 euro per il vitto, 3,06 euro per il lavoro e 0,22 euro per le attività di risocializzazione”. “Non meno drammatico, inoltre, il bilancio delle spese per le strutture, decurtato del 52,5% e per gli automezzi decurtato, addirittura, del 73% tanto che per il servizio delle traduzioni dei detenuti ci sono solo 786 furgoni su 2.520 (il 31%) e solo 550 autovetture su 1.228 (il 49%), mentre i fondi per i carburanti dureranno solo fino a novembre ”. “La notizia che più desta interesse è quella dell’interruzione del trasporto dei detenuti verso le Aule di Giustizia in Campania e, oggi anche in Sicilia, a cui presto si aggiungeranno Emilia-Romagna, Piemonte e Calabria - indica ancora l’Osapp - ma entro pochi si fermeranno, per mancanza di risorse, anche le mense di servizio per il Personale e gli impianti elettrici, idrici e per il riscaldamento.” “Non ci meraviglia tanto che la Guardasigilli di un Governo Tecnico, probabilmente male informata dalle proprie fonti al Dap, non si renda conto della gravità della situazione - conclude Beneduci - quanto il fatto che nonostante la strada senza ritorno fatalmente imboccata, nel Dicastero di Via Arenula a Roma qualcuno parli ancora di un futuro per le carceri, per questo riteniamo che solo il Presidente della Repubblica e un pieno ritorno della Politica alle proprie responsabilità possano mettere fine a tanto sfacelo”. Giustizia: Pd; petizione popolare per introdurre reato di tortura e abolire Legge ex Cirielli Ansa, 27 settembre 2012 Introdurre il reato di tortura, abolire il reato di immigrazione, e la legge ex Cirielli: è l’ oggetto di una petizione popolare del Pd, illustrata in una conferenza stampa dal responsabile Giustizia Andrea Orlando, da quello Sicurezza Andrea Fiano, e da Marco Pacciotti del forum Immigrazione. Con la richiesta di introdurre il reato di tortura anche in Italia “raccogliamo il grido di dolore di tante famiglie che in questi anni si sono trovate al centro di vicende drammatiche, alcune delle quali ancora in via di definizione”, spiega Fiano, che ha evidenziato come si tratti di una proposta per colmare le lacune del diritto interno e a rafforzamento dei diritti umani. Ma il Pd vuole riaprire una riflessione anche sulla ex Cirielli. La normativa - spiegano - ha introdotto limiti alla concessione delle misure alternative alla detenzione ai recidivi reiterati, categoria che comprende anche reati per fatti di scarso allarme sociale, ed ha contribuito a determinare l’attuale drammatico sovraffollamento penitenziario, provocando uno dei problemi più acuti del sistema giustizia. E si chiede di abolire inoltre il reato di immigrazione clandestina, perché “l’immigrazione è irreversibile ed è la sfida per il futuro, un terreno su cui si misurerà la nostra capacità di confrontarci con le complesse dinamiche della contemporaneità. La politica dell’immigrazione, in particolare quella messa in atto dai governi di centrodestra, appare profondamente inadeguata e totalmente sbagliata”. Giustizia: caso Sallusti; scherza coi fanti, ma lascia stare i santi… e i magistrati di Valter Vecellio Notizie Radicali, 27 settembre 2012 Premesso che a nessuno è augurabile di finire in carcere; premesso che il direttore del “Giornale” Alessandro Sallusti nonostante la Corte di Cassazione abbia confermato la condanna a suo carico, non finirà in carcere perché la procura ha sospeso la pena; premesso che Sallusti è stato condannato nella sua qualità di direttore responsabile, il giornale che dirigeva ha pubblicato un articolo di un altro; premesso che la legge comunque dovrebbe essere uguale per tutti, e dunque se la diffamazione è reato, lo è chiunque lo commetta, cittadino normale o giornalista; premesso infine che c’è da chiedersi che giustizia mai sia, una giustizia che impiega oltre due anni per stabilire se una persona è stata diffamata o no, e dopo oltre due anni aver ragione o torto lascia il tempo che trova; premesso tutto questo, la pena dovrebbe essere commisurata all’entità del reato, e un anno e due mesi di carcere per un articolo scritto da altri, pare un po’ eccessiva. Ora forse è un sospetto infondato: la querela contro Sallusti è stata intentata da un magistrato. Se fosse stata promossa da un semplice cittadino, vien da chiedersi se la condanna sarebbe stata così pesante. Giovanni Falcone diceva che il sospetto sia l’anticamera della calunnia più che della verità; e Giulio Andreotti che a pensare male si fa peccato, ma non si sbaglia. In questo caso, ci si sente peccatori. Ci si permette di essere sospettosi anche rifacendosi a una personale esperienza. Tra le varie cose accadute a chi scrive, c’è stata anche l’esperienza di direttore responsabile del “Male”. Qualcuno lo ricorderà: era il settimanale satirico che ha segnato un’epoca. In quei mesi di direzione, ho collezionato una trentina e più tra denunce e querele, per i “reati” più strani: dalla divulgazione di segreto militare perché il settimanale aveva riprodotto una cartina de La Maddalena reperita alla Biblioteca Nazionale, a tutta la gamma delle possibili diffamazioni e oltraggi. Tutti i procedimenti, in un modo o nell’altro, si sono risolti; meno uno. Una querela, per un articolo che non avevo scritto io, anche questo firmato con pseudonimo. Articolo pesante, non c’è dubbio, si sosteneva che una tale persona era un “pezzo di m...”, al punto che al suo passare l’olfatto si accorgeva della sua presenza. Quella persona ebbe lo spirito di presentare querela con ampia facoltà di prova, ed era evidente che provare quell’affermazione non ci sarebbe riuscito nessuno. “Il Male” lo dirigevo solo nominalmente, perché in redazione non disponevano di un professionista iscritto all’albo, e mi ero prestato alla bisogna, in omaggio a un’antica tradizione libertaria. Era ben specificato che lo facevo solo per consentire che il giornale potesse uscire. Prima di me lo aveva fatto Gianfranco Spadaccia, che poi aveva dovuto lasciare perché eletto senatore. Poi mi sostituì Giorgio Forattini. Bene: per quella battuta, greve ma sempre battuta, ho rischiato concretamente la galera, perché sia in primo che secondo grado sono stato condannato a due anni e sei mesi senza la condizionale. Poi, arrivato in Cassazione qualcuno si deve essere messo una mano sulla coscienza, deve aver pensato che non aveva senso una condanna di quella portata per quel “reato”; hanno così individuato un cavillo e rimandato il processo in Appello, e lì per fortuna si è perso. Sarà stato prescritto, suppongo. Si sarà compreso, che la persona in questione era un magistrato. Il mio sospetto è che se si fosse trattato di “altra” persona, appartenente ad altra “categoria”, me la sarei cavata prima, e con meno problemi. All’epoca furono pochi a levare la loro voce in mio favore: Forattini, Miriam Mafai, Giampiero Mughini, Marco Pannella, Salvatore Sechi… forse ce ne saranno stati altri, ma non li ricordo. Si dice: scherza coi fanti, lascia stare i santi. Bisogna forse aggiungere anche la categoria dei magistrati. Giustizia: caso Sallusti; un ritorno al passato da cancellare al più presto di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 27 settembre 2012 Il bello (si fa per dire) della condanna confermata ieri dalla Cassazione a carico dell’allora direttore di Libero Alessandro Sallusti è che, per una volta, dovrebbe mettere tutti d’accordo. Anche chi dal modo di fare informazione di Sallusti è assai distante. La condanna al carcere di un giornalista fa fare al Paese un grottesco passo indietro. A tempi in cui Giovannino Guareschi finiva dietro le sbarre per avere diffamato l’allora capo del governo Alcide De Gasperi. Un Guareschi a suo modo recidivo, visto che aveva in precedenza subìto altra condanna, vilipendio ai danni del presidente del Repubblica Luigi Einaudi, per una vignetta (i corazzieri al barolo). Altri tempi, si pensava. E invece no. La pronuncia di ieri, di cui sarà necessario leggere le motivazioni naturalmente, ha pochi precedenti e nessuna giustificazione. Sanzionare con il carcere un giornalista per un articolo forse neppure scritto (era firmato con uno pseudonimo) fa arretrare lo stato del dibattito pubblico a un livello di cui non si sentiva affatto la mancanza. Qui non è in discussione naturalmente la responsabilità sempre più ampia e da declinare su sempre nuovi canali informativi del giornalista. Una responsabilità che chiunque faccia questa professione deve sentire come contraltare di un potere comunque ancora forte di intervento, per qualcuno anche di influenza, sulla formazione dell’opinione pubblica attraverso l’esercizio di un diritto costituzionalmente garantito come quello di cronaca. Nessun arroccamento corporativo quindi. In discussione c’è piuttosto la gravità della sanzione inflitta. La detenzione non è praticamente mai inflitta al giornalista per il reato classico che un reporter può compiere: la diffamazione. Il meccanismo giuridico che evita il carcere prevede infatti la sterilizzazione dell’aggravante, di solito avere commesso il reato con il mezzo della stampa, attraverso il riconoscimento delle attenuanti. Un riequilibrio che cambia in maniera drastica il perimetro della norma applicabile. Dalla severissima legge sulla stampa che all’articolo 13 punisce la diffamazione con una pena che può arrivare sino a 6 anni di carcere, limite che tra l’altro renderebbe possibile anche la custodia cautelare, si passa, effetto proprio del bilanciamento delle circostanze, al più “normale” Codice penale, che, all’articolo 595, prevede l’alternativa tra carcere e multa. E il giudice a quel punto infligge la sanzione pecuniaria. Un percorso che forse pecca di un eccessivo barocchismo giuridico. E che, se la sentenza di ieri ha un pregio, è quello di mettere in discussione. A partire dalle fondamenta però. E cioè dalle norme applicabili. Il ministro della Giustizia Paola Severino si è detta d’accordo. Ed è già un buon viatico. Perché a dovere essere riformata dovrebbe essere la stessa legge sulla stampa, e magari se si volesse essere un pò più coraggiosi, il Codice penale. Non cancellando le sanzioni, che devono restare a garanzia di tutti i cittadini; ma eliminando dall’orizzonte giuridico la possibilità di una condanna detentiva. La pena allora, magari rimodulata, sarebbe unicamente quella pecuniaria. Una scelta che avrebbe poi l’effetto positivo di rimettere l’Italia in linea con quanto più volte affermato da un altro giudice, questa volta internazionale. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha infatti più volte avuto occasione di sostenere l’assoluta illegittimità della condanna alla detenzione per un giornalista. Giustizia: Mauro Rostagno, l’uomo con la barba che rompeva i coglioni alla mafia di Michele Minorita Notizie Radicali, 27 settembre 2012 Dai microfoni di quella piccola scalcinata televisione, ogni giorno, martellava contro il potere mafioso. Implacabile faceva nomi, raccontava fatti, in una parola: rompeva i coglioni. La sera di 24 anni fa, il rompicoglioni Mauro Rostagno, da tutti conosciuto come “quello con la barba”, viene abbattuto dentro la sua automobile da tre fucilate calibro 12. Delitto di mafia; e come per tanti delitti di mafia, si imboccano altre piste: quella passionale; la faida maturata all’interno della comunità Saman per il recupero dei tossicodipendenti di cui è tra gli animatori; si ipotizza che sia stato ucciso perché depositario di indicibili cose legate al delitto del commissario Luigi Calabresi. Alla fine però la verità viene fuori: mafia, dava fastidio. Rompeva i coglioni. A Cosa nostra non piaceva che si parlasse così tanto di quella Trapani con un altissimo tasso di disoccupazione, economia stentata, nessuna industria, poca agricoltura, e 156 società finanziarie, un centinaio di sportelli bancari: insomma tanto, troppo denaro; e si può intuirne la provenienza. Rompeva i coglioni, Rostagno: ucciso in quella campagna di Trapani, come cinque anni prima era stato ucciso un altro che rompeva i coglioni: il magistrato Giacomo Ciaccio Montalto. Ieri è ripreso il processo che cerca di far luce sul delitto dell’ “uomo con la barba”. Alla sbarra boss di mafia della zona e i loro killer. Un processo che mette a fuoco l’intreccio di collusioni e omertà denunciate da Rostagno. Un processo difficile, si trascina da anni, e si resta sbalorditi che ci sia voluto così tanto tempo per arrivare alla pista mafiosa, che appariva chiara fin dal primo momento. Umbria: istituzione del Garante regionale dei diritti dei detenuti, una svolta di qualità di Francesco Dell’Aira (già direttore della Casa Circondariale di Terni Notizie Radicali, 27 settembre 2012 Il Comitato dei ministri - organo decisionale del Consiglio d’Europa, nato nel 1949 e formato dai ministri degli Esteri dei 47 Paesi membri, sta valutando quanto messo in atto dal Governo italiano in merito all’emergenza giustizia. L’Italia è lo Stato europeo con il maggior numero di condanne per violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (istituita nel 1959, con sede a Strasburgo): oltre 2 mila sentenze della Cedu, soprattutto per irragionevole durata dei processi e per le condizioni delle nostre carceri. Dietro, c’è solo la Turchia. Il Piano del Governo prevede la costruzione di 11 nuove carceri (poi ridotte a 5) e 20 padiglioni (ridotti a 17) per un totale di 11.573 posti. I lavori dovrebbero iniziare entro l’autunno del 2012, per un costo complessivo di 661 milioni di euro. Allo stato risulta che non sono stati avviati i lavori di nessun nuovo istituto né della costruzione di nuovi padiglioni e tutti i progetti non sono stati ancora appaltati. Gli stanziamenti attuali si limitano a 40 milioni di euro. Per quanto riguarda le misure alternative (argomento che procede lentamente in Commissione Giustizia alla Camera), nella pratica le scelte del Governo hanno portato a risultati minimi: flessione dal 2010 pari a sole 1.987 unità. Ci si aspetta quindi una ulteriore condanna (si ricorda che la massima pena potrebbe essere l’espulsione di uno Stato membro dal Consiglio). La questione non è solo di capacità di governo, per la gestione degli adempimenti e per il rispetto degli impegni, ma una questione ben più ampia di affievolimento dei diritti costituzionali cui assistiamo quotidianamente. Le scelte (non) mediate dalla politica e quindi con una ipotesi, almeno teorica, di soddisfazione delle richieste dei cittadini sono oggi di natura esclusivamente tecnica e dettate prevalentemente dall’interesse di pareggio contabile e di riduzione delle spese. Il cittadino è esautorato di ogni possibilità di interagire con un sistema che sempre di più lo allontana dall’essere il centro di attenzione, come lo aveva collocato il legislatore costituzionale, per trasformarlo in fonte di prelievo fiscale. E questo in una pressoché totale assenza dei doverosi controlli sugli enormi flussi di denaro pubblico dei quali, ormai è palese, sfugge la gestione. Il tema dell’esecuzione della pena entro i confini del rispetto dei diritti fondamentali riconosciuti dalla Costituzione e dalle norme internazionali ha visto recenti interventi normativi i e più attuali quali l’introduzione dell’esecuzione presso il domicilio delle pene detentive non superiori a 18 mesi (per ultimo Legge 17.2.2012, n. 9) ed il Ddl 5913 che prevede l’introduzione della “messa alla prova”. Strumenti per affrontare più rapidamente l’emergenza penitenziaria. L’Amministrazione penitenziaria si dibatte tuttavia in una situazione di grave insufficienza di risorse. Ne è esempio il trasferimento al servizio sanitario nazionale delle sanità penitenziaria. Ed ancora si sta ipotizzando di ulteriori deleghe di altri importanti settori oggi di esclusiva competenza del Ministero della Giustizia. È di tutta evidenza il ruolo che avranno le Regioni in virtù delle competenze istituzionali soprattutto nei settori della tutela sociale. In questo panorama sono quindi indispensabili figure di collegamento che facciano da catalizzatori e da facilitatori nei rapporti sempre più complessi che si andranno a delineare nel prossimo futuro e che vedranno l’ambito locale sempre più protagonista della politica di cambiamento e di reingegnerizzazione. Si inserisce così il prossimo dibattito, organizzato a Perugia il prossimo 3 ottobre presso palazzo Donini, sul tema della nomina del garante dei detenuti e che riguarda il più complesso panorama della situazione detentiva in Umbria. In Umbria abbiamo due punti fermi ed estremamente significativi che consentono di mettere concretamente in sinergia tutte le risorse disponibili veicolando nel modo più efficace le azioni: 1) il protocollo di intesa tra la Regione Umbria ed il Ministero della Giustizia, siglato a Perugia il 7 marzo 2001. 2) la legge regionale 18 Ottobre 2006, n. 13, recante “Istituzione del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale”. La Regione Umbria istituisce un apposito organismo per tutelare i diritti dei soggetti sottoposti a misure limitative della libertà personale. La legge stabilisce, nel testo aggiornato, funzioni e modalità di nomina del Garante. Tale condizione consente di affrontare in modo organico il fenomeno del continuo abbassamento del livello di intervento in termini di risocializzazione e di trattamento nonostante l’imperativo costituzionale che prevede nel lavoro, nello studio, nei rapporti con le famiglie e di un utilizzo produttivo del tempo, i cardini dei principi costituzionali della rieducazione. In questo contesto si inserisce appropriatamente la figura del Garante che nasce dalla necessità di garantire un rapporto di trasparenza e correttezza tra tutte le pubbliche amministrazioni e/o soggetti concessionari di pubblici servizi o convenzionati con enti pubblici e che può essere strumento di richiamo o di facilitazione in una azione di attrazione delle forze del volontariato e del privato sociale che, a vario titolo, interagiscono con l’amministrazione penitenziaria e i detenuti e gli internati o chi si trova comunque in condizioni, anche provvisorie, di restrizione della libertà personale. È previsto in quasi tutti i paesi europei e, nell’esperienza italiana, pur in dimensioni regionali o comunali, si è dimostrato perfettamente in linea con gli obiettivi ed in alcuni casi si è spinto a promuovere una legislazione regionale che recepisca le specifiche difficoltà insite nell’esecuzione penale. Occorre dunque lavorare in questa direzione realizzando una maggiore integrazione tra le strutture di dentro e quelle di fuori. Il lavoro di rete costituisce una risorsa in più anche per le positive collaborazioni che ne possono nascere, soprattutto in tempi di crisi e di mancanza di fondi e di personale. Il collegamento tra servizi interni al penitenziario e servizi territoriali è il primo modo per sviluppare maggiore progettualità, finalizzata al raggiungimento di un positivo reinserimento. Auspico quindi che si dia esecuzione alla legge nominando quella figura che deve avere, a mio parere, soprattutto capacità manageriali per tracciare l’analisi delle questioni e le proposte operative di soluzione, che sia equidistante dai soggetti assumendo una posizione di equilibrio, che possieda le caratteristiche previste dalla legge e quindi di conoscenza profonda dell’ambiente nel quale si muove. Che abbia autorevolezza istituzionale e credibilità personale, che abbia stimoli sufficienti ad affrontare in un contesto programmatico organico tutte le questioni indicate nel protocollo del 21 marzo 2001 e che vanno dalle ragioni del reato, all’esecuzione penale, al personale, al volontariato, fino alle vittime del delitto. Reggio Emilia: Ucpi; gravissima la decisione di vietare proteste pacifiche ai detenuti Agi, 27 settembre 2012 L’Unione Camere penali denuncia la “gravissima decisione del direttore del carcere di Reggio Emilia” che ha vietato ai detenuti, con un avviso in bacheca, qualsiasi forma di protesta, anche pacifica. I penalisti, accertata la notizia, ora auspicano che tale decisione, che “viola i diritti fondamentali di ogni persona, ancorché privata della libertà personale, garantiti dall’art. 21 della Costituzione e dall’art.10 della Corte Europea dei diritti umani”, venga immediatamente “ritirata” e “non se ne metta in pratica il contenuto”. In caso contrario, si chiede “un intervento del Dap a tutela della legalità”. La situazione delle carceri italiane, ricorda l’Ucpi, “è vergognosa ed esplosiva, e se finora non è esplosa è anche grazie al senso di responsabilità di una popolazione detenuta che, pur subendo condizioni di vita illegali, ha scelto di esprimersi attraverso forme di protesta pacifiche e non violente”. Pagano (Dap): rischi anche in proteste pacifiche “Non conosco i termini della vicenda, perché la competenza a occuparsene è del Provveditorato Regionale dell’Emilia Romagna, ma detta così, senza voler anticipare giudizi, credo di comprendere quali possano essere stati i motivi che hanno mosso la Direzione”. Parla dell’avviso della direzione alla popolazione detenuta del carcere di Reggio Emilia che “non sarà più tollerata alcuna forma di protesta anche se pacifica”, Luigi Pagano oggi vice capo del Dap, ma per 16 anni direttore del carcere milanese di San Vittore; e lo fa proprio nella sua veste di ex direttore di uno dei più importanti penitenziari. “Della questione si sta occupando il provveditore dell’Emilia Romagna - premette Pagano. Ma da ex direttore osservo che anche le proteste pacifiche nelle carceri possono sfociare in situazioni in grado di mettere a repentaglio la sicurezza degli stessi detenuti e del personale. E in questa ottica non mi sembra che l’avviso di Reggio Emilia costituisca una minaccia in sé, quanto piuttosto un avvertimento sulle conseguenze materiali che a seguito di una protesta si possono verificare. Per esempio le battiture possono dar fastidio ai detenuti malati oppure ai tossicodipendenti in crisi di astinenza e creare nervosismo in un ambiente dove già sono elevate le tensioni ordinarie. E il compito di un direttore è quello di garantire ordine e sicurezza per tutti”. E a conferma che il suo non è un ragionamento teorico, tutt’altro, Pagano cita quello che accadde a San Vittore dopo il suicidio di Gabriele Cagliari. “Ci fu una battitura terribile a cui parteciparono 220 detenuti”. E in quel caos “un altro detenuto si impiccò e non riuscimmo ad arrivare in tempo per salvarlo”. Sappe: avviso da dettagliare meglio “Probabilmente si è trattato di un avviso un po’ troppo generico che andava maggiormente dettagliato. Immagino che ora verrà meglio specificato”. È il commento di Giovanni Battista Durante, segretario aggiunto del Sappe (Sindacato autonomo di polizia penitenziaria) sull’avviso affisso nel carcere di Reggio Emilia (“Si avvisa la popolazione detenuta di tutti i reparti detentivi che, dalla data odierna non sarà più tollerata alcuna forma di protesta anche se pacifica”). “Nelle forme di protesta pacifiche - ha spiegato Durante - può rientrare anche il mancato rientro in cella, che è una iniziativa che può comportare sanzioni. In un caso del genere la Polizia penitenziaria dovrebbe intervenire per far rientrare i detenuti, perché non possono rimanere fuori. Si tratta sicuramente di una protesta pacifica, ma che costringerebbe noi e la direzione ad intervenire. Altro esempio è quello del lancio di generi alimentari e oggetti nei corridoi. Anche questo potrebbe essere considerato un metodo di protesta pacifica ma allo steso tempo potrebbe comportare una iniziativa disciplinare”. Reggio Emilia: nell’Opg ancora 251 internati, a rischio scadenza di marzo per chiusura Dire, 27 settembre 2012 In calo il numero degli internati nell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia. Al 31 agosto 2012 erano 251, di cui 70 in licenza finale di sperimentazione. Di fatto, dentro ci sono 181 persone. Nel 2010 le presenze arrivavano a 285. Più del doppio della capienza regolamentare, che è di 131 posti. “Segno che le relazioni con i servizi del territorio stanno funzionando”, dice Gianluca Borghi del Comitato Stop Opg. Il trend non è lo stesso in tutte le regioni. “Sembra che gli Opg siano un problema solo di chi ce li ha - continua Borghi. Una convinzione che potrebbe rivelarsi drammatica se, nel momento in cui saranno chiusi, le Regioni non avranno attuato dei percorsi di reinserimento per queste persone”. Il rischio c’è. La scadenza (quella indicata dalla Legge 9/2012) è il 31 marzo 2013, ma “è evidente che non sarà rispettata”, dice Borghi che ricorda che “il ritardo nello stanziamento delle risorse (23 milioni di euro per il 2012 e 55 per il 2013) rischia di pregiudicare il buon esito della riforma”. Ma che cosa accadrà se il termine di un anno dall’entrata in vigore della legge non sarà rispettato? “Le Regioni che non sono in regola rischiano il commissariamento - dice Fausto Vivani della Cgil Emilia-Romagna- e per quanto riguarda gli internati è la nascita di piccoli manicomi regionali”. Per porre il tema all’attenzione dell’opinione pubblica, il Comitato Stop Opg promuove per il 29 settembre una mobilitazione nazionale in tutte le regioni: a Bologna sarà appeso uno striscione con scritto “Stop Opg” sulla facciata della sede della Cgil regionale in via Marconi, la stessa cosa farà il Comune di Reggio Emilia. Tra le richieste del Comitato Stop Opg oltre alla piena applicazione della Legge 9/2012 e allo stanziamento delle risorse, c’è anche il rispetto della territorialità ovvero il fatto che siano i territori di competenza a prendere in carico le persone e ad attivare percorsi terapeutici. Su 251 internati all’Opg di Reggio Emilia solo 50 sono emiliano-romagnoli. Di questi 28 sono ancora dentro, mentre 22 sono in licenza finale di sperimentazione. I restanti 201 provengono dalle altre regioni del bacino di riferimento, che sono, oltre all’Emilia-Romagna, Veneto (47 di cui 9 in licenza), Trentino Alto Adige (7 di cui 4 in licenza), Friuli Venezia Giulia (7 di cui 6 in licenza) e Marche (14 di cui 4 in licenza). A questi si aggiungono 22 senza fissa dimora. “Ma sono molti quelli che vengono mandati a Reggio Emilia da regioni extra bacino - sottolinea Borghi - come la Lombardia che, nonostante un servizio sanitario all’avanguardia, ha 240 persone internate nei 6 Opg sul territorio nazionale”. Di cui 45 a Reggio Emilia. Tra gli extra bacino, ci sono anche 16 persone del Piemonte, 8 dalla Liguria, 3 da Toscana e Sicilia, e 1 da Lazio, Campania, Valle d’Aosta, Sardegna, Puglia, Calabria. In Emilia-Romagna le cose si stanno muovendo, ne è un esempio la struttura a bassa custodia aperta a Forlì grazie a un coordinamento tra Ausl, Regione e Terzo settore e che accoglie 16 ex internati di Reggio Emilia. “La preoccupazione - prosegue Borghi - è che in altri luoghi si passi dall’Opg a situazioni non tollerabili dal punto di vista terapeutico”. A Reggio Emilia operano 83 professionisti (di cui 32 infermieri, 35 operatori socio-sanitari, 3 psicologi e 6 medici a cui si aggiungono anche i tecnici di riabilitazione psichiatrica). “La loro presenza ha ridotto gli episodi di contenimento - spiega Maurizio Frigeri della Cgil - e ha migliorato la situazione degli internati sia dal punto di vista sanitario che di relazione, ma va tenuto presente che lavorano 24 ore al giorno in condizioni difficili, anche dal punto di vista logistico, e con un contratto bloccato da 3 anni e mezzo”. Il primo ottobre il Comitato Stop Opg incontra la Magistratura di sorveglianza. “Ci aspettiamo un’assunzione di responsabilità da parte della magistratura - afferma Borghi. Manca un coordinamento tra il ministero della Sanità e quello della Giustizia su questo punto, tanto che finora si è fatto di un problema di tipo sanitario, una questione di ordine pubblico: vediamo con favore un’integrazione”. I punti che saranno sottoposti all’attenzione della Magistratura di sorveglianza riguardano, come precisa Viviani, “il fatto che a tutt’oggi in Opg si continua a entrare, la necessità di un coordinamento tra magistrato di sorveglianza e dipartimento di salute mentale nel momento in cui la persona esce e fare in modo che le condizioni economiche dell’internato non incidano sul giudizio sulla sua pericolosità sociale”. Viterbo: detenuto gravemente malato non ottiene né scarcerazione né ricovero www.viterbooggi.eu, 27 settembre 2012 Diabetico, cardiopatico, con evidenti problemi di deambulazione, costretto a prendere quotidianamente 14 farmaci diversi e bisognoso di stretta assistenza medica. Queste la situazione clinica in cui versa Luigi Mauro Navone, 55 anni, originario di Torino, detenuto dal 2 agosto scorso nel carcere di Mammagialla a Viterbo, dove sta scontando una pena di 6 mesi di reclusione per inosservanza degli obblighi familiari verso l’ex moglie: 250 euro al mese. Nonostante le sue condizioni, l’uomo non riesce ad ottenere gli arresti domiciliari né il ricovero in una struttura sanitaria protetta. I suoi difensori, gli avvocati Remigio Sicilia e Antonella Cassandro, si sono rivolti al giudice di Sorveglianza di Viterbo, allegando il parere dei medici che certificano l’incompatibilità tra il suo stato di salute e il carcere. Da Viterbo la pratica è approdata a Roma, presso il tribunale di Sorveglianza, dove mercoledì 19 settembre si è svolta l’udienza che avrebbe dovuto disporre la scarcerazione. Ma la decisione è stata rinviata al 31 ottobre prossimo, in quanto nel fascicolo non era stata allegata la relazione medica della casa circondariale. Intanto le condizioni di Navone continuano a deteriorarsi. L’uomo, con un’unica condanna alle spalle, dapprima docente dell’Università della Terza Età di Torino e poi fondatore di quella di Viterbo, poliglotta, nel 2002 si separa consensualmente dalla moglie. I due pattuiscono che, anziché corrispondere un assegno mensile di 250 euro, l’uomo lasci all’ex moglie una parte cospicua del suo patrimonio, tra cui una casa al mare in Liguria. Il tutto a parole, senza mettere nulla per iscritto. Dopo un anno l’ex moglie presenta una querela ai carabinieri per violazione degli obblighi di assistenza familiare. Nel settembre 2006 il tribunale di Torino lo condanna a 6 mesi di reclusione. La sentenza viene confermata nel 2009 dalla Corte d’Appello, che concede all’uomo, nel frattempo trasferito a Valentano con la nuova compagna, la possibilità di accedere alla misura alternativa dell’affidamento in prova. Poco dopo, però, l’assistente sociale compila una relazione in cui scrive che Navone, durante il periodo di prova, non ha risarcito integralmente l’ex moglie. Lui si giustifica dimostrando che nella sentenza d’appello non è stato quantificato il danno da risarcire. Nel luglio di quest’anno, arriva la decisione della Corte di Cassazione: la revoca del beneficio e l’arresto, eseguito il 2 agosto. Subito dopo, i suo difensori hanno intrapreso la lunga trafila per fargli concedere gli arresti domiciliari o, in subordine, il ricovero in una struttura sanitaria per detenuti. Ma a distanza di 2 mesi non hanno ancora ottenuto una risposta dalla magistratura. E Navone intanto rischia la vita. Oristano: 70 mafiosi in arrivo nel nuovo carcere, interrogazione di Pili (Pdl) al ministro L’Unione Sarda, 27 settembre 2012 Settanta “pezzi grossi” del crimine verranno trasferiti nel nuovo carcere di Oristano che sarà aperto il 7 ottobre. Si tratta di camorristi, mafiosi e trafficanti internazionali di droga. La notizia arriva dal deputato Pdl Mauro Pili che, sull’argomento, ha rivolto un’interrogazione urgente al Guardasigilli Paola Severino. “Settanta tra camorristi, mafiosi, trafficanti internazionali di droga già dal 10 ottobre prossimo sbarcheranno in Sardegna. Meta il nuovo carcere di Oristano che sarà aperto nella prima settimana di ottobre con il trasferimento dei detenuti dal vecchio carcere di piazza Mannu. Si tratta di un vero e proprio blitz del Ministro della Giustizia che ha dato disposizioni per un sbarco senza precedenti in Sardegna di criminali legati alle più pericolose organizzazioni a delinquere. Un atto gravissimo predisposto nel silenzio che conferma l’intenzione di trasformare la Sardegna in una vera e propria cayenna di Stato, considerato che il Dap ha già comunicato che i detenuti di Alta sicurezza diventeranno ad Oristano 125. Un trasferimento che deve essere respinto in tutti i modi proprio perché si tratterebbe di una deportazione malavitosa in Sardegna ingiustificata e spropositata”. Lo ha denunciato stamane in un’interrogazione urgente al Ministro della Giustizia il deputato sardo Mauro Pili che riporta gli elementi di dettaglio di un’operazione che dovrebbe scattare già nei prossimi giorni. “Il carcere di Massama - dice Pili - sarà aperto nella prima settimana di ottobre, il sette, con il trasferimento dei 117 detenuti del Carcere di piazza Mannu. E poi dalla settimana successiva l’arrivo dei nuovi “ospiti”, provenienti dalle carceri delle altre regioni italiane. Si tratta di una decisione già trasmessa con atti interni alle rispettive carceri di provenienza dei detenuti mafiosi, camorristi e trafficanti internazionali di droga”. “La destinazione ad Oristano di settanta detenuti di alta sicurezza, dei livelli 1 e 3, è un problema non solo logistico - sostiene Pili - ma proprio di una scelta inopportuna, grave e non gradita dalla Sardegna e dai sardi”. “Scaraventare ad Oristano i detenuti più pericolosi in circolazione nel nostro Paese, ai quali si aggiungerà oltre un terzo di detenuti del 41 bis, con i 180 posti che saranno ricavati tra Sassari, Cagliari e Nuoro significa aver ridefinito il ruolo della Sardegna nello scacchiere penitenziario nazionale. Sin dall’inizio si era percepita la retrograda posizione del Ministro che attribuisce alla condizione insulare un fatto di vantaggio per la gestione detentiva dei carcerati. In realtà - sostiene Pili - questa idea di cayenna di Stato alla quale si ispira questo Ministro per rifunzionalizzare le carceri sarde è la visione più becera che si possa avere della politica penitenziaria. L’articolazione naturale è che ognuno governi il proprio quantitativo di detenuti, senza steccati, ma nemmeno con la dislocazione massiccia in un’unica regione”. “Ad Oristano - sostiene Pili - è stato previsto un braccio di alta sicurezza al quale sono destinati 70 detenuti appartenenti ai sottocircuiti di alta sicurezza 1 e 3. Il primo, A.S. 1, accoglierà i detenuti e internati appartenenti alla criminalità organizzata di tipo mafioso, nei cui confronti sia venuto meno il decreto di applicazione del regime di cui all’art. 41 bis. Si tratta, dunque, della soglia di sicurezza prossima al 41 bis, quella riservata ai capi mafiosi e camorristi. A questi si aggiungono i detenuti del circuito A.S. 3 detenuti per mafia, sequestro di persona, traffico internazionale di sostanze stupefacenti”. “Ciò che è più grave - sostiene Pili - è la ratio di questo provvedimento considerato che l’Alta Sorveglianza è riservata più che alla pericolosità individuale, all’appartenenza degli stessi ad una organizzazione, e dunque - come recita la circolare istitutiva dei tre livelli di alta sorveglianza - alla potenzialità di interagire con le compagini criminali operanti all’esterno della realtà penitenziaria, ovvero di determinare fenomeni di assoggettamento e reclutamento criminale. A meritare una attenzione maggiore e dunque una “elevata” o “maggiore sicurezza” non è quindi solo l’individuo in sé, ma la compagine cui egli appartiene, con la sua capacità di condizionare, dentro e fuori il circuito penitenziario, l’ordinario svolgersi dei rapporti sociali, e di fungere da moltiplicatore dei fenomeni criminali”. “Per la Sardegna è un rischio senza precedenti di infiltrazioni delle più pericolose organizzazioni malavitose, da quelle mafiose a quelle camorristiche, sino alle organizzazioni internazionali di traffico di droga. Fermate questo nefasto utilizzo delle carceri sarde - ha esortato il parlamentare sardo nell’interrogazione parlamentare - non si può pensare al sistema carcerario sardo come contenitore delle criminalità più pericolose e fare della Sardegna una vera e propria discarica delinquenziale”. “A tutto questo - conclude Pili - si aggiunge una carenza d’organico del personale penitenziario che già oggi è in gravissime condizioni con buchi in organico tra il 30 e 40%. Personale che non viene trasferito in Sardegna nonostante tantissimi agenti sardi dislocati nelle carceri del nord d’Italia da tempo manifestino questo desiderio di ritornare a lavorare nella loro terra”. Frosinone: Sappe; agenti praticano massaggio cardiaco e salvano detenuto da suicidio Adnkronos, 27 settembre 2012 Un detenuto con problemi psichiatrici, arrivato nel carcere di Frosinone da Regina Coeli perché necessitava di cure, ha tentato il suicidio in cella impiccandosi con le lenzuola legate alle grate della finestra. Lo riferisce una nota del Sappe, Sindacato autonomo di polizia penitenziaria. Il detenuto, si legge nella nota “è stato salvato dal tempestivo intervento dei poliziotti penitenziari che, allertati dall’agente di servizio sul piano, hanno immediatamente praticato all’uomo un massaggio cardiaco che ha consentito di salvargli la vita”. “Tempestivo è stato l’intervento del personale medico e paramedico del carcere, che hanno disposto un intervento di urgenza in ospedale per ricovero in terapia intensiva. Il detenuto ha quindi fatto rientro in carcere. Merita grande apprezzamento - conclude il Sappe - l’intervento dei poliziotti penitenziari di Frosinone, grazie ai quali è stata impedita una probabile nuova tragica morte in carcere”. Udine: presentazione del libro “Il delitto della pena”, con Franco Corleone Messaggero Veneto, 27 settembre 2012 Un titolo forte, che mette sotto accusa la classe dirigente e le istituzioni democratiche, richiamando al rispetto dell’articolo 27 della Costituzione: “Il delitto della pena”, sottotitolo: “Pena di morte ed ergastolo, vittime del reato e del carcere” (Ediesse Edizioni), presentato ieri alla Libreria Friuli da Franco Corleone, curatore del volume con Andrea Pugiotto, è un’indagine approfondita sul mondo carcerario italiano, che risponde all’esigenza di tornare ai fondamentali dei diritti civili, attraverso una riflessione documentata e non reticente. Il volume propone gli interventi - svolti nel ciclo di quattro incontri promosso dal Dottorato di ricerca in Diritto Costituzionale dell’ateneo di Ferrara, a firma di tredici autori, Alessandrini, Bernardi, Carnevale, Costa, Corleone, D’Anneo, De Luna, Lugli, Manconi, Noury, Pugiotto e Veronesi. Al centro, una questione che per il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, “è di prepotente urgenza sul piano costituzionale e civile”. Questione che ha raggiunto - sempre Napolitano - “un punto critico insostenibile, per la sofferenza quotidiana, fino all’impulso di togliersi la vita, di migliaia di esseri umani chiusi in carceri che definire sovraffollate è quasi un eufemismo”. Presente alla Friuli, con Massimo Brianese, (Società della Ragione), gli avvocati Andrea Sandra, Rino Battocletti e Maurizio Battistutta, garante dei diritti dei detenuti di Udine, anche Franco Corleone, sottosegretario alla Giustizia fino al 2001, garante dei detenuti nel Comune di Firenze e presidente della Società della Ragione. Corleone spiega al folto pubblico la situazione carceraria attuale, quella “notizia che non fa notizia” anche se la notizia c’è e si può tradurre in cifre: il numero delle morti in carcere per suicidio ha raggiunto nel 2011 il record e il 2012 rischia di superare tragicamente l’anno precedente. A Udine, nel carcere di via Spalato, due morti solo quest’estate, “mancano completamente gli spazi di socialità”, precisa Battistutta. Nelle carceri italiane si muore quotidianamente di solitudine nonostante il sovraffollamento. E quello raccontato nel volume è un mondo di persone fragili, un catalogo di umanità disperata e stipata, dove la metà è costituita da detenuti per reati legati alla droga. “E se il sistema non collassa - scrive Corleone - lo si deve al senso di responsabilità della comunità carceraria: detenuti, direttori, agenti, operatori, volontari”. Benevento: all’Ipm di Airola spettacolo conclusivo del corso “Il suono che parla” L’Informatore Sannita, 27 settembre 2012 Giovedì 27 settembre alle ore 10.00 nel teatro dell’ Istituto Penale Minorile di Airola ci sarà lo spettacolo a conclusione del corso “ Il suono che parla” laboratorio di scrittura creativa ed espressione rap, promosso dal Garante dei Diritti dei Detenuti della Regione Campania Dott. Adriana Tocco. I rapper che eseguiranno le performance insieme ai ragazzi dell’istituto minorile sono Shark Emcee che accompagnerà Gianluca M. Florin K, Sabino M., Doc Shock che supporterà Roberto R., Gennaro P., Ciro O Cristian M., Luigi E.; Mef che si esibirà con Gaetano P. Antonio C. Luigi M. Luigi V. E Ciro D. G. Ed infine Rocco Hunt che eseguirà la performance insieme a Luigi V. Sabino M. Gaetano P. e Roberto R.. Durante lo spettacolo ci sarà anche l’Intervento straordinario del rapper Lucariello. Lo spettacolo è la perfetta conclusione di un percorso formativo che i quattro rapper hanno condotto insieme ai ragazzi detenuti i quali hanno scritto testi ispirati al loro mondo interiore e alle loro esperienze. È stato un laboratorio sperimentale che ha suscitato notevole interesse sia negli addetti ai lavori che da parte dei ragazzi ospiti dell’istituto. Perché “non puoi mai farcela da solo cultura della violenza una pistola che ti fa uomo, dove il bene e il male si confondono, dici di stare bene ma sei finto non puoi nascondere il fuoco che hai dentro”. Il programma della mattinata è il seguente: Saluti della Direttrice dell’istituto Dott.ssa Mariangela Cirigliano; Interventi: Dott.ssa Adriana Tocco Resp. Ufficio Garante Dott.ssa Mariateresa Dolce Ufficio Garante, Dott.ssa Serena Battimelli Magistrato di Sorveglianza Tribunale Minorenni Napoli; Spettacolo e Laboratorio espressione RAP Presentato da Mario G.. Produzioni multimediali a cura del corso EDA “P. Pio”. Immigrazione: Cie per gli stranieri irregolari, una vergogna tutta italiana La Gazzetta di Modena, 27 settembre 2012 Nel 2012 le rivolte, talvolta culminate con gravi episodi di violenza, nei tredici Centri di identificazione ed espulsione distribuiti sul territorio nazionale per “ospitare” gli stranieri “irregolari”, si sono susseguite con maggiore frequenza rispetto al 2011, anno in cui, pure, erano stati numerosi i momenti di tensione. Alcune settimane fa, a Trapani, nel nuovo complesso di contrada Milo, una trentina di migranti sono riusciti a “fuggire” e altri, pochi giorni dopo, hanno tentato una rivolta e la fuga al grido di “Libertà, libertà”. Lo stesso lanciato dai tunisini del Centro di prima accoglienza di Pozzallo, che, ai primi di settembre, si sono rivoltati, scontrandosi con le forze di polizia. Che qualcosa non vada in queste strutture è sotto gli occhi di tutti, ma si continua a far finta di niente. In questi luoghi di “detenzione” sono trattenuti 907 stranieri, di cui 805 uomini e 102 donne. Questa “carcerazione” che può arrivare sino a diciotto mesi, si è rivelata, oltretutto, uno strumento irrilevante e poco efficace - contrariamente a quanto sostenuto dall’ex ministro leghista Maroni - nel contrasto all’immigrazione irregolare. Basti pensare che, nel 2011, su 7735 migranti (6.832 uomini e 903 donne) transitati nei Cie, solo la metà (3.880) sono stati effettivamente rimpatriati nei paesi di origine. Nel 2010, la percentuale di trattenuti/rimpatriati era stata del 48%. È aumentato, peraltro, il numero dei migranti che si sono allontanati “arbitrariamente” dai Cie: 787 nel 2011 contro i 321 dell’anno prima. Quest’anno (secondo dati del Dipartimento della Pubblica Sicurezza-Direzione Centrale dell’Immigrazione e della Polizia delle Frontiere, ad oggi non ancora definitivi), su 5.642 stranieri transitati nei Cie, sono stati ben 733 quelli che “arbitrariamente” hanno deciso di andarsene (nottetempo). A questo numero vanno aggiunte le persone dimesse per la scadenza dei termini (277), quelle nei cui confronti il giudice di pace non ha convalidato il provvedimento amministrativo di accompagnamento (687) e quelle dimesse per vari motivi (895). Insomma un totale di ben 2592 persone. Le denunce sulle pessime condizioni in cui si trovano gli stranieri nei centri vanno avanti da anni senza che la classe politica abbia mai avuto il coraggio di affrontare seriamente il problema. Otto anni fa, Medici senza Frontiere (MsF) in un rapporto dal titolo “Cpta: anatomia di un fallimento”, stilato dopo diverse visite fatte ai centri, non lasciava alcun dubbio sul loro pessimo funzionamento, sul profondo malessere delle persone “ospiti”, con gravi episodi di risse, rivolte, autolesionismi, somministrazione ripetuta di sedativi. Nel 2007 toccò alla Commissione De Mistura sottolineare, invano, la precarietà e l’inidoneità dei centri di accoglienza e di trattenimento, formulando alcune raccomandazioni (per lo più inascoltate) che avrebbero potuto consentire di affrontare il “problema della irregolarità” in maniera “più creativa ed efficace”. Nel 2010 ancora MsF, con un corposo rapporto-denuncia, riportava all’attenzione dell’opinione pubblica e delle autorità, la penosa situazione dei Cie. Anche questa volta il Governo è rimasto sordo. Cinque mesi fa la Commissione straordinaria senatoriale per la tutela e la promozione dei diritti umani, ha approvato, all’unanimità, il “Rapporto sullo stato dei diritti umani negli istituti penitenziari e nei centri di accoglienza e trattenimento per migranti in Italia” e lo ha presentato al Ministro della Giustizia Paola Severino. I Senatori scrivono che “le condizioni nelle quali sono detenuti molti migranti irregolari nei Cie (…) sono molto spesso peggiori di quelle delle carceri”. Nessuna iniziativa è stata ancora presa per rendere meno drammatica e meno vergognosa per il nostro paese questa situazione di “accoglienza” dei migranti che, intanto, continuano ad approdare, numerosi, sulle coste del sud Italia (7.632 alla data dell’8 settembre 2012). Spread, andamento delle Borse, disoccupazione giovanile, crescita, anticorruzione, trattativa Stato-mafia, intercettazioni, legge elettorale, sono temi “vitali” per il nostro Paese. Ma la vita delle migliaia di persone che fuggono da guerre e carestie non dovrebbe avere un po’ più di attenzione da parte dei “tecnici” al Governo? Immigrazione: Cie di Bologna; la garante denuncia inidonee condizioni della struttura Ristretti Orizzonti, 27 settembre 2012 Questi i dati aggiornati: dall’inizio dell’anno sono entrate nel Cie (Centro di Identificazione e di Espulsione) di Bologna 484 persone (297 uomini, 187 donne) di 43 nazionalità diverse, la permanenza media si attesta sui 41 giorni, ma solo 252 persone sono state effettivamente accompagnate forzosamente nel proprio Paese: “I dati non mostrano significativi cambiamenti con gli anni precedenti e l’esperienza del CIE - commenta Desi Bruno - a fronte di rilevanti costi umani ed economici, deve essere oggetto di un effettivo ripensamento”. Da maggio, prosegue l’attività di informazione legale presso il CIE di Bologna. Questo servizio - già realizzato nel periodo 2008-10 - è stato riattivato grazie alla collaborazione fra la Garante regionale per le persone private della libertà personale, Desi Bruno, il Difensore civico, Daniele Lugli, la Prefettura di Bologna e la Confraternita della Misericordia, che proprio in questi giorni lascerà la struttura per essere sostituita dal nuovo ente gestore, con la quale si intende proseguire l’attività. Appaiono, comunque, essenziali il ripristino del servizio di informazione legale, e l’attività di ascolto di ogni nuova persona che entra nella struttura, ad opera dei mediatori dello sportello sociale, coordinati dal dott. Franco Pilati. Anzi, le motivazioni a queste attività risultano rafforzate dall’aumentato tetto del periodo di trattenimento - fino a diciotto mesi - e dalla progressiva diminuzione delle risorse dedicate alla gestione dei Cie. “Sono elementi - afferma Desi Bruno - che rendono ancora più paradossale la permanenza nel Centro per persone che le quali si dovrebbero pensare altri interventi”. Due casi, tra gli altri: un cittadino proveniente dal Maghreb risulta ancora trattenuto nonostante abbia fatto domanda di asilo politico e debba presentarsi in una Questura fuori regione per regolare la sua posizione; una donna nata e cresciuta in Italia nel 1977 è ristretta nel Cie in attesa di essere espulsa. “È evidente quanto possa apparire nel primo caso non semplice accettare che non si liberi il trattenuto, nel secondo caso che il Legislatore non abbia ancora trovato una soluzione per coloro che pur nati e cresciuti nel nostro paese, debbano esserne comunque allontanati”. Dall’ultima visita effettuata, Desi Bruno ricava la certezza della presenza all’interno del Cie di Bologna di persone sieropositive: “Persone che avrebbero anche già tenuto comportamenti aggressivi che, come è facile immaginare, possono mettere a rischio la loro salute , nonché quella degli altri e delle altre trattenute”. La situazione desta comprensibile allarme, e la Garante intende segnalarla alle Autorità sanitarie e alla Prefettura, chiedendo anche un accertamento con ispezione igienico sanitaria della sufficienza delle condizioni di vivibilità del Cie con riferimento alle condizioni delle strutture igieniche molto carenti. Alla data del 25 settembre, il numero delle presenze è di 9 uomini e 21 donne. Un dato che non va interpretato positivamente, “poiché determinato solo da alcuni lavori necessari al raggiungimento di migliori condizioni di sicurezza in caso di rivolte”. Immigrazione: Cie di Lamezia Terme; per radersi si entra in “gabbia” Redattore Sociale, 27 settembre 2012 La scoperta dei Medici per i diritti umani dopo un’ispezione. Il centro di Lamezia Terme non dispone di un servizio di barberia: migranti costretti a entrare nella gabbia se vogliono farsi la barba. I rasoi sono considerati pericolosi per autolesionismo. Una gabbia per la rasatura. È la cosa “sconcertante” trovata e fotografata nel centro di identificazione ed espulsione di Lamezia Terme da un team di Medici per i diritti umani. “Poiché a differenza degli altri CIE, il centro di Lamezia Terme (Cz) non dispone di un servizio di barberia, l’ente gestore, come riferisce lo stesso direttore, ha “inventato” un abitacolo dove i trattenuti si possono radere - scrivono i Medu all’interno di una galleria fotografica che documenta la visita effettuata nel Cie. L’abitacolo è in effetti una vera e propria gabbia priva di qualsiasi privacy ed esposta alla vista dei trattenuti, del personale dell’ente gestore e delle forze dell’ordine. Prima di uscire dall’abitacolo, il trattenuto deve depositare la lametta in un apposito contenitore. La gabbia è posizionata su un montacarichi e può essere all’occorrenza spostata”. Temendo atti di autolesionismo, che nei Cie sono frequenti fra i trattenuti, a Lamezia Terme non vengono dati i rasoi in mano ai migranti reclusi. L’unico modo per radersi è quindi entrare nella gabbia e farlo davanti a tutti. Il Cie è stato definito da Medici senza frontiere nel 2010 uno dei peggiori d’Italia poiché privo dei minimi requisiti di vivibilità. “Tale giudizio appare ancora oggi giustificato” anche secondo Medici per i diritti umani, che ribadiscono: “la struttura appare del tutto inadeguata a garantire la dignità umana dei migranti trattenuti”. E definiscono la gabbia per la rasatura “una pratica di umiliazione dei detenuti, assolutamente sconcertante”. Sono molte le lacune trovate e denunciate da Medu: la mancanza di qualsiasi attività ricreativa, la carenza di servizi essenziali per i trattenuti, la chiusura pressoché totale all’apporto di organizzazioni esterne. “Desta particolare allarme, come del resto segnalato dallo stesso ente gestore, l’ulteriore riduzione del budget giornaliero per detenuto da 46 a 30 euro. È evidente che le condizioni di vita e la qualità dei servizi risulteranno ulteriormente deteriorate” conclude l’Ong. 75 persone impiegate per 10 reclusi Sessanta uomini di esercito e polizia e 15 persone della cooperativa “Malgrado Tutto” per fare la guardia a 10 immigrati senza permesso di soggiorno. Un centro che costa almeno 600 mila euro l’anno. È lo spreco ingiustificato denunciato dall’Ong Medici per i diritti umani che ha avuto accesso nel Cie di Lamezia Terme pochi giorni fa e, al momento della visita ha trovato soltanto 10 stranieri reclusi. Il centro è circondato da una serie di recinzioni alte 6 metri, con il filo spinato. A presidio permanente della struttura ci sono 60 effettivi tra esercito e polizia che si alternano con turni di 15 persone. Il personale dell’ente gestore è costituito da altre 15 persone. “Gli stessi funzionari delle forze dell’ordine hanno fatto notare lo spreco di risorse per la custodia di sole dieci persone”, affermano i Medu. Il CIE di Lamezia Terme, situato in località Pian del Duca, è gestito fin dalla sua apertura nel 1998 dalla Cooperativa Malgrado Tutto. È isolato nelle campagne e si trova all’interno di una struttura di proprietà della cooperativa. Si tratta di un ex centro di recupero per tossicodipendenti. Ha solo la sezione maschile con una capienza massima di 60 reclusi. Secondo i dati del Ministero dell’Interno il CIE di Lamezia Terme nel 2011 ha ospitato 361 immigrati di cui solo il 41% è stato effettivamente espulso e, sempre nel 2011, si sono verificati nove “allontanamenti arbitrari” dal centro. Il team di Medu non è riuscito a capire in modo chiaro le ragioni di un così basso numero di trattenuti. “Le forze dell’ordine spiegano che da maggio di quest’anno sono stati sospesi i nuovi ingressi poiché, a seguito di una visita dei Vigili del Fuoco, sono stati rilevati dei problemi di agibilità di alcune parti della struttura- dice Alberto Barbieri, coordinatore di Medu. Il direttore del centro ci ha però riferito che la cooperativa “Malgrado Tutto” ha vinto la gara pubblica per la gestione del centro per altri tre anni nello scorso maggio con un ribasso del budget giornaliero per detenuto dai precedenti 46 euro a 30 euro. La gara sarebbe stata però annullata e andrà dunque rifatta. Nel frattempo il centro starebbe funzionando ancora con le rimanenze del finanziamento anteriore (retta di 46 euro al giorno) e non potrebbe per questa ragione ricevere nuovi trattenuti”. “Il direttore del centro ci ha raccontato di avere anche chiesto un affitto di 200 mila euro per la struttura al ministero dell’Interno, ma la cosa non è andata in porto a causa dell’opposizione del Comune di Lamezia che è proprietario del suolo su cui sorge il Cie, un terreno confiscato alla ‘ndrangheta” riferisce Alberto Barbieri, coordinatore dei Medu. Anche nel caso di Lamezia Terme circa il 90% dei trattenuti proviene dal carcere. Ma durante la visita gli operatori di Medu hanno raccolto le testimonianze anche di immigrati incensurati, fermati mentre lavoravano e trasferiti nel Cie. Ci sono due accessi all’area di trattenimento. Da un primo accesso si entra nel cortile attraverso una pesante porta blindata. Il secondo è dotato di una gabbia doppia, progettata appositamente dall’ente gestore per impedire eventuali fughe. All’interno del centro non è prevista alcuna attività ricreativa , a parte giocare a pallone nel cortile di circa 200 metri quadrati, unico luogo di socializzazione presente se si eccettua la mensa. All’interno del centro non opera alcuna associazione esterna di tutela e/o assistenza. “Appare evidente che una struttura del genere, con una capienza a regime di 50-60 persone, risulta al di sotto dei minimi requisiti di vivibilità“ sottolinea l’Ong umanitaria. Le stanze del centro, circa venti, sono da quattro e da otto letti. I letti hanno una struttura di metallo fissata al pavimento. Molti impianti di riscaldamento sono danneggiati o non funzionanti. L’edificio che ospita gli immigrati è costruito su due piani. In ogni piano vi sono due bagni dotati di una decina di lavabi, docce e servizi igienici. Nel bagno visitato dagli operatori di Medu vi era però una sola doccia funzionante. I trattenuti in effetti lamentano che nei periodi di massima capienza è necessario fare lunghe file per potersi lavare. Immigrazione: Cie Lamezia Terme; fisioterapia fai-da-te per migrante disabile Redattore Sociale, 27 settembre 2012 Solleva ogni giorno una bottiglia piena d’acqua legata al piede. La denuncia dell’Ong Medu che lo ha fotografato nel centro di identificazione e di espulsione calabrese. Avrebbe bisogno della fisioterapia a causa di un’infezione al femore e di una protesi. Fisioterapia fai-da-te sollevando ogni giorno una bottiglia piena d’acqua legata al piede. Una stanza di isolamento terapeutico chiusa da grandi lucchetti, per trattenere gli immigrati che devono essere sottoposti ad accertamenti diagnostici per eventuali malattie infettive non compatibili con la vita comunitaria. I colloqui con la psicologa attraverso uno schermo di vetro, peggio che in carcere. Sono le gravi violazioni della dignità della persona nel Cie di Lamezia Terme denunciate dai Medici per i diritti umani. Un migrante disabile recluso nel centro, che per muoversi ha bisogno di una stampella a causa di una protesi all’anca, si è dovuto organizzare da solo perché non può fare la fisioterapia nel centro, né uscire per curarsi fuori. “Il caso di questo paziente dimostra le difficoltà di garantire in modo adeguato il diritto alla salute all’interno di un Cie” denunciano i Medici per i diritti umani- Il paziente ha subito nel corso degli ultimi anni ripetuti e prolungati ricoveri a causa di una grave forma di infezione (osteomielite) della testa del femore che ha reso necessario, circa un anno fa, il posizionamento di una protesi all’anca. Dal suo ingresso nel Cie, oltre quattro mesi fa, il paziente ha chiesto invano la possibilità di poter effettuare la fisioterapia e un controllo ortopedico. Al suo ingresso nel Cie è stato sottoposto ad una serie di esami ematici di cui ancora non ne conosce l’esito. L’ente gestore ci riferisce di non aver potuto acquisire la sua cartella clinica. Nel frattempo il paziente si è auto organizzato con una fisioterapia fai da te”. Nel centro operano un mediatore culturale, un assistente sociale e una psicologa. Sono presenti due medici e due infermiere che coprono due turni per un totale di otto ore giornaliere dal lunedì al sabato. Il centro è fornisce quindi esclusivamente un’assistenza sanitaria di primo livello mentre “destano particolare preoccupazione le condizioni dei detenuti che necessitano di assistenza sanitaria in strutture esterne al centro”. Questo anche per “il sistema perverso che si crea nel rapporto medico - paziente all’interno dei Cie - secondo Alberto Barbieri, il coordinatore dei Medu. All’interno del Cie viene meno il rapporto di fiducia tra medico e paziente che si trasforma, a causa delle condizioni oggettive, in una relazione carceriere-detenuto. Da una parte i pazienti lamentano la persistente disattenzione dei sanitari nei confronti delle loro patologie, dall’altra i sanitari temono costantemente che i detenuti simulino o esagerino i sintomi di una malattia con lo scopo finale della fuga. A ciò si aggiunge la frequente difficoltà di avere a disposizione una scorta di polizia per il trasferimento del paziente”. Il disagio psichico è grande, alcuni trattenuti hanno infatti scontato periodi di internamento fino a otto mesi. Ma a Lamezia Terme la stanza per l’assistenza psicologica appare inadeguata poichè i colloqui tra i trattenuti e la psicologa avvengono attraverso uno schermo di vetro. Le informazioni sui diritti ed i doveri, sulle modalità per fare richiesta d’asilo e la possibilità di accesso al servizio di orientamento legale fornito dall’ente gestore sono apparse decisamente carenti. In effetti i trattenuti con cui è stato possibile dialogare hanno dichiarato di non conoscere e di non aver ricevuto al loro ingresso la carta dei diritti e dei doveri in quattro lingue che è stata mostrata al team di Medu dal direttore del centro. Del resto tale documento appare non aggiornato. Nella copertina appare ancora il vecchio acronimo Cpta di Lamezia Terme con cui venivano denominati i Cie prima del 2008. Sempre nello stesso documento lo straniero viene informato che non potrà essere trattenuto oltre i 60 giorni mentre nel 2009 i tempi massimi di trattenimento sono stati estesi a 6 mesi e nel 2011 a 18 mesi. Stati Uniti: Amnesty International; scioccanti condizioni prigionieri in isolamento Tm News, 27 settembre 2012 Lo stato americano della California deve apportare cambiamenti sostanziali alle sezioni d’isolamento dei penitenziari e porre fine alla sofferenza disumana di migliaia di prigionieri. è quanto ha dichiarato oggi Amnesty International, diffondendo un nuovo rapporto intitolato “Al limite della sopportazione: le condizioni delle unità di sicurezza dei penitenziari della California”. Il rapporto, basato sull’esclusivo accesso ottenuto da Amnesty International alle unità d’isolamento della California, analizza le condizioni di prigionia di oltre 3000 detenuti, 78 dei quali in isolamento da oltre 20 anni. I prigionieri in isolamento sono confinati per almeno 22 ore e mezza al giorno dentro celle che misurano meno di otto metri quadrati. Nella prigione statale di Pelican Bay, più di 1000 detenuti sono confinati in celle solitarie senza finestre e con scarso accesso alla luce naturale. L’esercizio fisico è limitato a un’ora e mezza al giorno, da fare da soli in uno spoglio cortile di cemento, circondato da muri alti sei metri e con un tetto di plastica attraverso cui si vede appena uno spicchio di cielo. I prigionieri in isolamento non possono lavorare, partecipare a programmi di riabilitazione o svolgere alcun tipo di attività di gruppo. Inoltre, è precluso loro qualunque contatto con il mondo esterno. Le visite mediche avvengono attraverso le sbarre, le visite dei familiari e degli avvocati dietro una vetrata. I prigionieri non hanno diritto a contatti telefonici regolari con i loro parenti. “Le condizioni e la durata dell’isolamento in California sono semplicemente scioccanti” - ha detto Angela Wright, ricercatrice di Amnesty International sugli Usa, che ha visitato una serie di prigionieri nello Stato. “Privare i prigionieri posti in un ambiente segregato della luce naturale, di un adeguato esercizio fisico o di contatti umani significativi è inutilmente punitivo ed è ingiustificabile in qualunque circostanza. L’accesso alla luce naturale e all’esercizio fisico sono bisogni primari, essenziali per la salute mentale e fisica.” Secondo i dati diffusi dal Dipartimento degli istituti di pena e della riabilitazione della California, nel 2011 più di 500 prigionieri avevano trascorso 10 o più anni in isolamento, più di 200 oltre 15 anni e 78 oltre 20 anni. Sebbene l’isolamento debba essere applicato nei casi estremi, molti prigionieri vi si trovano a causa di malattie mentali o disturbi del comportamento e talvolta vi vengono posti per la reiterazione di reati minori e per comportamento violento. Più 2000 prigionieri sono tenuti in isolamento dopo essere stati qualificati come membri o associati a bande di detenuti. Un prigioniero, che all’epoca della visita di Amnesty International al carcere di Pelican Bay si trovava in isolamento per 22 anni, ha detto che i due delegati dell’organizzazione per i diritti umani erano le prime persone che vedeva da anni. I detenuti delle unità di isolamento di Pelican Bay hanno denunciato una serie di problemi fisici derivanti, o aggravati, dalle loro condizioni di reclusione. Le gravi conseguenze negative dell’isolamento si riflettono nel numero dei suicidi, più frequenti nelle unità d’isolamento che in tutto il complesso delle unità carcerarie. In California, dal 2006 al 2010, il numero dei prigionieri morti suicidi è stato in media di 34 ogni anno, il 42 per cento dei quali in isolamento. Alcuni studi hanno rilevato che gli effetti negativi derivanti dall’isolamento prolungato possono perdurare per diverso tempo dopo il rilascio, e la mancanza di un programma di transizione o di pre-rilascio per i carcerati che hanno trascorso anni o decenni in isolamento, prima di tornare direttamente in libertà, rende molto più difficile la reintegrazione effettiva nella società. “Le recenti proposte di riforma non bastano a soddisfare le numerose preoccupazioni di Amnesty International sulle unità di isolamento a lungo termine della California; se ulteriori cambiamenti, come quelli proposti dettagliatamente nel nostro rapporto, non saranno inclusi in queste riforme, la California resterà ancora lontana dalle leggi e dagli standard internazionali sul trattamento umano dei prigionieri e sul divieto di tortura e altri maltrattamenti” - ha concluso Wright. Amnesty International invita le autorità della California a: limitare l’uso delle unità di isolamento, cosicché questo sia inteso unicamente come ultima istanza nel caso di prigionieri il cui comportamento costituisca una grave e ripetuta minaccia alla sicurezza altrui; migliorare le condizioni di tutti i prigionieri detenuti nelle unità di isolamento, attraverso la previsione di un migliore esercizio fisico e l’opportunità di maggiori contatti umani per i prigionieri, anche ai livelli di custodia più restrittivi; permettere ai prigionieri delle unità di isolamento di telefonare regolarmente alle loro famiglie; prevedere un accesso significativo ai programmi dove i prigionieri hanno l’opportunità di alcuni contatti di gruppo e interazione con gli altri in una fase anteriore alla fine della pena; togliere immediatamente dall’isolamento i prigionieri che hanno già trascorso anni in quelle unità. Giappone; Amnesty International; già sette condanne a morte eseguite nel 2012 Adnkronos, 27 settembre 2012 “Omicidi premeditati e a sangue freddo compiuti dallo stato giapponese”, definisce così Amnesty International in una nota le due impiccagioni avvenute in Giappone questa mattina e esprime forte timore per “una possibile nuova ondata di esecuzioni”. L’associazione rende noti i nomi dei due impiccati per omicidio: Sachiko Eto e Yukinori Matsuda, rispettivamente detenuti nelle prigioni di Sendai e Fukuoka. “Eto - prosegue - ha 65 anni ed è la prima donna messa a morte nel paese dal 1997”. “Con queste due impiccagioni - racconta la nota - sale a sette il numero delle condanne a morte eseguite in Giappone nel 2012, dopo che l’anno precedente era trascorso senza esecuzioni”. Nei bracci della morte del paese rimangono in attesa dell’esecuzione 131 prigionieri, che Amnesty International considera a rischio di impiccagione imminente. “Makoto Taki, ministro della Giustizia giapponese, sostenitore della pena di morte, ha autorizzato - sottolinea Amnesty - quattro esecuzioni nei suoi primi quattro mesi d’incarico, nonostante in campagna elettorale il Partito democratico avesse promesso un dibattito nazionale sulla pena capitale”. Le impiccagioni in Giappone, spiega l’associazione, avvengono in segreto e con un preavviso di poche ore, se non addirittura senza preavviso: “Le famiglie vengono informate dopo l’esecuzione” Honduras: progetto Ass. Dokita, per migliorare la vita di donne e bambini detenuti La Repubblica, 27 settembre 2012 Se nelle prigioni italiane la situazione è insostenibile, fuori dai nostri confini la situazione è spesso assai peggiore. L’Associazione Dokita, con il sostegno dell’Unione Europea, è riuscita ad intervenire per migliorare la dignità delle detenute e del personale nel penitenziario Nazionale Femminile di Adattamento Sociale a Tegucigalpa. Per tutto il 2012, nel Penitenziario Nazionale Femminile di Adattamento Sociale (PNFAS) di Tegucigalpa in Honduras, che raccoglie una popolazione femminile di età media tra i 20-40 anni, Dokita 2 svilupperà una serie di attività per favorire il rientro nel mondo lavorativo e l’inserimento sociale delle detenute, con un’attenzione particolare alle madri con figli. Più povertà, più reati. L’Honduras attualmente è fra i tre paesi più poveri dell’America Latina, con oltre il 65% della popolazione che vive al di sotto della soglia di povertà. La tendenza demografica, caratterizzata da una piramide molto giovane e in continua espansione, rappresenta un altro fattore che contribuisce a peggiorare lo stato attuale del paese. I tassi di crescita degli ultimi anni hanno infatti registrato picchi annuali del 2,9% (fra i più alti del continente) con una percentuale di popolazione di età inferiore ai 15 anni pari al 40%. La dicotomia fra crescita demografica e caduta del PIL, oltre a causare un aumento della disoccupazione che rende il paese inerte ed incapace di elaborare riforme atte a contrastare la crisi economica internazionale, è causa di forti instabilità sociali. Infatti si è registrato negli ultimi anni un forte aumento del numero dei reati e dunque di detenuti all’interno delle carceri nazionali, con un aumento del numero di donne recluse. Impossibile ogni cambiamento in carcere. Questo fattore viene considerato molto preoccupante dal momento che, in molte famiglie a rischio sociale e con scarse risorse economiche, le donne sono le uniche a occuparsi del sostentamento e dell’educazione dei figli. Ciò genera fenomeni sociali negativi, soprattutto nelle aree urbane del paese, che interessano i giovani e gli adolescenti i quali convergono in bande criminali compiendo atti di microcriminalità. Le principali leggi che regolano il sistema nazionale nel campo della riabilitazione dei delinquenti e della maras (bande criminali) non viene garantito a causa della mancanza di risorse finanziarie da parte dello Stato. Le carceri si trovano, pertanto, impossibilitate a implementare le attività di reinserimento e, così facendo, aumentano le possibilità che il detenuto, una volta scontata la pena e uscito dal carcere, incontri serie difficoltà nel reinserimento all’interno della società e, nella maggior parte dei casi, torni a commettere reato. Tale situazione, da un lato, non permette il reinserimento nel mondo lavorativo e sociale dell’ex detenuto e, dall’altro, crea una percezione di crescente insicurezza tra i cittadini. Le indecenti condizioni igieniche. Il Penitenziario Nazionale Femminile di Adattamento Sociale (PNFAS) è l’unico centro abilitato esclusivamente per le donne e dispone di installazioni basiche per la realizzazione di attività di educazione formale e occupazionale. Con il suo progetto Dokita vuole intervenire sulle maggiori problematiche del settore quali le inadeguate infrastrutture carcerarie, le scarse condizioni igieniche, la bassa qualità dell’assistenza medica e dei servizi e l’intensificazione di azioni violente all’interno dei penitenziari. A queste problematicità si aggiunge la mancanza di politiche sociali incentrare sul monitoraggio alla fine del periodo di pena e finalizzate al reinserimento del detenuto. Il lavoro di Dokita. Dokita, tramite il suo ufficio logistico - amministrativo il cui responsabile è Davide Bonechi, esperto in cooperazione allo sviluppo, che opera in Honduras dal 2008 nella gestione di progetti di educazione di base, di formazione professionale e di gestione del rischio, vuole contribuire alla riabilitazione delle donne private di libertà del Penitenziario Nazionale Femminile di Adattamento Sociale (PNFAS) di Tegucigalpa rafforzando le attività di educazione formale e di formazione professionale del carcere. A tal fine, il progetto nominato “Dignità per le detenute: miglioramento della condizione carceraria delle donne recluse del Penitenziario Nazionale Femminile di Tegucigalpa in Honduras” prevede di migliorare il livello qualitativo dell’educazione primaria e secondaria e dei corsi tecnici di educazione informale. Le attività previste. Sono orientate, da un lato, al miglioramento dell’organizzazione generale dei programmi di educazione delle detenute, in modo da raggiungere uno standard adeguato; dall’altro, a formare il personale penitenziario. Saranno così ripristinate ed attrezzate alcune sale destinate all’insegnamento di corsi scolastici e tecnici. Inoltre, saranno eseguiti corsi di pedagogia e psicologia per il personale dedicato all’insegnamento e alla cura delle detenute. Di particolare importanza è la ristrutturazione e la fornitura di attrezzature e materiali per l’asilo nido interno alla struttura. Si prevede di dipingere le pareti, riparare le finestre e fornire attrezzature e materiali per l’asilo: giocattoli e materiale educativo e didattico, sedie e tavolini da lavoro, tende, letti, culle e altro materiale specifico. Gli obiettivi. Obiettivo è quello di garantire il diritto all’infanzia riconosciuto a livello internazionale, il diritto di vivere in un ambiente adeguato all’età e di dare l’opportunità alle detenute-madri di frequentare la scuola e le attività di formazione professionale. A beneficiare del progetto sono 172 donne detenute nel Penitenziario Nazionale Femminile di Adattamento Sociale (Pnfas) di Tegucigalpa, le 96 persone del personale del penitenziario, insieme alle famiglie delle detenute e di conseguenza dell’intera società honduregna. Come sostenere il progetto In Honduras, Dokita è presente con una sede operativa nella capitale Tegucigalpa dalla fine del 2010. In accordo con le Linee Programmatiche della Cooperazione Italiana e con la strategia Paese dell’Unione Europea (Country Strategy Paper Honduras, 2007-2013), i principali settori d’intervento di Dokita nel paese riguardano: la formazione comunitaria, l’esclusione sociale, minori, disabilità e gestione del rischio. Per migliorare la dignità delle donne recluse. Con 30 euro puoi contribuire ad acquistare il materiale scolastico e garantire una formazione professionale alle donne detenute. Con 50 euro contribuisci a migliorare la condizione abitativa delle guardie carcerarie Con 100 euro permetti a una detenuta-madre di ricevere un’educazione scolastica e professionale per uscire dalla spirale della povertà e della criminalità. Con 150 euro puoi partecipare alla ristrutturazione dell’asilo nido Causale: Progetto Carceri in Honduras. Bahrain: leader opposizione in carcere; condannato agente che uccise manifestante Adnkronos, 27 settembre 2012 Una corte d’appello del Bahrain ha fissato per il 16 ottobre la prossima udienza nell’ambito del processo al leader dell’opposizione bahreinita e attivista per i diritti umani, lo sciita Nabeel Rajab. È quanto si apprende da una nota del governo di Manama. Rajab è accusato di incitamento alla violenza e riunione illegale. Il 48enne Rajab, alla guida del Centro del Bahrain per i diritti umani, sta scontando una pena a tre anni di carcere per aver partecipato a manifestazioni antigovernative non autorizzate durante la rivolta contro la monarchia sunnita degli al-Khalifa scoppiata nel febbraio dello scorso anno. Ad agosto Rajab è stato assolto dall’accusa di aver insultato su Twitter il primo ministro, Sheikh Khalifa bin Salman al-Khalifa. Uccise manifestante, agente condannato a 7 anni carcere Un agente di polizia del Bahrain è stato condannato a 7 anni di carcere per aver ucciso un manifestante durante le proteste antigovernative scoppiate nel Paese del Golfo all’inizio dello scorso anno. Lo ha riferito il sito ‘Middle East Onlinè, secondo cui il poliziotto, la cui identità non è stata rivelata, è stato condannato per l’omicidio di Hani Abdel Aziz, un manifestante sciita. Il tribunale ha invece assolto altri due ufficiali di polizia che erano stati incriminati per l’uccisione di due manifestanti, Ali al-Moumin e Issa Abdel Hasan. Tutte e tre le vittime erano decedute a causa delle ferite riportate durante gli scontri di piazza con gli agenti antisommossa. Lo scorso 17 settembre, la procura generale del Paese del Golfo ha incriminato 7 poliziotti con l’accusa di aver torturato i manifestanti.