Il rischio di un ritorno alla violenza nelle carceri Il Mattino di Padova, 25 settembre 2012 Vivere ammassati in spazi inadeguati, in condizioni di miseria e spesso anche di abbandono, significa scontare una pena doppia rispetto a quella che il giudice ti ha comminato. E il rischio è di allungarla ulteriormente, quella pena, perché quando si è in tanti e si sta male può capitare di litigare, perdere il controllo, reagire violentemente. E poi pagarne pesantemente le conseguenze: con i rapporti disciplinari, che spesso bloccano la possibilità di accedere ai permessi premio, o magari con una denuncia o un trasferimento. E se si provasse invece a non usare più questi sistemi, avendo il coraggio di ammettere che l’istituzione carcere non sta rispettando la legge in alcun modo, e quindi non può chiedere a chi è detenuto un comportamento perfetto, può solo cercare il confronto e il rispetto delle regole rinunciando a punire, se non in casi estremi? Risse in carcere Se uno dovesse leggere le rassegne stampa riguardanti le notizie delle carceri si renderebbe conto che tutti i giorni su vari giornali appaiono notizie di risse tra detenuti e talvolta anche aggressioni a danno degli agenti di polizia penitenziaria. I giornali riportano comunque solo una minima parte di quello che succede, ma il fenomeno è più diffuso di quanto ufficialmente si conosca. Vivere in condizioni di sovraffollamento dove scarseggia tutto, dallo spazio minimo vitale al cibo, provoca stress e tensioni continue e in una situazione del genere ogni contrasto da niente viene ingigantito ed è causa di litigi a volte anche violenti. Si può litigare per tutto, perché le porzioni dei pasti sono scarse, o perché il lavorante della lavanderia consegna lenzuola così vecchie e strausate che si strappano solo a toccarle, senza contare poi tutti i disaccordi che possono nascere all’interno delle celle. Episodi questi di ordinaria amministrazione che non arrivano mai sulle cronache dei giornali, a meno che le conseguenze di queste liti siano così gravi da causare ricoveri in ospedale. Alle redazioni dei giornali arrivano solo i casi più clamorosi, come quelle risse nelle quali sono coinvolte numerose persone e che talvolta assumono l’aspetto di vere e proprie battaglie che richiedono l’intervento in massa degli agenti e si concludono con feriti e contusi da ambo le parti. Queste risse succedono nei cortili dei passeggi, o negli stessi corridoi delle sezioni e quasi sempre si tratta di scontri tra gruppi di etnie diverse. Succede di solito che la lite scoppi inizialmente tra due persone, poi per prendere le parti dell’uno o dell’altro ne intervengono altre e la cosa alla fine degenera senza che si sappia neanche con esattezza per che cosa sia nata. Ma tanta è la tensione che basta un nonnulla per far partire la scintilla. Qui nel carcere di Padova nei giorni scorsi si è verificato un episodio assai grave conseguente a una lite tra detenuti di etnie diverse, e la notizia tra l’altro non è neanche finita sui giornali. Dopo un primo scontro nel quale qualche esponente di un’etnia ha avuto la meglio su qualcun altro di un’altra etnia, è successo che uno dei perdenti, per regolare i conti a modo suo, ha scagliato in faccia al rivale dell’olio caldo con conseguenze ben immaginabili. Ricovero in ospedale con faccia e altre parti del corpo ustionate, rischio di perdere la vista e tenere sul viso i segni di una deturpazione permanente. Per l’aggressore invece il rischio è, oltre quello di subire anche lui prima o poi delle vendette, quello di allungarsi la condanna di parecchi anni. Ma al di la di tutto questo viene da riflettere come mai siano quasi sempre gli stranieri a essere coinvolti in queste risse. Una delle ragioni è che gli stranieri soffrono sicuramente più degli italiani per la situazione di estremo malessere che attualmente regna nelle carceri. Spesso hanno le famiglie nei loro Paesi, in tantissimi casi non possono fare colloqui e hanno grandi difficoltà anche per telefonare e quindi sentono più ancora degli italiani la lontananza dalle famiglie e la segregazione del carcere. Se oltre a ciò si aggiunge la situazione di povertà, la scarsità anche dei generi di prima necessità, la mancanza del lavoro, la difficoltà di integrazione, si capisce lo stato di esasperazione e di tensione continua nel quale vivono. Il problema degli stranieri nelle carceri italiane (il cui numero attualmente si aggira attorno ai 24.000) è un problema al quale si è pure cercato di dare soluzioni, come quella dell’espulsione quando il residuo pena scende al di sotto dei due anni, o la possibilità di scontare la pena nei loro paesi di origine. Queste leggi esistono ma la lentezza con la quale vengono applicate è a dir poco esasperante. Ci sono stati casi di persone che hanno chiesto l’espulsione e la stessa è stata eseguita a distanza di 4-5-6 mesi dal giorno che è stata concessa. E ci sono stati casi di persone che hanno chiesto di poter scontare la pena nel loro Paese e nonostante ci fossero tutti i requisiti per essere trasferiti hanno dovuto attendere per anni prima di partire. Una volta che ci sono i requisiti perché le richieste non vengono accolte subito? E una volta accolte perché non si provvede subito alle espulsioni e ai trasferimenti? Oltre ad accontentare gli interessati si libererebbero dei posti e si ridurrebbero anche le spese di mantenimento, che in questi tempi di crisi non sarebbe poco. Antonio Floris Un rapporto disciplinare può facilmente bloccarti i permessi premio Mi chiamo Igor, sono un detenuto di 26 anni e mi trovo ad espiare la mia pena nelle carceri italiane da oltre sei anni. Nella mia esperienza detentiva, sempre per un unico reato, ho girato tre carceri nel Veneto, Vicenza, Verona, ma la maggior parte della mia condanna l’ho espiata nella Casa di reclusione di Padova, dove ho cercato sempre di vivere la carcerazione in modo attivo, partecipando a tutte le attività scolastiche e formative che mi sono state messe a disposizione dall’istituto, in particolar modo quella con la redazione di “Ristretti Orizzonti” di cui faccio parte ormai da oltre due anni. Purtroppo, nonostante la mia buona volontà di trarre da questa esperienza il meglio, mi è capitato di inciampare in alcune sanzioni disciplinari. Tra le cause di questi rapporti, che non a caso ho preso nel periodo in cui le attività erano sospese e passavo il tempo a non far niente, c’è il dover condividere degli spazi piccolissimi con persone che non ti sei scelto tu per viverci insieme. Vivere la vita della sezione non è lo stesso di quando si frequenta una attività, nelle sezioni infatti, a causa del sovraffollamento, tra detenuti si vive un rapporto fatto di continue tensioni, perché le persone accumulano una rabbia che rischia di esplodere ad ogni incomprensione, causata dalla convivenza che ci viene imposta: non è semplice infatti vivere in tre in spazi nati per una persona, camminare in un passeggio di cemento, fatto per venticinque persone, dove oggi ci si trova in settantacinque, con la conseguenza che più che passeggiare devi stare fermo e attento a non urtare nessuno. Ecco perché in queste condizioni è facile prendere delle sanzioni disciplinari, che sono poi di intralcio quando uno poi matura i termini per avanzare la richiesta di un permesso premio da trascorrere con la famiglia. In questi casi infatti, anche se uno ha una esperienza nel complesso molto positiva, il giudice vede il rapporto disciplinare e spesso chiede un ulteriore periodo per la valutazione del permesso, facendo cosi allungare i tempi per poter trascorrere una giornata fuori con i propri cari. Io per oltre sei anni ho continuato a vedere solo nella sala colloqui all’interno del carcere i miei famigliari, ecco perché un permesso è davvero una boccata di ossigeno, e perderlo per un rapporto disciplinare fa male. Credo che di questi tempi, con le pesanti condizioni di sovraffollamento in cui viviamo, si dovrebbe da parte delle istituzioni usare un criterio diverso di valutazione. Con me è successo così, sono stato fortunato perché il magistrato ha considerato il complesso della pena che ho scontato e non ha fatto prevalere solo uno “scivolamento”, che in tanti anni di carcere può capitare anche se nel frattempo la persona ha fatto grandi sforzi per migliorare. Igor Munteanu Giustizia: l’Europa cambia strategia, contro la recidiva meno carcere e più pene alternative di Marco Moussanet e Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 25 settembre 2012 L’Europa dichiara guerra alla recidiva. Ma non con le armi utilizzate negli ultimi dieci anni, ovvero la “tolleranza zero” sul fronte delle pene e del carcere. Quella strategia ha solo riempito le prigioni e moltiplicato il tasso della recidiva, riducendo la sicurezza collettiva. Ora si volta pagina: in Francia, Gran Bretagna, e forse anche in Italia si fa strada la consapevolezza che le pene vanno tarate in funzione del reato e della personalità del condannato, anche se recidivo; che il carcere dev’essere l’extrema ratio; le misure alternative vanno incentivate; e il lavoro è il fulcro di una detenzione che punta al reinserimento sociale. Giorni fa il Financial Times ricordava che, tra i detenuti che lavorano, solo il 10% torna in carcere entro un anno dalla scarcerazione, mentre negli altri casi il tasso di recidiva è del 50 per cento. Mercoledì scorso la Francia ha cominciato ad archiviare la politica della faccia feroce di Sarkozy con una circolare del ministro della Giustizia Christiane Taubira a tutti i procuratori, per invitarli ad accantonare le indicazioni del precedente governo sulle pene minime ai recidivi e a sollecitare al massimo il ricorso a pene alternative. L’Italia non sta a guardare. Non il governo Monti, almeno. Fin dal suo insediamento, il ministro della Giustizia Paola Severino ha fatto del carcere una priorità, cercando di seminare una diversa cultura, quella del senso della pena in funzione del reinserimento sociale del detenuto. Di qui il ddl sulla depenalizzazione di alcuni reati, sulla “messa alla prova”, sull’introduzione di pene alternative alla galera come la detenzione domiciliare, nonché l’attenzione al lavoro (con il rifinanziamento della legge Smuraglia) come leva della riduzione della recidiva. Finora il Parlamento non è stato altrettanto sensibile al tema (il ddl è alle primissime battute) e la campagna elettorale rischia di far prevalere la prudenza se non, addirittura, l’inerzia. Il tema è impopolare e scivoloso, perché gran parte dell’opinione pubblica ritiene che l’unica medicina per la sicurezza sia “buttare la chiave” e le politiche degli ultimi anni hanno cavalcato questo comune sentire nonostante la realtà dimostrasse il contrario. E cioè che il carcere - in particolare quello “chiuso” dove impera l’ozio e i detenuti stanno in cella 22 ore al giorno - è criminogeno perché produce il 68% dei recidivi, laddove il carcere “aperto” (fatto di lavoro e di misure alternative) ne produce il 17 per cento. Dati risalenti al 2007, che ora saranno aggiornati su base scientifica dall’Eief (Istituto Einaudi per l’economia e la finanza) della Banca d’Italia (si veda il boxino in pagina). I numeri italiani sono pressoché analoghi a quelli di altri Paesi, come la Francia. Il presidente François Hollande se ne è fatto carico fin dal suo programma elettorale, dove al 53° punto (su 60) si legge: “Cambierò le disposizioni sulle pene minime, contrarie al principio dell’individualizzazione delle sanzioni”. L’anno prossimo sarà approvato un provvedimento sulla prevenzione della recidiva, ma intanto il ministro Taubira sta preparando il terreno con la circolare ai procuratori, sperando che nel frattempo non scoppi un caso eclatante, tale da suscitare la reazione emotiva dell’opinione pubblica e da frenare il cambiamento. La situazione attuale, infatti, è drammatica. La legge sulle pene minime per i recidivi è del 2007, tre mesi dopo l’elezione di Nicolas Sarkozy, e porta la firma dell’allora guardasigilli Rachida Dati. Dispone che per i recidivi non possano esserci pene inferiori a un anno per i reati puniti fino a 3 anni. E via via a salire, fino ai 15 anni minimi per i crimini puniti con l’ergastolo. Da allora sono state comminate 37mila pene minime e la durata media della detenzione è salita da 8,1 a 9,8 mesi. Con risultati sconfortanti: in cinque anni il tasso di recidiva è salito dal 3,9% al 6% per i crimini (i reati più gravi, puniti con 15 anni o con l’ergastolo) e dal 7% all’11% per i delitti (puniti fino a 10 anni). Nel frattempo si sono riempite le carceri, con tassi record di sovraffollamento: nelle prigioni francesi ci sono 67.373 detenuti per 57.408 posti, con un tasso medio di sovraffollamento del 117,3%. “L’opinione pubblica - spiega la Taubira in un’intervista al quotidiano Le Monde - è stata intossicata da un discorso sommario finalizzato a rassicurarla, secondo cui la sicurezza cresce se ci sono più delinquenti in galera e per più tempo. Tutti gli studi dimostrano invece il contrario”. Basta scorrere l’ultimo rapporto dell’amministrazione penitenziaria per scoprire che se la percentuale di chi commette nuovamente un reato nei 5 anni successivi all’uscita di prigione è del 59%, nel 63% dei casi si tratta di persone che non avevano usufruito di sanzioni alternative. “L’obiettivo della sanzione - aggiunge la Taubira - è certo quello di punire, ma anche di prevenire la recidiva e di preparare il reinserimento, in modo da non provocare nuove vittime. Un mondo senza crimini e criminali non esiste e le recidive più scioccanti, in particolare in campo sessuale, suscitano una reazione emotiva forte e legittima. Il governo è chiaramente vicino alle vittime, di cui condivide il dramma, ma deve far fronte alle proprie responsabilità più generali”. Peraltro, individualizzazione della pena non significa lassismo ma, al contrario, maggiore attenzione al “caso per caso”, mentre l’automatismo della legislazione Sarkozy (come della ex Cirielli, in Italia) prescinde dalla specificità dei casi. Giustizia: l’amnistia e l’ipocrisia di Valerio Guizzardi (Associazione Papillon Bologna) Alfabeta, 25 settembre 2012 Per prima cosa, tanto per sapere con precisione di che si parla, occorrono alcuni dati come presupposto dal quale partire per qualsiasi discussione riguardante il pianeta carcere: dal gennaio 2000 al settembre 2012 nel circuito carcerario italiano si sono avuti 2.045 morti tra i quali, al momento in cui scriviamo, 732 suicidi (fonte: www.ristretti.it). Il resto sono da addebitare a malasanità e a “casi da accertare”; che già su quest’ultima espressione ministeriale ci sarebbe non poco da indagare. Stiamo quindi parlando, al di là di ogni ragionevole dubbio, di una vera e propria strage. Una strage di Stato. Da lungo tempo il Partito Radicale, al quale si è unito il mondo dell’associazionismo carcerario e della cooperazione sociale che opera nello stesso campo, ha lanciato in modo pressante la richiesta di amnistia e indulto per fermare quella carneficina. Si tratta di riportare un minimo di legalità, in quella che oggi è una fabbrica di morte, affrontando l’inumano sovraffollamento con la fuoriuscita dalle galere di almeno 25-30.000 detenuti degli attuali 67.000. Contestualmente ai provvedimenti, per renderli efficaci nel tempo, occorre una radicale riforma della giustizia e l’immediata abrogazione delle tre principali leggi carcerogene: la Bossi-Fini, che ha riempito le galere di immigrati; la Fini-Giovanardi, che le ha riempite di consumatori di sostanze; la ex Cirielli, che vieta i benefici della Legge Gozzini ai recidivi. Non ci sono altre strade, e bisogna fare presto. Come risponde la politica alle nostre richieste? Con un’ipocrisia senza limiti, con una falsità dirompente: “Non ci sono le condizioni”. Dal Presidente Napolitano (non a caso autore insieme all’allora collega Turco della prima legge che istituiva i lager per migranti, i Cpt) ai segretari di tutti i partiti oggi in Parlamento questa è la risposta. Va da sé, tanto è evidente, che anche un bambino potrebbe ribattere che le condizioni non ci sono perché nessuno di loro ha intenzione di crearle. Ed è facile capire il perché: da circa vent’anni tutti i governi che si sono susseguiti, al di là del colore, hanno sbandierato il vessillo dell’ossessione sicuritaria per attirare gli allocchi nel circuito della paura generalizzata contro il diverso, l’escluso, le lotte sociali. Un generatore di consenso sul piano del mercato elettorale. Una truffa evidente, se si pensa che ogni statistica specializzata ci informa che i reati sono in calo considerevole e, guarda caso, la carcerizzazione in aumento. Insomma non vogliono perdere voti e tantomeno, come nefasta conseguenza (per loro), poltrone, privilegi, denaro pubblico per finanziare i propri comitati d’affari, spolpare i beni comuni per regalarli alle oligarchie finanziariste internazionali. Continuare a gestire il potere val bene una strage, e per farlo occorrono milioni di voti: consenso a mezzo di terrore. Ogni partito fa la sua gara. Altrove, dove ci si aspetterebbe un forte impegno, nulla si vede all’orizzonte. E sono la sinistra sociale, i movimenti, le singolarità più sensibili, coloro i quali, per condizione, dovrebbero essere i primi a preoccuparsi poiché questa grave crisi economica prodotta dai cascami di un neoliberismo sempre più predatorio e di cui il governo Monti ne è l’esecutore in Italia, produrrà (si spera) a medio termine un conflitto sociale senza precedenti in seguito all’aumento irrefrenabile della povertà, della disoccupazione, della spoliazione definitiva dei diritti e della dignità di tutti coloro che non fanno parte di una casta o di una corporazione dedite all’arrembaggio finale di ogni bene pubblico. Sul perché di questa clamorosa assenza ci sarebbe molto da discutere. Sarebbe ora di cominciare, prima che sia troppo tardi. Giustizia: Osapp; bloccate le traduzioni dei detenuti per mancata revisione degli automezzi Comunicato stampa, 25 settembre 2012 “Che l’Amministrazione Penitenziaria fosse nel caos più assoluto dal punto di vista organizzativo e la Guardasigilli Severino lontana anni luce dal pianete carcere lo si era capito da tempo, ma mai era accaduto che un servizio essenziale per il carcere e per le funzioni di giustizia quale quello delle traduzioni dei detenuti fosse bloccato completamente”. È quanto afferma in una nota Leo Beneduci Segretario Generale dell’Osapp - Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria. “A Napoli si è fermato questa mattina il Nucleo traduzioni di Secondigliano che effettua circa 25mila traduzioni l’anno in ambito locale e nazionale, dopo mesi di disagi per mancanza di fondi per la benzina e per le manutenzioni dei mezzi, dopo che il personale era stato sottoposto a carico di lavoro inammissibili senza vedere corrisposti i compensi di straordinari e missioni”. “Le ragioni del blocco già ampiamente conosciute - prosegue il leader dell’Osapp - riguardano il fatto che per gli oltre 80 automezzi di servizio non si sono potute effettuare, sempre per mancanza di fondi le obbligatorie revisioni annuali riguardo a veicoli che hanno persino superato i 500mila km e che, quindi, senza alcun accorgimento costituiscono vere e proprie mine vaganti per il personale, per l’utenza e per tutti i cittadini”. “È drammatico vedere, questa mattina, 200 poliziotti penitenziari fermi sul piazzale del carcere di Napoli Secondigliano in attesa di disposizioni, mentre ci aspettiamo che analoghe situazione si verifichino sul restante territorio nazionale. Ma se la politica è i vertici dell’amministrazione, responsabili almeno per inerzia, intendono trascinare definitivamente il sistema penitenziario nel baratro - conclude Beneduci - la Polizia Penitenziaria non intende seguirli e per questo l’Osapp assumerà tangibili iniziative di protesta in ogni luogo di lavoro. Giustizia: la storia di Youssef Nada, terrorista a vita anche se assolto di Patrizio Gonnella Micromega, 25 settembre 2012 Tutti hanno diritto al rispetto della loro vita privata e affettiva, anche i presunti terroristi internazionali. A maggior ragione se successivamente sono dichiarati innocenti. La Grande Camera della Corte Europea dei diritti umani di Strasburgo, in una importantissima decisione presa lo scorso 12 settembre, ha con nettezza affermato che non vi è spazio nell’ordinamento giuridico europeo per il diritto penale del nemico. Non si possono negare diritti solo sulla base di sospetti, fra l’altro nel caso in esame rilevatisi infondati. Solo le persone giudicate e condannate come terroristi possono subire le restrizioni e le sanzioni previste per chi commette crimini di quel tipo. Il caso in questione riguarda Youssef Moustafa Nada, un signore italo-egiziano che al momento dei fatti viveva a Campione d’Italia, una sorte di enclave italiana nel Canton Ticino. Nada viene inserito suo malgrado in una lista di fiancheggiatori di al-Qaeda. La lista è redatta dalle Nazioni Unite. È fatta propria dal governo della Confederazione elvetica. Gli viene così impedito di entrare e muoversi nel territorio svizzero. Dopo quattro anni durante i quali subisce finanche l’onta dell’arresto, nel maggio 2005 viene del tutto scagionato in sede giudiziaria. Lui chiede legittimamente che il suo nome sia cancellato da ogni lista di sospetti terroristi. Gli si risponde che quell’elenco è immodificabile. Dopo lunghi otto anni, solo nel settembre del 2009 ottenne quanto richiesto. Così la Corte di Strasburgo ha condannato la Svizzera a pagare 30 mila euro al signor Nada a titolo di risarcimento per i danni subiti. La norma violata sarebbe l’articolo 8 della Convenzione del 1950 che assicura il diritto alla vita privata e al rispetto della vita familiare. La Corte ha quindi sentenziato che non si può essere inseriti in una lista pubblica di sospetti criminali senza alcuna supervisione giudiziaria e senza uno straccio di prova e soprattutto senza che vi sia una possibilità concreta di vedere il proprio nome cancellato. Lo stigma eterno lede l’immagine di una persona oltre che rendergli difficile la vita affettiva e professionale. La decisione presa a Strasburgo si rivolge indirettamente anche alle Nazioni Unite e alla facilità con cui vengono affibbiate le etichette di terroristi. Giustizia: Lele Mora e la speranza di rifarsi un’immagine attraverso il sociale di Giorgio Ponziano Italia Oggi, 25 settembre 2012 C’erano anche alcuni sacerdoti in sala, a Rimini, per il ritorno in pubblico di Lele Mora, l’eminenza grigia della politica e dello spettacolo cochon, grande organizzatore delle feste berlusconiane, che giura di essersi convertito, sarebbero lontani anche i tempi in cui esibiva la musica di faccetta nera nella segreteria telefonica del proprio cellulare, adesso flirta col Pdl e assicura che anche l’estremismo politico è acqua passata. “Errori di gioventù”, dice. Anche se li ha continuati a commettere fino allo soglia dei sessanta. Aggiunge: “Ho scontato quello che dovevo”. E chiede di potere ripartire, con qualche decina di chili in meno, tanti amici che si sono allontanati, conto corrente al lumicino (dice), una condanna per bancarotta fraudolenta (certa), la speranza di rifarsi un’immagine attraverso il sociale e caso mai la politica. A Rimini, nella sala convegni dell’hotel Continental, prima tappa della sua auto riabilitazione, è venuto proprio per parlare del sociale e in particolare della condizione delle prigioni e della carcerazione preventiva. Le une e l’altra le ha conosciute sulla sua pelle, un mondo che neppure immaginava quando offriva party di lusso attorno alla piscina della sua villa. Si è presentato quasi irriconoscibile, fisico magro, rosario di legno al collo, vestito dimesso, impacciato lui che teneva in pugno mezzo mondo dello spettacolo, e a chi lo chiama Lele risponde che adesso si chiama Gabriele. Da agosto non è più in carcere. “Sono stato in ospedale quasi un mese”, dice, “e ho scoperto di avere avuto durante la detenzione tre ischemie. Per potermi curare il giudice mi ha concesso di uscire dal carcere”. Se il magistrato accoglierà una sua nuova richiesta, entrerà nella comunità di don Antonio Mazzi, il quale crede alla sua conversione e ne vuole fare un testimonial delle campagne civili per l’umanizzazione del carcere. I due starebbero già organizzando un’iniziativa di grande impatto: l’Angolo del detenuto in ogni supermercato: “desidero impegnarmi per diffondere nelle carceri l’orto terapia”, spiega Mora, “che a me ha dato grande sollievo durante i 400 giorni di carcere, così come la commercializzazione dei prodotti made in jail attraverso la grande distribuzione”. Non solo. Lele Mora ha scritto un libro biografico che uscirà a Natale e il cui ricavato andrà alla polizia penitenziaria. Poi si è alleato con Alfonso Papa, deputato Pdl finito in carcere per lo scandalo P4 e scarcerato dopo 100 giorni di detenzione a Poggioreale, che ha fondato il “Comitato per la prepotente urgenza”, ovvero una bozza di riforma del sistema carcerario che vorrebbe presentare, insieme a Lele Mora, al ministro della Giustizia, Paola Severino. Hanno chiesto udienza e attendono risposta. Al primo punto vi è il lavoro per i detenuti, che secondo i due ex-carcerati è la richiesta più pressante che arriva dalle prigioni. Il duo Papa-Mora sta premendo verso il Pdl perché si faccia paladino di questa esigenza e ponga tra i punti prioritari del programma per la prossima legislatura la riforma del sistema carcerario. Mora si aspetta il sostegno anche di Silvio Berlusconi, pur togliendosi un sassolino dalla scarpa: “Non l’ho mai sentito in questo periodo, mi avrebbe fatto piacere. Ma sono amico di Berlusconi dal 1986 e gli amici rimangono amici. Per la verità ultimamente ho sentito più amici di sinistra che di destra”. Il fatto è che tra i tanti suoi guai giudiziari vi è anche quello di essere imputato assieme a Nicole Minetti ed Emilio Fede nel cosiddetto processo Ruby bis. Ma sostiene che la sua innocenza sarà riconosciuta. Poi racconta: “Ero in un settore del carcere di Opera dove di fianco a me avevo Olindo Romano, quello della strage di Erba. Lo vedevo molto poco perché lui aveva delle limitazioni. Coltivavo l’orto assieme ad altri detenuti che provenivano dall’ospedale psichiatrico giudiziario e mi sono reso conto che curare l’orto è come crescere un figlio”. Aggiunge: “In Italia il carcere senza condanna è diventata la consueta anticipazione della pena nei confronti dei presunti non colpevoli”. Gli fa eco Alfonso Papa: “Insistiamo per essere ricevuti dal ministro Severino, che può dare una spinta decisiva al progetto di legge contro l’abuso della carcerazione preventiva di cui sia io che Lele siamo stati vittime. Oggi soltanto 2.257 dei 66mila detenuti beneficiano del privilegio di un lavoro. L’obiettivo del movimento che abbiamo costituito consiste segnatamente nel consentire il lavoro ai detenuti. Ma con Lele Mora stiamo anche cercando di diffondere negli istituti penitenziari la raccolta differenziata dei rifiuti e l’orto terapia che può essere fonte di grande sollievo per chi è recluso nonché uno stimolo alla realizzazione di un vasto progetto di agricoltura biologica”. Il primo artista promozionato da Lele Mora fu Loredana Bertè, poi arrivarono Simona Ventura, Christian De Sica, Sabrina Ferilli, Cristina Parodi, per finire con tronisti, soubrette, veline, schedine. Lui dice: “Scordatevi il Lele Mora delle riviste gossip, ora sono semplicemente Gabriele. La prigione mi ha aiutato a riscoprire le cose importanti della vita, quelle che conoscono le persone semplici”. E per dare maggiore forza a quanto afferma è andato, con fotografi al seguito, in pellegrinaggio alla Madonna di Lendinara, di cui svela di essere diventato uno dei più ferventi fedeli. Chi si è ricordato di lui nella disgrazia? Fa l’elenco: Sabrina Ferrilli e Platinette, che lo sono andati a trovare in carcere, Elenoire Casalegno e Ornella Muti, accorse a casa sua dopo la scarcerazione, mentre hanno fatto squillare il telefono Flavio Briatore, Enrico Mentana, Maurizio Costanzo, Simona Ventura, Elisabetta Gregoraci, Moira Orfei, Valeria Marini. Dallo show business alla comunità di don Mazzi, da faccetta nera al Pdl: Lele Mora si ricicla con un’ambizione, per ora: diventare il paladino di chi sta chiuso in cella. Giustizia: contro la tortura e per i veri diritti umani di Pietro Marcenaro (Senatore del Pd, presidente della Commissione diritti umani) Avvenire, 25 settembre 2012 Caro direttore, oggi l’aula del Senato discute il disegno di legge che introduce nel codice penale italiano il reato di tortura. La commissione giustizia ha varato all’unanimità un provvedimento che dà finalmente attuazione all’impegno che l’Italia ha preso sottoscrivendo e ratificando, nel lontano 1988, la Convenzione Onu contro la tortura. Quello dell’introduzione del reato di tortura è una delle raccomandazioni più importanti che il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite ha rivolto all’Italia, in conclusione della procedura di Universal Periodic Review del 2010. Il testo che il Senato esamina è stato il risultato di un confronto e di una mediazione che non compromette la sostanza della Convenzione e risponde a una domanda diffusa di una parte importante dell’opinione pubblica. La Commissione diritti umani del Senato, al termine della sua indagine sui diritti umani nelle carceri, aveva sottolineato questo punto come cruciale e i suoi membri avevano unificato in un solo disegno di legge le diverse proposte e richiesto una rapida approvazione. Oggi questo lavoro giunge a un primo risultato e, se la Camera procederà rapidamente alla seconda lettura, il testo diventerà legge prima della fine della legislatura. Si dimostrerà così quanto fossero infondati taluni timori, giacché l’introduzione del reato di tortura è anche a difesa della grande maggioranza dei componenti delle Forze dell’ordine, che hanno il diritto di non essere coinvolte nelle eventuali responsabilità dei singoli. La settimana scorsa l’aula del Senato ha approvato la legge di ratifica del protocollo opzionale alla Convenzione contro la tortura che istituisce un sistema di controlli nei luoghi di privazione della libertà: parte a livello globale con la sottocommissione contro la tortura delle Nazioni Unite e si articola a livello regionale con il Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa. A livello nazionale alla sua concreta operatività contribuirà l’approvazione definitiva da parte del Parlamento della legge per una istituzione indipendente sui diritti umani che, dopo essere stata approvata all’unanimità dal Senato, è ora all’esame della Camera. Sempre la settimana scorsa il Senato ha approvato il provvedimento che adegua la nostra legislazione allo Statuto della Corte penale internazionale. L’Italia potrà quindi eseguire le sentenze della Corte e contribuire così concretamente alla persecuzione dei crimini di guerra e contro l’umanità. Se a questi si aggiungono la ratifica della Convenzione di Lanzarote per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale e della Convenzione di Varsavia contro la tratta di esseri umani, si completa un quadro che presenta un finale di legislatura nel quale, sulla questione dei diritti umani, sono a portata di mano passi in avanti molto significativi che innalzerebbero il livello di civiltà del Paese e contribuirebbero a fare dell’Italia un Paese più rispettato in Europa e nel mondo. E tuttavia che questo avvenga senza un dibattito pubblico adeguato, che l’opinione pubblica non sia sufficientemente informata, che la grande politica consideri questi problemi sostanzialmente secondari nel definire il proprio profilo morale e culturale e il proprio rapporto con i cittadini, è senza dubbio una ragione di preoccupazione. È per questo che chiedo ospitalità a uno dei pochi giornali che ha un’attenzione costante a questi temi e che rivolgo un appello a quanti possono contribuire a lacerare un velo di silenzio che può compromettere dei risultati così importanti. Emilia Romagna: Garante regionale dei detenuti “Approvare subito il ddl Severino” Ristretti Orizzonti, 25 settembre 2012 Al susseguirsi di notizie sulla “battuta di arresto” nell’iter del disegno di legge C-5019, presentato dal ministro Severino, recante “Delega al Governo in materia di depenalizzazione, sospensione del procedimento con messa alla prova, pene detentive non carcerarie, nonché sospensione del procedimento nei confronti degli irreperibili”, si registra il fatto che il disegno di legge risulta ancora in discussione in Commissione Giustizia alla Camera, senza che vi sia alcuna indicazione circa la sua calendarizzazione in Assemblea, perché la maggioranza non ha provveduto. In questo contesto, Desi Bruno, Garante regionale per i diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, ha rilasciato la seguente dichiarazione: “Il contesto nel quale ci si trova è chiaro: il sistema penitenziario è inadeguato con la relativa illegittima compressione del diritto ad un’esecuzione della pena in armonia con i precetti dell’art. 27 della Costituzione. Il Disegno di Legge presentato dal Ministro Severino sarebbe una soluzione, seppur timida, al sovraffollamento carcerario, perché avrebbe scarsa incidenza sull’attuale numero delle presenze, ma potrebbe influire in maniera positiva sulla diminuzione, in futuro, degli ingressi in carcere. Rimane, comunque, un provvedimento indifferibile, anche come segnale politico di interesse concreto al dramma delle carceri, constatata la mancanza di un accordo politico a sostegno dei necessari provvedimenti di amnistia ed indulto, dai quali sarebbe opportuno partire per poi avviare una vera stagione di riforma nel settore giustizia, con la riforma del codice penale (basterebbe “tirare fuori dal cassetto” i progetti Nordio e Pisapia), la revisione della legislazione in materia di stupefacenti, immigrazione, recidiva. Il giudizio complessivo sul contenuto del disegno di legge è stato positivo anche nel parere fornito dal CSM che ha però segnalato il rischio concreto di un pratico insuccesso, con un ambito di applicazione ridotto, a causa della mancanza di risorse e strumenti adeguati nel sistema giudiziario, chiedendo in questo senso uno sforzo al governo , anche con riferimento alla destinazione di adeguate risorse finanziarie per i lavori di pubblica utilità e sottolineando che il recente taglio di risorse agli uffici di Esecuzione Penale Esterna è incongruo rispetto alla volontà di dar corso ad un ampliamento delle pene alternative. A questo punto è legittimo chiedersi che cosa sia rimasto di quella “prepotente urgenza” di cui parlava il Presidente Napolitano nel giugno del 2011, in riferimento all’insostenibile situazione del carcere, anche auspicando un intervento in tempi rapidi del Parlamento per porvi rimedio e ripristinare lo stato di legalità. I numeri delle presenze in carcere restano drammatici, il carcere continua a vivere in uno stato di cronica emergenza umanitaria. Si chiede alla classe politica di avere il coraggio di un atto concreto di responsabilità: si approvi, almeno, il ddl Severino prima della fine della legislatura”. Toscana: Agenzia regionale per Salute ha realizzato studio sugli immigrati detenuti www.saluteincarcere.it, 25 settembre 2012 Negli ultimi vent’anni il sistema penitenziario italiano ha subito importanti modificazioni riguardanti non soltanto il rapporto tra immigrazione e detenzione, ma anche rispetto al numero totale di accessi presso le strutture detentive. Nei primi anni 90, infatti, il tasso di carcerazione sulla popolazione italiana era di 50/60 detenuti ogni 100.000 abitanti, valore che, in seguito alle profonde trasformazioni avvenute in questi anni, ha raggiunto il numero giornaliero di 100 detenuti su 100.000 abitanti. Si è passati dai 35.485 detenuti del 1991 ai 53.165 del 2000, fino ai 67.510 dell’aprile 2011. Il forte incremento al quale abbiamo assistito non può non tener conto della crescita esponenziale della popolazione detenuta straniera. Il numero degli stranieri arrestati, infatti, è più che duplicato nel solo intervallo 1991-1997. Gli stranieri in carcere hanno raggiunto ormai quote allarmanti, rappresentando il 37% dei presenti (n=24.923). Se le condizioni strutturali e di sovraffollamento, ad oggi, non hanno subìto importanti modificazioni, il processo di riordino della sanità penitenziaria ha avuto inizio (Dpcm 1 aprile 2008), prevedendo il coinvolgimento, a livello nazionale, di tutti gli enti (Regioni, Comuni, Aziende sanitarie e Istituti penitenziari) che responsabilmente concorrono affinché si realizzino le condizioni in grado di tutelare la salute dei detenuti. La normativa, infatti, stabilisce che le attività sanitarie diventino di competenza delle Ausl in cui hanno sede gli Istituti, garantendo ai cittadini detenuti la continuità terapeutica come principio fondante dell’efficacia degli interventi sia in ambito penitenziario che dopo la scarcerazione. La Regione Toscana, in linea con il percorso nazionale sull’attuazione della normativa, ha istituito l’Osservatorio regionale per la salute in carcere con funzione di supporto diretto e di collaborazione sinergica con il gruppo tecnico di coordinamento regionale inter istituzionale, con lo specifico compito di monitorare i bisogni sanitari della popolazione penitenziaria. È in questo contesto che l’Agenzia regionale di sanità della Toscana, in qualità di organo di supporto tecnico-scentifico, in collaborazione con gli altri partner istituzionali e con il personale sanitario operante nel settore, ha contribuito a tratteggiare una panoramica delle principali patologie da cui risulta affetta la popolazione detenuta, delineandone caratteristiche legate non soltanto agli stili di vita messi in atto, ma anche al Paese di provenienza. Si è scelto quindi, di condurre uno studio di coorte prospettico che, pur caratterizzato da un’elevata perdita al follow-up (a causa della mancanza di un codice univoco che identifichi la persona in transito da un istituto all’altro), tutela da possibili bias di selezione in grado di alterare i risultati dell’indagine. Puglia: Osapp; allarme affollamento delle carceri, quello di Foggia è un carnaio di Emiliano Moccia Corriere del Mezzogiorno, 25 settembre 2012 I baschi azzurri dell’Osapp di Puglia non hanno remore a descrivere le condizioni del carcere di Foggia. Una struttura che potrebbe ospitare regolarmente solo 371 detenuti mentre ad oggi ne accoglie 720. Ma la situazione non è migliore neanche negli altri penitenziari. “La Puglia è una regione che potrebbe ospitare solo 2.459 detenuti mentre ne contiene 4.315, di cui 216 donne. Viceversa, la polizia penitenziaria è composta da 2.404 unità ma ne servirebbero almeno altre 600”. Sovraffollamento e disagio, dunque, sono le parole più usate dall’Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria che sta girando in lungo e in largo le province pugliesi per “denunciare una situazione preoccupante che accomuna detenuti e poliziotti delle undici sedi carcerarie presenti nella regione” spiega Domenico Mastrulli, vice segretario generale nazionale dell’Osapp. Al di là dei numeri, però, l’aspetto che preoccupa maggiormente il sindacato è che “l’attuale sistema detentivo, così come attuato dallo Stato italiano, non consente di avviare reali percorsi di rieducazione del condannato che possano dimostrarsi utili una volta scontata la pena” aggiunge Mastrulli. Per il resto, quello rappresentato dall’Osapp è un “bollettino di guerra” che fotografa il clima che si respira all’interno dei penitenziari. In Puglia dall’inizio dell’anno al 31 agosto si sono verificati, per citare qualche dato: 27 ferimenti, 101 colluttazioni, 389 casi di autolesionismo, 79 tentativi di suicidio e tre suicidi. “Quando dieci persone sono rinchiuse in celle da tre posti, con le temperature che toccano i 50 gradi, vivendo in uno stato di restrizione, - aggiunge Mastrulli - può capitare che prima o poi accada qualcosa. Sono dei colpi di testa, delle scintille che ci obbligano a raccogliere l’allarme, il disagio che arriva dai detenuti per portarlo all’attenzione delle istituzioni”. Pertanto, “l’aggressione da parte di alcuni detenuti nei confronti della polizia penitenziaria non credo che si possa attribuire interamente a chi vive in stato di detenzione. Va piuttosto attribuita al sistema carcerario che ha delle evidenti lacune, a partire dal sovraffollamento”. Di qui, l’esigenza di mettere in campo degli interventi al fine di decongestionare le carceri, con l’obiettivo di migliorare la qualità della vita dei detenuti ed il lavoro dei baschi azzurri. Diverse le proposte dell’Osapp. “Una maggiore presenza dello Stato all’interno delle strutture, l’avvio di canali educativi che portino ad un radicale percorso di risocializzazione dei detenuti, e soprattutto l’istituzione da parte del Governo di una commissione ispettiva che svolga più compiti: procedere ad un’attenta verifica delle strutture idonee, chiudere quelle ormai inadeguate come la sezione femminile di Bari, e riaprire i carceri realizzati e mai utilizzati”. L’esempio riguarda da vicino la provincia di Foggia, dove negli anni lo Stato ha fatto costruire strutture penitenziarie e mandamentali mai entrati in funzione nei comuni di Apricena, Accadia, Bovino, Orsara di Puglia e Volturara Appula. Sicilia: Garante detenuti; 16 dipendenti e affitti arretrati nell’ufficio dello scandalo di Riccardo Lo Verso www.livesicilia.it, 25 settembre 2012 Ecco di cosa si occupa l’ufficio del Garante dei detenuti dove la Finanza ritiene di aver smascherato casi di assenteismo. Sullo sfondo una storia di contrasti interni. Due dirigenti, quattordici dipendenti, migliaia di richieste che piovono dalle carceri siciliane e pochi soldi a disposizione. Talmente pochi da non riuscire neppure a pagare l’affitto. Ecco la radiografia dell’ufficio del Garante regionale dei diritti dei detenuti. L’ufficio pubblico travolto dallo scandalo dove, secondo i finanzieri, il personale si sarebbe allontanato dal posto di lavoro per lunghe pause caffè non autorizzate o addirittura per fare shopping. La cronaca ci racconta di un’inchiesta per assenteismo. Otto dipendenti sono indagati per truffa e falso ideologico. Sotto accusa è finito pure il dirigente, Lino Buscemi, per non avere vigilato sui suoi dipendenti. Impossibile trovare qualcuno che accetti di parlare. Di cose da dire nell’ufficio palermitano di via generale Magliocco, però, sembra che ne abbiano parecchie. Preferiscono tacere per difendersi nelle sedi opportune “certi di essere estranei ai fatti e fiduciosi nel lavoro della magistratura”. Frase di rito che stavolta cela più di un malessere. Le bocche restano cucite nell’appartamento al terzo piano della strada pedonale nel salotto della città. Al di là della cronaca, dell’accusa e della difesa che si scontreranno nelle aule di giustizia qualora si dovesse arrivare a processo (siamo nella fase dell’avviso di conclusione delle indagini), basta spostare l’attenzione sull’ufficio per scoprire l’esistenza di un conflitto latente. Neppure troppo velato dai protagonisti. Lino Buscemi e il garante Salvo Fleres, nei giorni scorsi, non se le sono mandate a dire. C’è n’è abbastanza per fare dichiarare al legale della difesa, l’avvocato Mauro Torti, “l’insussistenza delle condotte contestate” e aggiungere che “i dipendenti pagano il conto dei contrasti all’interno dell’ufficio”. A partire dall’anno della sua istituzione, era il 2006, l’ufficio si occupa di promuovere e facilitare l’inserimento lavorativo e il recupero culturale e sociale delle persone che sono finite in carcere. Ed ancora: vigila affinché i diritti dei detenuti e dei loro familiari siano garantiti. Di fatto si occupa di casi umani, il più delle volte disperati. Che si traducono in centinaia di lettere spedite agli uffici del Garante e nelle più disparate richieste. A rispondere alle missive e a fare da filtro fra il detenuto e la pubblica amministrazione ci sono i dipendenti. Nella sede principale, quella di via Magliocco, a Palermo, lavorano undici persone - fra funzionari, istruttori e operatori - più il dirigente, Lino Buscemi. Esiste anche una sede distaccata a Catania, ospitati in alcune stanze di Palazzo Minoriti, sede della provincia, con tre dipendenti e un capo (Salvatore Sciacca). La busta paga dei dirigenti prevede un fisso - circa 2700 euro netti al mese - a cui va aggiunta una componente variabile (per un massimo di 23 mila euro all’anno). Gli stipendi degli altri dipendenti vanno da un minimo di mille a un massimo di mille e 500 euro mensili netti, a seconda della qualifica e dell’anzianità di servizio. Stipendi a parte, di fatto l’attività dell’ufficio ha subito un contraccolpo negli ultimi anni. Difficile se non impossibile attuare delle iniziative con delle risorse via via sempre più esigue. Si è passati da 500 mila euro nel 2009 a 70 mila nel 2010, fino ai 36 mila nel 2011. Soldi che per la verità non bastano neppure per pagare l’affitto della sede: 55 mila euro all’anno più seimila circa di condominio. Ed infatti l’amministrazione regionale è morosa da due anni. Alla guida dell’ufficio c’è il garante, il senatore Salvo Fleres, nominato nel 2006 dall’allora presidente della regione Totò Cuffaro. Il suo mandato dura sette anni. Dal 2006 al 2010 il garante ha incassato un totale di 425 mila euro di compensi. Da due anni non percepisce più i soldi. In ballo ci sono ancora 99 mila euro per il 2011. La cifra è già stata impegnata solo che Fleres non l’ha ancora incassata. Nel giugno del 2011 ha fatto sapere di rinunciare alla retribuzione. Cosa che ha ribadito nei giorni scorsi: “Ho rifiutato il compenso e dimezzato i costi dell’intero ufficio”. Apriti cielo. Buscemi ha tuonato in un comunicato stampa: Fleres si sarebbe limitato a chiedere la “sospensione” del pagamento delle sue “spettanze” a cui non avrebbe rinunciato. La cifra sarebbe inserita, infatti, nel bilancio di previsione per il 2102 e in quello per il triennio 2012-2014. Fleres sul punto è intransigente. Oltre a confermare, ancora una volta, che non intascherà più neppure un centesimo aggiunge: “Il compenso è previsto dalla legge. Non posso non farlo inserire in bilancio”. Di certo c’è che con la finanziaria del 2012 la giunta presieduta dal governatore Raffaele Lombardo ha stabilito che la prestazione del garante sarà a titolo gratuito. “Ho dimezzato i costi dell’ufficio”, ha dichiarato Fleres che oggi aggiunge di avere chiesto, ormai un anno e mezzo fa, al presidente della Regione di “dimezzare il personale” e “al Dipartimento della funzione pubblica di adottare dei provvedimenti disciplinari. Ma nulla è stato fatto”. Carte alla mano anche Buscemi si è intestato una serie di iniziative per ridurre le spese. Un anno fa il dirigente aveva chiesto la soppressione delle sede catanese dell’ufficio e la diminuzione del personale in servizio a Palermo. Vista l’esiguità degli stanziamenti regionali il carico di lavoro era notevolmente diminuito. Allora meglio utilizzare il personale in altri uffici regionali. Ed ancora Buscemi proponeva il trasferimento al civico 46 di via Magliocco, di proprietà della Regione, in considerazione del fatto che “la signoria vostra non ha mai usufruito (tranne 1 o 2 volte nell’arco di tre anni) dell’ampio salone studio con annesso servizio e camera ad uso privato. Ambienti inutilizzati di cui si può fare senz’altro a meno”. Una stiletta nei confronti di Fleres, che sul punto, come su altri, annuncia querele certo che la Guardia di finanza, a cui si è rivolto, abbia ricostruito uno spaccato fin troppo chiaro di come (non) funzioni l’ufficio. Per essere chiaro aggiunge: “Sono stato minacciato da lettere anonime a causa dei disservizi dell’ufficio. Non ho intenzione di rischiare la pelle mentre altri vanno a fare shopping per i negozi di Palermo”. Una nota finale. Al di là dell’assenteismo e dello shopping - reali o presunti tali - in una cosa l’ufficio del Garante del diritti dei detenuti si distingue, e in positivo. Il sito www.garantedirittidetenutisicilia.it offre un’informazione dettagliata sull’attività e i compensi. Un esempio di trasparenza che raramente si trova per l’attività di altri uffici regionali. Milano: il reinserimento comincia dal giardinaggio, la formula vincente di Bollate di Sara Ficocelli La Repubblica, 25 settembre 2012 Nell’istituto penitenziario ci sono “mini-imprese” di sarti, scenografi, cuochi, esperti di controllo qualità, giardinieri. Tutte costruite da detenuti. Sarà per questo che, malgrado la mancanza di libertà personale e affetti familiari, il tasso di recidiva è il più basso di tutti gli istituti italiani. La vita, spesso, è fatta di storie bellissime che nascono da equivoci enormi. Non sempre sviste e fraintendimenti vengono per nuocere o nascono dall’ignoranza: a volte arrivano per portare speranza e scaturiscono da un bisogno recondito che il cervello non esprime. È la storia dei 200 detenuti del carcere di Bollate, in provincia di Milano, tra gli istituti annoverati tra quelli “modello” (in tutto ospita 1150 persone) che con la cooperativa Cascina Bollate 1 si occupano della manutenzione di 10mila mq di aree verdi e serre tra i reparti maschili e quello femminile, commercializzando i prodotti ortofrutticoli e le piantagioni che loro stessi, assunti in base all’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario, coltivano. Un lapsus illuminante. Per quasi un anno hanno curato un piccolo arbusto originario del sud ovest della Cina, la Leycesteria formosa, praticamente sconosciuto in Italia, etichettandolo erroneamente col nome scientifico “amorosa”. Un lapsus che, secondo i responsabili della cooperativa, nasce dall’inconscio, dato che a molti dei detenuti non è consentito uscire dal carcere ed è permesso incontrare mogli, figli e genitori solo durante i colloqui, senza poter condividere con loro alcun momento di intimità. “Amorosa” invece che “formosa”, dunque, per esprimere un desiderio represso e una lacerante mancanza di affettività. L’equivoco è durato per mesi, poi i detenuti usciti dal carcere hanno scoperto che il vero nome della pianta era un altro e hanno corretto quanto indicato sui cartellini. Storie di vite recluse. Questa è solo una delle tante storie che nascono all’interno di un posto dove la vita è rinchiusa ma non per questo immobile. A dare ai detenuti la possibilità di cimentarsi col giardinaggio, imparando così ad esprimere la propria sensibilità attraverso le piante e a gestire i fallimenti, sono state Lucia Castellano, direttore del carcere di Bollate, e Susanna Magistretti, una grande giardiniera. La regola dell’autodeterminazione. La Seconda Casa di Reclusione di Milano-Bollate viene inaugurata nel dicembre del 2000 come Istituto a custodia attenuata per detenuti comuni, con l’obiettivo di offrir loro una serie di opportunità lavorative, formative e socio-riabilitative così da abbattere il rischio di recidiva e favorire il graduale reinserimento del condannato in società. I detenuti che lo desiderino, e che non siano appartenenti ai circuiti di alta sicurezza, possono chiedere di scontare qui la propria pena. La vita quotidiana all’interno è regolata in base all’autodeterminazione della giornata e quindi il rapporto con la custodia non è basato su un controllo “ad personam” ma sulla regolamentazione dei movimenti, che avvengono in tutta libertà all’interno della cerchia muraria. Sarà per questo che il carcere di Bollate ha la più bassa recidiva di tutti gli istituti penitenziari d’Italia? Le numerose attività. Ma quella del giardinaggio è solo una delle tante attività che i detenuti possono svolgere qua dentro. Nelle cucine preparano catering gustosissimi, nel laboratorio con le macchine da cucire realizzano creazioni di moda e con pochi attrezzi a disposizione intagliano mobili o riparano cellulari. Il tutto, con una dedizione assoluta che genera prodotti di altissima qualità artigianale. “Questa attenzione va sostenuta e fatta rientrare a pieno titolo nel comparto economico di produzione di eccellenza della città di Milano”, ha detto l’assessore comunale allo Sviluppo economico, Cristina Tajani. Otto le coop presenti. Prova ne è il fatto che, nel solo carcere di Bollate, le otto cooperative e imprese presenti (Alice, Abc la Sapienza in tavola, Estia, Cascina Bollate, Out&Sider, Stile libero, cui vanno aggiunte le imprese Bee-2 Srl e Sst Srl) generano complessivamente un fatturato per oltre 2 milioni di euro. All’iniziativa del Comune (circa 500mila euro per aiutare le aziende nate dai detenuti a passare “da una logica assitenzialista a una imprenditoriale”) hanno aderito finora 15 imprese collocate nei quattro penitenziari milanesi, mentre sono 9 (la maggior parte nel carcere di Bollate) le realtà produttive risultate beneficiarie del bando. Le imprese e le cooperative attive nelle carceri offrono non solo occasioni di reinserimento per i detenuti ma contribuiscono a ridurre fortemente, tra chi lavora, il tasso di recidiva (in media del 20% anziché del 70%). Napoli: carcere di Secondigliano, interrogazione del senatore Marco Perduca Notizie Radicali, 25 settembre 2012 Interrogazione a risposta scritta al Ministro della giustizia dei Senatori Perduca e Poretti. Premesso che: in data 15 agosto 2012, una delegazione composta dal primo firmatario del presente atto ispettivo, Senatore Marco Perduca e da tre esponenti radicali in qualità di accompagnatori - Rodolfo Viviani, Luigi Mazzotta, Fabrizio Ferrante - si è recata in visita ispettiva presso il penitenziario di Secondigliano, a Napoli. In assenza del direttore della struttura, Dottor Casale, la visita è stata condotta assieme al vicedirettore e ad alcuni agenti della Polizia Penitenziaria. Nonostante le richieste - con possibilità di differimento delle risposte nel tempo - di dati certi, come prassi in ogni visita ispettiva, relative al numero e le tipologie dei detenuti, tale documentazione non è ancora pervenuta all’attenzione degli interroganti e dunque quanto acquisito è frutto di uno scambio orale approssimativo nei dettagli. Considerato che: al 15 agosto 2012, secondo quanto riportato dagli interlocutori, nel carcere di Secondigliano risultano 1090 persone ristrette, rispetto a una capienza tollerata oscillante tra i 1.300 e i 1500 posti. Sebbene tali dati, presi a sé stanti, non delineino uno stato di apparente sovraffollamento, urge ricordare che la capienza regolamentare del penitenziario non è superiore alle 650 unità; le celle sono state progettate per ospitare un solo detenuto, mentre nella struttura è ormai prassi consolidata il tenere due reclusi per ogni cella, raddoppiando di fatto la capienza dell’istituto; il sistema dei letti a castello ha reso possibile tale indubbia forzatura, denunciata anche dai detenuti che lamentano carenze di spazi, soprattutto alle alte temperature estive; ogni sezione del penitenziario ospita 50 detenuti, due per cella appunto, con l’eccezione del Centro Diagnostico Terapeutico (Cdt), che ospita fino a quattro pazienti per ambiente. In questo caso, seppur gli spazi appaiano maggiori, molte sono le criticità lamentate dai detenuti malati. A guisa di esempio si riporta che, pochi giorni prima della visita ferragostana, un detenuto che attendeva un trapianto è deceduto all’interno della struttura di Secondigliano, dimostrando come la sanità penitenziaria campana, si muova in maniera tardiva nell’andare incontro alle esigenze basilari dei pazienti detenuti. Molti dei detenuti con varie patologie con cui la delegazione si è soffermata hanno dichiarato di non aver mai visto il magistrato di sorveglianza, così come difficilmente riescono a ricevere la visita di un medico. Su 94 malati c’è un solo medico di guardia, oltre a due infermieri per ognuno dei quattro piani. Nel corso della visita al C.D.T. è stata accertata la presenza di un cardiopatico a rischio rigetto, di un diabetico non vedente e di una persona priva di un piede in attesa da alcuni mesi di essere trasferita. Persone, probabilmente incompatibili con qualunque regime detentivo. Un altro detenuto lamenta invece un’attesa lunga ormai tre anni, nella speranza di essere ricoverato presso l’ospedale Monaldi, per un’ipertensione con rischi gravi per la propria vita. Oltre al CDT la delegazione ha visitato il padiglione “Ionio”, quello riservato alla detenzione di alta sicurezza. Le condizioni appaiono tutto sommato dignitose, tranne per i soliti problemi di spazio. I detenuti hanno diritto al “passeggio” per un’ora e mezza al mattino e un’ora e mezza nel pomeriggio, fuori dalle celle. Lo spazio di socialità, tuttavia, consta solo di un calciobalilla, di un tavolo con qualche sedia e di un piccolo cortile. I servizi igienici sono tradizionali, mentre il wc alla turca è riservato ai soli detenuti psicolabili, che potrebbero tentare di rompere la tazza. Gli agenti penitenziari, a tal proposito, denunciano continui tentativi di suicidio per impiccagione ed altri episodi di autolesionismo commessi dai detenuti, oltre a una carenza d’organico che rende ulteriormente pesante il loro lavoro; su quasi 1600 agenti che dovrebbero lavorare nella struttura, ne figurano in realtà appena la metà e secondo i poliziotti, mancherebbero circa 700 agenti. Da ciò scaturiscono turni massacranti, anche senza riposi; a seguito della visita al padiglione “Ionio”, la delegazione ha potuto visitare il padiglione “Adriatico”, ovvero quello che vede ristretti i cosiddetti detenuti “comuni” e, a in altra son, i condannati per reati riconducibili “sessuali”. La socialità si svolge dalle ore 16 alle 18 e le condizioni appaiono affini a quelle descritte in precedenza; ai detenuti “comuni” sono concesse quattro telefonate al mese a carico degli stessi; scena ricorrente nelle celle, la presenza di bottiglie alle sbarre, dove i detenuti conservano l’acqua con cui lavarsi quando non è prevista la doccia - consentita oso tre volte a settimana per ogni detenuto. Considerato inoltre che: nella struttura, a parte il progetto di scolarizzazione, non è previsto alcun ulteriore attività. Le uniche attività lavorative sono quelle relative alla manutenzione ordinaria dei fabbricati (MOF), salvo l’eccezione di alcuni detenuti che svolgono attività di riciclaggio della plastica, per conto di una ditta esterna. Sempre secondo quanto raccolto dalla delegazione, vi è, infine, la presenza di detenuti cosiddetti semiliberi, stimati intorno ai 190 individui. Anch’essi lamentano la scarsa presenza del magistrato di sorveglianza, dottoressa Anna Pancaro, oltre che a una serie di violazioni cui sarebbero vittime. Su tutte, arbitrarietà nella concessione dei permessi e l’impossibilità di usufruire dei 45 giorni ogni sei mesi, che ogni semilibero avrebbe diritto a trascorrere in famiglia, comunque da persona libera. Il tutto, in una realtà come quella napoletana e campana, che ancora oggi vanta il numero minore di concessioni di misure alternative in Italia. Si chiede di sapere: quali misure il Ministro in indirizzo intenda adottare perché il carcere di Secondigliano possa finalmente essere a norma di legge per quanto riguarda il numero dei detenuti; se il Ministro in indirizzo è al corrente della frequenza colla quale il Magistrato di sorveglianza visita l’istituto e come eventualmente intenda reagire al fine di sollecitare una maggiore presenza dello stesso per apprezzare le condizioni detentive delle oltre 1000 persone recluse; se e quali iniziative si intenda prendere per consentire che il diritto alla salute delle persone recluse nel Centro Diagnostico Terapeutico possa esser goduto appieno. Enna: Uil-Pa; condizioni disumane nel carcere di Nicosia La Sicilia, 25 settembre 2012 Allarme sulla situazione nel carcere di Nicosia. A lanciarlo Peppe Trapani segretario provinciale della Uil-Pa per la Polizia penitenziaria, che denuncia una situazione preoccupante all’interno di una struttura che è una eccellenza per “pianeta carcerario”. L’allarme arriva tra l’altro in un momento nel quale, con la soppressione del tribunale cittadino, si avvia il processo di chiusura e soppressione di una serie di uffici, tra i quali a maggior rischio c’è proprio la casa circondariale. “Il personale in servizio che ha un altissima professionalità, da anni si trova in uno stato di profonda crisi operativa. I poliziotti penitenziari - spiega Trapani - sono stanchi di vedere disconosciuti i propri diritti. Il mancato reintegro del personale pensionato ha causato una forte riduzione d’organico, e gli agenti operano in condizioni di elevato rischio, senza strumenti adeguati, ai limiti della sopportazione. L’amministrazione si trova in una drammatica situazione di carenza d’organico”. Trapani spiega che circa 1.000 unità regionali sono riferite a tabelle non corrispondenti alla realtà. “Con meno personale di quello necessario servizi esterni e interni - aggiunge il segretario provinciale - si devono effettuare con mezzi sporchi, inadeguati e a volte anche inaffidabili. Un numero inadeguato di agenti di polizia penitenziaria è solo, con decine di detenuti che negli istituti più grandi sono centinaia” il rappresentante sindacale sottolinea che nella situazione del carcere di Nicosia, che un tempo era un convento, fare riferimento alle tabelle degli organici non ha senso, perché mancano presidi fondamentali e quindi sarebbero necessari più agenti. “Le tabelle sono inadeguate alle necessità reali e alle condizioni strutturali dell’Istituto dove mancano automazione dei posti di servizio e videosorveglianza e dove i sistemi di allarme, controllo e comunicazione sono inadeguati. La verità è che nel nome di una pseudo spending review, l’amministrazione è pronta anche a chiudere il carcere Non entriamo nel merito della revisione della spesa - dice Peppe Trapani - perché certamente, attraverso un serio sostegno legislativo, di risparmi se ne possono fare, ma è palese la continua garanzia degli sprechi, l’elusione della sicurezza dovuta ai cittadini e agli operatori della Sicurezza, la sottrazione di risorse all’economia reale e il carcere come il tribunale sono economia reale per Nicosia. Nelle condizioni attuali, sono irrealizzabili progetti rieducativi e di reinserimento sociale essendo già insufficienti gli organici per la custodia dei detenuti”. Il rappresentante sindacale sottolinea come il rischio è che il progressivo taglio sulle spese del carcere possano aggravare la crisi economica del territorio e ricorda ad esempio che ci sono oltre 20 agenti di polizia penitenziaria che da anni chiedono vanamente il trasferimento a Nicosia. “Anche questa sarebbe economia reale, perché la riduzione del pendolarismo - conclude Trapani - farebbe aumentare le disponibilità economiche e diminuire fattori di rischio connessi allo stress da viaggio, e migliorerebbe la situazione nella casa circondariale che è una risorsa storica di questo territorio”. Roma: domani ministro Severino a presentazione indagine scientifica su recidiva Ansa, 25 settembre 2012 Qual è il rapporto tra carcere e recidiva? Quanto e in che misura i diversi tipi di espiazione della pena incidono sulla recidiva di ex detenuti, vale a dire la tendenza a ripetere atti criminosi? È l’obiettivo che si pone la ricerca scientifica che sarà condotta dall’Einaudi Institute for Economics Finance (Eief), dal Crime Research Economic Group (Creg) e dal Sole 24Ore, in collaborazione con il ministero della Giustizia. L’avvio dell’indagine, anche in prospettiva di una valutazione economica dei costi della recidiva, sarà presentato dal ministro della Giustizia Paola Severino e dal capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria Giovanni Tamburino nel corso di una conferenza stampa che si terrà domani alle 12, presso la sala Livatino del ministero della Giustizia. Parteciperanno anche gli autori della ricerca Daniele Terlizzese, direttore Eief, Giovanni Mastrobuoni, direttore CRG-Collegio Carlo Alberto, e Donatella Stasio, giornalista del Sole 24 Ore. Reggio: “Cinema dentro le mura”, presentato il progetto dell’Associazione E20 di Elda Musmeci www.strill.it, 25 settembre 2012 “Offrire alla comunità l’opportunità di svilupparsi e confrontarsi valorizzando l’appartenenza del territorio e l’intreccio delle diverse forme di espressione culturale all’interno di un’altra grande comunità a cui la cultura poco si riferisce, quella delle carceri” . Questo l’obiettivo e la speranza del progetto presentato questa mattina al Palazzo Storico della Provincia di Reggio Calabria “Cinema dentro le mura”. Il progetto nasce dalla collaborazione e dalla piena volontà dell’Associazione E20 e della Provincia di Reggio. Dopo il successo del docu film “Cesare deve morire”, premiato alla Berlinare con l’Orso d’Oro come miglior film, l’E20, di comune accordo con l’amministrazione provinciale, ha voluto organizzare delle proiezioni cinematografiche precedute da incontri dibattiti con autori, registi, attori all’interno di ogni carcere nel territorio reggino per offrire un’esperienza innovativa in grado di comunicare un messaggio fortemente sociale grazie anche alla presenza di alcuni attori protagonisti dello stesso film e di sensibilizzare i fruitori che saranno i detenuti. Già da diversi anni la provincia di Reggio Calabria è tornata ad essere il centro dell’attività creativa di tutto il territorio nazionale grazie ad iniziative culturali, spettacoli, eventi dedicati alle diverse discipline artistiche, rivalutazione degli spazi dedicati alla creatività su tutto il territorio. Da queste esigenze nasce la collaborazione con l’Associazione culturale “E20”, della quale fanno parte le principali realtà artistiche e produttive del panorama regionale che “portano in dote” professionalità, esperienza, capacità progettuale ed operativa e svolgono attività produttiva in ambito artistico e cinematografico, di formazione per i giovani e curano l’organizzazione e la promozione di eventi cinematografici e culturali sul territorio. Un ambizioso obiettivo, con una finalità riflessa direttamente sul sociale, sarà il filo conduttore che muoverà le azioni e le intenzioni di chi è coinvolto in questo grande progetto che verrà parzialmente girato all’interno di un carcere, diretto da un giovane regista, ed interpretato da attori locali e detenuti o ex detenuti. A presentare ufficialmente il progetto Michele Geria, produttore esecutivo e direttore organizzativo dell’evento, gli attori Salvatore Satriano e Maurilio Giaffreda, la sceneggiatrice Giovanna Taviani, Lorenzo Perpignani. Presenti in aula anche i direttori delle carceri di Reggio Calabria, la dottoressa Longo, di Locri la dottoressa Delfino e di Palmi il dottor Pani. A spiegare i contenuti del progetto “Cinema dentro le mura” è intervenuto Geria : “Si tratta di un programma articolato che ha un ambizioso obiettivo , che prevede la realizzazione di un cortometraggio parzialmente girato all’interno delle carceri reggine”. “Tra le molteplici difficoltà in cui si trova il sistema carcerario italiano - ha spiegato Geria, è necessario considerare che la privazione della libertà personale, bene primario per ogni essere umano, si declina con modalità ed effetti differenti se la persona in questione è una donna piuttosto che un uomo”. “La cultura - ha proseguito - è fondamentale in questo senso. Magari la sola lettura di un libro può cambiare la vita, come testimonia l’esperienza di Sasà Striano, tra i protagonisti di Gomorra ed ora fra i principali interpreti di Cesare deve morire dei fratelli Taviani”. Oggi i detenuti in Italia sono oltre 63mila; solo lo scorso anno 58 persone si sono tolte la vita all’interno di un carcere. L’idea del cortometraggio vuole sensibilizzare chi può costruire o realizzare una condizione migliore per tutti i detenuti che dovrebbero scontare la loro pena in ambienti per lo meno accettabili. È questo in concreto lo scopo di questo progetto sociale, per incrementare la sensibilità umana mediante un evento ben definito, migliorare le condizioni di pensiero di ogni individuo e sviluppare una cultura della comunicazione attraverso il cinema e l’arte e lanciare un messaggio forte e concreto. I prossimi appuntamenti di “Cinema dentro le mura” sono previsti domani mercoledì 26 settembre presso la Casa Circondariale di Locri, giovedì 27 settembre presso la Casa Circondariale di Palmi e venerdì 28 settembre presso la Casa Circondariale di Reggio Calabria. Enna: “Di là dal muro”, progetto di educazione alla legalità premiato al Quirinale La Sicilia, 25 settembre 2012 Alla cerimonia di inaugurazione dell’anno scolastico che si tiene oggi alle 17 a Roma nel cortile d’onore del palazzo del Quirinale, alla presenza del Presidente delle Repubblica Giorgio Napolitano e del Ministro dell’Istruzione Francesco Profumo, ci sarà un pezzo di Enna. Una delegazione del primo Circolo didattico “De Amicis” prenderà, infatti, parte all’evento nel corso del quale sarà presentato il progetto “Di là dal muro”, selezionato dagli esperti del Ministero quale esperienza particolarmente significativa relativamente alle tematiche dell’educazione alla legalità, della cittadinanza attiva e dell’intercultura. Destinata agli ospiti della casa circondariale di Enna e redatta dal Ctp (Centro territoriale per l’educazione permanente), la progettualità “Di là dal muro”, coordinata dal dirigente scolastico Maria Belato e realizzata attraverso la collaborazione della direttrice della Casa circondariale Letizia Bellelli, nasce per dar voce alla voglia di raccontarsi dei tanti detenuti che nelle vesti di interpreti del cortometraggio raccontano, in una sorta di catarsi, il proprio vissuto fuori e dentro i confini del carcere. Le storie personali sono al centro della sceneggiatura del film breve della durata di trenta di minuti, un estratto del quale, appena tre minuti, sarà proiettato durante la manifestazione a cui assisteranno circa tremila studenti provenienti da tutte le regioni italiane. In rappresentanza del De Amicis, interverranno il dirigente scolastico Maria Belato; le insegnanti di scuola carceraria referenti del progetto, Ida Ardica e Rosella Bonvissuto, il direttore dei servizi generali e amministrativi, Giuseppe Tomasello e la regista Tilde Di Dio. “Quella vissuta è stata un’esperienza estremamente interessante, sicuramente molto impegnativa, ma importante non solo dal punto di vista professionale ma anche personale ed umano - dichiara la regista Di Dio - non posso nascondere che ripenso spesso alle storie di quei ragazzi, quasi tutti giovanissimi, che hanno acconsentito di farmi entrare un po’ nella loro vita e, con una sincerità disarmante, mi hanno raccontato storie, pensieri, mi hanno parlato degli affetti più cari, delle persone che rappresentano la loro speranza, la forza per rendere un’esperienza così triste e dolorosa, un momento di riflessione e di cambiamento”. Prevalentemente di origine araba ed est europea, i giovani attori, la cui età media si attesta sui 25 anni, sono ArJan Wilhelm Verburg, Mohamed Taoufik Ben Haj, Neji Kebaier, Cristian Acatrinei, Abdel Ghani Dahamani, Domenico Cara, Soufienne Douiri, Giacomo Li Pani, Giuseppe Ruscica, Dimitar Miladinov, Mortala Benga, Felice Gebbia, Zvonko Lazic. Hanno, inoltre, collaborato: l’insegnante Maria Rita Bonina, gli agenti di polizia penitenziaria Salvatore Dello Spedale La Paglia e Gaetano Aiello; le riprese e il montaggio sono a cura di Marco Morgano. L’intera cerimonia romana viene trasmessa in diretta televisiva su Rai1, a partire dalle 16,50, durante la trasmissione “Tutti a scuola” condotta da Fabrizio Frizzi. Alessandra Leonora Nuoro: il boss si laurea in carcere, tesi premonitrice sul 41 bis di Chiara Spagnolo La Repubblica, 25 settembre 2012 Si è laureato a luglio in Giurisprudenza l’esponente della Scu salentina per il quale, dopo 23 anni di detenzione, la procura di Lecce sta per chiedere il ritorno a un regime di carcere duro. Nella sua tesi di laurea parlava dei diritti dei detenuti ai quali viene inflitto il 41 bis. Per la tesi di laurea ha scelto un argomento che conosce alla perfezione, “Compressione dei diritti fondamentali del detenuto, dai circuiti detentivi speciali di alta sicurezza al regime del 41 bis”: Marcello Dell’Anna da Nardò, 45enne con un passato nelle prime file della Scu, ha smesso i panni del criminale con cui è stato condannato all’ergastolo e vestito quelli dello studente modello. La laurea conseguita il 4 luglio, però, non gli è bastata per evitare l’ennesimo trasferimento e l’inizio di un duro braccio di ferro con il Dap che, poche settimane fa, dopo il ridimensionamento della sezione Alta sicurezza del carcere di Spoleto, ne ha disposto il passaggio al penitenziario di Badu e Carras. Una scelta che Dell’Anna vive come una punizione e rispetto alla quale ha già presentato ricorso al Tribunale di sorveglianza di Nuoro, convinto che il percorso virtuoso intrapreso nei 23 anni di detenzione (“testimoniato da un ineccepibile cammino rieducativo, di recupero e di riparazione” scrive in una lettera al blog “Urla dal silenzio”) avrebbe meritato ben altro trattamento. L’amministrazione penitenziaria, invece, ha scelto diversamente e a Dell’Anna non è rimasto che adire le vie legali, dividendo il suo tempo tra la stesura di una serie di ricorsi contro il trasferimento e la scrittura del suo terzo libro. Il boss ormai in pensione, infatti, ha il pallino della scrittura e dello studio. Quando è stato detenuto nel carcere di Novara si è iscritto alla scuola superiore, abbandonata nell’adolescenza per dedicarsi con successo alla carriera criminale, ha conseguito il diploma di ragioniere e poi ha deciso di proseguire gli studi universitari. La scelta della facoltà per lui è stata quasi obbligata: Giurisprudenza, prima a Milano, poi a Pisa dove si è laureato con il massimo dei voti. La tesi, manco a dirlo, l’ha dedicata ad un argomento che conosce alla perfezione: il 41 bis, a cui è stato sottoposto per molti anni, “per far comprendere la realtà della detenzione speciale in Italia”. Un tema che ha convinto i relatori e anche la Casa circondariale di Spoleto, che non ha fatto mancare a Dell’Anna un encomio, utile a sottolineare l’importanza del suo percorso di studio e riabilitazione. Per il giorno della laurea, inoltre, il 45enne salentino ha ottenuto 14 ore di permesso premio e, dopo la discussione della tesi nell’ateneo pisano, ha potuto festeggiare al ristorante con la famiglia l’ambito titolo di studio. Indossata la toga e tagliata la torta, immortalati gli attimi felici nelle immancabili foto ricordo, però, il sogno di essere un uomo comune è finito in fretta. Le ore di libertà si sono consumate rapidamente e Marcello Dell’Anna ha fatto rientro in carcere. Dopo pochi giorni, a Spoleto, lo ha raggiunto la notizia più temuta: il trasferimento a Nuoro, “lontano dal continente”, lontanissimo dalla sua Puglia, “un posto morto - scrive sul blog - punitivo quindi inconciliabile con la mia attuale condizione”. Un posto dal quale il “dottor” Dell’Anna vorrebbe andare via al più presto. Senza sapere che forse, nel futuro prossimo, la sua condizione potrebbe anche peggiorare ulteriormente. Perché la Dda di Lecce, come annunciato pochi giorni fa dal procuratore Cataldo Motta, si appresta a chiedere il rinnovo del 41 bis per molti esponenti della Scu a cui era stato inflitto anni fa e poi revocato, nella convinzione che l’alleggerimento delle condizioni detentive stiano consentendo ai sodalizi criminali salentini di riorganizzarsi anche dietro le sbarre. La lista degli ex criminali che secondo la Procura dovrebbero tornare al carcere duro è lunga. E tra i nomi potrebbe anche esserci quello di Marcello Dell’Anna, il boss laureato, che sogna di diventare scrittore. Trieste: una “cella in piazza” per i penalisti di tutta Italia riuniti a congresso Il Piccolo, 25 settembre 2012 Una cella riprodotta in piazza Unità per far conoscere alla gente il disagio dei reclusi e i problemi delle carceri italiane. Sarà questa una delle iniziative attivate in occasione del XIV congresso dei penalisti italiani che comincerà venerdì prossimo alla Stazione marittima con l’annunciato saluto del presidente del Senato Renato Schifani. All’assise, cui parteciperanno i più importanti e noti avvocati italiani che si occupano di penale, interverrà il ministro Paola Severino. L’occasione sarà quella di parlare della riforma forense, “importante perché gli avvocati sono tanti e si aspettano una legislazione che possa sottolineare e regolamentare il loro insostituibile ruolo”, come ha detto recentemente il Guardasigilli. Fitto il programma dei lavori che saranno presieduti dal presidente dell’Unione camere penali Valerio Spigarelli. Il congresso triestino avviene a pochi giorni dalle proteste degli avvocati. La ripresa delle udienze penali, dopo la tradizionale pausa estiva, è stata infatti caratterizzata quest’anno da un’astensione degli avvocati penalisti che si è conclusa lo scorso 21 settembre. Quattro sono i punti alla base del dissenso: la professione forense, la terzietà e la responsabilità del giudice, le intercettazioni e il problema carceri. Il comitato organizzatore locale è presieduto da Andrea Frassini; vicepresidente Maria Pia Maier, segretario Elisabetta Burla. Hanno assicurato la partecipazione Guido Alpa, Paola Balducci, Rita Bernardini, Filippo Berselli, Felice Casson, Manlio Contento, Giuseppe Di Noto, Carlo Leoni, Luigi Li Gotti, Andrea Mascherin, Andrea Orlando, Gaetano Quagliariello, Rodolfo Sabelli, Giorgio Spangher, Giuseppe Valentino e Andrea Zanon. Pordenone: Pino Roveredo tra i detenuti “mi bollarono come irrecuperabile” di Gian Paolo Polesini Messaggero Veneto, 25 settembre 2012 “Mi bollarono come irrecuperabile. Quella volta, in gattabuia. Una vita fa. Curioso, adesso sto firmando un mio libro al direttore del carcere. Li ho fregati tutti”. È un orgoglio che continua, ogni tanto si rimette in circolo, spingendo sempre più giù la storia vecchia. Che però serve a guarire qualcun altro. È la catena sana di Pino Roveredo, quel non dimenticare nonostante gli sia franato addosso un gran bel successo. Il tonfo nei Settanta, la “sete assurda”, la fabbrica, il Costanzo Show, il premio Campiello. Libri, libri, libri. L’ultimo, targato Bompiani, è una commovente lettera a chi lo generò, Mio padre votava Berlinguer, per sussurrare al pover’uomo uscito di scena trent’anni fa: “Vedi, ce l’ho fatta, sono diventato una brava persona come volevi tu”. E sempre per quel “non scordare”, Pino, con l’amico Paolo Rossi, un segno l’ha lasciato anche ai detenuti della casa circondariale di Pordenone, ha smosso loro la voglia di vomitare il non detto, il disagio, i cinque metri quadri su cui passeggiare assieme ad altri sei, mentre nessuno - là fuori - si cura di sollevare ai ragazzi la voglia di fare e di farsi ancora del male. “Il 75 per cento, appena esce - ricorda lo scrittore triestino, si rimette nei guai. C’è lo spazio per la redenzione, soprattutto in cella”. È stretto, quel posto. Due rampe di scale, corridoi scomodi e butti l’occhio dentro gli oblò con le sbarre e vedi letti, uno accanto all’altro, qualcuno abbandonato là sopra, altri a cercare dove andare. Un gruppetto confluisce nella sala incontri. Se ne andranno via tutti con Mio padre votava Berlinguer, autografato, omaggio della ditta Bompiani. Roveredo apre il cuore e confessa, ora “loro” sanno che ci è passato pure lui per il postaccio. Si sciolgono. Un senegalese chiede uno sguardo. Tremando, estrae dalla tasca un foglietto piegato. “Ho scritto qualcosa, posso?”. E butta fuori la sua storia di alcol e di una bambina che lo aspetta a casa. “Vai cosí - gli dice Rossi - devi farlo per te, non per chi ti leggerà”. Terapia. “Il libro mi ha salvato - ricorda Pino -, ne trovai uno sotto la branda. In isolamento. Un giallo. Mancava l’ultima pagina, non saprò mai come finiva, non ne ricordo il titolo. Ma lo centellinai, un pagina al giorno, avanti e indietro. Lo rinfilai sotto la branda, quando me ne andai. Servirà al prossimo”. Paolino “frequenta” il giro. Regala teatro a chi lo vuole: fa bene, scioglie tensioni, abitua a pensare, dà speranza, vuoi mai. “Me ne sono portati alcuni in tournée - dice -, abili macchinisti e tecnici luci. Gioventù stupenda, salvata”. E Rossi si mette in testa un’idea meravigliosa. “Verrò a vivere a Trieste, pur tenendo teso un filo con Milano - svela l’attore - e con la collaborazione del Css di Udine progetterò nuovi laboratori in carcere”. Applauso. Un piccolo morso a Mio padre votava Berlinguer. Roveredo limita la gittata dentro le pagine. “Mi piace che lo si scopra leggendolo”. Chissà che direbbe il babbo di Pino di questo mondo, se potesse planare quaggiù, anche solo per un minuto? “Forse ritornerebbe da dove è venuto. Ieri (sabato per chi legge, ndr) Franca Valeri l’ha detta giusta: “Vivendo questo presente non si può far altro che guardare al passato”“. Un lavoro doloroso il suo, smuovere il ricordo cupo di sezioni vitali angosciose. E la brusca risalita, l’abbraccio ai suoi, la sera della vittoria veneziana. Eccomi qui. Ho vinto. Sono la brava persona che volevate. “Persino Vespa ho abbracciato”, ricorda Pino. “Succede anche questo”, gli sorride Paolo Rossi. Droghe: Cassazione; “ingente quantità” è 2mila volte oltre soglia uso personale Il Sole 24 Ore, 25 settembre 2012 La Cassazione mette i paletti all’applicazione dell’aggravante dell’ingente quantità nei reati sul traffico illecito di stupefacenti. Le Sezioni unite penali, con sentenza n. 36258, depositata il 20 settembre, hanno risolto il contrasto in corso all’interno della stessa Cassazione, sulle modalità di determinazione del quantitativo necessario per l’inasprimento della pena. In discussione c’era l’utilizzo del criterio quantitativo con la predeterminazione di limiti per ogni tipo di sostanza oppure l’impiego di altri indici che, al di là di soglie quantitative prefissate, siano in grado di valutare il grado di pericolo per la sicurezza pubblica dalla possibilità di spaccio su larga scala. Le Sezioni unite hanno di fatto puntato su un intreccio dei due criteri, fissando il principio per cui “l’aggravante della ingente quantità di cui al comma 2 dell’articolo 80 del dpr 9 ottobre 1990, n. 309, non è di norma ravvisabile quando la quantità sia inferiore a 2.000 volte il valore massimo in milligrammi (valore soglia), determinato per ogni sostanza nella tabella allegata al dm 11 aprile 2006, ferma restando la discrezionale valutazione del giudice di merito, quando tale quantità sia superata”. La sentenza mette in evidenza come il carattere di eccezionalità che la quantità di sostanza stupefacente deve possedere va riferito alle dosi soglia, individuando “in 2.000 il limite al di sotto del quale non potrà essere di norma contestata l’aggravante dell’ingente quantità, atteso che a tale limite corrispondono, in linea di massima, i valori ponderali individuati come “medi”, (rectius: non eccezionali) dalla giurisprudenza di merito”. I valori prendono spunto anche dalla giurisprudenza della stessa Cassazione che ha avuto come riferimento le sostanze indicate nella tabella allegata al decreto ministeriale del 2006. Su un totale di 65 casi esaminati relativi alle droghe pesanti, in 21 occasioni sono stati eseguiti sequestri di quantitativi superiori ai 10 chilogrammi. La maggioranza relativa degli altri riguarda sequestri inferiori ai ai 2 chilo-grammi. Se al di sotto del limite l’aggravate non deve di norma essere contestata, non esiste un automatismo per cui, invece, debba esserlo se il limite è superato. Toccherà sempre al giudice valutare, di volta in volta, l’opportunità di arrivare a un inasprimento della pena. Messico: Ombudsman; “il 60% delle carceri sono autogestite dai detenuti” Reuters, 25 settembre 2012 In Messico il 60% delle carceri sono di fatto amministrate dai detenuti, che controllano perfino la vendita di droga e alcol al loro interno, con ottimi guadagni, secondo i risultati di un’inchiesta pubblicata dall’ombudsman del paese latinoamericano, Raul Plascencia. Le strutture in cui questa forma di autogestione carceraria è prevalente sono poco più di 50, principalmente nella capitale federale e negli stati di Messico (centro), Tamaulipas e Nuevo Leon (nord), Nayarit (ovest) e Oaxaca, Guerrero e Tabasco (sud), ha detto Plascencia, segnalando come particolarmente significativo il caso del carcere di Piedras Negras, nello stato di Coahuila (nord), da cui la settimana scorsa sono fuggiti 131 reclusi, probabilmente con l’aiuto dell’organizzazione criminale Los Zetas. Secondo il responsabile dell’inchiesta, a Piedras Negras i prigionieri disponevano liberamente delle chiavi per entrare nelle diverse aeree del carcere, il che ha reso possibile la maxi evasione in pieno giorno, per la quale sono attualmente sotto inchiesta vari funzionari penitenziari, fra i quali il direttore. Il rapporto rileva che attualmente ci sono circa 238 mila persone nelle carceri messicane a fronte di una capacità massima di poco meno di 190 mila persone, con un sovraffollamento medio del 25% Georgia: quando la tortura sui detenuti finisce in televisione di Riccardo Noury Corriere della Sera, 25 settembre 2012 E così anche la Georgia ha la sua piccola “Abu Ghraib”. Niente a che vedere, si spera (anche se le autorità giudiziarie del paese sono state sollecitate ad approfondire), con la dimensione e la sistematicità del sistema di tortura praticato dalle forze statunitensi in Iraq ed emerso nel 2004; ma qualcosa di simile per quanto riguarda lo scandalo prodotto dalla diffusione di riprese filmate di pestaggi e stupri di detenuti (di cui qui mostriamo solo una parte). La scorsa settimana, Maestro Tv e Canale 9 hanno mostrato a un pubblico attonito le immagini delle torture praticate un mese fa nella prigione n. 8 della capitale della Georgia, Tbilisi. Si vedono prigionieri picchiati da una quindicina di guardie carcerarie mentre altri sono in attesa del loro turno in una stanza adiacente. In un’altra sequenza, due prigionieri vengono sodomizzati con un bastone e un manico di scopa e la violenza continua nonostante urlino di farla cessare. Il 19 settembre il procuratore generale della Georgia, Murtaz Zodelava, ha comunicato l’avvenuto arresto di 10 persone, tra cui il vicecapo della direzione penitenziaria Gaga Mkurnalidze, il direttore della prigione n. 8 Davit Khutchua e il suo vice. Sull’onda dello scandalo, la ministra per la Giustizia e le carceri, Khatuna Kalmakhelidze, si è dimessa. Le due emittenti televisive hanno dichiarato di aver ricevuto il filmato da Vladimir Bedukadze, ex funzionario della direzione penitenziaria, che dall’estero ha accusato direttamente il ministro dell’Interno Bacho Akhalaia di aver ordinato le torture. Questa circostanza ha inizialmente spinto il governo a sostenere la tesi del complotto straniero e di torture ricostruite su un set cinematografico, allo scopo di danneggiare il paese in vista delle elezioni parlamentari del 1° ottobre. L’indignazione provocata dalle immagini e dalla goffa difesa del governo hanno spinto migliaia di cittadini in piazza e costretto il presidente Mikhail Saakašvili a promettere una profonda riforma del sistema penitenziario e dure condanne per i responsabili delle torture. Gli attivisti georgiani sostengono che quello che si è visto nelle immagini è solo la punta dell’iceberg. Oltre 20 organizzazioni non governative hanno denunciato l’assenza di indagini, nonostante 700 detenuti di un’altra prigione, la n. 15, avessero firmato una lettera di protesta. A dar loro ragione è arrivata una dichiarazione del Difensore civico della Georgia, Giorgi Tugoshi, che il 19 settembre ha parlato di “varie forme di trattamento improprio, disumano e degradante” praticate sistematicamente nella prigione n. 8. La dichiarazione cita anche le prigioni n. 2, n. 15 e n. 18, dove sono stati riscontrati casi simili a quelli rivelati nella prigione n. 8, e non solo ultimamente. Che il fenomeno della tortura nelle prigioni della Georgia sia strutturale, lo testimoniavano già nel 2005 un rapporto del Relatore speciale delle Nazioni Unite sulla tortura e sugli altri trattamenti o pene crudeli, disumani e degradanti, e l’anno dopo un altro rapporto del Comitato Onu contro la tortura. A quei rapporti, la Georgia replicò nel 2007 presentando un piano d’azione che aveva l’obiettivo di individuare misure concrete per prevenire i maltrattamenti e la tortura. Un piano, a quanto pare, del tutto inattuato. Arabia Saudita: protesta davanti a prigione per chiedere rilascio detenuti, decine arresti Ansa, 25 settembre 2012 Decine di persone sono state arrestate in Arabia Saudita dopo aver dato vita ad una manifestazione per chiedere il rilascio di detenuti in una prigione nella regione centrale di Al Qassim. La manifestazione aveva visto uomini, donne e bambini protestare contro “detenzioni illegali”. Le forze di sicurezza hanno arrestato 60 uomini e li hanno portati in una località sconosciuta. Nel regno saudita tutte le manifestazioni sono vietate.