Giustizia: gli uomini ombra che moriranno in carcere di Adriano Sofri La Repubblica, 24 settembre 2012 Vorrei cominciare da una domanda: voi sapete che cos’è un ergastolo ostativo? Non è un espediente retorico: io stesso, che mi picco di conoscere le faccende penitenziarie, ho appreso solo di recente che esiste, dal 1992, una cosa che si chiama ergastolo ostativo. In breve, vuol dire che per certi reati ritenuti di particolare gravità è esclusa senza riserve l’eventualità che la pena carceraria finisca, o si muti in pene, come si dice, alternative: niente permessi, niente lavoro esterno, niente riduzioni di pena per buona condotta - come si potrebbe ridurre una pena che si decreta senza fine? Quel genere di condanna all’ergastolo “osta” a qualsiasi modificazione, per quanto tempo passi e per quanto cambi la persona condannata. Se questa, come immagino, è per i più una notizia, lo è tanto più perché contraddice quel luogo comune così spesso e disinvoltamente ripetuto secondo cui “l’ergastolo in Italia non esiste”, “dopo un po’ di anni escono tutti”. Non escono, nemmeno per un’ora, fino al certificato di decesso. Non sono ancora morti e non sono più vivi: per loro non vale la consolazione che finché c’è vita c’è speranza. E guardate che non si tratta di un pugno di casi estremi, ma di centinaia: “Talmente invisibili - ha scritto l’Avvenire - che neanche al ministero della Giustizia sanno dire con esattezza quanti siano davvero gli ostativi”. Ho scritto sopra “esclusa senza riserve”: non è del tutto esatto. Perché giudicando dell’incostituzionalità di una pena che esclude a priori la rieducazione e la risocializzazione - dettate da lettera e spirito della Carta - la Corte costituzionale ha convalidato l’unica ipotesi che prevede di romperne il rigore mortale. È il caso in cui il condannato “collabori” con la giustizia facendo i nomi di altri colpevoli. Questa eccezione ribadisce il rovesciamento di senso per cui in Italia si chiamarono “pentiti” i collaboratori di giustizia, tramutando una categoria pratica, spesso utile e altrettanto spesso detestabile, in una categoria morale. Non solo l’assimilazione è indebita, ma può avvenire l’opposto: che un vero intimo e non esteriore pentimento vada assieme al rifiuto o all’impossibilità di denunciare altri. Altri che a loro volta possono aver cambiato vita per intero, sicché la denuncia varrebbe a mettere in galera al proprio posto qualcuno che non costituisce da anni e magari da decenni alcun pericolo per la società. Ma lasciamo pure che questo resti un dilemma delle coscienze e del loro segreto; subordinare l’”indulgenza” (uso questo termine perché ricorda l’altro, della simonia) alla delazione espone il condannato a mettere oltre che se stesso la propria famiglia, a distanza di venti o trenta anni - figli, figli dei figli - nella catastrofe della “protezione”, del cambiamento di identità, di luogo, di vita, nella paura. E infine - ma non è l’ultimo degli argomenti, al contrario - chi può escludere che fra quegli ergastolani “ostativi”, quegli “uomini ombra” come loro stessi hanno deciso di chiamarsi, ce ne siano che non hanno niente da confessare, nessuno da denunciare? Anche se si trattasse solo di una questione di principio, occorrerebbe tenerne gran conto, e del resto è uno degli argomenti (non il maggiore) invocato contro la pena di morte: il conto dei giustiziati e riabilitati negli Stati Uniti è lungo - altrove non c’è nemmeno il conto postumo. Ma bisogna piuttosto rassegnarsi a vederlo come una tragica questione di fatto. Siamo reduci, ancora reticenti, dalla scoperta che una montatura mostruosa aveva mandato in galera all’ergastolo, e ci sono rimaste diciott’anni, otto persone non colpevoli, che ci sarebbero restate con quella dicitura: “Fine pena 31 - 12 - 2999”. Ergastolani ostativi, per l’assassinio di Paolo Borsellino, salvo che non erano stati loro ad assassinare Borsellino. In Italia c’è da sempre una discussione sull’ergastolo. Se ne è richiesta l’abolizione come una pena disumana, vendicativa, negatrice della possibilità di riscatto e, per questo, negatrice della Costituzione. Quella discussione si è attutita, come tante altre, per il peso opprimente che la criminalità organizzata ha esercitato sul paese, e non smette di esercitare. Nelle polemiche di questi giorni si può misurare l’ambiguità spaventosa che avvelena ogni dubbio sul 41 bis, al di là del proposito indubbio di impedire ai criminali di continuare a far male anche dalla cella. Ma le ambiguità vanno sciolte nei loro elementi nitidi, per quanto è possibile. Don Luigi Ciotti, campione dell’impegno contro le mafie, scrive: “Giudicare insensato il carcere senza fine non è asserzione ideologica o radicalismo astratto, ma semplice constatazione”. Valerio Onida, a sua volta ex presidente della Corte costituzionale e uomo arricchito da una frequentazione volontaria del carcere, ha scritto a Carmelo Musumeci, ergastolano ostativo e rianimatore degli uomini ombra: “Non mi sembra giustificato escludere in ogni caso che, anche in assenza di collaborazione, possa ritenersi in concreto il ravvedimento del condannato. Mi auguro che la questione possa essere riproposta all’esame della Corte, o altrimenti risolta dal legislatore”. Segnalai qui in passato la lezione in cui il professor Aldo Moro diceva: “Un giudizio negativo, in linea di principio, deve essere dato non soltanto per la pena capitale… ma anche nei confronti della pena perpetua: l’ergastolo, che, priva com’è di qualsiasi speranza, di qualsiasi sollecitazione al pentimento ed al ritrovamento del soggetto, appare crudele e disumana non meno di quanto lo sia la pena di morte “. “Non meno”: pensiero che contrasta radicalmente con tutte le forme di ripudio della pena di morte che vogliono compensarlo con l’inflessibilità della reclusione a vita - argomento corrente soprattutto negli Stati Uniti. Continuava Moro: “Ed è, appunto, in corso nel nostro ordinamento una riforma che tende a sostituire a questo fatto agghiacciante della pena perpetua - (“non finirà mai, finirà con la tua vita questa pena!”) - una lunga detenzione, se volete, una lunghissima detenzione, ma che non abbia le caratteristiche veramente pesanti della pena perpetua che conduce ad identificare la vita del soggetto con la vita priva di libertà. Questo, capite, quanto sia psicologicamente crudele e disumano... Ci si può, anzi, domandare se non sia più crudele una pena che conserva in vita privando questa vita di tanta parte del suo contenuto, che non una pena che tronca, sia pure crudelmente, disumanamente, la vita del soggetto e lo libera, perlomeno, con il sacrificio della vita, di quella sofferenza quotidiana, di quella mancanza di rassegnazione o di quella rassegnazione che è uguale ad abbrutimento, che è la caratteristica della pena perpetua. Quando si dice pena perpetua si dice una cosa... umanamente non accettabile”. “Una lunga detenzione, lunghissima…”. Traggo dalla prefazione a una raccolta di scritti di ergastolani, Urla dal silenzio, questa informazione: “In Italia ci sono più di 100 ergastolani che hanno alle spalle più di 26 anni di detenzione, il limite previsto per accedere alla libertà condizionale. La metà di questi 100 ha addirittura superato i trent’anni di detenzione. Al 31 dicembre 2010 gli ergastolani in Italia erano 1.512: quadruplicati negli ultimi sedici anni, mentre la popolazione detenuta comune è solamente raddoppiata”. (Su “Ergastolo e democrazia” si terrà presso il Senato un importante convegno il prossimo 2 ottobre). Vorrei concludere provvisoriamente evocando la sentenza del tribunale norvegese che ha condannato Anders Breivik al massimo della pena prevista dal codice di quel Paese, 21 anni. Anche quei bravi norvegesi hanno dovuto amaramente sperimentare la sproporzione fra le loro leggi e lo spirito che le informa, e l’irruzione di un’infamia smisurata: e tuttavia hanno scelto la fedeltà a quello spirito. In Italia, molti hanno voluto commentare irridendolo. Hanno fatto il conto e intitolato il loro sdegno così: “Tre mesi per ognuno dei 77 ammazzati”. Mettiamo che fosse stato condannato, quel mostro, a 63 anni: il titolo “Nove mesi per ognuno dei 77 ammazzati” sarebbe stato meno sdegnato? Giustizia: il lavoro ai detenuti è un dovere di Pietro Calogero (Procuratore generale presso la Corte d’Appello di Venezia) La Nuova Venezia, 24 settembre 2012 È innegabile che tali problemi sono stati finora affrontati e gestiti dalla nostra classe dirigente e innanzi tutto dal ceto di governo come aspetti di una progettualità politica caratterizzata dalla “discrezionalità” delle iniziative volte alla loro soluzione (dal finanziamento del lavoro dei detenuti all’approntamento di misure utili a rendere umana e dignitosa la convivenza in cella) e ispirata a prospettive ora di tipo umanitario e assistenziale ora di stampo utilitaristico sul duplice versante economico e sociale. Che tali prospettive siano in sé rispettabili e degne di apprezzamento è fuori di dubbio, fungendo da stimolo di interventi legislativi e amministrativi che, favorendo il lavoro e decongestionando l’affollamento carcerario, finirebbero per avere, se realizzati, una ricaduta positiva in termini di abbattimento della pericolosità e della recidiva, di stabile e diffuso reinserimento sociale, di risparmio dei costi di mantenimento della residua massa dei reclusi, di rafforzamento della sicurezza collettiva. È doveroso tuttavia riconoscere che, oltre a non essere state finora seguite dagli auspicati interventi attuativi se non in parte davvero trascurabile, quelle prospettive sono tutt’altro che appropriate al quadro delle disposizioni e dei principi statuiti nel vigente ordinamento. In questo, infatti, i problemi del lavoro e del sovraffollamento carcerario si profilano, correttamente, non come momenti di discrezionalità politica, ma come contenuti di un “rapporto” in cui campeggiano, inseparabilmente, il “diritto del detenuto” a fruire dello strumento rieducativo per eccellenza, il lavoro, e di una dimora idonea e dignitosa e “l’obbligo dello Stato” di provvedervi. Trattasi di un rapporto giuridico in senso tecnico, la cui attuazione è non solo sottratta a scelte discrezionali di natura politica o umanitaria, ma è resa cogente da norme imperative ancorate a principi costituzionali. Tale è, in primo luogo, la norma dell’art.15 secondo comma dell’Ordinamento Penitenziario (“Ai fini del trattamento rieducativo, salvo casi di impossibilità, al condannato e all’internato è assicurato il lavoro”), che ha il suo fondamento, su un piano sovraordinato, nell’art.27 terzo comma della Costituzione (“Le pene.... devono tendere alla rieducazione del condannato”). Analoga è la struttura, poggiante anch’essa sulla relazione fra diritto soggettivo (del detenuto) e obbligo giuridico (dello Stato), che emerge dalla disposizione dell’art.1 Ord. Pen. (“Il trattamento penitenziario deve essere conforme a umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona”), che ha i suoi riferimenti valoriali nell’art.27 terzo comma della Costituzione (“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”) e nell’art.3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (“Nessuno può essere sottoposto.... a pene o trattamenti inumani o degradanti”). Vi è di più. Quelle del lavoro e del sovraffollamento in carcere non sono “questioni” ontologicamente e giuridicamente separabili dalle vicende della giurisdizione e della giustizia che comprendono, com’è noto, due grandi segmenti: il primo costituito dalla fase di cognizione (che comincia con le indagini preliminari e finisce con la pronuncia della sentenza definitiva di condanna); il secondo costituito dalla fase di esecuzione e di espiazione della pena. Nell’una e nell’altra fase la persona (dapprima indagata e condannata, poi soggetta a pena da espiare) è titolare di diritti (non di semplici aspettative o interessi legittimi) e, in quanto tale, si relaziona con l’organo statuale (pubblico ministero e giudice), che è a sua volta destinatario di obblighi (oltre che titolare di poteri) nei confronti della prima. Il primo fondamentale “diritto” della persona è quello a un processo giusto: un processo, cioè, che sia celebrato in tempo ragionevole davanti a un tribunale indipendente e imparziale, e che tuteli effettivamente i suoi diritti (artt.24 e 111 della Costituzione; art.6 della Convenzione europea). A tale diritto, che rientra fra i “diritti inviolabili dell’uomo” riconosciuti e garantiti dall’art. 2 della Costituzione, corrisponde “l’obbligo” dello Stato di amministrare, a mezzo dei suoi organi, la giustizia nelle forme e nei modi stabiliti dalla legge, nonché di assicurare la “durata ragionevole” del processo. Tutti i casi di denegata giustizia (dalle sentenze di prescrizione dei reati a quelle emesse in tempi irragionevoli) costituiscono pertanto violazione non di meri enunciati programmatici e discrezionali, ma di obblighi cogenti, fonte di responsabilità risarcitoria a beneficio dei privati titolari dei diritti offesi. Evidenti ragioni di coerenza sistematica impongono di riconoscere identica natura alle posizioni soggettive formanti la relazione fra detenuto e Stato nella fase di espiazione della pena: con la conseguenza che gli elementi fondamentali e tipici di tale fase (in primis, il lavoro come strumento essenziale del processo rieducativo e il trattamento penitenziario conforme al senso di umanità e rispettoso della dignità della persona) assumono i connotati e il valore di veri e propri diritti soggettivi (in capo al detenuto) e di veri e propri obblighi vincolanti (per i competenti poteri statali). Del resto, a queste stesse conclusioni è da tempo pervenuta la giurisprudenza della Corte di giustizia di Strasburgo, che ha ripetutamente condannato e, purtroppo, continua a condannare lo Stato italiano al risarcimento dei danni causati alle persone inquisite, per violazione del diritto a un processo di ragionevole durata, e alle persone in espiazione di pena, per violazione del diritto a un trattamento umano e non degradante. È auspicabile che anche la magistratura italiana, adita per la violazione degli stessi diritti, si conformi all’indirizzo della Corte europea, saldando il gap culturale che ne contrassegna attualmente le scelte interpretative. E, analogamente, che il nostro potere politico e legislativo prenda finalmente coscienza della necessità e dell’urgenza di por fine alle violazioni in atto nel mondo carcerario, varando senza indugio le iniziative e le misure da tempo “dovute” in adempimento di obblighi costituzionalmente sanciti. Giustizia: “piano carceri inefficiente”, l’Italia nel mirino dell’Unione europea di Sara Ficocelli La Repubblica, 24 settembre 2012 Sovraffollamento, condizioni igieniche precarie, personale sottorganico, detenuti con problemi di salute e tossicodipendenza: la situazione degli istituti penitenziari del nostro Paese è sempre più drammatica. E l’irragionevole durata dei processi aggiunge ingiustizia all’ingiustizia. Il Comitato dei ministri europeo dovrà riunirsi a breve anche per valutare la situazione complessiva della giustizia italiana L’Italia è lo Stato europeo con il maggior numero di condanne per violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo 1 (Cedu), preceduta in classifica solo dalla Turchia. Sono infatti oltre 2 mila le sentenze contro il nostro Paese emanate dalla Corte di Strasburgo sulla base della Convenzione istituita nel 1959. Tra le più frequenti motivazioni di condanna, l’irragionevole durata dei processi e le condizioni disumane in cui vivono i detenuti nelle nostre carceri, lontane anni luce dalla prigione-modello in cui la Norvegia ha rinchiuso il pluriomicida di Oslo Anders Behring Breivik. Le ragioni delle condanne. Per queste ragioni il Comitato dei ministri, l’organo decisionale del Consiglio d’Europa, responsabile del controllo dell’esecuzione delle sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, ha deciso di chiedere ai suoi componenti, i ministri degli Esteri dei 47 Paesi membri, di valutare quanto fatto finora dal Governo italiano per risolvere l’emergenza giustizia. A sollevare la questione i dati diffusi a Roma alcuni giorni fa dai Radicali Italiani, che denunciano l’inefficacia del cosiddetto Piano carceri e la “negazione dei diritti umani” (parole del segretario del partito, Mario Staderini) derivante dalle carenze del sistema giustizia. “Abbiamo fornito al Comitato dei Ministri le informazioni sulla reale situazione italiana, finora occultate dal Governo, e la documentazione che prova che il piano d’azione presentato dall’esecutivo non inciderà in alcun modo sulla sistematica violazione dei diritti umani a causa della bancarotta del sistema giustizia del nostro Paese”, ha detto Staderini. “Abbiamo le armi della nonviolenza e del diritto, del praticare diritto, rispetto a una Repubblica che aggrava la sua flagranza criminale rispetto alle sue leggi e alle più alte cariche istituzionali, fatta eccezione per il primo Presidente dalla Corte di Cassazione”, ha dichiarato il radicale Marco Pannella. I dati del ministero. Secondo i dati del Ministero della Giustizia, al 31 agosto i detenuti presenti nelle carceri italiane erano 66.271, a fronte di una capienza regolamentare di 45.568 posti. Tuttavia “sulla questione dei posti regolamentari, il Governo si comporta da “trecartaro” - ha denunciato Rita Bernardini - a causa della mancanza di fondi per la manutenzione ordinaria e straordinaria, intere zone negli istituti sono chiuse, transennate, ma restano nel computo della capienza regolamentare”. La deputata radicale poi ha fatto sapere che il ddl delega del governo in materia di depenalizzazione e decarcerizzazione, calendarizzato a marzo, oggi è ancora al palo: “La situazione è vergognosa e il fatto che lo Stato italiano agisca da criminale sembra essere un problema solo per noi radicali”. Il caso Rebibbia. Nel 2009 la Cedu ha condannato l’Italia rispetto al caso Sulejmanovic per violazione dell’articolo 3 della Convenzione, secondo il quale “Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o a trattamenti inumani o degradanti”. Ad essere considerato “tortura”, l’aver costretto un detenuto nel carcere romano di Rebibbia a condividere una cella di 16,20 mq con altre cinque persone. “Negli ultimi tempi la qualità di vita all’interno di Rebibbia Penale - ha detto il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni - è progressivamente calata non solo per il sovraffollamento, comune a tutte le strutture, ma anche per il discutibile metodo di assegnazione dei detenuti a questo istituto. Nella casa di reclusione, infatti, sono presenti numerosi detenuti con fine pena brevissimi e con una condotta penitenziaria non sempre regolare. Tutti elementi, questi, che hanno progressivamente minato quel clima di concordia e di fiducia, che qui ha sempre caratterizzato il rapporto fra detenuti e operatori penitenziari. Occorre ristabilire al più presto delle severe modalità di selezione per evitare che vada disperso quello che è un patrimonio di tutto il sistema penitenziario italiano”. Sentenze vincolanti. Le sentenze Cedu sono vincolanti nel senso che gli Stati firmatari si impegnano a darne esecuzione e la massima pena in caso di mancata ottemperanza potrebbe essere l’espulsione di uno Stato membro dal Consiglio: “Noi ci auguriamo - ha detto Deborah Cianfanelli, della direzione dei Radicali Italiani - che il Comitato dei ministri intervenga pesantemente sull’Italia”. Un giudice per i diritti fondamentali. Per rimuovere le cause strutturali della condanna europea, il Governo italiano ha presentato un piano d’azione, “tenendo nascosti - almeno secondo i radicali - i veri dati, e confutando l’adeguatezza delle scelte prese”. Il Piano prevede la costruzione di 11 nuove carceri (successivamente ridotte a 5) e di 20 padiglioni (ridotti a 17) per un totale di 11.573 posti. I lavori dovrebbero iniziare entro l’autunno del 2012, per un costo complessivo di 661 milioni di euro. Contro il sovraffollamento è prevista un’estensione del residuo di pena a 18 mesi per il passaggio ai domiciliari, e la custodia non in carcere nei casi di arresto in flagranza. Il Piano prevede anche l’istituzione della figura di un magistrato di sorveglianza per la tutela dei diritti fondamentali ma non fornisce nessuna indicazione in merito a esigenze sanitarie, lavoro e suicidi di detenuti e agenti penitenziari. La denuncia dei Radicali. “Di nessun carcere, né dei padiglioni, sono stati ancora avviati i lavori (salvo il disboscamento del terreno a Reggio Calabria). Tutti i progetti non sono stati ancora appaltati. Il Piano carceri non può essere risolutivo e ha tempi troppo lunghi. Finora sono stati consegnati soltanto 650 nuovi posti, altri 1.250 entro dicembre 2012 (la previsione parla di 3.800 nuovi posti a inizio 2014). Fondi disponibili: 40 milioni di euro”, fanno sapere i Radicali con un comunicato. Le misure alternative. Per quanto riguarda le misure alternative, argomento che procede lentamente in commissione Giustizia alla Camera, finora secondo i Radicali le scelte del Governo hanno portato a “risultati minimi, con una flessione dal 2010 pari a sole 1.987 unità”. Il partito co-fondato da Pannella nutre forti riserve anche sul magistrato di sorveglianza: “Il personale giudiziario - dicono i Radicali - è sottorganico e non in grado di soddisfare le richieste. Per non parlare del lavoro: solo il 20% dei detenuti ha un impiego, di cui solo il 3% fuori dal carcere. L’80% ha problemi di salute, uno su tre è tossicodipendente e ci sono stati 730 suicidi dal 2000, tasso 19 volte superiore alla popolazione libera”. Le sistematiche violazioni. Il Comitato dei ministri dovrà riunirsi a breve anche per valutare la situazione complessiva della giustizia italiana, con il rischio per il nostro Paese che Strasburgo (in questo caso la Cedu) emetta a breve una sentenza pilota per “denunciare” le carenze strutturali dell’Italia. Tra gli interventi richiesti al Comitato dai Radicali, l’accertamento della mancata esecuzione della sentenza da parte dell’Italia, l’adozione di provvedimenti da parte del Comitato Ministri, l’indicazione del provvedimento di amnistia quale unico rimedio urgente ed in grado di porre concretamente rimedio alla sistematica violazione di ogni basilare diritto dei detenuti, e l’indicazione del principio per cui, in caso di raggiungimento della capienza regolamentare delle carceri, l’esecuzione della pena è sospesa sino a quando non sarà disponibile un nuovo posto, analogamente a quanto stabilito di recente dalla Suprema Corte della Germania o quanto accade negli Stati del Nord Europa. Le norme più disattese. La Corte ricorre alle sentenze pilota quando deve far fronte a gravi problemi strutturali di uno dei Paesi membri. Il maggior numero di condanne subite dall’Italia riguarda infatti la violazione dell’art. 6 par. 1 della convenzione europea a causa dell’irragionevole durata dei procedimenti (oltre 2.000) e l’ultimo richiamo risale allo scorso 13 marzo, quando il Comitato dei Ministri ha rilevato che “la situazione concernente l’eccessiva durata dei processi e il malfunzionamento del rimedio esistente (legge Pinto) rimane estremamente preoccupante e richiede l’adozione urgente di misure su larga scala in grado di risolvere il problema”. Secondo il Comitato dei ministri, il funzionamento della giustizia italiana costituisce inoltre “un serio pericolo per il rispetto della supremazia della legge, perché comporta una negazione dei diritti sanciti dalla convenzione europea dei diritti umani e una minaccia seria per l’efficacia del sistema che sottende alla stessa convenzione”. Richiesto un piano d’azione. Alla luce di tutto questo, le autorità italiane sono state invitate “a presentare un piano d’azione che, oltre a proposte concrete su come risolvere la questione, contenga anche un calendario che permetta di monitorare attentamente gli effetti delle riforme già introdotte e la tempistica per le misure ancora da introdurre”. Il 19 settembre Nils Muiznieks, commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, pubblicando un rapporto basato sui dati raccolti nel corso della sua visita in Italia nel luglio scorso, ha detto che “l’eccessiva lunghezza dei processi è un problema di lunga durata in Italia, che si ripercuote sull’economia nazionale. È tempo di trovare soluzioni durevoli, che siano sostenute da tutti i soggetti interessati. In tempi di crisi economica questo dato dovrebbe essere un incentivo per trovare delle soluzioni atte ad invertire la rotta”. Giustizia: Severino; “pacchetto” riforme è quello previsto, ddl anticorruzione e carceri Adnkronos, 24 settembre 2012 Nel “pacchetto” di riforme sulla giustizia che il governo considera prioritarie c’è innanzitutto l’approvazione del Pdl corruzione e poi il tema delle carceri. Il ministro della Giustizia, Paola Severino, ha indicato così l’agenda dell’esecutivo rispondendo a una domanda dei cronisti che, a margine del saluto alle matricole della Luiss, le chiedevano di commentare le dichiarazioni del presidente del Consiglio, Mario Monti. Il pacchetto, ha ribadito il ministro, precisando di non volersi “rendere interprete del pensiero di Monti” è quello “presentato dal governo fin dall’inizio”. Innanzitutto, “la legge anticorruzione, fondamentale per il Paese, e che in ogni modo deve essere approvata entro la fine della legislatura”. Poi, il tema delle carceri. A questo proposito il ministro ha ricordato le norme, in discussione in commissione Giustizia alla Camera sulle misure alternative, “un completamento importante di quello che il governo ha pensato per deflazionare il carcere”. Il ministro ha poi ricordato altri progetti, tra i quali la digitalizzazione e, più in generale, norme che “attengono allo snellimento della giustizia civile”. Altri provvedimenti, ha sottolineato poi il ministro riferendosi al “trittico” indicato dal Pdl, che vorrebbe che il ddl anticorruzione procedesse di pari passo con intercettazioni e responsabilità civile dei giudici, “non sono ancora stati calendarizzati. Quando lo saranno siamo pronti a ragionarci”. Giustizia: allarme spaccio e tossicodipendenza in carcere, tra “vecchie” e “nuove” droghe Adnkronos, 24 settembre 2012 Fra vecchie e nuove droghe resta alto l’allarme tossicodipendenza in carcere. E i numeri parlano chiaro: sono oltre 91, dal gennaio di quest’anno, le operazioni antidroga compiute all’interno dei penitenziari italiani mentre la percentuale di tossicomani non accenna a diminuire, rimanendo stabile al 25% sul totale dei detenuti, come testimonia una ricerca del Dipartimento amministrazione penitenziaria (Dap). A crescere, dunque, è anche la varietà di stupefacenti: non solo le tradizionali cocaina, eroina, marijuana e hashish, fra le sbarre sono sempre più diffuse le nuove droghe sintetiche insieme a metodi alternativi per ottenere lo “sballo”. E gli spacciatori trovano sempre nuove idee per occultare le sostanze che non sempre agenti e nuclei cinofili riescono a individuare. Amfetamine e allucinogeni al pari di Lsd e Mdma vengono introdotti, spiega il Dap, sotto i francobolli, oppure attraverso cartoline che, imbevute delle polveri, le rilasciano una volta messe a mollo nell’acqua. Oltre al subutex - droga sintetica sostitutiva della cocaina - e allo skunk - un misto di marijuana e hashish, l’estrema ratio per i tossicodipendenti consiste nello sballo attraverso l’inalazione di piccole bombole a gas utilizzate per i fornelletti da cucina. “Fortunatamente - riferisce all’Adnkronos Luigi Pagano, vicecapo del Dap - non è alta la percentuale dei detenuti che utilizzano questi fornelli, anche perché il rischio è molto alto”. Inalare gas dalle bombolette per molti può essere - ed è stato - letale. “Le sostanze inalate - prosegue Pagano - si fissano sugli alveoli polmonari causando asfissia. Alcune di queste morti sono state classificate come suicidi ma sono spesso decessi involontari”. Per Donato Capece, segretario generale del Sindacato autonomo polizia penitenziaria, Sappe, una soluzione ci sarebbe: “Per limitare le inalazioni di questi gas, si dovrebbero realizzare spazi comuni in cui cucinare assieme ed evitare di consegnare i fornelletti ai soggetti più a rischio”. Il fenomeno è strutturale e nessun carcere ne è impermeabile”, sostiene Alessio Scandurra dell’associazione Antigone, convinto che “tanti tossicodipendenti in carcere nemmeno ci dovrebbero stare. Esistono istituti per curare la tossicodipendenza, e il carcere non è fra questi”. La droga non entra nelle carceri solo per “alleviare” le dipendenze. “Possederla - spiega Scandurra - significa esercitare potere sugli altri detenuti. È per questo che all’interno di logiche criminali perfino i parenti dei carcerati provano a consegnarla loro di nascosto”. I metodi sono i più disparati: detenuti che si scambiano le scarpe con il parente venuto a far visita, madri e mogli che nascondono la cocaina nei cibi preparati o addirittura nel pannolino del proprio bambino in fasce. “Non si può tappare ogni buco - continua Scandurra - anche perché quello che riesce a garantire il carcere è solo un trattamento a tempo di metadone a scalare”. L’antidoto alle crisi di astinenza, infatti, affronta il problema solo parzialmente “perché i percorsi di terapia e riabilitazione durerebbero anni e - aggiunge - sono previsti solo per chi riesce a dimostrare forte volontà e collaborazione”. Pur essendoci, secondo il vicecapo del Dap, Luigi Pagano, “buone operazioni di intelligence che sventano i tentativi di trafficare droga”, la carenza del personale nei penitenziari potrebbe peggiorare il problema. Gli fa eco Scandurra: “Rispetto a cinque anni fa, quando i detenuti erano circa 40mila e gli agenti un po’ di più, gli incidenti sono aumentati”. Per Capece “il taglio degli organici che prevede 4mila uomini in meno nei prossimi anni non può che essere controproducente”. “In carcere chi entra tossicodipendente continua a esserlo”, afferma don Sandro Spriano, cappellano del carcere romano di Rebibbia. “È normale che un mercato così diffuso all’esterno voglia mantenere i suoi “clienti” all’interno degli istituti penitenziari. Bisognerebbe agire alla radice del problema, partendo dalla società. È fantasioso aspettarsi che lo risolva il carcere”. Secondo don Spriano, non si sta facendo abbastanza per prevenire le dipendenze sia nelle scuole che tra gli immigrati. “Bisogna cambiare la legge Bossi-Fini perché riempie le carceri di persone che dovrebbero essere curate in altri luoghi più consoni”. Anche perché “qui c’è di tutto: arriva la droga tagliata male che è un vero e proprio veleno, mentre la disperazione - continua il cappellano - conduce i detenuti a morire di overdose dopo essersi fatti beveroni di pasticche con effetto immediato”. Giustizia: dalle carceri al Quirinale; le “irruzioni” di Pannella… un caso a Radio radicale Corriere della Sera, 24 settembre 2012 Un Pannella torrenziale e impetuoso, vibrante e zigzagante, quello che in questi giorni interviene a raffica su Radio Radicale, tra le ripetute interruzioni della diretta da Vasto del congresso di Italia dei valori e le conversazioni fiume con Massimo Bordin e Walter Vecellio. Un Pannella che provoca e lotta, da quel combattente che è, alla veneranda età di 82 anni. Attacca Antonio Di Pietro e Nichi Vendola, ma non risparmia San Pietro e il Quirinale. Il signor Hood, come cantava Francesco De Gregori, ha sempre un canestro di parole da riversare sugli ascoltatori, avvolti e avvinti dal suo labirinto verbale, ma talvolta irritati da tanta irruenza. Tanto che ieri su Twitter giravano messaggi tra l’allarmato e l’ironico. C’era chi avvertiva che “stanno succedendo cose pazzesche, Pannella chiama ogni 2 minuti, insultando la radio e chiunque”. Altri che scrivevano: “Irrompe, delirando di Kgb e Mosca come un Berlusconi d’antan”. Altri ancora che “per tre volte Pannella ha interrotto la diretta. Se ha voluto farmi capire che è il padrone della radio, c’è riuscito. È un comportamento violento, persino con una persona mite come Bordin”. Il quale risponde Su Twitter “Sicuramente non sono mite. È che mi arrabbio raramente e sempre per cose poco importanti. Per le cose serie conviene ragionare”. Saggezza bordiniana, interlocutore principe di Pannella, coprotagonista di epici duelli verbali, un po’ sparring partner e un po’ psicologo, un po’ spalla e un po’ orgoglioso alter ego intellettuale. Qualcuno non capisce, accusa Pannella di senilità. Ma se è follia, quella dell’anziano leader radicale, è lucida follia, battaglia politica. E così, gli attacchi a Di Pietro servono a rompere l’isolamento: “Caro Tonino, che ti vanti di avere invitato tutti. Sei un bugiardo, a noi non ci hai chiamato”. La sfida al capo dello Stato, violentissima, serve a ottenere un messaggio alle Camere per l’amnistia. Il discorso di tre giorni fa, depurato dal turpiloquio vibrante, rende l’idea della passione: “Se non sono i radicali, chi si occupa più degli ultimi? Le nostre catacombe sono le carceri immonde, dove la gente si ammazza, dove le guardie si uccidono. Ma non sono operai della Fiat e Landini se ne frega”. E ancora, contro “il caro compagno presidente, comunista”: “Quello che accade ha lo stampo teorico di una shoah. Tocca gli ultimi, i poveracci di 26 nazioni diverse, seppelliti in una flagranza criminale”. Giustizia: Osapp; Dap vicino al tracollo finanziario, per i debiti e per la spending review Ristretti Orizzonti, 24 settembre 2012 “Mai come in questo momento, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) è stato così vicino al completo tracollo finanziario”. È quanto si legge in una nota dell’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria) e a firma del segretario generale Leo Beneduci. Secondo il sindacato: “non solo nel corrente anno gli enti centrali e periferici del Dap, per non più di 120 milioni di euro disponibili, hanno accumulato oltre 150 milioni di euro di debito su utenze, locazioni e manutenzioni dei locali e automezzi ma, attraverso la spending review, si vorrebbero sottrarre ulteriori 50 milioni di euro a quel poco che resta di un bilancio drammaticamente ridotto nel tempo”. “Il problema del Dap - prosegue l’Osapp - è che da più di un decennio a capo dell’Amministrazione si sono sempre succedute figure anche di prestigio, ma con scarsa influenza nei riguardi dei relativi Ministri che, a loro volta, non esclusa l’attuale Ministro della Giustizia Severino, hanno considerato nei fatti la realtà e le esigenze penitenziarie come qualcosa di alieno e, comunque, di non necessario ed utile nella generale economia del sistema giustizia”. “A tale condizione di estremo svantaggio del Dap rispetto alle altre pubbliche amministrazioni dello Stato sarebbero da attribuirsi gli ingentissimi tagli di bilancio degli anni passati, su tutto ciò che non riguardasse direttamente il personale o la popolazione detenuta”. “Forse la Guardasigilli Severino non ne è a conoscenza - indica ancora il leader dell’Osapp - ma l’80% dei mezzi per il trasporto dei detenuti è fermo per mancanza di revisioni e collaudi, tanto da comportare il pressoché blocco delle traduzioni dei reclusi e dei servizi di notifica, mentre le caserme e i locali adibiti al personale a stretto contatto con la popolazione detenuta stanno cadendo in pezzi in ogni carcere sul territorio”. “Forse e come avevamo già preannunciato - conclude Beneduci - più che di estraneità politica, il gioco a cui come tutori dell’ordine e come cittadini non ci presteremo assolutamente, riguarda veramente il tentativo di indurre la chiusura del Dap e lo smembramento della Polizia penitenziaria per inedia, in favore di qualcosa di notevolmente peggiore e non disinteressato come, a suo tempo, si era tentato con la vecchia Dike Aedifica”. Giustizia: Meloni (ass. Clemenza e Dignità); troppo silenzio su emergenza delle carceri www.clandestinoweb.com, 24 settembre 2012 Carceri, quel mondo silenzioso del quale nessuno parla. Un mondo chiuso dentro le sue problematiche divenute emergenza senza che chi di dovere se ne curi veramente fino in fondo. La denuncia arriva da Giuseppe Maria Meloni, presidente del Movimento “Clemenza e dignità”. “Il silenzio che sta avvolgendo nuovamente il mondo delle carceri, preoccupa enormemente - denuncia Meloni - Si dice che attualmente non sussista un ampio consenso circa un provvedimento di clemenza, ma evidentemente non si è compreso bene e sino in fondo l’oggetto della problematica, non si è compreso bene e sino in fondo cosa vi è in gioco”. “Non stiamo vertendo - sottolinea ancora il presidente di Clemenza e Dignità - di un atto di compassione e di pietà, non stiamo vertendo di un privilegio, di una particolare attenzione nei riguardi di una categoria di persone, non stiamo vertendo realisticamente neanche di un atto di perdono. Gli uomini possono perdonare, lo Stato - spiega - che è una persona giuridica non ha veramente questa facoltà”. “Stiamo vertendo - osserva - di una abnorme violazione di diritti costituzionali, stiamo vertendo di una diffusa violazione dei diritti dell’uomo. Stiamo, quindi, vertendo di diritti, quali la vita, la salute, la dignità della persona umana, che anche se non trovassero alcuna collocazione nel nostro sistema normativo, sarebbero ugualmente previsti nel sistema fondamentalmente naturale dell’uomo e della società. Ecco - conclude Meloni - tramite questo silenzio, tramite questi continui rinvii nella trattazione della problematica, non solo non stiamo sospendendo la tragedia, ma stiamo umiliando e rifiutando proprio il patrimonio genetico del diritto dell’intera umanità, il nostro Dna: il diritto a cui ci verrebbe naturale pensare anche se non fosse scritto e previsto in alcun testo legislativo.” Giustizia: caso Cucchi; nuove radiografie, è scontro sulle prove del depistaggio di Stefano Sofi Il Messaggero, 24 settembre 2012 Le lastre ritrovate in agosto all’ospedale di Marino. La sorella Ilaria: finalmente possiamo ricostruire la verità. “Possibile che nessuno se ne sia accorto prima? Quella parte di osso è stata sottoposta a decine di indagini e non è mai emerso nulla di diverso da quanto si è sempre sostenuto”. La domanda che si pone l’avvocato Fabio Perugini, difensore di alcuni degli imputati per la morte di Stefano Cucchi, è paradossalmente la stessa che assilla i famigliari del giovane romano arrestato il 15 ottobre del 2009 e morto in carcere sei giorni dopo. “Avremmo risparmiato tempo, evitato tante polemiche e forse anche la superperizia disposta dal pm sarebbe stata inutile” dice Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano che si sta battendo come una leonessa per ottenere la verità. Le radiografie pubblicate ieri su questo giornale dimostrano la presenza di una seconda frattura sulla colonna vertebrale di Stefano e in queste ore stanno sparigliando le carte. “Hanno messo in campo l’artiglieria pesante” ironizza l’avvocato Perugini. “È un’ulteriore prova che il pestaggio c’è stato eccome” replica l’avvocato Fabio Anselmo, legale dei Cucchi. La nuova lesione che viene evidenziata dalle lastre ora a disposizione degli esperti incaricati dalla Procura, si trova alla stessa altezza della colonna (L3) ma sul lato opposto della frattura sulla quale finora i periti si sono dati battaglia. È molto più recente dell’altra che è datata 13 novembre 2003 provocata da una rovinosa caduta del giovane geometra. Sebbene le cause della morte di Stefano siano state individuate in un’altra, ben più grave frattura al bacino, la datazione della seconda lesione che emerge da quelle lastre, allontana ancora di più le posizioni di accusa e difesa. “A differenza di quella rilevata nel 2003 che era interna, questa non solo è più recente ma è esterna e quindi più che compatibile con il pestaggio. Una frattura da colpo diretto” afferma l’avvocato Fabio Anselmo. “Non c’è una seconda lesione - ribatte l’avvocato Diego Perugini - altrimenti sarebbe stata rilevata nelle decine di analisi che sono state fatte e sulla datazione dell’unica frattura certa non ci sono dubbi, risale al 2003”. “Negligenza dei medici” sostengono i periti della Procura. Ma tra le altre accuse per la morte di Cucchi, ad alcuni degli imputati (sei medici, tre infermieri e tre agenti di polizia penitenziaria) viene contestato anche il reato di lesioni lievi. Accertare se ci sia stato il pestaggio e di quale entità non è un aspetto secondario. “Un trauma diretto e recente alla vertebra” sostengono del resto i superperiti nominati dalla III Corte d’Assise che stanno valutando le cause della morte di Stefano Cucchi. Queste nuove radiografie a loro disposizione potrebbero costituirne la prova definitiva? Ma da dove saltano fuori queste nuove lastre e come mai non sono state trovate prima? “Mi sento di dover ringraziare il pm per aver disposto queste ulteriori ricerche, ora finalmente siamo in grado di ricostruire la situazione” dice Ilaria Cucchi. Le radiografie sono infatti il frutto di una disposizione del pm del 13 agosto scorso: sono state trovate negli archivi dell’ospedale di Marino. “Ma a noi, il pm le ha rifiutate - spiega la sorella di Stefano - così come finora ci è stato impossibile ottenere la trascrizione di quanto affermò il nostro legale durante l’udienza preliminare quando chiese che venissero cambiati i capi di imputazione e la trascrizione delle telefonate alla centrale operativa del 112 nella notte dell’arresto di Stefano”. Polemiche a parte, i tempi della superperizia - la cui consegna era inizialmente prevista per il 19 settembre - si allungano. Secondo indiscrezioni, i periti intenderebbero ripartire da zero nell’esame dei reperti e della documentazione. Se da una parte la verità sulla tragica morte di Stefano Cucchi è ancora lontana forse con il ritrovamento di queste radiografie qualche passo in più potrebbe essere stato fatto. Campania: Sappe; al carcere di Secondigliano mezzi Polizia penitenziaria bloccati Ristretti Orizzonti, 24 settembre 2012 A rischio processi e udienze. Sequestrato pullman coinvolto in incidente: era senza collaudo. Ha “colpito nel segno” la denuncia del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria sulla fatiscenza di molti dei mezzi in uso al Corpo di Polizia Penitenziaria, destinati al trasporto di agenti e detenuti ed in circolazione sulle strade del Paese nonostante il loro cattivo stato d’uso e, per taluni, persino del tagliando di controllo ed affidabilità rinnovato. “È notizia di oggi che dopo la nostra pubblica denuncia il Provveditorato regionale dell’Amministrazione Penitenziaria di Napoli ha disposto il fermo di tutti i mezzi non idonei. E questo vuol dire che quasi il 90 per cento degli automezzi destinati al trasporto dei detenuti di Napoli Secondigliano resterà fermo e, conseguentemente, salteranno udienze e processi perché i detenuti non potranno parteciparvi. Non a caso, un mezzo del Corpo coinvolto qualche settimana fa in un incidente stradale a Palermo è stato sequestrato perché era senza collaudo”. Lo comunica Donato Capece, segretario generale del Sappe, il primo e più rappresentativo Sindacato dei Baschi Azzurri. Capece ricorda che nei giorni scorsi il Sappe aveva sollevato “il serio e fondato rischio che dal prossimo ottobre la Polizia Penitenziaria non sia più in grado di assicurare il servizio istituzionale del trasporto dei detenuti (le cosiddette “traduzioni”). Abbiamo in tutta Italia centinaia di automezzi del Corpo (più di 80 nel solo carcere di Napoli Secondigliano) fermi in attesa di riparazioni che non possono essere eseguite perché mancano i soldi, tanto che è lo stesso Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria a comunicarlo ufficialmente nelle note di risposta alle lettere delle Direzioni delle carceri che chiedono, appunto, fondi per le riparazioni”. Non solo, conclude il segretario del Sappe: “tanti mezzi hanno oltre 300, 400 e persino 500mila chilometri e persino procedure obbligatorie di sicurezza, come i periodici collaudi, non vengono osservate proprio perché non ci sono soldi. È una situazione catastrofica: questo deve fare seriamente riflettere sui gravi rischi che le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria quotidianamente affrontano nel trasportare i detenuti”. E in Campania questo rischio è già una tragica realtà Venezia: Tamburino (Dap) e Casson (Pd) “dignità e legalità, con il lavoro per i detenuti” La Nuova Venezia, 24 settembre 2012 Nessuno ha dubbi e perplessità: il lavoro all’interno del carcere, o comunque la possibilità per i detenuti di lavorare all’esterno, abbatte la recidiva, cioè il rischio che chi sconta la pena e viene liberato in galera ci torni nuovamente. Lo dice l’esperienza degli operatori, ma anche le statistiche: tra i detenuti che non hanno lavorato durante la carcerazione il 70 per cento torna in carcere, tra quelli che hanno lavorato e hanno imparato un mestiere crolla al 5 per cento. E sabato, a Sacca Fisola, in occasione del compleanno della cooperativa “Il Cerchio”, che compie quindici anni di attività, il direttore del Dipartimento amministrazione penitenziaria Giovanni Tamburino ha spiegato che su 66 mila detenuti il 13 - 15 per cento lavora e di questi solamente 900 compiono “un lavoro competitivo, davvero libero, che non sia semplicemente assistenziale, che serva cioè al carcere” per usare le parole della direttrice della casa di reclusione della Giudecca Gabriella Straffi. E la cooperativa Il Cerchio ha dato una grande mano in questi 15 anni a introdurre laboratori in carcere e a far lavorare i detenuti o gli ex all’esterno. Al suo cocciuto e coraggioso fondatore e presidente Gianni Trevisan giustamente piace citare le cifre: sono 1032 le persone aiutate e sostenute, di cui 750 condannati . Dei 160 attuali 30 sono ex detenuti e 54 sono condannati in misura alternativa e tra loro il 15 per cento sono extracomunitari. Ieri, Tamburino ha ribadito che “non c’è dignità senza lavoro e non c’è recupero della legalità senza lavoro”. Ha parlato della carenza di risorse e del protocollo firmato dal suo ufficio con l’Associazione dei comuni italiani per fare in modo che una media di 10 detenuti per ognuno dei 200 carceri italiani possa essere impiegato in lavori “di comune utilità” dalle duecento amministrazioni municipali che gestiscono il territorio dove si trovano le galere. Prima di lui il senatore Pd Felice Casson ha ribadito che non è costruendo nuove carceri, tra l’altro visti i tempi necessari e soprattutto la carenza di fondi, che si affronta il sovraffollamento nelle celle, ma abrogando alcune leggi dei governi di centro destra, come la Bossi - Fini sull’immigrazione clandestina, la Giovanardi - Fini sul traffico di droga, depenalizzando alcuni reati e aumentando le misure alternative al carcere. Provvedimenti che il governo Monti, che sulla giustizia ha potuto fare davvero poco così come sul carcere, non può certo portare avanti visto che il centro - destra e il centro - sinistra hanno visioni contrapposte su tutto questo. Reggio Emilia: chiude l’Opg, ma struttura regionale per pazienti psichiatrici resterà in città Dire, 24 settembre 2012 Ci sono due novità nella partita del superamento degli Ospedali psichiatrico giudiziari (Opg), che la legge numero 9 del febbraio scorso impone di chiudere entro marzo 2013. La prima è che la nuova struttura sanitaria che sostituirà l’Opg di Reggio Emilia accogliendo i pazienti di tutta la regione, sarà aperta sempre nella città del Tricolore. La seconda è che, nonostante i finanziamenti statali stanziati siano “adeguati” e pronti all’uso, il termine previsto dalla normativa sarà difficilmente rispettato. Lo ha reso noto oggi l’assessore regionale alla Sanità Carlo Lusenti, intervenendo ad un convegno a Reggio, organizzato nell’ambito della settima edizione della “Settimana della salute mentale”. “Dove si farà la struttura mi sembra una discussione conclusa: si fa dove si forniscono servizi efficienti. Ho già parlato col sindaco di Reggio (Graziano Delrio) per trovare un’area”, dice Lusenti. L’assessore regionale motiva la proposta citando i risultati positivi raggiunti dall’ospedale reggiano (accorpato al carcere) dove “ero convinto di trovare una situazione simile a quella di due anni fa - dice Lusenti - invece nel bacino reggiano sono stati fatti significativi passi in avanti per la tutela della salute mentale e fisica dei detenuti come l’aumento dei professionisti da 43 a 73, l’apertura delle celle in orario diurno in quattro reparti su cinque e la predisposizione di strumenti per l’incentivo alle dimissioni”. C’è un numero poi che più di altri sembra indicare Reggio come la sede ottimale per la nuova struttura, che avrà un fabbisogno stimato di 40 posti. Dal 2010 al 2011 infatti, i pazienti sono scesi da 225 a 84, dei quali solo 28 emiliano - romagnoli contro gli 86 dell’anno precedente. Quindi, spiega Lusenti, “se oggi dovessimo entrare a regime lo faremmo senza difficoltà”. Quanto alle risorse, l’assessore spiega che sono “sufficienti, quantitativamente adeguate”. Inoltre, su pressione delle Regioni, il Governo ha acconsentito a una deroga rispetto ai normali meccanismi di erogazione nella sanità seguendo i quali le nuove strutture non sarebbero state pronte prima di tre anni. E tuttavia, dice Lusenti, “vorrei che fossimo i primi a fare le strutture per superare gli Opg, ma pensare che saranno pronte tra sei mesi mi sembra una utopia positiva, per quanto condivisibile”. Se i tempi sono stretti si è però già a buon punto: nella prossima conferenza Stato Regioni verrà approvato il “decreto sui requisiti”, mentre la Regione ha già presentato al ministero un progetto per uno studio di fattibilità, il cui termine era il 15 settembre. La responsabile del servizio di salute mentale della Regione Mila Ferri spiega infatti: “Abbiamo già presentato al ministero il progetto perché c’era una scadenza entro il 15 settembre per la presentazione di uno studio di fattibilità di queste strutture. Quindi abbiamo un progetto che naturalmente è sia di tipo strutturale sia soprattutto organizzativo. Noi pensiamo a superare gli Opg attraverso la presa in carico dei nostri residenti emiliano - romagnoli e stimiamo un fabbisogno di 40 posti perché oggi in Opg siamo a 28 emiliano - romagnoli, più qualche persona senza fissa dimora, più le donne a Castiglione delle Stiviere, quindi il nostro fabbisogno è questo suddiviso in due strutture: una più intensiva per l’accoglienza, l’altra più riabilitativa”. Insomma, conlcude Ferri, “siamo a buon punto, certamente è ipotetico immaginare che a marzo 2013 sarà pronta la struttura, ma questo vale per tutta Italia. L’importante è essere partiti con il percorso progettuale avviato”. Rispetto alla situazione nazionale Lusenti evidenzia però un rischio derivante dal fatto che “dobbiamo realizzare 21 strutture in 21 regioni, la maggior parte delle quali non sa cos’è un Opg e non ha uniformato i suoi servizi per questo tipo di pazienti, anzi in alcuni casi non ha servizi decenti”. La preoccupazione dell’assessore è quindi che in Emilia - Romagna continuino ad arrivare lo stesso i pazienti “storici” dalla Lombardia, ma che vengano accolti in strutture diverse creando una disparità di trattamento. “La Lombardia ha 240 pazienti, se non riuscirà creare i servizi adeguati, il rischio che io vedo è che avremo una sorta di doppio regime: una struttura nuova per gli emiliano - romagnoli, e una struttura vecchia e residuale per gli altri. Sarebbe un passo indietro mostruoso”. Napoli: Camera Penale; protesta dei detenuti… vivere in quei posti è una tortura Giornale di Napoli, 24 settembre 2012 Si è sempre affermato che il grado di civiltà di una Nazione si misura anche dalla civiltà e dalla vivibilità delle carceri. Di questa scuola di pensiero è anche l’avvocato Domenico Ciruzzi, Presidente della Camera Penale di Napoli che con l’associazione “Il carcere possibile onlus”, ha dichiarato la sua solidarietà e il suo sostegno nei confronti dei detenuti del carcere di Poggioreale che in questi giorni stanno portando avanti una protesta pacifica per la mancata discussione in Parlamento della riforma del sistema carcerario. Avvocato Ciruzzi, perché è necessario sposare la causa dei detenuti della casa circondariale di Poggioreale? “Il nostro appoggio è un segnale importante per evidenziare la grandissima ipocrisia in materia di legalità. Tutte le istituzioni, dal Presidente della Repubblica al Sommo Pontefice, si sono espresse in materia, ma fio ad ora nulla di concreto è stato fatto. Non c’è legalità in questa forma di detenzione e manca del tutto la funzione rieducativa della pena”. Quali sono le possibili misure alternative applicabili in sostituzione alla detenzione carceraria? “Prima di tutto c’è da dire che io, in questo momento storico, concordo con l’amnistia, per la quale i Radicali si stanno battendo da tempo. È necessario risistemare questa situazione di torto nei confronti di chi sta scontando una pena in queste condizioni. Poi esistono molte forme alternative alla carcerazione, cominciare dalla detenzione domiciliare. A seconda del reato si potrebbero applicare misure diverse come la messa alla prova, che sta ottenendo ottimi risultati positivi, c’è la riparazione, i lavori socialmente utili, le soluzioni sono tante, ma il carcere utilizzato così è solo fucina di nuova delinquenza. In queste condizioni chiunque peggiorerebbe, a causa dei tagli si sono eliminate figure molto importanti dalle carceri, quelle degli operatori sociali, facendo cadere la funzione rieducativa della pena”. Quali sono i reati per i quali si potrebbe prevedere una pena alternativa al carcere? ((Molte pene sono spropositate, sono addirittura feroci e, al contrario di quello che si pensa, le pene italiane sono le più alte in Europa. Ad esempio la legislazione sulla droga è davvero fuori misura. Noi abbiamo delle leggi liberticide che privilegiano la funzione securitaria, tralasciando la rieducazione. Perciò, io credo che il carcere debba essere l’estrema ratio e potrebbe essere evitato in casi di carcerazione preventiva, per reati che non abbiano una pericolosità sociale, per l’utilizzo di droghe e per gli incensurati”. L’Iniziativa Fate Presto, promossa a marzo, ha evidenziato una situazione tragica nelle carceri.. “Il carcere è una tortura che spinge al suicidio e avverto come dovere intellettuale la denuncia di questa situazione”. Napoli: Camera Penale; protesta dei detenuti… il ministro aveva fatto promessa a tutti Giornale di Napoli, 24 settembre 2012 Alla luce degli avvenimenti di questi giorni, della rinuncia dei detenuti della Casa circondariale dì Poggioreale al vitto e alle due ore d’aria, in segno di protesta per la mancata discussione in aula del disegno di legge sulle misure alternative al carcere, è intervenuto sull’argomento l’Avvocato Riccardo Polidoro, Presidente dell’associazione “Il Carcere Possibile Onlus”. L’associazione che lei presiede ha espresso solidarietà nei confronti dei detenuti del carcere di Poggioreale, vuole spiegare le motivazioni della protesta? “Durante l’estate il Ministro Severino è andata in giro per le carceri italiane, promettendo ai detenuti una riforma in tempi brevi, ma l’approdo in aula è stato rinviato a data da destinarsi perché la Commissione Giustizia non aveva ancora completato l’esame del provvedimento. Cosa che reputo assurda. Perciò abbiamo espresso la nostra solidarietà ai detenuti. Loro sono soli, non hanno un sindacato che li tuteli, così noi gli diamo voce”. Quali sono le misure da prendere per rivedere i sistema detentivo italiano? “Un detenuto rieducato non torna a delinquere. H carcere, infatti, deve essere l’ultima soluzione. Applicando misure alternative la possibilità di tornare a delinquere è minore. In realtà il carcere dovrebbe restituire alla società civile una persona migliore, rieducata, ma per le condizioni in cui i detenuti scontano la loro pena è impossibile. Le celle sono sovraffollate, a Poggioreale ci sono fino a 12 detenuti per cella, non riescono nemmeno a stare in piedi tutti insieme e per dormire fanno i turni sui letti a castello. Questo modello detentivo non è solo punitivo, ma è illegale”. Ci sono modelli, magari di Paesi esteri, a cui poter guardare per mettere in atto una riforma carceraria che dia la possibilità di rieducare il detenuto? “Ad esempio in Scandinavia ci sono le liste d’attesa. Se il carcere è affollato, si aspetta prima di inserire nuovi elementi. Comunque non credo sia necessario ispirarsi altrove. In Italia c’è un ottimo ordinamento penitenziario che però non viene rispettato, basterebbe applicarlo”. Milano: a San Vittore… noi agenti che viviamo come reclusi di Fabio Massa Affari Italiani, 24 settembre 2012 Dopo l’intervento del consigliere regionale Udc Marcora e la risposta negativa di Sel, sul tema dello spostamento di San Vittore sceglie di intervenire Rino Raguso, segretario regionale dell’Osapp, il sindacato delle guardie carcerarie. Ad Affaritaliani Raguso lancia uno j’accuse fortissimo contro la politica, raccontando delle condizioni di vita spaventose: “I reclusi siamo noi guardie. Viviamo nella paura e nel pericolo, nelle celle dell’ex minorile. Occorre realizzare una nuova struttura. I detenuti sono in condizioni disumane, a volte senza acqua. Il rischio di epidemie è molto più alto che in altri posti. Così come il rischio di rivolte e violenze. La lite tra Sel e Marcora? Invito gli amici di Sel a conoscere più da vicino i problemi, così come ha fatto il consigliere dell’Udc”. Segretario Raguso, l’Udc vorrebbe spostare San Vittore, mentre Sel vuole mantenerlo al centro della città. Lei che cosa ne pensa? Io lavoro a San Vittore da 12 anni. Sono funzionario di Polizia e sono il segretario del sindacato maggiormente rappresentativo in Lombardia. Per parlare di San Vittore bisogna rendersi conto che stiamo parlando di una struttura vecchia, vetusta rispetto alle necessità della popolazione detenuta e di chi invece vi lavora. Una struttura inadeguata, dunque. È una struttura aperta nel 1879, progettata per 800 detenuti. Adesso ce ne sono 1.560. Ha due reparti chiusi per ristrutturazione. Stanno lavorando? No, la ristrutturazione non è ancora partita. Non ci sono lavori in corso. Eppure i reparti sono chiusi da anni. I detenuti vivono in condizioni umane? No. Le condizioni sono assolutamente disumane. In stanze dove ci dovrebbero essere due detenuti ce ne sono cinque. Quando sono in sei in stanza, i detenuti non riescono neppure ad aprire le finestre. Hanno l’acqua? Sì, ma in alcuni periodi dell’acqua ci sono stati problemi di approvvigionamento idrico. san vittore 3 Al di là dei detenuti, gli agenti in che condizioni vivono e lavorano? I limiti strutturali di San Vittore sono evidenti. Si ripercuotono sulle condizioni di lavoro dei colleghi. L’indice di rischio di epidemie e di contagio è ovviamente alto, più elevato di altre strutture. Rischi di rivolte, evasioni, violenze? Ci sono. Sono rischi concreti. Aggressioni, violenze sul personale, rivolte. Sono evenienze del nostro lavoro, ma non è accettabile che si moltiplichino a causa di una struttura inadeguata. Se San Vittore non è esplosa in questi anni, obiezione che potrebbero porre gli amici di Sel, questo è perché c’è un’organizzazione del lavoro molto attenta a intercettare i bisogni dei detenuti e le loro problematiche. Lei da operatore interno, ritiene che San Vittore debba essere salvato? San Vittore può essere salvato solo se ne apre uno nuovo. Solo riducendo il numero dei detenuti si può salvare. La chiusura di San Vittore è stata prevista più volte, prima con Opera, poi con Bollate. E invece siamo ancora qui in condizioni disperate. Perché disperate? Faccio solo un esempio: le condizioni alloggiative degli agenti sono assurde. Sono quasi peggio di quelle dei detenuti. Ci sono agenti che invece di stare due in stanza, sono il doppio. C’è la struttura al di fuori del carcere, dove una volta c’era il minorile: gli agenti vivono in quelle che erano le celle. San Vittore o cambia pagina, o allora è meglio che chiuda. Sel accusa Marcora di non sapere niente su San Vittore. Smentisco completamente. Il consigliere Marcora è venuto più volte, ha parlato più volte con il personale e con i detenuti. Ha il polso della situazione. E ha ragione lui: occorre una nuova struttura. Tra gli esponenti politici è quello che viene più spesso. Invito gli amici di Sel ad avere un rapporto quantomeno più costante con il carcere di San Vittore. Genova: da domani al 5 ottobre detenuti al lavoro per la pulizia di corso De Stefanis Secolo XIX, 24 settembre 2012 Da domani a venerdì 5 ottobre, detenuti del carcere di Marassi al lavoro per contribuire alla pulizia del quartiere. Gli interventi riguardano l’area sottostante il muro di cinta della casa circondariale di Marassi, lungo il tratto est di corso De Stefanis e quello nord di via Del Faggio, dove si svolgerà un intervento di pulizia approfondita e di risanamento igienico - sanitario, sia sul fronte della vegetazione che dei rifiuti abbandonati, sollecitato anche da segnalazioni di cittadini del quartiere. Le operazioni saranno svolte da alcuni detenuti del carcere, con il supporto delle aziende comunali Aster e Amiu, sotto Il patrocinio del Municipio Bassa Valbisagno, in attuazione di uno specifico progetto di utilità sociale avviato dalla Civica Amministrazione, dallo stesso Municipio e dall’Amministrazione Penitenziaria. Il progetto, al quale hanno lavorato l’assessore alle Manutenzioni Giovanni Crivello, il presidente del Municipio Bassa Valbisagno Massimo Ferrante e il direttore dell’Amministrazione Penitenziaria Salvatore Mazzeo, presenta due obiettivi: da un lato quello del risanamento ambientale dell’area, dall’altro quello di cogliere l’opportunità offerta a titolo di volontariato dai detenuti che si mettono a disposizione per scopi di utilità sociale, consentendo loro di restituire alla società una parte del danno cagionato a seguito dei reati commessi. Bologna: due detenuti evadono dall’Ipm del Pratello, ma vengono subito ripresi Adnkronos, 24 settembre 2012 Due minori, detenuti nell’Istituto Pratello di Bologna, sono evasi questa mattina, dopo avere aggredito due agenti. Lo rende noto la Uil-Pa Penitenziari. “L’evasione si è consumata quando i due agenti di polizia penitenziaria stavano per ultimare l’immissione al campo sportivo dei 21 minori presenti oggi - riferisce una nota - Durante tale operazione i due, uno di origine marocchina e l’altro tunisina, hanno aggredito gli agenti alle spalle, tentando di soffocarli, e hanno guadagnato la fuga, agevolata dall’assenza di barriere dissuasive al campo sportivo, nonostante le molteplici segnalazioni delle Organizzazioni sindacali”. Ripresi i due minori evasi da Ipm Bologna Sono stati entrambi ripresi i due minorenni evasi stamani dall’Ipm di Bologna. Lo riferisce Eugenio Sarno, segretario generale Uil Penitenziari in una nota che spiega: il primo dopo alcuni minuti è stato catturato da uomini della polizia di Stato su un pullman di linea su cui era salito a una fermata non molto distante dal luogo dell’evasione. Il secondo invece è stato riacciuffato da uomini della polizia penitenziaria dell’Ipm di Bologna che pur liberi dal servizio si sono adoperati per le ricerche. La fuga del minore originario del Marocco ha avuto termine nelle prossimità della stazione ferroviaria dove gli uomini della polpen avevano organizzato un opportuno appostamento. “Vogliamo sperare”, sottolinea Sarno, “che ora il Dgm assuma nei confronti dei due fuggitivi ogni utile iniziativa perché non tentino nuovamente la fuga, come era avvenuto per uno dei due nel mese di agosto”. Sappe: non più tollerabile situazione giustizia minori “La situazione della giustizia minorile e del carcere bolognese del Pratello non è più tollerabile”. A denunciarlo è Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto Sappe (sindacato autonomo polizia penitenziaria), in seguito alla fuga di due minori dall’Istituto bolognese. “Com’è possibile che un ragazzo che già aveva tentato di evadere dall’ospedale e che non si era fermato neanche dopo gli spari degli agenti, questa mattina abbia avuto la possibilità di aggredire un agente fino a quasi strangolarlo, per poi evadere dal carcere insieme ad un altro recluso?”, chiede il sindacalista. “Questo testimonia ancora una volta - aggiunge Durante - la pericolosità e la capacità criminale di tanti detenuti minorenni, ma anche l’incapacità dei dirigenti e dei funzionari che operano nella giustizia minorile, dove la sicurezza non è assolutamente garantita. È ora che vadano a casa sia i vertici locali, sia quelli nazionali e si proceda a nominare comandanti di reparto i commissari della polizia penitenziaria, esperti di sicurezza, nonché dirigenti che non siano educatori, ma abbiano adeguate competenze giuridiche. Al momento ci è stato riferito che uno degli evasi è stato arrestato e si trova in Questura. Ora ci auguriamo che non lo riportino al Pratello, come hanno fatto in precedenza”, conclude il Segretario generale aggiunto Sappe. In ospedale agente aggredito al Pratello di Bologna “Uno degli agenti della polizia penitenziaria aggredito ieri al Pratello si trova ancora in ospedale in precarie condizioni di salute. Da quanto ci è stato riferito potrebbe aver subito danni alle corde vocali; evidentemente ci auguriamo che ciò venga escluso dagli esami diagnostici”. Lo comunica una nota del Sappe, Sindacato autonomo di Polizia penitenziaria, riferendosi all’aggressione avvenuta ieri da parte di due minori, fuggiti dall’Istituto bolognese e poi rintracciati. “Ciò che invece ci indigna per un verso e ci rattrista dall’altro è che si continui a parlare di conflitto tra detenuti e agenti - denuncia Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto - Ma cosa c’entra il conflitto con un delinquente che prima cerca di scappare dall’ospedale, non si ferma neanche dopo gli spari degli agenti e poi tenta di strangolare un altro agente, fermandosi solo dopo che questo aveva quasi perso i sensi?”, si chiede Durante. “Adesso i due fuggiaschi, come avevamo previsto, sono tornati al Pratello e stanno insieme agli altri detenuti, nell’attesa, magari, che organizzino la prossima fuga, sfruttando anche la situazione strutturale che non garantisce nessuna sicurezza. Ribadiamo che è giunto il momento di riformare la giustizia minorile - conclude il segretario aggiunto del Sappe - cominciando a cambiare i vertici e dando un’organizzazione migliore, con comandanti della polizia penitenziaria e dirigenti adeguati”. Pordenone: “Carcerelegge” per i detenuti, con lo scrittore Miniutti Messaggero Veneto, 24 settembre 2012 “Carcerelegge”. Mentre la città è invasa dal popolo dei lettori e dagli autori di Pordenonelegge, c’è un pezzo di città, precluso ai più, che ha avuto comunque il suo appuntamento con la letteratura. Venerdì lo scrittore Giacomo Miniutti, ha presentato il suo ultimo libro “Quando nessuna fonte dissetava” ai detenuti della casa circondariale di Pordenone. Lo ha fatto - accompagnato da don Piergiorgio Rigolo che ha moderato l’incontro e dal medico Virgino Beacco, dell’Ass 6 - in due diversi appuntamenti: il primo riservato ai detenuti comuni, il secondo per quelli della sezione cosiddetta a divieto d’incontro. Hanno partecipato anche il direttore, Alberto Quagliotto, il comandante della polizia penitenziaria, volontari ed educatrici. Miniutti, che è anche volontario in carcere, ha regalato a ogni cella, alla biblioteca e ai presenti una copia del libro. Il libro è acquistabile anche nell’ambito di Pordenonelegge nello stand “Edizioni L’Omino Rosso” in Piazza XX settembre. Cinema: parla il protagonista di “Reality”, Aniello Arena “dal carcere ho capito la vita” di Francesco Gallo Ansa, 24 settembre 2012 “Mi sono formato man mano nel teatro e ogni volta che rientravo in cella mi mettevo in discussione e capivo meglio anche la vita. Noi non siamo solo detenuti, siamo anche altro”. Così Aniello Arena, detenuto nel carcere di Volterra per un ergastolo e da anni uno dei componenti della Compagnia della Fortezza, parla del suo personaggio nel film di Matteo Garrone, “Reality”, nelle sale da venerdì distribuito da 01 in 350 copie, vincitore al Festival di Cannes del Gran Premio della giuria. Da Garrone invece la voglia di liberarsi dal peso di Gomorra e la paura di incorrere anche lui nelle trappole del successo. “Certo Reality - spiega invece Garrone oggi in una conferenza stampa strapiena - è un film sulla ossessione della popolarità. Certo - dice - Bellissima di Visconti è uno dei film di riferimento, ma ci sono anche le atmosfere di Edoardo de Filippo, dei film di Monicelli, di Matrimonio all’italiana di De Sica. Comunque in questo lavoro non c’è alcuna volontà pedagogica anche per quanto riguarda il rapporto pubblico e tv. Per molti la tv diventa come una certificazione della propria esistenza, un problema esistenziale più che narcisistico. E in queste stesse trappole potrei caderci, da un momento all’altro, anche io per questo non faccio il moralista”. E a chi gli chiede esattamente cosa intenda, replica Garrone: “vivendo in una società dei consumi sei sempre vulnerabile a delle seduzioni che arrivano dall’esterno. È vero - aggiunge poi - mi avevano chiesto di fare altri Gomorra. Ma avevo desiderio di fare qualcosa di nuovo, di ritrovare la leggerezza. E poi per quanto riguarda le seduzioni ne ho avute mille anche da Hollywood. Magari andavo a Los Angeles e non riuscivo neppure a girare il film, mi perdevo”. “Per me è stato facile fare il personaggio di Luciano, perché la sua parte simpatica e allegra mi appartiene. A me - ha detto ancora Aniello Arena che nel film interpreta un pescivendolo convinto di essere stato selezionato dal Grande Fratello - piace molto scherzare. Ho cercato di interpretare Luciano facendolo crescere dentro di me in carcere. La televisione per noi carcerati è importante ma io non sono amante dei reality, ho visto solo i primi Grande Fratello perché era una novità. Amo di più i documentari”. Per quanto riguarda la possibile candidatura italiana agli Oscar di “Reality” sottolinea Matteo Garrone: “certo il fatto che questo film abbia ricevuto un premio dà visibilità a questo lavoro, ma in questi casi ci vuole anche fortuna di trovare nei giurati quella sensibilità particolare verso un certo tipo di cinema. Nel caso della candidatura agli Oscar, come andrà andrà. È il giudizio in sala che conta, se Reality verrà nominato si vedrà”. Tornando, infine, ad Aniello Arena oggi presente alla conferenza stampa grazie all’articolo 21 dell’Ordinamento penitenziario. L’uomo è in carcere con la condanna dell’ergastolo perché coinvolto nella strage di Piazza Crocelle a Barra (8 gennaio del 1991), quando aveva soltanto 23 anni. Morirono in tre, due le vittime designate e una invece per disgrazia. Bolivia: attività agricole e di allevamento per i detenuti minorenni Progettomondo Mlal, 24 settembre 2012 Pensata come utile risorsa di reinserimento professionale post detenzione, l’apprendistato nel campo dell’agricoltura e allevamento costituisce anche un ottimo strumento per l’auto-sostentamento. Tra le molteplici attività previste nel programma di rieducazione dei giovanissimi detenuti del Centro Qalauma, realizzato da ProgettoMondo Mlal a La Paz, in Bolivia, quella dedicata all’Agricoltura e allevamento si sta rilevando infatti una delle più rilevanti e proficue. 40 dei 120 adolescenti reclusi hanno scelto di impegnarsi per 5 giorni alla settimana nella coltivazione di ravanelli, lattughe, rape, bietole e sedano, e di prendersi cura di un consistente numero di “cuyes”, come viene chiamata qui una specie di porcellino d’india latino - americano. “Al principio il ricavato economico dei nostri prodotti veniva diviso tra tutti - ci racconta il responsabile del corso Josè Colque Huanca - poi, in una visione più ampia ed educativa possibile, abbiamo stilato un piccolo regolamento interno insieme ai ragazzi e abbiamo deciso di costituire 3 tre gruppi per la cura di altrettante serre. A capo di ogni equipe è stato eletto un responsabile che si occupa di controllare che l’attività venga svolta equamente e che a tutti sia assegnata la stessa mole di lavoro. Inoltre, il ricavato di ogni appezzamento viene adesso distribuito tra gli stessi componenti dei singoli team. In questo modo si riesce a responsabilizzare direttamente i ragazzi e a stimolarli a una sana competizione e a mettere in moto una dinamica di solidarietà e libertà. Infine è stato stabilito che ciascuno è padrone di decidere se vendere i propri prodotti o utilizzarli per la propria alimentazione. Mozambico: allevamento di polli gestito dalle detenute, anche per consumo carcere Progettomondo Mlal, 24 settembre 2012 Le 24 detenute della Sezione Femminile del penitenziario Rex della città di Nampula, in Mozambico, hanno mangiato per la prima volta carne di pollo allevato dietro le sbarre. Per il Mozambico, e ovviamente per la popolazione carceraria tutta, la novità è grande: a fronte di un tasso di denutrizione che tra i bambini sfiora il 24 %, un’aspettativa di vita che non arriva a 41 anni, e uno degli indici di sviluppo umano più bassi del mondo (172° posto su 182 Paesi), l’opportunità nata all’interno di questo istituto penitenziario nell’ambito del programma “Vita Dentro” di ProgettoMondo Mlal si è concretizzata anche in un’attività di allevamento e commercializzazione di polli. Una prima iniziativa produttiva che al momento dà lavoro a 3 detenute e 2 guardie. Rispetto agli obiettivi che si pone questo programma di cooperazione allo sviluppo cofinanziato dall’Unione europea, l’allevamento avicolo contribuirà al miglioramento della dieta giornaliera dei reclusi, oltre a garantire una formazione professionale per un loro futuro anche fuori dal carcere. Con il mese di settembre, ogni lunedì a pranzo, pollo per tutte! Georgia: torture ai detenuti nelle carceri di “qualità europea” volute da Saakashvili www.direttanews.it, 24 settembre 2012 Le persone che vengono messe in carcere devono scontare la loro pena come è giusto che sia, ma senza dover subire per questo atti atroci nei loro confronti. Invece Mikhail Saakashvili si conferma un autocrate ipocrita e senza scrupoli, stando almeno a quanto è emerso accadere nelle carceri georgiane. Uno dei vanti del presidente georgiano Saakashvili sono le prigioni. Ha speso ingenti risorse dello stato per renderle di “qualità europea” e in effetti sembrano messe meglio di quelle italiane, non che ci voglia molto. Se gli edifici corrispondono agli standard stabiliti dal Comitato Europeo per la Prevenzione delle Torture, par che però il presidente non abbia fatto molto per migliorare il trattamento dei detenuti, tra i quali ci sono anche diversi suoi oppositori, perché lui è democratico e la Georgia è come gli Stati Uniti o lo vorrebbe essere. Sarà per questo che qualche anno fa si lanciò in guerra contro Mosca fidando nell’intervento americano, che puntualmente non ci fu. Da qualche giorno sono stati pubblicati su YouTube due video nei quali si possono apprezzare le torture inflitte nelle carceri georgiane, non manca neppure quel grande classico che è la sodomizzazione dei prigionieri con i manganelli. I video hanno destato sensazione in patria come all’estero. Migliaia di manifestanti sono scesi in piazza in diverse città georgiane, da quando martedì due canali televisivi hanno trasmesso le immagini delle torture ad opera delle guardie del centro di detenzione di Gldan, si succedono le manifestazioni. Il Ministro delle Esecuzioni delle Sentenze e delle Pene, la trentatreenne Khatuna Kalmakhelidze, si è dimessa, dichiarando che i suoi sforzi per il rispetto dei diritti umani sono stati “insufficienti”. Oggi centinaia di manifestanti hanno interrotto il traffico nel centro di Tbilisi e marciato verso il palazzo del Ministero dell’Interno. Chiedono che non solo il ministro, ma tutti i dirigenti del sistema penitenziario siano licenziati e che tutti i responsabili di quanto è successo siano processati e condannati. Saakashvili per parte sua si è detto scandalizzato e ha promesso un’altra riforma del sistema penitenziario. Non ha mancato di pronunciare parole dure: “ Sembra che gli ufficiali ricavassero piacere nel torturare le persone, sono dei veri maniaci”. Ma non di folli si tratta, quanto di una pratica consolidata, almeno a sentire gli ex carcerati e in particolare quelli che sono finiti in carcere per dissensi con la presidenza. Vietnam: “propaganda contro lo Stato”, dai 4 agli 8 anni di carcere per 3 blogger Adnkronos, 24 settembre 2012 Tre blogger sono stati condannati per avere fatto propaganda contro lo stato comunista. Come ha detto alla Dpa l’avvocato di uno dei blogger, Nguyen Van Hai, alias Dieu Cay, è stato condannato, in base all’articolo 88 del codice penale, a 12 anni, mentre Ta Phong Tan a 10 anni e Phan Thanh Hai - l’unico che si è dichiarato colpevole - a 4 anni. Una volta trascorsa la detenzione in carcere, tutti e tre i blogger dovranno scontare altri anni, da tre a cinque, agli arresti domiciliari.