Giustizia: anche la scienza è contro l’ergastolo di Umberto Veronesi La Repubblica, 26 settembre 2012 La scienza è con Sofri e con quanti si impegnano perché l’ergastolo ostativo venga eliminato dal nostro sistema giudiziario. La scienza sta con chi crede nel principio di una giustizia tesa al recupero e la rieducazione della persona, evitando trattamenti contrari al senso di umanità, della sua dignità , come recita la nostra Costituzione. Il nostro sostegno si fonda su motivazioni molto forti. Gli studi più recenti in neurologia ci hanno dimostrato che il nostro sistema di neuroni è plastico e si rinnova, perché il cervello è dotato di cellule staminali proprie in grado di generare nuove cellule. Questo dimostra scientificamente che la persona che abbiamo messo in carcere, non è la stessa vent’anni più tardi e che per ogni uomo esiste per tutta la vita la possibilità di cambiare, evolversi, adattarsi, rispondere a nuovi stimoli educativi. In secondo luogo studiando il Dna, abbiamo scoperto che l’aggressività non è per nulla scritta nei nostri geni: antropologicamente e biologicamente l’essere umano è predisposto alla fraternità e alla solidarietà. Dunque gli atteggiamenti violenti dell’uomo non sono un bisogno primario, ma invece la riposta a cause esterne ambientali, come violenze durante l’infanzia, ingiustizie profonde o abusi subiti. Per questo quattro anni fa ho voluto creare il movimento “Science for Peace”, che desse voce alla scienza contro ogni forma di violenza legittimata, le guerre, naturalmente, ma anche la pena di morte. E anche contro l’ergastolo che, secondo noi, è una forma di pena capitale spietata, tanto da far scrivere a Carmelo Musumeci, con cui ho un carteggio personale da molto tempo, “aiutatemi a ottenere la grazia di morire”. Penso che la scienza, insieme agli uomini di pensiero come Sofri, forte del nuovo sapere sull’uomo e la sua natura, abbia il dovere morale di impegnarsi a favore di un’idea di giustizia che sia punizione, ma non vendetta. Per i greci Nemesi era insieme Dea della Giustizia e della Vendetta, ma questo dualismo esprimeva una concezione ancora barbara del diritto, che oggi dovrebbe essere superata anche grazie alle nuove conoscenze di cui disponiamo circa i meccanismi della mente. Penso che una giustizia moderna dovrebbe piuttosto ispirarsi alla Metànoia che Giovanni Battista predicava sulle rive del Giordano, il Ravvedimento. Non sarà una campagna facile e sarà, come molte di quelle che la scienza conduce in nome della civiltà, molto impopolare. Scardinare culturalmente la legge del taglione, richiede un salto mentale e un grande sforzo collettivo. Tuttavia oggi vedo uno spiraglio: le posizioni di intellettuali come quella di Sofri espresse su questo giornale si affiancano a film come quelli dei fratelli Taviani e di Matteo Garrone. E la scienza è con loro. Giustizia: fine pena mai, norma fuori della Costituzione di Elena Laudante La Nuova Sardegna, 26 settembre 2012 Fine pena mai. Se esiste negli uffici del Dipartimento penitenziario, un timbro con impressa questa dicitura, verrà stampigliato inesorabilmente sul fascicolo personale di una categoria speciale di condannati, quelli assoggettati alla pena dell’ergastolo ostativo. Si tratta - come ci spiegava l’altro giorno su “Repubblica” Adriano Sofri - di una pena rafforzata, introdotta da una legge del 1992, l’art. 4 bis dell’Ordinamento penitenziario: un ergastolo cioè più ergastolo di quello normale, per il quale non valgono più le attenuazioni legate al ravvedimento del condannato, né quelle che comportano, a certe condizioni, la riduzione della pena. Qui non si ammettono sconti per nessuno: chi vi è assoggettato vivrà la sua intera esistenza in carcere. E ci morirà, prima o poi. La data del 1992 dice in parte le ragioni che indussero il legislatore di allora a tanto inesorabile rigore. Si usciva dal ventennio sanguinoso del terrorismo ma si combatteva la sfida mortale allo Stato da parte della mafia. Il clima era di guerra totale, senza remissione, tra lo Stato e i suoi nemici. E l’unico diritto possibile sembrava quello racchiuso nella legge d’emergenza. L’ergastolo in sé è già una pena discutibile. Lo si discute infatti da tempo alla luce della Costituzione, che prevede come fine della pena la riabilitazione del condannato. In altri termini, e contro un’opinione popolare “vendicativa” per altro molto diffusa, la segregazione deve servire a due soli scopi: il primo, immediato, è quello di impedire a chi delinque di continuare a farlo; il secondo, di lungo periodo, dovrebbe essere quello di riacquisirlo alla società attraverso una terapia di recupero sociale. Dico dovrebbe, perché - e duole ammetterlo - il nostro sistema carcerario non è assolutamente in grado di garantire il fine riabilitativo, soffrendo di un affollamento disumano (67 mila detenuti in edifici che ne potrebbero al più contenere 43 mila) e non essendo stato sinora in grado di praticare - come timidamente cominciano a fare solo ora alcuni provvedimenti dell’attuale governo (ma non basta) - la via delle pene alternative e del lavoro esterno. In ogni caso l’ergastolo ostativo confligge, oltre che con la Costituzione, con l’esperienza comune. Chi può dire, di sé stesso, di essere a 40-50 anni la stessa persona che era a 20? La vita, persino nella solitudine disperata della segregazione, non scorre mai invano, non passa senza lasciare una traccia, senza incidere non solo sul fisico ma sulla personalità interiore, senza attivare talvolta processi di revisione anche profondi. Possono non risolversi nel pentimento (parola ambigua, per altro, di forte connotazione cattolica). Ma può anche accadere il contrario. Il ravvedimento - si legge in una sentenza molto citata della Corte di cassazione - sta “nell’insieme degli atteggiamenti concretamente tenuti ed esteriorizzati durante il tempo di esecuzione della pena”, che devono testimoniare “la compiuta revisione delle scelte criminali della vita precedente”. Al giudice, assistito dagli esperti, il compito di valutare, e di decidere. Ravvedimento, mutamento interiore, maturazione della personalità. Ognuno di questi concetti richiede naturalmente prudenza, ogni caso è diverso dagli altri. Ma chi conosce anche superficialmente la realtà carceraria sa che si tratta pur sempre di un mondo di uomini (e di donne) in carne ed ossa, che non è lecito schiacciare in eterno sul reato per quanto grave che hanno commesso e sulla condanna per quanto pesante che è stata loro inflitta. Persino in carcere, persino nel chiuso dell’ergastolo ostativo, si può cambiare. È quanto sta accadendo del resto a molti ex ragazzi che allora sbagliarono, e che oggi (forse) non sbaglierebbero più. È giusto inchiodarli ai tragici errori della loro giovinezza? È lecito mantenere nell’ordinamento una pena che contrasta così evidentemente con lo spirito e la lettera della Costituzione? Giustizia: in Italia l’83% dei condannati sconta la pena in carcere, in Francia e GB il 24% Ansa, 26 settembre 2012 Se in Italia l’82,6% dell’esecuzione delle condanne sono scontate in carcere, in Francia e Gran Bretagna sono solo un quarto del totale: il 74% dei condannati usufruisce dell’esecuzione penale esterna. Nel nostro Paese la condanna in carcere è quindi quella prevalente, nonostante l’osservatorio delle misure alternative del Dap (il Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria) abbia calcolato nel 2007 che la recidiva è tre volte superiore tra chi resta tutto il giorno chiuso in prigione (68,5%), rispetto a chi sconta la condanna con misure alternative (19%). Tra l’altro nel nostro Paese il numero complessivo delle pene alternative è stabile rispetto al 2006, anno in cui è stato varato l’indulto, ma oggi ci sono circa 5 mila detenuti in più (in totale, secondo i dati aggiornati a ieri sono 66.384), e vi è stato un crollo degli affidamenti in prova di circa il 50%: sono passati da 16 mila a 10.183 (dato al 30 giugno 2012). C’è stata invece un’inversione rispetto alla detenzione domiciliare: se al 30 giugno 2006 ne usufruivano 4.949 persone, al giugno di quest’anno erano ai domiciliari in 9.186. I detenuti lavoratori, in calo negli ultimi anni, sono circa 13 mila, ma quasi tutti (10.986) sono alle dipendenza del Dap, per esempio si occupano delle cucine o delle pulizie negli istituti, e lavorano per periodi molti brevi. Mentre escono per lavorare solo 2.215 persone. Questo anche perché dal 2011 non è stato più possibile prevedere gli sgravi fiscali previsti dalla legge Smuraglia. Per dare scientificità e sistematicità a questi dati il ministero della Giustizia avvierà e renderà disponibili in tempi brevi, e comunque entro la fine della legislatura, un’ indagine con l’obiettivo di valutare quanto e in quale misura i diversi tipi di espiazione della pena incidono sulla recidiva. Giustizia: Ministro Severino; abbattere la recidiva è obiettivo chiave delle politiche penali Agi, 26 settembre 2012 “Abbattere la recidiva è il vero, unico modo per affrontare sistematicamente il tema della carcerazione e della pena”. Lo ha sottolineato il ministro della Giustizia, Paola Severino, presentando l’indagine che si propone di misurare “in termini rigorosamente scientifici” quanto e in che misura i diversi tipi di espiazione della pena incidono sulla recidiva. La ricerca - in collaborazione con il dicastero di via Arenula - sarà condotta dal Sole 24 Ore, dall’Einaudi Institute for Economics Finance (Eief) e dal Crime Research Economic Group (Creg). “La vera sfida - ha spiegato la guardasigilli - è passare dall’emotività alla razionalità” nell’approccio al problema. “Negli ultimi anni - ha ricordato Severino - davanti a molti episodi criminosi la prima reazione è stata quella di chiedere un innalzamento delle pene e ciò ha comportato uno sbilanciamento del sistema penale e carcerario. Il passaggio dalla emotività alla razionalità è importante e può ricevere un grande aiuto da ricerche di questo tipo che consentono di misurare l’efficacia delle riforme fatte e di convincere operatori e, soprattutto, opinione pubblica del fatto che le misure alternative alla detenzione e il lavoro carcerario non sono un pericolo, ma una soluzione. Non a caso - ha ricordato il ministro - altri Paesi, non solo europei, stanno affrontando il tema del sovraffollamento carcerario con gli stessi mezzi: ma mentre in Italia l’82,6% delle condanne vengono scontate in carcere, in Francia e Gran Bretagna quasi il 75% vengono scontate all’esterno”. Intervento della guardasigilli Paola Severino alla conferenza stampa su carcere e recidiva I primi atti di governo - con l’approvazione lo scorso dicembre del decreto salva carceri - testimoniano la ferma volontà di affrontare la questione penitenziaria iniziando da un primo nodo di fondo: il contrasto alla tensione detentiva e il recupero dell’idea del carcere come extrema ratio. La realizzazione di validi percorsi rieducativi presuppone, anzitutto, la valorizzazione di tutte quelle misure che possano consentire, ferme restando le esigenze di tutela dei cittadini, strade diverse dalla detenzione in carcere. Rapporto carcere-recidiva, si può e si deve misurare In questi ultimi anni alcune realtà come Bollate, carcere “aperto” al lavoro e ad attività di recupero che ne fanno un modello di eccellenza, hanno fornito risultati incoraggianti sulle diverse modalità della pena in funzione del reinserimento sociale. Tuttavia - come ci è stato segnalato anche dal recente rapporto del Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Nils Muiznieks - in Italia non tutte le riforme sono adeguatamente supportate da valutazioni statistiche e scientifiche. Per questo motivo, il Ministero della Giustizia e il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria hanno deciso di offrire la piena collaborazione all’indagine che prende oggi l’avvio e che sarà condotta dal Sole 24ore, dall’Einaudi Institute for Economics Finance (Eief) e dal Crime Resarch Economic Group (Creg). Sarà un’indagine basata su rigorosi metodi scientifici, con l’obiettivo di valutare quanto e in che misura i diversi tipi di espiazione della pena incidono sulla recidiva. Perché la tendenza a ripetere atti criminosi rappresenta un costo per la società, sia sotto il profilo della sicurezza sia di quello economico. Alcuni dati e un confronto con Francia e Gran Bretagna Forse non avranno il crisma della scientificità della ricerca che avviamo oggi, ma alcuni dati di precedenti rilevazioni da parte dell’Osservatorio delle misure alternative del Dap sono di indubbio interesse. Nel 2007 è stato infatti calcolato che la recidiva di chi resta tutto il tempo chiuso in prigione è tre volte superiore a quella di chi sconta la condanna con misure alternative alla detenzione: il 68,5% nel primo caso, il 19% nel secondo. Non solo: il vantaggio è anche economico dal momento che - sempre secondo questa stima - la diminuzione di un solo punto di percentuale della recidiva corrisponde a un risparmio di circa 51milioni di euro all’anno, a livello nazionale. La strada delle misure alternative alla detenzione è d’altronde stata intrapresa in Francia e Regno Unito, dove i primi risultati sono già visibili. Questi Paesi, a differenza dell’Italia, fanno ricorso in maniera più considerevole a misure alternative: se in Italia l’82,6% delle esecuzioni delle condanne sono scontate in carcere, in Francia e Regno Unito, viceversa, quasi il 75% delle condanne sono scontate all’esterno. Il lavoro come leva per il reinserimento Le misure alternative immaginano un carcere che promuove l’ingresso graduale verso la libertà rispetto a un carcere in cui prevale l’ozio e in cui i detenuti restano in cella per quasi l’intera parte della giornata. I detenuti che abbiano avviato esperienze di lavoro registrano una sensibile riduzione del tasso di recidiva. A conferma di questa tendenza possono citarsi, seppure con riferimento ai detenuti che hanno a suo tempo beneficiato dell’indulto, i dati raccolti da “Italia lavoro”, Agenzia del Ministero del Lavoro: su 2.158 detenuti che hanno avviato tirocini guidati presso aziende, il tasso di recidiva è bassissimo, pari al 2,8%. Senza reinserimento, invece, il dato schizza all’11% entro i sei mesi dall’uscita dal carcere per arrivare a sfiorare il 27% dopo due anni. Poco lavoro, dentro e fuori dal carcere I dati del Dap ci dicono che, al giugno 2012, i detenuti lavoranti sono circa 13.000 su un totale di circa 66mila presenti. La maggior parte (10.986) lavorano alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria (ad esempio in cucina per la preparazione del vitto, pulizie etc.), ma lo fanno per periodi molto brevi. Coloro che sono assunti a tempo pieno o part-time da imprese o cooperative sociali sono un’esigua parte (solo 2.215, pari al 16,7% dei totale dei detenuti lavoranti). Il numero - come si vede dai grafici allegati - è andato diminuendo in questi ultimi anni. La Legge Smuraglia - strumento normativo grazie al quale nel 2000 è stato possibile introdurre sgravi fiscali e un abbattimento dell’80% degli oneri contributivi per i lavori di lavoro che assumono detenuti - ha purtroppo risentito delle carenze economiche che hanno interessato il Paese. Dal 2011 non è stato più possibile prevedere sgravi fiscali ma il Governo sta mettendo il massimo impegno per rinvenire i fondi. Misure alternative alla detenzione Dal 2006 - anno in cui è stato varato l’indulto - ad oggi, il numero complessivo delle misure alternative alla detenzione è rimasto sostanzialmente stabile (22.889 nel giugno 2006 e 21.517 nello stesso mese del 2012) ma si deve tener conto che, nel frattempo, i detenuti sono cresciuti di circa 5mila unità. Un dato infine deve far riflettere: tra le misure alternative, gli affidamenti in prova - di grande rilievo nell’ottica del reinserimento sociale - hanno subito un crollo di circa il 50%. Giustizia: a Reggio Emilia vietate le proteste pacifiche, a Trani ricevere pacchi con cibo di Davide Pelanda www.articolotre.com, 26 settembre 2012 “Si avvisa la popolazione detenuta di tutti i reparti detentivi che, dalla data odierna non sarà più tollerata alcuna forma di protesta anche se pacifica. Qualsiasi violazione alla presente disposizione sarà oggetto di rilievi disciplinari anche collettivi”. Firmato: il Direttore. È ciò che è comparso nella bacheca del carcere di Reggio Emilia, spedito per posta a Riccardo Arena, conduttore della trasmissione “Radio Carcere” e subito postato via internet. Una minaccia che ai più è sembrata un tantino fuori dalle righe, se non proprio fuori legge. Ed in proposito a rafforzare questa idea è stato anche Patrizio Gonnella, presidente dell’Associazione Antigone, il quale ha detto: “minacciare i detenuti di sanzioni disciplinari quando protestano pacificamente significa negare la libertà di espressione nonché avere un’idea autoritaria della gestione di un carcere. Scioperi della fame, reclami alla magistratura, il legittimo diritto di critica delle decisioni prese in carcere sono tutti esempi di forme pacifiche di protesta che avvengono in carcere. Chiediamo all’Amministrazione penitenziaria di rivedere questa assurda e illegittima decisione”. Questa bizzarra situazione del carcere di Reggio Emilia fa il paio con l’altra notizia del carcere di Trani dove ad un detenuto doveva essere recapitato, durante l’ora di colloquio con i familiari, un paco del peso di 13 chilogrammi con dentro pasta al forno, alcune pizze e dei panzerotti. Pacco che però è stato scoperto dagli agenti della polizia penitenziaria e bloccato dalla procura di Trani la quale ha aperto un’inchiesta ipotizzando il reato di abuso d’ufficio a carico di ignoti. Oltre ad una indagine interna al carcere in quanto non si esclude la complicità dell’addetto al controllo dei pacchi che lo avrebbe dovuto bloccare all’ingresso come generi alimentari non autorizzati. Da più parti, in questo caso, ci si domanda se alla procura della repubblica di Trani non abbiano forse altro lavoro più impellente di questo, anche perché i detenuti pare possano ricevere pacchi fino a 20 chilogrammi di peso, mentre si fa anche notare che, per la natura degli alimentari ricevibili, ci dovrebbe forse solo essere un regolamento interno e quindi dovrebbe esserci forse solo una indagine amministrativa e non giuridica? Favi (Pd): inaccettabile intimidazione nel carcere di Reggio Emilia “Di fronte alla drammatica situazione di sovraffollamento delle carceri italiane riteniamo inaccettabile, qualora confermata, l’iniziativa intimidatoria assunta dalla direzione dell’istituto penitenziario di Reggio Emilia che con un avviso datato 3 settembre 2012, ha comunicato alla popolazione detenuta che “non sarà più tollerata alcuna forma di protesta anche se pacifica”. Nel caso la notizia fosse confermata chiediamo al Ministro della Giustizia Paola Severino e al Capo del DAP Giovanni Tamburino di intervenire affinché tale disposizione venga ritirata immediatamente. Ben altra sensibilità e responsabilità istituzionale dimostrano la gran parte dei direttori penitenziari e dei loro collaboratori per alleviare le opprimenti condizioni di vita dei detenuti e le difficili condizioni di lavoro dell’intero personale. La situazione così delicata ed esplosiva che si registra all’interno dei nostri istituti penitenziari ha bisogno di interventi certamente di altra natura e non di intimidazioni al limite della violazione di legge”. Antigone: rivedere questa assurda e illegittima decisione Alcuni detenuti del carcere di Reggio Emilia hanno spedito per posta, a Riccardo Arena, conduttore della trasmissione Radio Carcere, un avviso, staccato dalla bacheca della loro sezione, con scritto: “Si avvisa la popolazione detenuta di tutti i reparti detentivi che, dalla data odierna non sarà più tollerata alcuna forma di protesta anche se pacifica. Qualsiasi violazione alla presente disposizione sarà oggetto di rilievi disciplinari anche collettivi”. “Minacciare i detenuti di sanzioni disciplinari quando protestano pacificamente - ha commentato Patrizio Gonnella, presidente dell’Associazione Antigone - significa negare la libertà di espressione nonché avere un’idea autoritaria della gestione di un carcere. Scioperi della fame, reclami alla magistratura, il legittimo diritto di critica delle decisioni prese in carcere sono tutti esempi di forme pacifiche di protesta che avvengono in carcere. Chiediamo all’Amministrazione penitenziaria di rivedere questa assurda e illegittima decisione”. Giustizia: l’Ucpi alla Camera; abuso custodia cautelare, depositeremo progetto di riforma Tm News, 26 settembre 2012 Una delegazione dell’Unione Camere Penali italiane, guidata dal presidente Valerio Spigarelli e rappresentata dagli avvocati Eriberto Rosso e Lapo Gramigni è stata oggi sentita in Commissione Giustizia della Camera, nell’ambito delle audizioni che si stanno svolgendo per l’indagine conoscitiva delle disposizioni in materia di misure cautelari personali (esame C 255 Bernardini). L’Ucpi ha preannunciato anche “l’imminente deposito di un progetto organico di riforma della materia da parte dei penalisti italiani”, denunciando ancora una volta “l’abuso della custodia cautelare”. Giustizia: la “botta dell’asino” e l’illegalità di Stato di Maurizio Calo www.articolo21.org, 26 settembre 2012 È da ben più di un anno che il Partito Radicale ha rinvigorito e concentrato il suo impegno sul versante della giustizia ed in particolare sulle carceri quale suo aspetto più scandaloso. Non passa giorno e, anzi, ora senza che dalle frequenze di Radio Radicale le voci di Marco Pannella o Rita Bernardini o di altri importanti esponenti della Lista non ripropongano i numeri impressionanti dell’affollamento carcerario, dei processi civili e penali pendenti, dei suicidi fra i detenuti e le guardie penitenziarie con lo scopo di indicare, quale unica soluzione immediata, l’amnistia onde interrompere la permanente illegalità e dare il tempo alle istituzioni di riformare il sistema. Nessuno ha sin qui proposto alternative. L’impegno di Pannella ha raggiunto il picco istituzionale il 28 luglio 2011 quando, nel convegno organizzato al Senato per sensibilizzare la politica in argomento, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano invocò la prepotente urgenza di un intervento. Da allora la coltre del silenzio è tornata a coprire le urla di Pannella e dei suoi. Tutto ciò che concerne le carceri non trova alcuno spazio sui media ed emerge solo di tanto in tanto in qualche trafiletto sulla stampa blasonata. La Ministra della giustizia Severino se la cava osservando che l’amnistia è un’iniziativa che spetta al Parlamento e in questo rimpallo di responsabilità, senza che alcuno stimoli la discussione, si aspetta che la fine della legislatura trasferisca ad altri la patata bollente. Lo stesso Presidente Napolitano, in vista dell’imminente scadenza del suo mandato, resiste ad avvalersi del messaggio alle Camere impedendo così lo svilupparsi di un dibattito pubblico sulla questione. Adesso si limita a ricevere al Quirinale la schiera di oltre cento giuristi che, seguendo la firma del Prof. Puggiotto, hanno innalzato al Colle un alto grido di allarme e con ciò finisce col chiudere il problema nel ristretto ambito delle questioni giuridiche mentre esso, di tutta evidenza, ha un respiro sociale, politico e civile assai più ampio. Viene da domandarsi cosa non va in questa ennesima campagna Radicale per il rispetto del diritto e della legalità, visto che sollecita resistenze addirittura superiori a quelle formidabili che si opposero al divorzio e all’aborto. Per raccontare la situazione delle nostre carceri sono stati utilizzati i paragoni e le descrizioni più sconvolgenti. Per legge, negli allevamenti i maiali hanno diritto a spazi più ampi di quelli riservati ai detenuti; nelle celle ci sono letti a tre piani e chi dorme all’ultimo non può girarsi per paura di sfracellarsi tre metri più sotto e si sveglia col soffitto a un palmo dal naso; la riservatezza dei cessi è assicurata da un muretto alto un metro all’interno di celle occupate da una dozzina di detenuti. Per non parlare della mancanza d’acqua in molte strutture e, dove c’è, della difficoltà di averla calda; dei pasti cucinati dopo aver dato la caccia ai topi ogni mattina. Cos’altro serve per descrivere una situazione che ha superato ogni limite di sostenibilità? Eppure nulla si muove e tanti parlamentari che individualmente si dicono favorevoli all’amnistia, in gruppo si defilano rendendosi complici dello status quo. Nessuna mobilitazione, nessun approfondimento, neppure quando il carcere viene presentato come l’aspetto più patologico di un intero settore irrisolto qual è quello della giustizia, ingrippata in tutti i suoi nodi e con risultati che, nel loro complesso, ci collocano dietro agli stati del terzo mondo in tutte le classifiche internazionali. Si assiste a una rimozione generalizzata, una fuga superstiziosa, un esorcismo collettivo nella convinzione di non incappare mai nelle maglie della giustizia. Come se gli Enzo Tortora non esistessero e non fossero esistiti mai. Ma non può essere solo la molla del particolare, la paura della “botta dell’asino” di una volta nella vita a spingere al confronto con l’attuale insostenibile situazione delle carceri italiane. Quando si votò ai referendum per l’aborto e il divorzio i favorevoli furono tanti, ma certo non tutti pensavano che avrebbero personalmente abortito o divorziato. Si votava per un progresso della nostra società affinché, in caso di bisogno, chiunque potesse compiere scelte legittime senza ricorrere a sotterfugi illegali. L’intervento normativo sullo stato delle carceri deve rispondere alla medesima volontà di adeguare la legislazione italiana agli standard più elevati di civiltà e di tutela dei diritti umani che furono alla base delle leggi sul divorzio e sull’aborto. La generosità, l’altruismo e la sensibilità di cui gli italiani diedero prova in quei risalenti referendum non sono evaporati e si ritrovano in quei vasti movimenti che si sono manifestati anche in tempi recenti colorati di viola o a sostegno dei referendum sull’acqua e il nucleare o nei raduni del “se non ora quando”. Condurre alla meditazione sul problema delle carceri quelle masse sensibili ai diritti dovrebbe essere compito primario non solo del Presidente Napolitano ma anche di un governo che, come quello attuale, sente profondamente i richiami dell’Europa. Monti non può attenersi al dettato europeo quando si tratta di far stringere la cinghia agli italiani e non quando dall’Europa piovono condanne su condanne per lo stato della nostra giustizia. In Europa non ci si sta a pezzi e bocconi, premendo l’acceleratore sui sacrifici e il freno sui diritti anche perché sacrifici e diritti sono le facce di una stessa medaglia. I sacrifici si accettano solo in presenza di equità e legalità e il trascurare uno di questi due aspetti è alla base della confusione e del disorientamento che caratterizzano questi mesi di parentesi montiana, in cui si scatena il mastino Equitalia sui contribuenti ma si cincischia con la Fiat, non si pretendono immediate dimissioni dalla Polverini che bussa alla porta, ma si strepita contro l’evasione fiscale. Rimettere immediatamente al centro del dibattito politico i diritti fondamentali dell’uomo, specie quando è completamente ristretto nelle mani dello Stato che non può e non deve torturare, aiuterebbe i cittadini a prendere maggiore coscienza dei problemi del vivere in collettività e del rispetto che sempre si deve a ognuno, fosse anche il peggiore dei malviventi. Un dibattito al quale tutti dovrebbero sentirsi interessati, se non per sensibilità civica, quanto meno perché la “botta dell’asino” che ti porta in gattabuia è dietro l’angolo della strada di ognuno. Giustizia: bambini rinchiusi ma non reclusi di Carla Forcolin (Presidente Associazione “La Gabbianella”) La Nuova Venezia, 26 settembre 2012 Approfitto della Tavola Rotonda organizzata dalla cooperativa sociale “Il Cerchio” a Venezia, in data 22 settembre, per toccare un problema su cui cerco di attirare l’attenzione delle Istituzioni e dell’opinione pubblica da tanto tempo: quello della qualità della vita e dell’educazione dei bambini che vivono nel nido della Casa di Reclusione femminile con le madri. Questi bambini, fino ad oggi al di sotto dei tre anni, hanno bisogno di uscire dall’Istituto di Pena e hanno bisogno di frequentare l’asilo infantile, per un mucchio di ragioni così ovvie che non mi dilungo nemmeno a spiegarle. L’asilo permette loro una sorta di normalità di vita e di crescita che altrimenti non avrebbero. Senza asilo essi accumulerebbero gravi ritardi nel loro sviluppo culturale (si pensi solo all’apprendimento corretto della lingua italiana, che spesso le loro madri parlano male) venendo quindi penalizzati rispetto agli altri bimbi già dai primi giorni di scuola. All’asilo però i bambini devono essere accompagnati e non c’è una figura regolarmente retribuita dal Ministero di Giustizia o da altre Istituzioni (Regione, Comune, Municipalità, Asl) che abbia questo compito. Pensare che il problema sia risolvibile con il puro volontariato è piuttosto ingenuo: il volontario non può o vuole avere un impegno costante e tassativo, quotidiano, per anni, ad orari precisi (8,30- 15,30). Se è giovane si deve trovare un lavoro, se è anziano, non è in grado di sollevare carrozzine per i ponti e inseguire bimbetti che corrono là dove la curiosità li attira. Accompagnare i bambini all’asilo significa poi rapportarsi prima e dopo la strada con le madri e con le maestre, fare da tramite tra le stesse, divenire importante riferimento per il bambino (non si possono dare allo stesso bimbo troppi accompagnatori) ecc. È quindi un compito importante, a cui si deve anche essere preparati. È un compito che andrebbe riconosciuto. Cominciò a riconoscerlo Il Comune di Venezia: con i fondi europei del progetto “Urban - apriamo i muri” e agli inizi il Comune pensava anche agli aspetti amministrativi del pagamento. Allora fu semplicemente chiesto all’associazione “La gabbianella” di indicare delle persone che avrebbero potuto svolgere opportunamente questo ruolo. Poi ci fu chiesto di trovare gli accompagnatori e di pagarli con i fondi che il Comune ci avrebbe appositamente dato. E cominciò il controllo incrociato delle presenze in carcere e all’asilo degli accompagnatori, che, se il bambino stava male, non venivano retribuiti. Io comincia a coniare il termine “semi-volontariato”, che quasi ci attirò il disprezzo dei “volontari puri”, che però i bambini al nido non li hanno mai portati. Poi il Comune smise di erogare contributi, ma ormai la Gabbianella non poteva sopportare l’idea dei bambini rinchiusi senza asilo e cominciò l’era in cui ci si mise a chiedere aiuti alla Municipalità di Venezia, sempre generosa in proposito fino…fino alle ristrettezze di bilancio che conosciamo, cioè fino al dicembre 2010. Da allora continuammo a pagare noi gli accompagnatori e ci procurammo i soldi per farlo, con una lotteria. Ma cominciarono i guai con la Regione, che ci invitò a divenire associazione di promozione sociale: il volontariato non può svolgere attività commerciali. Così ci si pose il problema di cambiare natura. Situazione beffarda: tutto il lavoro di cercare, formare, seguire, sostituire, pagare i volontari, con tutto ciò che comporta (commercialista, pagamenti alle poste dei modelli F24, ecc.) non veniva riconosciuto e, per di più, chi lo aveva fatto aveva quasi compiuto un’azione illegale. Si noti che un’associazione di volontariato come la Gabbianella non ha una segreteria regolare, in quanto non ha mai potuto permettersela e tutto questo lavoro è sempre ricaduto sui volontari. Sono usciti dei bandi regionali a cui l’associazione ha partecipato, uno a novembre 2011 e uno nel settembre di quest’anno. Partecipare ai bandi è un altro lavoro difficile: esistono persone che ne fanno una professione. A novembre non abbiamo vinto, per motivi poco comprensibili. Ora abbiamo partecipato ad un nuovo bando, dove si potevano avere molti punti se si poteva contare su di un co-finanziamento, ma il Comune non ci ha potuto dare nemmeno un euro e così la Municipalità… si rischia di avere lavorato ininterrottamente per settimane per nulla. Sembra che noi siamo un’associazione di gente esosa, alla perenne ricerca di denaro, mentre ciò che offriamo in cambio al Comune e alla Regione è il reperimento di volontari che, formandosi alla scuola del carcere, sono poi utilissimi in altri ambiti, come l’affidamento e la solidarietà familiare. E non solo, offriamo un’importantissima forma di prevenzione al disagio per i bambini che crescono in carcere: l’inserimento sociale, che l’asilo prepara. Oggi ho saputo che ogni detenuto costa allo stato 140 € al giorno. Quanti soldi si risparmierebbero investendo sull’infanzia! Si dovrebbe capire che l’esclusione sociale, spesso alla base delle difficoltà che facilitano la delinquenza, si combatte anche con la scolarizzazione precoce. L’asilo e la scuola materna sono preziosi per tutti i bambini, ma lo sono i modo particolare per coloro che provengono da situazioni familiari difficili o addirittura che vivono reclusi. Giustizia: Belisario (Idv), sistema penitenziario al collasso ma vertice Dap sperpera risorse Agenparl, 26 settembre 2012 “Mentre la situazione nelle carceri italiane diventa ogni giorno più grave, mentre altri pesanti tagli sono in arrivo in nome della spending review, il vertice del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria si permette assurdi e ingiustificabili sperperi di denaro pubblico. Solo così, infatti, si può definire la decisione di sollevare dall’incarico di direttore dell’Ufficio per la gestione e lo sviluppo del Sistema informativo automatizzato (Ced) un generale della Polizia penitenziaria per sostituirlo con un generale in pensione dei Carabinieri con contratto oneroso”. Lo afferma il capogruppo dell’Italia dei Valori al Senato, Felice Belisario. “Il ferimento di alcuni agenti nelle carceri di Potenza e di Matera è la logica conseguenza di un sistema drammaticamente al collasso. Tra il vergognoso sovraffollamento delle celle e la cronica carenza di agenti e mezzi, è inevitabile che basti un niente per far esplodere la tensione. Per fronteggiare l’emergenza bisogna intanto aprire al più presto le strutture nuove, già ultimate, che restano invece chiuse per mancanza di fondi e di personale. Si taglino perciò i tanti veri sprechi, vecchi e nuovi, si evitino nomine inutili e costose e si utilizzino le risorse recuperate per rendere finalmente il sistema carcerario italiano degno di un Paese civile. Servono interventi strutturali - conclude Belisario - il tempo delle misure tampone è finito”. Giustizia: il Progetto “Raee in Carcere” è sul web, offrendo nuove opportunità di lavoro Adnkronos, 26 settembre 2012 Il progetto Raee in Carcere approda sul web e offre nuove opportunità di reinserimento lavorativo. In occasione di “Fare i conti con l’ambiente”, la fiera green che si apre oggi 26 settembre nel centro storico di Ravenna, viene presentato il nuovo sito www.raeeincarcere.org. Non solamente un portale per far conoscere le attività del progetto, ma soprattutto un’occasione di reinserimento sociale sia per alcuni detenuti delle carceri di Bologna, Ferrara e Forlì, sia per condannati in misura alternativa negli stessi territori. In questa fase iniziale il ruolo di webmaster è stato affidato, con l’aggiornamento dei contenuti del sito (pari a 20 ore/mese per ogni operatore), a due persone che eseguono le pene fuori dal carcere. Dopo una fase sperimentale finanziata dalla Regione Emilia Romagna con il Fondo Sociale Europeo all’interno dell’iniziativa comunitaria Equal Pegaso, il progetto Raee in Carcere è partito ufficialmente tre anni fa. Grazie alla collaborazione tra soggetti pubblici e privati, 11 persone svantaggiate in esecuzione penale sono state impiegate nello smontaggio dei rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche (Raee) nei laboratori gestiti dalle cooperative sociali Gulliver, IT2 e Il Germoglio rispettivamente a Forlì, Bologna e Ferrara. Da questa esperienza è nata l’iniziativa per il web che ha trovato il supporto della Regione Emilia Romagna e il sostegno anche finanziario del Provveditorato dell’Amministrazione penitenziaria di Bologna, del consorzio per la gestione dei Raee Ecolight e di Hera spa. Le agenzie di formazione Techne Forlù-Cesena e Cefal Bologna curano la formazione dei detenuti che si occupano della gestione dei contenuti del sito, offrendo gratuitamente anche i supporti informatici. “In prospettiva, ci proponiamo di coinvolgere tre persone in esecuzione penale, una per ogni territorio, non solo per il mero aggiornamento del sito, ma motivandoli in un ruolo di responsabilità nel diffondere il valore del progetto e nel proporre nuove iniziative di comunicazione sociale”, spiega Lia Benvenuti, direttore di Techne, agenzia cui è stato affidato il coordinamento del progetto. Giustizia: chi ha ucciso Stefano Cucchi?, intervista a Rita Bernardini Notizie Radicali, 26 settembre 2012 Il libro, “Chi ha ucciso Stefano Cucchi” di Luca Pietrafesa (Reality Book, 14 euro, prefazione di Luigi Manconi e Valentina Calderone), è la storia di un ragazzo, morto di morte (in)naturale mentre si trovava nelle mani dello Stato. Il 22 ottobre 2009, nel reparto detentivo dell’ospedale romano Sandro Pertini, muore Stefano Cucchi, 31 anni. Da allora comincia la battaglia condotta dalla sua famigli per avere la verità su questa morte. La invocano la famiglia, i legali e la politica. La invoca la coscienza di ogni cittadino che spera di vivere ancora in un paese civile, si legge nella quarta di copertina. Stefano era stato fermato pochi giorni prima in un parco perché in possesso di venti grammi di “fumo”. Una odissea breve ma mortale, quella di Stefano: dal Tribunale al carcere di regina Coeli, all’ospedale Fatebenefratelli. Sette interminabili giorni durante i quali la famiglia tenta invano di vederlo e di parlare con i medici che lo hanno in cura. Nelle foto scattate dopo l’autopsia si vede un ragazzo che pesa 37 chili, con il volto devastato, l’occhio destro rientrato nell’orbita, l’arcata sopraccigliare sinistra gonfia e la mascella destra con un solco verticale, segno di una frattura. Luca Pietrafesa ripercorre il calvario umano e processuale di Stefano e della sua famiglia, con il supporto di documenti, testimonianze, interviste. L’avvocato della famiglia Fabio Anselmo, il deputato radicale Rita Bernardini, i giornalisti Renato Farina, Flavia Perina, Giovanni Bianconi, il senatore Ignazio Marino, il sociologo Luigi Manconi contribuiscono a ricostruire una vicenda che genera vergogna in chi legge. La vergogna di vivere in un paese in cui si può morire, come Stefano, per mano dello Stato. Onorevole Bernardini, dal fermo al parco degli Acquedotti fino al ricovero presso la struttura di medicina protetta del Pertini, Cucchi si imbatte in vari rappresentanti dello Stato: i carabinieri, gli agenti di polizia penitenziaria, il giudice, il Pm, i medici del tribunale, del carcere, dell’ospedale Fatebenefratelli, fino a quelli del Pertini. Ma nessuno, salvo i sanitari del carcere, sembra rendersi conto delle anomalie di questa vicenda. Che ne pensa? “È questo che lascia molto perplessi, io credo che sia accaduto non per una volontà particolarmente maligna o cattiva ma per un atteggiamento di copertura da parte di tutte le istituzioni, un atteggiamento di omertà. Chi è entrato in contatto con Stefano Cucchi, mentre stava male e protestava perché sofferente, e non ha approfondito la questione, credo che sia colpevole. Bisogna soffermarsi su un punto: Stefano Cucchi chiedeva disperatamente di parlare con il suo avvocato. Questo è un diritto di tutti, diritto che non può essere negato, tanto è vero che lui ha addirittura iniziato uno sciopero della fame per poter parlare con il suo avvocato, un diritto sacrosanto! Senza contare che quello che gli era successo nei giorni precedenti aveva dell’incredibile. Ci credo che Cucchi voleva parlare con il suo legale o con gli operatori della comunità che aveva frequentato per anni”. A proposito di copertura, a poche ore dalla morte di Stefano, ancor prima dell’apertura di un’inchiesta della magistratura, l’allora ministro della Difesa Ignazio La Russa si disse certo del non coinvolgimento dei carabinieri nel pestaggio di Stefano. Questa è stata anche la conclusione dei PM. Ma come giudica la difesa a priori dei militari dell’Arma da parte del ministro? “Ci sono stati due passaggi dai carabinieri. Si sa poco e niente di quei due passaggi. Io credo che ci sia stato un insieme di responsabilità. E non è bello sentir dire subito, quando nemmeno puoi avere cognizione di quanto accaduto, che loro non c’entrano. Per carità, noi tutti abbiamo fiducia nelle forze dell’ordine, in tutte le forze dell’ordine. Però può capitare, come accade per gli agenti di polizia penitenziaria, che ci siano delle mele marce tra i poliziotti, nella Guardia di Finanza e tra i carabinieri. E allora perché subito dire “No, loro non c’entrano”? Perché sono dell’esercito, e quindi, La Russa si sentiva ferito nel suo onore?”. Lei prima ha detto che Stefano è stato pestato fino a causargli delle fratture: eppure sulla perizia dei consulenti della procura c’è scritto che una delle due fratture non sarebbe recente. Tanto che le lesioni inflitte a Stefano sono considerate lievi, dai Pm, mentre le responsabilità dei medici vengono considerate determinanti, nella morte del ragazzo… “Devono stare attenti perché quelle immagini non solo sono state viste da milioni di italiani ma continuano a circolare sulla rete che è, da questo punto di vista, uno strumento prezioso. Non si può dire che sia un caso di ‘malasanità’. Stefano Cucchi è stato pestato. È stato massacrato di botte. Questo nessuno lo può negare, perché ci sono quelle immagini a dirlo”. Lei come valuta il ruolo, in questa vicenda, degli agenti di polizia penitenziaria? “Devo dire che io ho un buon rapporto con gli agenti di polizia penitenziaria. In questi anni ho visitato ormai oltre cento carceri italiane, so che gli agenti di custodia fanno un lavoro incredibile, in condizioni spesso per loro disumane. So anche che salvano delle vite umane. Ecco perché è veramente negativo che si coprano episodi isolati, determinati dall’assenza di questo comportamento corretto e di abnegazione. Io credo che l’amministrazione penitenziaria sbagli gravemente quando copre queste cose, perché danneggia tutto il Corpo”. Ci sono stati altri episodi di questa gravità? “Io voglio ricordare, ad esempio, la vicenda Bianzino. Una famiglia che viveva nell’Appennino umbro. Bianzino faceva il falegname, aveva la sua casa e l’unica grande colpa di coltivare qualche pianta di marijuana, di farsi una canna ogni tanto. Lei pensi, vivevano felicissimi, padre, madre, nonna e un ragazzo poco più che adolescente. Con quelle piante non è che dessero soldi al narcotraffico, capisce? Improvvisamente arriva a casa loro la polizia, Bianzino viene arrestato, entra in carcere e dopo un paio di giorni muore. Alla moglie, arrestata e poi rilasciata, che chiede di avere notizie, si limitano a dire che suo marito lo può vedere in camera mortuaria. Ecco, torno al discorso di prima, l’amministrazione penitenziaria dovrebbe fare chiarezza sui casi di maltrattamenti o vi violenza. Per isolati che siano, non vanno nascosti”. A fine gennaio c’è stata un’altra morte, nel carcere di Regina Coeli, in circostanze quantomeno sospette… “Sì, si tratta di Massimo Logello, trovato senza vita il 30 gennaio scorso. In base a quanto sappiamo, Massimo sarebbe morto per cause naturali, dopo essersi sentito male intorno alle 23,00. Adesso è prematuro dare giudizi, ora che la magistratura indaga. Di certo, però, una persona colpita da infarto ha bisogno di soccorsi immediati. Sembra che, subito dopo il malore, siano accorsi un medico e i compagni di cella, pare sia stato fatto il possibile per rianimarlo ma il dato eclatante è che l’autoambulanza sia arrivata con un’ora e venti minuti di ritardo rispetto a quando si è verificato l’evento drammatico. Noi abbiamo nelle nostre carceri decine di persone malate che non vengono assistite adeguatamente, per carenze strutturali. La sezione dove si trovava Massimo è stata chiusa in pochi giorni, noi avevamo già presentato un’interrogazione parlamentare in merito, al ministro di Giustizia, nel mese di novembre. Invece c’è stato bisogno di arrivare alla morte di una persona per tenere conto di quello che veniva denunciato in quell’interrogazione. Mi creda, in quella sezione, la sesta, c’erano un sovraffollamento incredibile e condizioni igienico-sanitarie disastrose con persone che dormivano in terra perché non bastavano i letti per tutti i detenuti. Per regolamento ai detenuti spetterebbero quattro ore d’aria al giorno, le persone che si trovavano in sesta sezione facevano appena venti minuti. Vogliamo parlare, poi, delle docce rotte o dell’assenza di riscaldamento? Tutto questo, denunciato nella nostra interrogazione, non è bastato. Hanno dovuto aspettare che un uomo di 46 anni morisse così, per chiudere una sezione che doveva essere smantellata da tempo. È una delle tante storie che si verificano quasi ogni giorno, tra morti per malattia, mancato soccorso o suicidio nelle carceri italiane. Ormai siamo di fronte a una vera e propria mattanza, che vede lo Stato completamente assente di fronte a una situazione di totale illegalità”. Finalmente qualcosa si è mosso, grazie all’impegno del governo e del ministro Severino, che hanno portato in Parlamento il decreto svuota-carceri… “Non è così. La nostra valutazione è negativa, nel senso che è stato varato e poi approvato, un provvedimento tutt’altro che risolutivo. Anzi, il decreto non riesce neanche a migliorare la situazione esistente. Nelle nostre carceri ci sono 23mila detenuti in più di quelli che potrebbero essere ospitati. Con il decreto legge, in un anno usciranno appena 3500 persone. Capisce? 3500 detenuti sui 20mila che determinano il sovraffollamento. Questo significa che tutto andrà avanti allo stesso modo. Oggi nelle prigioni lavora appena il 10 per cento dei detenuti, l’altro 90 non fa nulla tutto il giorno. Chi finisce nelle patrie galere è condannato a un ozio forzato. Tutto questo è contro la legge: l’articolo 27 della nostra Costituzione afferma solennemente che il carcere deve tendere alla rieducazione del condannato, l’articolo 3 della Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo stabilisce che sono vietati trattamenti inumani e degradanti. Allora quando si interverrà per riportare le carceri in una situazione di legalità? È per questo che noi proponiamo l’amnistia e l’indulto, da applicare sulla mole dei milioni di procedimenti penali e civili pendenti che ormai soffocano la giustizia, incapace di intervenire efficacemente”. L’opinione pubblica sembra gradire solo soluzioni che garantiscano la sicurezza ai cittadini perbene, come la realizzazione di nuove carceri. Anche perché provvedimenti quali l’amnistia sono percepiti come soluzioni provvisorie, che mettono a rischio la tutela della comunità. Che cosa ne pensa? “In merito alla sicurezza, ci sono degli studi, come quello del professor Torrente a Torino che dimostrano, cifre alla mano, che se un detenuto sconta interamente la sua pena nelle condizioni che abbiamo descritto, quando esce ha la recidiva del 60 per cento, se invece accede a pene alternative o ad alcuni benefici, la recidiva si riduce al 25 per cento. Allora che cosa è meglio per la sicurezza? Pensi a un tossicodipendente che finisce di scontare la sua condanna, un soggetto con problemi di dipendenza, in molti casi anche malato: dopo quella cura di ventidue ore al giorno chiuso in carcere, secondo lei che cosa può fare una volta fuori? Persone con queste difficoltà andrebbero ricoverate in strutture adeguate, certo che non le facciano scappare dopo un minuto, dove sia possibile fare i conti con la propria condizione di tossicodipendente. Questo fa uno Stato responsabile, che tiene alla sicurezza dei cittadini: perché è evidente che, una volta scontata la pena nelle nostre carceri, quella persona malata tornerà immediatamente a delinquere”. Giustizia: caso Sallusti; Cassazione conferma la condanna a 14 mesi… andrà in carcere? La Repubblica, 26 settembre 2012 L’attuale direttore de “Il Giornale” dovrà rifondere le spese processuali, risarcire la parte civile e pagare 4.500 euro di spese per il giudizio innanzi alla Suprema Corte. Ci sarà, invece, un nuovo processo per il cronista Andrea Monticone. Stamane il Pg aveva chiesto uno sconto della pena I giudici della quinta sezione penale della Cassazione hanno confermato la condanna a 14 mesi per Alessandro Sallusti, attuale direttore de Il Giornale, per diffamazione a mezzo stampa nei confronti del magistrato Giuseppe Cocilovo. La Corte, presieduta da Aldo Grassi, dopo una camera di consiglio di circa due ore e mezzo, ha respinto completamente il ricorso presentato dalla difesa di Sallusti. Negate anche le attenuanti generiche come richiesto dal Pg Gioacchino Izzo che avrebbero potuto portare a una riduzione della pena. Dopo aver deciso di non chiedere una misura alternativa alla pena come i servizi sociali, per il giornalista si aprono ora le porte del carcere. Sallusti è anche stato condannato alla rifusione delle spese processuali, a risarcire la parte civile e a pagare 4.500 euro di spese per il giudizio innanzi alla Suprema Corte. È stato così confermato il verdetto emesso dalla Corte d’Appello di Milano il 17 giugno 2011. Dopo la decisione della Cassazione, dove e come il giornalista dovrà scontare la pena, passa nelle competenze della magistratura di Sorveglianza di Milano. Ci sarà, invece, un nuovo processo per il cronista Andrea Monticone imputato insieme a Sallusti. Dopo avere appreso la notizia della condanna a 14 mesi di carcere, Sallusti ha convocato in riunione straordinaria i caporedattori del Giornale, al terzo piano dell’edificio che ospita il quotidiano. Poi si è dimesso. Sull’edizione online è apparso il titolo a tutta pagina: “Vergogna”. Stamane la Procura della Cassazione aveva proposto l’annullamento 2 con rinvio della condanna a 14 mesi di reclusione solo “limitatamente alla mancata valutazione della concessione delle attenuanti generiche”. Per il pg della Cassazione, Giovacchino Izzo sarebbe stato necessario “valutare la possibilità di uno sconto di pena”. Secondo il pg, il ricorso presentato dai difensori di Sallusti in Cassazione doveva essere dichiarato inammissibile sul punto in cui si contesta che l’allora direttore di Libero fosse l’autore dell’articolo a firma ‘Dreyfus’ 3, pubblicato nel 2007 e ritenuto diffamatorio nei confronti del giudice tutelare di Torino, Giuseppe Cocilovo. Anche sul diniego della sospensione della pena, il pg Izzo ha sollecitato il rigetto del ricorso di Sallusti, ritenendo fornita di “tenuta logica” l’argomentazione dei giudici d’appello. Unico punto, dunque, da accogliere del ricorso dei difensori, sarebbe stato, secondo Izzo, quello sulle attenuanti generiche. Per il Pg, dunque, sarebbe stato necessario un processo d’appello-bis per valutarne la concessione e, qualora fossero state accolte, queste avrebbero portato automaticamente a una riduzione della condanna. Gli articoli al centro della vicenda riguardavano un caso di aborto di una ragazza tredicenne. Legale parte civile. Per Monica Senor, che rappresenta Cocilovo, parte civile nel processo a Sallusti, “si tratta di una vicenda che coinvolge un magistrato leso nella sua reputazione. Non possiamo prescindere dal considerare la libertà di informazione come un diritto non assoluto, ma da bilanciare con i diritti del privato cittadino”, ha detto nella sua arringa davanti ai giudici. L’avvocato Senor ha inoltre voluto sottolineare i toni “particolarmente violenti” dell’articolo al centro del processo per diffamazione, nel quale mancano i requisiti di “veridicità e continenza”. Inoltre, ha osservato, “passaggi molto brutti nei confronti del giudice Cocilovo, che viene definito un abortista, ci sono anche nel ricorso”. Trattative. Nei giorni scorsi erano state avviate trattative 4 per risolvere la questione attraverso il ritiro della querela da parte di Cocilovo. I contatti sono però naufragati, come aveva spiegato ieri Sallusti in un editoriale sul suo quotidiano: “Ho dato disposizione ai miei avvocati di non chiudere l’ipotesi di accordo con il magistrato che mi ha querelato per un articolo neppure scritto da me e che ha ottenuto da un suo collega giudice la condanna nei miei confronti a un anno e due mesi di carcere”. Reazioni. Fabrizio Cicchitto, capogruppo Pdl alla Camera, in una nota: “Una sentenza liberticida che segna una delle pagine più buie della magistratura italiana”. Per Franco Siddi, segretario della Federazione Nazionale della Stampa: “È sconvolgente. In questo momento siamo tutti Sallusti. E siamo pronti a iniziative straordinarie”. In mattinata il premier Mario Monti aveva affrontato il caso Sallusti dal punto di vista legislativo. “Ho seguito il problema direttamente, bisogna trovare un equilibrio tra i due beni della società: la libertà di stampa e la tutela della reputazione delle persone. Ci sono - aveva osservato - diverse soluzioni in diversi Paesi, è naturale per noi italiani fare riferimento alle posizioni dell’Unione europea, il ministro della Giustizia Severino avrà occasione oggi alla Camera di illustrare la posizione del governo”. “Verrà utilizzato - ha spiegato il premier - uno dei disegni di legge già presentati e arrivare a una formulazione ben chiara anche per quanto riguarda le pene che sia in linea con la Corte di Strasburgo e le legislazioni vigenti” in tutta Europa. Del caso nei giorni scorsi si era interessato anche il capo dello Stato Giorgio Napolitano 5 e appelli affinché Sallusti non finisca in carcere per un reato d’opinione sono arrivati anche da politici su posizioni diametralmente opposte a quelle del direttore del Giornale, compreso il leader dell’Idv Antonio Di Pietro 6. Giustizia: se Sallusti andrà in carcere sarà per colpa della Legge Cirielli, cioè di Berlusconi di Antonio Buttazzo www.blitzquotidiano.it, 26 settembre 2012 Relitto di un passato che certo liberale non poteva dirsi, la legge sulla stampa partorisce sempre nuovi mostri. La legge 8.2.48 n. 47, all’art. 3 ha imposto ad ogni giornale o periodico (imposto non è un termine usato a caso, la norma dice deve) la figura del direttore responsabile. Di cosa debba essere responsabile, la legge si premura di indicarlo in seguito, ma è soprattutto il codice penale, all’art. 57, che disciplina uno dei rari casi di responsabilità oggettiva, meglio sarebbe dire di agevolazione colposa del fatto altrui prevista dal nostro ordinamento: quella del direttore (responsabile) che omette di esercitare sul contenuto dell’articolo il controllo necessario ad impedire che col mezzo di pubblicazione siano commessi reati. Innumerevoli sono state le questioni di costituzionalità sollevate sia con riferimento all’art. 3 della Costituzione ( principio di uguaglianza) che all’art. 21 della stessa (libertà di stampa), incidenti però dichiarati sempre non fondati in ragione di una intima coerenza che secondo i giudici costituzionali rivestono le norme citate con i principi generali, in special modo avendo ritenuto il direttore responsabile punibile a titolo di colpa e quindi in presenza di un elemento psicologico del reato di molto attenuato. Non è questa la sede per approfondire questi aspetti, certo è che se le carceri non sono stipate di giornalisti e direttori responsabili ciò è dovuto alla natura del trattamento sanzionatorio previsto dalle norme incriminatrici. Con la sola eccezione del reato di diffamazione aggravato dall’attribuzione di un fatto determinato ex art. 13 della citata legge, il reato di diffamazione a mezzo stampa è punito con la multa o con la reclusione da 6 mesi a tre anni, mentre nell’ipotesi precedente, la pena è della multa e della reclusione sino a 6 anni. Ora è evidente che spesso il giornalista ed il direttore responsabile sono imputati per aver diffamato taluno attribuendogli un fatto determinato, ed allora perché, se condannati, non vanno in carcere? Ciò accade poiché il giudice, qualora ritenga almeno equivalenti le circostanze attenuanti generiche sull’aggravante contestata (quella appunto dell’attribuzione del fatto determinato), ai fini della pena applica le sanzioni previste per il reato di diffamazione semplice e cioè può applicare la multa che è prevista in via alternativa alla detenzione. Quindi, per ovviare ai rigori della legge, comprensibilmente il Giudice largheggerà nella concessione delle attenuanti generiche finanche in presenza di condotte reiterate in violazione della legge. Del resto è anche logico considerando la natura del reato e la personalità del reo nonché la criticabilissima scelta legislativa di imporre la detenzione agli autori (e non solo a loro come abbiamo visto) di articoli ritenuti diffamatori. Tuttavia, in alcuni casi, le cose vanno diversamente. Ciò può dipendere da diversi fattori, non ultimo che l’esercizio del Giudice nel riconoscere le attenuanti generiche è del tutto discrezionale. Qualora infatti non riconoscendo le attenuanti dovesse condannare l’autore della diffamazione o il direttore responsabile , la pena non potrebbe essere che il carcere per giunta congiuntamente alla multa, ferma restando comunque la possibilità del giudicante, nell’ambito dei suoi già detti poteri discrezionali di applicare comunque la pena detentiva anziché quella pecuniaria. Questa è la situazione in cui è venuto a trovarsi il direttore Sallusti nella vicenda di cui oggi si occupano le cronache e la politica, giusto viatico per imporre una riflessione sulla giustezza di norme che collidono col senso di giustizia e con la stessa diversa sensibilità giuridica nei confronti delle norme ispirate ad ideologie passate. Tra l’altro, apparirebbe anche erronea l’applicazione dell’aggravante al direttore responsabile in quanto l’omesso controllo ex art. 57 cp è da ritenersi ipotesi autonoma rispetto l’aggravante che è invece tipica del reato di diffamazione di cui risponde l’autore e non il direttore responsabile. Tuttavia, anche nei casi in cui il colpevole è condannato in via definitiva e quindi diventa eseguibile una sentenza, esistono diverse norme dell’ordinamento penitenziario che, in caso di condanne brevi, permettono che la pena venga espiata con modalità alternative alla detenzione, la più note delle quali è l’affidamento in prova ai servizi sociali, nota alle cronache perché spesso ne usufruiscono condannati più o meno eccellenti e che è infatti la meno afflittiva rispetto ad altre poiché il condannato deve solo attenersi ad una serie di prescrizioni imposte dal Tribunale di Sorveglianza che in verità non risultano essere estremamente restrittive, potendo il soggetto interessato lavorare e più in generale continuare a condurre una vita normalissima avendo cura solo di rientrare presto la sera e non essere troppo mattiniero nell’uscire da casa, oltre ad osservare uno stile di vita morigerato e seguire alla lettera le indicazioni del Tribunale che spesso sembrano ispirate più ad un sermone di salvation army che alla deterrenza dal crimine vero e proprio. La legge prevede (art. 656 quinto comma del Codice di procedura penale) che, per le condanne sino a tre anni, il Pubblico Ministero sospende l’esecuzione per trenta giorni ed il condannato in questi termini chiederà che gli atti vengano trasmessi al Tribunale di Sorveglianza che valuterà se il condannato è meritevole di fruire della detta misura alternativa. E lo chiederà da libero, cioè aspetterà l’esito del Tribunale di Sorveglianza ma a piede libero. Ciò, come è noto accade abbastanza spesso, cioè ogni qualvolta il condannato segue con attenzione il suo caso avendo cura di non far trascorrere i 30 gg previsti dalla legge per avanzare la richiesta. Ed allora perché il direttore Sallusti e con lui tutta l’opinione pubblica è cosi preoccupato? In fondo è sicuramente ben difeso ed il Tribunale di Sorveglianza con molta probabilità non avrà difficoltà a concedere la misura dell’ affidamento in prova anche a lui. La risposta sta nella cosiddetta Legge Cirielli, che mentre abbatteva drasticamente i termini di prescrizione del reato, con il non dichiarato scopo di evitare processi e condanne per taluni imputati eccellenti, nel medesimo tempo interveniva sull’impianto normativo in tema di misure alternative alla detenzione, vietando, in talune circostanze, la sospensione per trenta giorni della esecuzione della sentenza. Questo accade nel caso di imputati cui viene contestata la recidiva aggravata. Non abbiamo avuto modo, come nessuno che abbia letto i giornali l’ha avuto, di leggere la sentenza a carico di Sallusti, quindi in verità non sappiamo se le sue preoccupazioni nascano dall’essere stato dichiarato recidivo. Ma i problemi, in questa vicenda, prescindono dal caso concreto, ed investono invece questioni più generali che attengono in primo luogo alla opportunità che il reato di diffamazione a mezzo stampa venga punito col carcere e poi, problematica di stringente attualità data la frequenza con cui si pone, che l’esecuzione della pena possa essere sospesa per trenta giorni anche in presenza di imputato ritenuto recidivo e che l’eventuale inidoneità del condannato a godere del beneficio dell’affidamento (o di altro beneficio) sia dichiarata dal Tribunale di Sorveglianza ma con il condannato a piede libero non essendo ragionevole la distinzione tra recidivi e non recidivi se la differenza di trattamento si concretizza esclusivamente nell’attendere l’esito del giudizio in stato d’arresto o a piede libero, visto che comunque anche il recidivo è chiamato a fruirne al pari del non recidivo, non essendovi impedimenti di legge. Tra tanti strepiti, il punto dolente della questione è questo, una legislazione poco attenta ai possibili epiloghi di scelte insensate, ispirate da motivi di opportunità politica piuttosto che armonizzate col sistema. Sicilia: Uil-Pa Penitenziari; senza mezzi di trasporto non riusciamo a fare il nostro lavoro Il Velino, 26 settembre 2012 “È come alzare una bandiera bianca, quando non riusciamo a fare il nostro lavoro…”. È questo il commento del coordinatore regionale della Uil-Pa Penitenziari Gioacchino Veneziano al fatto che è stato spostato un processo di mafia a causa del ritardo della polizia penitenziaria nel trasportare i detenuti. “Abbiamo tutto il parco macchine fermo perché non ci sono soldi per ripararli - denuncia la Uil - anzi risulta che un paio di autovetture sono state usate pur avendo i freni a limite del ferodo, e un’altra con le frecce direzionali guasti per trasportare detenuti, cosa vietata dal regolamento per le traduzioni”. “È un bollettino di guerra - dichiara Veneziano - infatti abbiamo dovuto chiedere aiuto al carcere di Pagliarelli. Comprendiamo i rilievi della dottoressa Camassa, ma possiamo assicurare tutti i Magistrati che a Trapani siamo a piedi, come a breve lo saremo in tutta la Sicilia. Purtroppo quello che fa male è il fatto che tutti sanno che siamo allo stremo, ma nessuno dal Dipartimento Amministrazione Penitenziaria di Roma, che dal Provveditorato Regionale della Sicilia, dicono a chiare lettere, è cioè che il fatto di Trapani è l’inizio della fine del servizio delle traduzioni in Sicilia, essendo tutti gli automezzi fermi per guasti quindi è facile immaginare quali conseguenze si riverbereranno sul sistema giustizia, atteso che la mancanza degli autoveicoli destinati al servizio delle traduzioni potrebbe impedire la presenza in aula degli imputati mettendo a rischio decine di processi. Negli ultimi mesi diversi sono stati gli incidenti - ha proseguito Veneziano - che hanno visto coinvolti mezzi della polpen che potrebbero aver avuto origine dallo stato di obsolescenze degli stessi o riferibili addirittura ad inidoneità strutturale. In gioco, quindi, non è solo l’incolumità fisica dei poliziotti penitenziari o dei detenuti ma di tutta la collettività. Proprio la Uil Penitenziari, ha da tempo innescato una vertenza. Ora il nodo viene al pettine e ben si comprenderà la portata della nostra battaglia quando con incisività, ma sostanzialmente inascoltati, abbiamo denunciato gli effetti dei tagli lineari e della spending review avevamo ben presente a cosa si andasse incontro, ed il fatto di Trapani è la prova inconfutabile che lo Stato non è in grado di dare più un servizio di sicurezza”. Rovigo: vecchio carcere al collasso… quello nuovo sarà una cattedrale nel deserto? www.rovigo24ore.it, 26 settembre 2012 I detenuti ospitati nella struttura convivono con una situazione ai limiti della sopportazione a causa del sovraffollamento delle celle. In media la casa circondariale ospita 100/110 detenuti invece che i 66 previsti (75 il limite massimo di tolleranza). L’allarme sulla situazione delle carceri italiane, partendo dalla situazione rodigina, viene dato anche da Livio Ferrari, garante dei diritti delle persone private della libertà, che si dice seriamente preoccupato del sovraffollamento insostenibile della struttura di via Verdi e delle precarie condizioni di salute dei detenuti, conseguenza del primo problema. I lavori del nuovo carcere, iniziati nel lontano 2007 e compiuti dall’impresa edile appaltatrice Sacaim di Venezia, dovrebbero procedere anche in base alle rassicurazioni date il 18 settembre dal presidente della Commissione Giustizia del Senato Filippo Berselli al sindaco di Rovigo, Bruno Piva. L’area sul quale sorge la struttura è di circa h. 9,5 ed è sita alle spalle della cittadella socio-sanitaria di viale Tre Martiri ai confini con la Tangenziale est. L’apertura della casa circondariale con i suoi 200 posti in sei bracci era prevista per la fine nel 2012, ma dovrebbe slittare al 2015 perché per completare i lavori mancherebbe il secondo dei due appalti previsti dal progetto con il conseguente decreto di finanziamento. Il primo finanziamento era di 24 milioni di euro ed è stato prelevato dal FAS (fondo per le aree sottoutilizzate), ma all’appello mancherebbero ancora circa 20 milioni di euro per il completamento dei lavori, l’allestimento interno della struttura e gli arredamenti. Preoccupato anche il sindacato di Polizia penitenziaria “Sappe” che sottolinea come la struttura polesana si salva dai tagli governativi alle strutture penitenziarie ma allo stesso tempo vive il rischio che non arrivino più i fondi per completare l’opera. Il segretario generale del Sappe, Donato Capece manifesta le sue paure: “Abbiamo avuto visione del famoso piano carceri che assegna i 228 milioni di euro per i 17 nuovi padiglioni e con sorpresa abbiamo visto che non era presente la struttura veneta e per questo abbiamo inviato una nota urgente alla ministra Severino, chiedendo che faccia luce su questa situazione perché di cattedrali nel deserto in Italia ne abbiamo molte e non vorremmo vedere anche quella polesana tra queste”. Dello stesso avviso è il segretario generale aggiunto del Lisiapp (libero sindacato appartenenti alla polizia penitenziaria) dr. Luca Frongia: “La realizzazione del primo stralcio, iniziato nell’estate 2007, avrebbe dovuto portare nel 2013 a inaugurare il nuovo penitenziario, capace di 200 posti e suddiviso in sei bracci. Nel 2013 dovrebbero essere consegnate le opere murarie conclude Frongia invece rischiamo di non vederlo nemmeno finito”. I cittadini e detenuti polesani sperano che non si verifichi un caso simile a quello del carcere di Gela non ancora funzionante anche se inaugurato tre volte. La prima inaugurazione avvenne nel 2007 in presenza dell’ex Guardasigilli Clemente Mastella, che per una coincidenza fortuita è la stessa persona che ha proceduto con la posa della prima pietra anche col futuro (si spera) carcere di Rovigo. Salerno: morte di Francesco Mastrogiovanni, il caso arriva a Roma La Città di Salerno, 26 settembre 2012 “Chi ha ucciso Francesco Mastrogiovanni? 82 ore di agonia legato a un letto di ospedale”. È questo il titolo della conferenza stampa sul caso Mastrogiovanni che si terrà domani a Roma, alle 11.30, presso la Sala Nassirya del Senato della Repubblica. Durante l’incontro con la stampa sarà mostrata parte dei video registrati dalle telecamere interne al reparto di psichiatria dell’ospedale “San Luca” di Vallo della Lucania, dove il maestro elementare di Castelnuovo Cilento morì, il 4 agosto del 2009, dopo ottantadue ore ininterrotte di contenzione, legato mani e piedi al letto di degenza. Il ricovero era stato disposto il 31 luglio a seguito di Tso (trattamento sanitario obbligatorio). A Palazzo Madama saranno presenti Grazia Serra (nipote di Franco Mastrogiovanni), Luigi Manconi (presidente dell’associazione “A Buon Diritto Onlus”), Donatella Poretti (senatrice del partito Radicale), Irene Testa (segretaria dell’associazione “Il Detenuto Ignoto”), Gioacchino Di Palma (avvocato), il Comitato Verità e Giustizia per Franco (composto da familiari e amici di Mastrogiovanni). Per la contenzione e la morte del maestro sono imputati sei medici e dodici infermieri del reparto. Il processo, iniziato il 28 giugno 2010 presso il Tribunale di Vallo della Lucania, riprenderà dopo la pausa estiva con l’udienza del 2 ottobre prossimo, nella quale si terrà la requisitoria del pubblico ministero. Seguiranno il 16 ottobre le conclusioni delle parti civili, e il 17, 22, 24 e 29 ottobre le arringhe dei difensori. La sentenza è prevista per il 30 ottobre. Il Comitato denuncia da anni l’anomalia del Tso cui fu sottoposto Mastrogiovanni e della prolungata contenzione, che si protrasse per sei ore dopo il decesso. Oristano: Dap, consegnato il nuovo istituto di pena, ospiterà 250 detenuti Adnkronos, 26 settembre 2012 È stato consegnato il nuovo carcere di Oristano. “La struttura, la cui consegna è avvenuta perfettamente nei tempi previsti, ospiterà 250 detenuti (125 di media sicurezza e 125 di alta sicurezza) che cominceranno ad affluire dal prossimo 11 ottobre”. Ne dà notizia il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Macerata: Sappe; Dap rinuncia a nuovo carcere Camerino, cassato progetto da 40 mln € Ansa, 26 settembre 2012 L’ufficialità non c’è ancora, ma il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria avrebbe deciso di rinunciare alla costruzione del nuovo carcere di Camerino, una struttura da 450 posti (e 40 milioni di costo), prevista da un’intesa siglata il 17 novembre del 2010 dall’allora commissario delegato al Piano nazionale carceri Franco Ionta e la Regione Marche. A darne notizia è il segretario regionale del Sappe, il sindacato autonomo di polizia, che annuncia una manifestazione di protesta davanti alla sede dell’Assemblea legislativa il 2 ottobre prossimo. “Nell’incontro che abbiamo avuto il 20 settembre scorso con il vice capo del Dap Luigi Pagano - afferma Di Giacomo - ci è stato detto che il Dipartimento non procederà con l’appalto per Camerino, perché, a causa della sua collocazione in una regione a basso indice di delinquenzialità, la struttura non rientra più nelle strategie dell’amministrazione penitenziaria”. “Se così fosse - continua il sindacalista - il danno per le Marche sarebbe gravissimo”. E il previsto ampliamento fino a una capienza di 180 detenuti per il carcere di Barcaglione ad Ancona non può supplire al progetto-Camerino”. Il Sappe ha contattato i parlamentari eletti nelle Marche, e sollecita “un intervento della Regione”. Cosenza: donna in cella da otto mesi con neonato, appello del Movimento Diritti Civili Agi, 26 settembre 2012 Il leader del Movimento Diritti Civili, Franco Corbelli, continua la sua battaglia per far uscire dal carcere di Castrovillari un bambino di appena dieci mesi che vive in cella con la sua giovane madre detenuta, una ragazza di origine rom di 22 anni, nata in provincia di Salerno, in attesa del primo grado di giudizio e reclusa per furto. Corbelli ha chiesto di incontrare la ragazza, ma ancora a distanza di dieci giorni, non ha ottenuto la necessaria autorizzazione. “Da dieci giorni - dice - aspetto di essere autorizzato ad incontrare in carcere la giovane donna detenuta, che vive in cella con il suo bambino di soli 10 mesi. Domenica 16 settembre, ho inoltrato, per e-mail, alla direzione della casa circondariale della città del Pollino, la richiesta, ho sentito al telefono il direttore dell’istituto di pena, Fedele Rizzo, che mi ha informato di averla subito girata alle autorità competenti. Ma ancora oggi non ho avuto alcuna risposta. A differenza di quanto è invece avvenuto per i casi di Kate Omoregbe (che ho salvato dalla lapidazione nel suo Paese, facendole ottenere l’asilo politico in Italia, oggi vive e lavora a Lodi) e Alexandrina Lacatus (che ho tolto dal carcere e fatto restare in Italia, evitandole tre anni di detenzione nel suo Paese, a cui era stata condannata per la morte dei suoi tre bambini, deceduti in un incendio sviluppatosi per cause accidentali; oggi questa ragazza vive e lavora in Calabria, a Sibari) anche loro entrambe detenute nel carcere castrovillarese, quando sono stato subito, in pochi giorni, autorizzato ad incontrarle. Perché - chiede Corbelli - questo ritardo per la mamma di questo bambino? Cosa ostacola il mio incontro in carcere con questa ragazza e giovane madre? Ho chiamato oggi di nuovo il penitenziario di Castrovillari. Ho appreso che il bambino, di dieci mesi, è lì da otto mesi, da gennaio. È stato trasferito dal carcere di Potenza, perché in quella struttura manca un asilo nido. Il bambino è stato adottato dal personale del carcere. Gioca con le guardie, le riconosce, sorride loro. Ho appreso - continua - un altro aspetto di questa storia che rende la vicenda ancora più grave, inquietante e inaccettabile ovvero le ragioni della detenzione di quella donna che vive in cella con il suo bambino: quella ragazza non solo non è stata ancora condannata, è infatti in attesa del primo grado di giudizio e per un reato assolutamente minore, per il quale la detenzione in carcere appare assolutamente spropositata: è accusata di furto”. Lecce: Osapp; agente di penitenziaria aggredito, situazione insostenibile www.lecceprima.it, 26 settembre 2012 Il fatto avvenuto ieri nel reparto C2 della casa circondariale di Borgo San Nicola. È il quarto in pochi giorni nelle carceri di Puglia e Basilicata. Il sindacato torna a chiedere rinforzi per una situazione di forte disagio. Un agente di polizia penitenziaria aggredito nel carcere di Lecce. La notizia è stata diramata con una nota dall’Osapp, l’Organizzazione sindacale autonoma della polizia penitenziaria, a firma del vicesegretario generale nazionale Domenico Mastrulli. Il fatto sarebbe avvenuto ieri, nel reparto C2, anche se la notizia è trapelata soltanto oggi. Il sindacato, che ricorda come a Borgo San Nicola di Lecce vi siano “mille e 350 reclusi contro una capienza regolamentare di circa ottocento”, spiega che per l’ennesima volta “un appartenente ai baschi azzurri sarebbe stato prima insultato e poi aggredito, mentre prestava servizio”. Ad agire, “un detenuto del reparto dove sarebbero alloggiati almeno una settantina di reclusi”. L’Osapp denuncia un organico, quello della penitenziaria, sottodimensionato rispetto alle esigenze e con difficili condizioni lavorative all’interno dei settori detentivi. Fatti evidenziati più volte, con missive “all’indirizzo dei vertici politici e del dipartimento”. Secondo le stime del sindacato in Puglia ci vorrebbero almeno 600 nuove unità. Intanto, il nuovo episodio si aggiunge a fatti simili, avvenuti di recente, ovvero “due aggressioni registratesi nel carcere di Matera sabato 22 settembre e una in quello di Potenza”. Quest’ultimo episodio è avvenuto ieri, dunque in contemporanea con il fatto della casa circondariale di Lecce. In tutti i casi, gli agenti sono stati costretti alle cure dei sanitari, per alcuni giorni di prognosi. L’Osapp invita a “riflettere sul persistente sovraffollamento, a quota 4mila e 400 nelle carceri pugliesi e 500 in quelle lucane, come sui turni stressanti e massacranti che arrivano fino a dodici ed a volte anche a quindici ore continuative nei reparti detentivi, una situazione di invivibilità sotto l’aspetto igienico sanitario e di scarsa salubrità del posto di lavoro che condizionano la scarsa qualità della vita dei baschi azzurri”. Cinema: “Cesare deve morire” rappresenterà l’Italia nella corsa agli Oscar Italpress, 26 settembre 2012 “Cesare deve morire”, dei fratelli Taviani, rappresenterà l’Italia nella corsa agli Oscar per il miglior film in lingua straniera. Lo ha deciso la Commissione istituita dall’Anica, composta da Angelo Barbagallo, Nicola Borrelli, Francesco Bruni, Martha Capello, Lionello Cerri, Valerio De Paolis, Piera Detassis, Fulvio Lucisano e Paolo Mereghetti. “Ci stiamo imbarcando per il festival di New York - hanno commentato i due registi - e la notizia che ci ha raggiunto è davvero un bel buon viaggio. I film che concorrevano erano film di autori importanti per il cinema italiano e non solo italiano. Comunque il gioco è appena cominciato”. Il film, vincitore, tra gli altri, dell’Orso d’Oro alla Berlinale e del David di Donatello, ha avuto la meglio sugli altri concorrenti: Bella addormentata di Marco Bellocchio, Cesare deve morire di Paolo e Vittorio Taviani, Il cuore grande delle ragazze di Pupi Avati, Diaz di Daniele Vicari, È stato il figlio di Daniele Ciprì, Gli equilibristi di Ivano De Matteo, La-Bas, Educazione criminale, di Guido Lombardi; Magnifica presenza di Ferzan Ozpetek, Posti in piedi in paradiso di Carlo Verdone e Reality di Matteo Garrone. La pellicola propone una rivisitazione del Giulio Cesare di William Shakespeare recitato dai detenuti del carcere di Rebibbia. Paolo e Vittorio Taviani hanno scelto il penitenziario romano come punto da cui partire per il loro ultimo lavoro. Non solo in termini di location ma anche di interpreti. Gli attori sono infatti alcuni detenuti di Rebibbia che, dopo una serie di provini, sono stati scelti per interpretare Cesare, Bruto, Cassio e gli altri protagonisti della storia. Le nomination saranno rese note dall’Academy il prossimo 10 gennaio. Il 24 febbraio 2013 è prevista invece la serata di premiazione. Cinema: Valeria Golino sarà Armida Miserere, la sua storia diventa un film Il Velino, 26 settembre 2012 Iniziano oggi, mercoledì 26 settembre, le riprese di Come il vento (titolo provvisorio), film firmato da Marco Simon Puccioni che porta per la prima volta sul grande schermo la storia di Armida Miserere. A dare il volto a quella che è stata una delle prime donne direttrici di carcere, chiamata durante la sua carriera a dirigere i penitenziari più “caldi” d’Italia a contatto con i peggiori criminali, terroristi e mafiosi del nostro tempo, sarà Valeria Golino. Accanto a lei Filippo Timi, Francesco Scianna e Chiara Caselli. Sette settimane di riprese tra Pianosa, Grosseto, Civitavecchia, Palermo e Roma, prodotto da Intelfilm con il contributo di Mibac, Regione Toscana, Regione Sicilia e Regione Puglia in collaborazione con Rai Cinema. Televisione: Ricky Tognazzi interpreta e dirige la fiction “Il caso Enzo Tortora” Il Velino, 26 settembre 2012 Il pubblico televisivo attendeva con ansia il suo ritorno in tv. È il 20 febbraio del 1987 quando, dopo una lunga e tormentata vicenda giudiziaria, che si è conclusa con un’assoluzione con formula piena, Enzo Tortora ritorna al suo amato lavoro e al suo Portobello. Debilitato fisicamente e logorato nell’anima da quattro anni di calvario, in quella sua nuova “prima” puntata, decise di salutare l’affezionatissimo pubblico con una frase che lasciò un segno indelebile nella memoria degli Italiani: “dove eravamo rimasti?”. Quella sera un Paese intero si commosse e lo studio televisivo si accese di applausi in una vera e propria standing ovation. Quelle stesse parole, oggi, sono il titolo della fiction in due puntate “Il caso Enzo Tortora. Dove eravamo rimasti?”. Una miniserie, che Rai1 propone domenica 30 settembre e lunedù 1 ottobre, in prima serata, liberamente ispirata ai libri “Applausi e sputi - Le due vite di Enzo Tortora” di Vittorio Pezzuto e “Fratello segreto” di Anna Tortora (editi da Sperling & Kupfer Editori). Insieme alla vicenda giudiziaria, la fiction vuole approfondire anche il lato più intimo e personale di Enzo Tortora. Dall’arresto con l’accusa di appartenere alla Nuova Camorra Organizzata, alla detenzione in carcere, dalla lunga battaglia legale per affermare la propria innocenza fino alla sentenza di assoluzione, passando attraverso alcuni dei momenti più salienti della sua carriera professionale e della stessa storia della televisione. Una storia che racconta anche la sofferenza di un uomo e della sua famiglia che, travolti da un’ingiustizia, hanno lottato senza sosta, rimanendo sempre fortemente uniti, alla ricerca della verità. Una coproduzione Rai Fiction - Italian International Film, diretta e interpretata da Ricky Tognazzi. Firmano la sceneggiatura Giancarlo De Cataldo, Simona Izzo e Monica Zapelli. Ad interpretare Enzo Tortora è proprio Ricky Tognazzi affiancato da un cast di ottimo livello. Bianca Guaccero veste i panni dell’ultima compagna di vita del noto conduttore, Francesca Scopelliti, mentre Carlotta Natoli sarà l’amata sorella di Tortora, Anna, una donna forte e determinata che non lo abbandonerà mai. La figlia maggiore Silvia è interpretata da Eugenia Costantini, mentre Thomas Trabacchi è l’avvocato Della Valle e Luigi la Monica l’avvocato Dall’Ora. Ed ancora, due compagni di cella di Tortora sono interpretati da Tony Sperandeo (Siciliano) e da Francesco Venditti (Ruggero). Mariano Rigillo veste i panni del Presidente Di Leo ed Enzo Decaro, invece, dà volto e corpo al giudice Marini, i magistrati del processo d’appello che nel settembre 1986 emisero quella sentenza di assoluzione che restituù a Tortora la libertà e la dignità perduta. “Quando mi offrirono il progetto di un film su Tortora, mi resi conto di sapere molto poco della vicenda giudiziaria che travolse Enzo - scrive nelle note di regia Ricky Tognazzi -. Anche quelli con cui ne parlavo ricordavano Enzo come vittima di un grave errore giudiziario ma quasi nessuno, soprattutto tra i più giovani, rammentava le battaglie da lui intraprese per migliorare le condizioni di detenzione dei carcerati o l’umiltà e la forza con la quale Enzo aveva combattuto le sue battaglie. Alcuni accostavano il ricordo di tale vicenda alla diatriba politico-giudiziaria che imperversa, ancora oggi, nel nostro paese. Davanti a questa memoria fragile e facilmente manipolabile mi sono reso conto che con questo film, forse, avrei potuto riportare alla luce aspetti di quella vicenda che la polvere del tempo stava lentamente cancellando: la storia di un uomo che non fugge dai processi, che rinuncia a privilegi quali l’immunità parlamentare e che usa il suo nome per dare voce a chi con lui ha condiviso l’inferno del carcere e della detenzione preventiva. La storia di un uomo nato libero e morto libero, portato via da un male che lui stesso dichiarava conseguenza delle vicende giudiziarie che dovette subire”. “Enzo Tortora ha lasciato un segno profondo nella storia recente del nostro Paese - scrivono nelle note di sceneggiatura Giancarlo De Cataldo e Monica Zapelli. Aggredito da accuse fantasiose e inesistenti, sbattuto su tutte le prime pagine come camorrista e mercante di morte, precipitato nel girone infernale delle patrie galere, trovò dentro di sè, nei saldissimi legami familiari e affettivi, nell’apporto determinante del suo collegio di difesa, la forza per reagire, riuscendo a trasformare un’allucinante vicenda personale in un grido d’accusa capace di influenzare la coscienza di un’intera nazione. Ciò che più ci ha colpito, mentre studiavamo quello che, da ormai trent’anni siamo abituati a definire - a volte sbrigativamente, a volte maliziosamente “il caso Tortora”, è stata la determinazione, a tratti anche ossessiva, con la quale l’imputato Tortora combatté perché la sua innocenza fosse riconosciuta senza ombre e senza pregiudizi, rifiutando il ricorso a furberie ed espedienti, sfidando a viso aperto i suoi accusatori, un ambiente ostile, il gossip degli sciacalli che si avventavano con livore sul personaggio di fama caduto in disgrazia”. Bahrain: opposizione denuncia, 900 dissidenti ancora in carcere da inizio rivolta Adnkronos, 26 settembre 2012 Dall’inizio della rivolta in Bahrain contro la monarchia degli al-Khalifa, nei primi mesi del 2011, sono morte “circa 80 persone e 4mila sono state arrestate, 900 delle quali si trovano ancora dietro le sbarre”. È quanto dichiara Jasim Hossein, deputato dimissionario del partito sciita al-Wefaq, il principale movimento di opposizione in Bahrain, che in un’intervista ad Aki-Adnkronos International lancia un appello alla comunità internazionale affinché “favorisca il loro rilascio”. “Gli attivisti in carcere sono tutti innocenti. Vogliono la democrazia nel loro Paese e non hanno commesso violenze” e per questo “dovrebbero essere rilasciati”, spiega Hossein, in questi giorni a Roma insieme a una delegazione di deputati di al-Wefaq che si sono dimessi in segno di protesta contro la repressione delle proteste antigovernative. Il deputato dimissionario parla della rivoluzione nel Paese del Golfo, sottolineando che “non è corretto parlare di uno scontro religioso” in atto tra sunniti e sciiti. “Il nostro problema è politico - afferma - l’opposizione, in gran parte sciita, si batte per la democrazia, per le riforme, per un parlamento eletto e non accetta più discriminazioni”. Hossein ritiene che ci siano “alcuni Stati arabi”, senza fare riferimenti in particolare, che “non hanno interesse che il Bahrain diventi un Paese democratico e questo perché temono che possa spingere le loro popolazioni a sollevarsi. Ma la democrazia nel nostro Paese - sottolinea - non creerebbe stravolgimenti a livello di equilibri regionali”. L’esponente di al-Wefaq fa quindi un’analisi della copertura mediatica in Occidente riservata agli avvenimenti dell’ultimo periodo in Bahrain, molto inferiore rispetto agli altri Paesi della Primavera Araba. “Forse ci sono problemi più grandi in Siria, Libia o Yemen, ma non penso che la nostra rivolta sia stata dimenticata. C’è interesse verso quello che accade, anche se si potrebbe fare di più”. Hossein parla infine degli obiettivi del viaggio in Italia della delegazione di al-Wefaq. “È un’opportunità per spiegare all’opinione pubblica, ai partiti e al parlamento le richieste del popolo bahreinita che vuole la democrazia nel suo Paese”, conclude.