Giustizia: Radicali; Governo nasconde a Consiglio Europeo la reale situazione delle carceri Adnkronos, 23 settembre 2012 “Abbiamo fornito al Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa le informazioni sulla reale situazione italiana, che il governo gli aveva nascosto, e la documentazione che prova che il piano d’azione presentato dall’esecutivo non inciderà in alcun modo sulla sistematica violazione dei diritti umani a causa della bancarotta del sistema giustizia del nostro Paese”. È quanto annuncia il segretario dei Radicali Mario Staderini, in vista della riunione di lunedì prossimo del Comitato europeo, chiamato a valutare quanto fatto dall’Italia rispetto alle condizioni delle carceri, dopo la sentenza Sulejmanovic della Corte europea dei diritti dell’uomo. “I dati smascherano l’inefficacia dei provvedimenti finora adottati dal governo italiano”, denuncia Staderini con Marco Pannella e Rita Bernardini, ricordando che “l’Italia è lo Stato europeo con il maggior numero di condanne, dopo la Turchia, per violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo: oltre duemila sentenze della Corte di Strasburgo, in particolare per irragionevole durata dei processi e condizioni carcerarie; con il maggior numero di sentenze della Corte di Strasburgo non eseguite; con il maggior numero di condanne per irragionevole durata dei processi; con il più alto tasso di sovraffollamento delle carceri, dopo la Serbia”. Secondo i dati del ministero della Giustizia, al 31 agosto i detenuti presenti nelle carceri italiane erano 66.271, a fronte di una capienza regolamentare di 45.568 posti. “Ma sulla questione dei posti regolamentari il governo si comporta da trecartaro - sostiene Bernardini. A causa della mancanza di fondi per la manutenzione ordinaria e straordinaria, intere zone negli istituti sono chiuse, transennate, però restano nel computo della capienza regolamentare”. La parlamentare radicale riferisce che “il disegno di legge delega del governo in materia di depenalizzazione e decarcerizzazione, calendarizzato a marzo, oggi è ancora al palo: la situazione è vergognosa e il fatto che lo Stato italiano agisca da criminale sembra essere un problema solo per noi radicali”. Dichiara a tal proposito Pannella: “Noi abbiamo le armi della nonviolenza e del diritto, del praticare diritto, rispetto a una Repubblica che aggrava la sua flagranza criminale rispetto alle sue leggi e alle più alte cariche istituzionali, a eccezione del primo presidente dalla Corte di Cassazione”. I radicali chiedono dunque al Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa di “adottare un provvedimento forte nei confronti dell’Italia, con l’indicazione dell’amnistia come soluzione da adottare immediatamente; e di valutare la sospensione dei rappresentati italiani dell’organo del Consiglio d’Europa”. Tra le misure proposte, anche la sospensione dell’esecuzione della pena, in caso di sopraggiunto limite della capienza regolamentare”. Giustizia: ddl Severino alla Camera, verso lo stralcio delle misure di depenalizzazione Asca, 23 settembre 2012 La Commissione Giustizia anche questa settimana è stata a lungo impegnata nell’approfondimento del ddl 4041 contenente le misure di depenalizzazione e pene alternative alla detenzione per attenuare il sovraffollamento carcerario. Il Ministro della Giustizia ha più volte sottolineato la necessità ed urgenza di questo provvedimento anche per dare risposta all’emergenza carceri, ma l’ampiezza delle misure contenute nello schema normativo e, soprattutto, la non piena concordanza di valutazioni dei partiti che sostengono il Governo hanno rallentato l’iter. Per dare nuovo impulso all’esame il sottosegretario alla Giustizia Gullo ha prospettato la disponibilità dell’esecutivo a stralciare la parte dell’articolato riguardante la depenalizzazione (sulla quale si concentrano le maggiori riserve) in modo da accelerare l’esame degli altri articoli riguardanti l’affidamento in prova e le pene alternative alla detenzione. Si valuterà, quindi, se e come procedere autonomamente sulla parte relativa alla depenalizzazione. Il Ministro Severino ha più volte sottolineato l’esigenza di non far slittare l’avvio dell’esame in aula programmato a partire da lunedì prossimo. Giustizia: lavoro “sbarrato” per i detenuti, tra abusi, scarsi incentivi e sgravi non erogati di Ulisse Spinnato Vega www.lettera43.it, 23 settembre 2012 I penitenziari italiani ospitano 66 mila persone e abbatterne di un punto percentuale la recidiva significa tenerne fuori dalle celle quasi 700 persone. L’inserimento lavorativo dei detenuti è una gallina dalle uova d’oro. Sia esso interno o esterno al perimetro carcerario, l’impiego professionale di chi sta scontando una pena garantisce notevoli vantaggi finanziari allo Stato, agevolazioni alle imprese e contribuisce ad abbattere il problema sociale della recidiva. Di norma, il 70% degli ex detenuti torna infatti a delinquere dopo il periodo di detenzione. Ma la percentuale crolla sotto il 20% se nel frattempo essi hanno svolto un’occupazione vera per conto di imprese o cooperative sociali. I penitenziari italiani ospitano 66 mila persone e abbattere di un punto la recidiva significa tenerne fuori quasi 700 persone. Se si considera che il costo giornaliero di un detenuto si aggira sui 150 euro, lo Stato risparmia in modo diretto circa 35-36 milioni di euro. Senza contare tutti i benefici sociali ed economici di un malvivente in meno per strada che minaccia, ferisce, uccide, ruba, rapina e impegna risorse dello Stato sul fronte repressivo. Del resto, oltre il 50% della popolazione carceraria italiana ha tra i 21 e i 39 anni. Dunque rappresenta un’ottima forza lavoro potenziale e, in epoca di cuneo fiscale altissimo, garantisce vantaggi competitivi alle imprese. Credito di imposta da 516 euro e sgravi contributivi Il datore di lavoro, infatti, beneficia di 516 euro di credito d’imposta per ogni detenuto impiegato. Nel caso di addetti assunti a tempo parziale l’agevolazione spetta in misura proporzionale alle ore prestate. E il regime di favore vale per ulteriori sei mesi successivi alla fine della detenzione. In più ci sono sgravi contributivi che oscillano tra il 50% e il 100%. La percentuale più bassa è per le imprese, nel caso di reclusi disoccupati da oltre 24 mesi. Ma la quota sale al 100% per gli artigiani. L’agevolazione è prevista per 36 mesi in caso di assunzione a tempo determinato e permane naturalmente anche oltre il “fine pena”. C’è invece una riduzione contributiva del 100% per le cooperative sociali che impieghino persone ammesse alle misure alternative. E uno sgravio dell’80% per le cooperative che si avvalgano di detenuti ammessi al lavoro esterno. Pure in questo caso le agevolazioni si protraggono per 6 mesi oltre la fine della detenzione. La norma che sostiene il lavoro dei reclusi è la legge Smuraglia (193/2000), che dall’inizio viene finanziata ogni anno con 4,6 milioni di euro: ammontare via via sempre più esiguo per colpa dell’inflazione (quest’anno i fondi sono già finiti in agosto) e di cui beneficiano oggi poco più di 2 mila detenuti tra quelli impiegati nell’intramurario e i cosiddetti “articoli 21” (ammessi al lavoro esterno in base all’art.21 del ordinamento penitenziario). Il budget è diviso grossomodo a metà tra credito d’imposta e sgravio contributivo. Incentivi non sempre ottenuti “Io non ho mai beneficiato di alcuno sgravio”, racconta a Lettera43.it Roberto Capello, titolare di un laboratorio di panificazione e di alcuni panifici tra Bergamo e Seriate, nonché presidente dell’Aspan, l’associazione dei panificatori bergamaschi. Poi aggiunge: “Nell’ultimo decennio ho impiegato sette o otto detenuti perché credo alla responsabilità sociale d’impresa e perché quando do da lavorare al ragazzo che prima spacciava nel parco dove giocano i miei figli, risolvo anche un mio problema”. “I detenuti? Qui da me sono sempre stati disponibili e volenterosi”, racconta, “ci sono persone che hanno lavorato anche sei anni, impegnandosi oltre il periodo di detenzione. La formazione professionale teorica la fanno gli enti pubblici, Regione in testa. Poi la nostra associazione si occupa della formazione pratica. A Bergamo nel settore del pane sono state impiegate finora circa 25 persone provenienti dal carcere”. Il paradosso della Bossi-Fini Capello infine rievoca la storia paradossale di un extracomunitario alle prese con la Bossi-Fini: “Lavorava da me come detenuto in base a un accordo con il magistrato di sorveglianza. Esaurita la pena, è diventato clandestino perché non aveva il permesso di soggiorno e per la legge doveva tornarsene a casa. Tra l’altro il suo reato era ostativo in base a Schengen. Lui ha preferito compiere di nuovo il reato e farsi arrestare ancora: così ha scontato un altro 50% di pena in carcere e ha lavorato qui altri due anni”. Quindi il triste epilogo. “La Questura l’anno scorso lo ha rimandato in Marocco senza che io avessi il tempo di dargli il tfr. Gliel’ho dovuto spedire a casa”. L’altra faccia della medaglia è quella di potenziali abusi perpetrati da parte delle imprese alla ricerca di manodopera a bassissimo costo, problema esploso proprio quest’estate in Gran Bretagna. I controlli sono necessari, ma il problema di un eventuale dumping competitivo basato sullo sfruttamento dei detenuti non autorizza nessuno a buttar via il bambino con l’acqua sporca. Coloro che stanno scontando una pena e che lavorano (dentro e fuori il carcere) sono oggi 14 mila e producono una ricchezza pari a circa 300 milioni di euro, secondo i dati della Camera di commercio di Monza e Brianza. Numeri non indifferenti che pure potrebbero essere di molto incrementati. Gino Gelmi, di Carcere e territorio spiega: “La Smuraglia ha una dotazione limitata e soprattutto riguarda solo gli “articoli 21”, non i beneficiari di misure alternative (circa 20 mila persone, ndr). Le risorse puntualmente finiscono a metà anno e le imprese, soprattutto le coop sociali, vanno in difficoltà”. Senza investimenti a medio termine Giuseppe Guerini, presidente Federsolidarietà, aggiunge: “Pochi mesi fa nell’Intergruppo parlamentare per la sussidiarietà si era cercato di rafforzare lo strumento allargandolo alle misure alternative. Sarebbero serviti 4 milioni, ma i fondi naturalmente non c’erano”. “Il problema”, chiude Guerini, “è che in Italia non si fa mai un ragionamento a medio termine sull’impatto positivo e sui risparmi che una misura genera”. Non a caso, negli ultimi due anni hanno subito pesanti tagli anche i fondi destinati al lavoro intramurario. Intanto il signor Capello non ha più alcun detenuto nel suo laboratorio di panificazione: “Io sono sempre pronto a dare spazio per un tirocinio o un periodo di formazione. Speriamo ripartano i corsi. La crisi? Quella c’è, ma per batterla basta fiutare dove va il mercato”. Giustizia: Radicali; Sallusti è vittima delle leggi criminogene volute dal centrodestra Notizie Radicali, 23 settembre 2012 Dichiarazione di Irene Testa, segretario dell’Associazione Il Detenuto Ignoto e di Alessandro Gerardi, membro del Comitato Nazionale di Radicali Italiani. Se Sallusti rischia il carcere è per colpa delle leggi criminogene approvate in questi anni dal centrodestra, basti pensare alla legge ex Cirielli che, da un lato, impedisce ai recidivi reiterati di ottenere la sospensione della esecuzione delle sentenze a pene detentive non superiori a tre anni e, dall’altro, introduce per chi ha precedenti penali notevoli restrizioni nell’accesso alle misure alternative. Deve quindi essere chiaro che senza la stretta sui recidivi, voluta dalla maggioranza di centrodestra nel 2005 anche con l’avallo di giornalisti come Sallusti, oggi il direttore de Il Giornale non rischierebbe nemmeno un giorno di carcere in quanto potrebbe chiedere la sospensione della sentenza di condanna scontando i 14 mesi di reclusione in misura alternativa. Quindi oltre ad indignarsi il centrodestra e i giornalisti come Sallusti si facciano anche un bell’esame di coscienza e soprattutto riflettano sui guasti provocati da una visione puramente punitiva ed afflittiva della pena che in tutti questi anni è stata capace di creare solo emarginazione e a facilitare il rientro dei detenuti in contesti criminali aumentando con questo il sovraffollamento dei nostri istituti penitenziari. Ci auguriamo che Sallusti riesca a risolvere positivamente la sua vicenda, nel frattempo però si riveda la legge criminogena detta ex Cirielli, magari partendo dalle proposte depositate in questa legislatura dalla deputata radicale Rita Bernardini. Bonelli (Verdi): carcere per Sallusti? è una follia “Il carcere per Alessandro Sallusti è una follia. Quella che coinvolge il direttore de Il Giornale è una vicenda assurda e che lascia interdetti”. Lo dichiara il Presidente dei Verdi Angelo Bonelli che aggiunge: “Sallusti ha la mia piena solidarietà: il carcere per i giornalisti non è tollerabile in un paese europeo e in una democrazia che vuole essere moderna”. “Ci uniamo all’appello della Federazione Nazionale della Stampa e dell’Ordine dei Giornalisti contro il carcere per il giornalista - conclude Bonelli. È necessario che il governo e le istituzioni si mobilitino immediatamente per Sallusti: oltre che per i dati economici il nostro Paese è giudicato all’estero anche per la qualità della propria democrazia”. Il Presidente Napolitano segue il caso Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano “segue il caso” Sallusti “e si riserva di acquisire tutti gli elementi di valutazione”. Così su twitter il consigliere per la comunicazione del Quirinale, Pasquale Cascella, rispondendo al deputato e blogger Mario Adinolfi che aveva scritto che “vedere Sallusti in carcere per un’opinione espressa sarebbe gravissimo: intervenga il Capo dello Stato”. Giustizia: le “politiche della sicurezza”… e i costi delle canzonette in carcere di Alessandro De Rossi L’Opinione, 23 settembre 2012 Il governo, consapevole della carenza di risorse finanziarie, nel varare le misure operative destinate a migliorare la situazione carceraria intendeva includere i privati nel “disegno risolutivo del piano per l’edilizia penitenziaria”. Sulle colonne di questo giornale avevo già scritto che, forse, prima della fase di realizzazione del disegno risolutivo del piano carceri non sarebbe stato sbagliato promuovere una iniziativa di pianificazione strategica che stabilisse in modo organico, le possibili operazioni da compiere a fronte dell’intero patrimonio esistente sul territorio: riuso, riassetto, dismissione, cessione, ristrutturazione, locazione (ecc.), di taluni edifici penitenziari, di aree pertinenziali (e non solo) all’interno di un ragionato paradigma di azioni da pattuire successivamente attraverso una specifica normativa con i diversi enti locali. Tale processo, che sembrerebbe positivamente essere stato avviato da parte del Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria) con alcune più sensibili realtà locali, potrebbe trasformarsi ancora oggi, ma soprattutto per il domani, in una grande opportunità per innescare un ciclo virtuoso in rapporto diretto con le attività produttive presenti sul territorio. Individuando all’interno delle diverse filiere nuovi ambiti di recupero sociale del detenuto come momenti alternativi, ma non disarticolati e sporadici, destinati all’applicazione della pena. Così concepito, tutto il percorso, collegato alle catene produttive locali, ai servizi sociali, alle strutture cooperativistiche e al volontariato, ai valori architettonici ed ambientali espressi dalla nazione, potrebbe ricucire sistemicamente le molte connessioni funzionali esistenti nelle realtà territoriali. Da un lato, quindi, va dato atto alla capacità del governo centrale di saper predisporre chiari criteri tecnici di intervento e, dall’altro, l’incerta e diversa sensibilità politica e culturale di recepire queste linee da parte degli enti locali. Fatta questa premessa, necessaria per inquadrare in parte la complessità dei problemi di fronte ai quali si trova lo stato, veniamo ora alla nostra più vicina realtà. Per certi casi poco edificante. Tra scandali, denunce, sperpero di pubblico denaro, (inutili) chiarimenti politici e doppie auto blu al servizio del presidente Abruzzese, la regione Lazio di questi tempi ha ben altri problemi di cui occuparsi. Tuttavia, non finisce di stupirci la pervicace insistenza da parte dell’assessorato regionale ai “Rapporti con gli Enti locali e alle politiche della sicurezza” di continuare nella sua azione volta a portare cantanti e canzonette all’interno delle carceri laziali. Dopo gli interventi canori nel carcere di Civitavecchia ad agosto con la band di Luisa Corna, di Franco Califano prima a Velletri poi a Latina e, infine, di Marco Masini nel penitenziario femminile della stessa città, chissà quali altre idee evasive saranno partorite dalla fervida fantasia dell’assessore Pino Cangemi: l’infaticabile pianificatore culturale e attento programmatore delle giornate estive musicali all’interno delle carceri laziali. Vista l’attuale situazione carceraria di cui solo i Radicali tengono viva l’attenzione con costante, encomiabile impegno e i tanti problemi irrisolti riguardanti il mondo della detenzione e della post detenzione (è di ieri la rivolta con incendi nel carcere minorile Beccaria di Milano) il nostro sensibile assessore che fa? Studia e coordina forse iniziative volte ad assicurare programmi aventi come obiettivi il possibile coinvolgimento degli enti locali nella gestione di questi problemi, magari con il contributo dell’imprenditoria privata supportata dalle cooperative di ex detenuti? Si applica, sulla base di programmi di riabilitazione sociale e qualificazione professionale, a mettere a punto (con il conforto ministeriale) misure alternative al carcere e il reinserimento nel ciclo produttivo destinato al riuso, sotto altre forme e funzioni, dello stesso patrimonio edilizio carcerario? Per le “politiche della sicurezza” (di chi?), analizza e propone attività lavorative e impiego di risorse economiche per creare occasioni imprenditoriali con lo scopo di creare lavoro, sostegno e reinserimento nel ciclo delle attività produttive? Per caso promuove corsi di formazione professionale per gli ex detenuti, per i giovani disoccupati e ragazzi allo sbando? No, per l’assessore alle “Politiche della sicurezza” tutto questo è inutile e superfluo esercizio. Preferisce meglio applicarsi (per un sicuro attraction/appeal?) al più impegnativo e oneroso censimento di gruppi canori. Visionando cantanti e orchestrine, scegliere testi, parole e musica degli artisti migliori da portare nelle carceri per passare un po’ di tempo per (in)utili evasioni musicali. C’è però qualcosa di irrisolto in tutto questo, sul quale problema (politico) occorrerebbe fare qualche riflessione. Mi riferisco al costo di queste iniziative evasive, al modo come vengono impiegate ingenti risorse economiche, in questo periodo di carestia, da parte di chi è autorizzato, dalla politica dei politicanti, a spendere pubblico denaro. C’è una indubbia perplessità che riguarda il vero scopo politico di chi spende, di come spende e di quanto spende. E secondo quali principi e obiettivi intende continuare a spendere, compatibilmente con le finalità di istituto del proprio assessorato, coerentemente con i programmi politici collegialmente condivisi tra i nostri pubblici amministratori. Vorremmo sapere, se non è troppo irritante la domanda, quanto siano costate queste “evasioni musicali” volute dall’assessore Cangemi. A quanto siano ammontati i compensi per i Franco Califano, Mario Zamma, Manuela Villa, Martufello, Marcello Cirillo, Tom Sinatra, Luisa Corna con il suo gruppo musicale (costituito da quattro musicisti e un corista), Marco Masini e quanti altri hanno contribuito alla iniziativa. E, se tutto è regolarmente in ordine, come spero, mi domando comunque che ci “azzecca” con gli enti locali e le politiche per la sicurezza, questa non meglio identificata evasione musicale che fa sorridere solo chi nulla capisce dei veri problemi della detenzione? Tanto valeva che la presidente Polverini affidasse a Cangemi un assessorato di più alto prestigio culturale ove potesse meglio esercitare la sua sensibilità musicale ad un ben altro e qualificante livello. Giustizia: caso Cucchi; ecco le nuove prove, sono due le fratture alla schiena di Luigi Manconi Il Messaggero, 23 settembre 2012 Si annuncia una novità davvero importante nella vicenda relativa alla morte di Stefano Cucchi. Una novità tale da poter imprimere una svolta decisiva al processo sulla tragica fine del geometra romano deceduto mentre si trovava nel reparto detentivo dell’ospedale Pertini, il 22 ottobre del 2009. Forse è accaduto che due fratture presenti sul corpo di Cucchi, una risalente al 2003 e una appena precedente la morte, siano state considerate e analizzate come fossero una sola lesione, risalente a nove anni fa. In estrema sintesi, questi i fatti: trovato in possesso di alcuni grammi di hashish, cocaina e antiepilettici, alle 23.30 del 15 ottobre. Cucchi viene fermato. Inizia così una drammatica Via Crucis, scandita dal passaggio attraverso una sequenza di luoghi e apparati e istituti, tra decine di uomini dello Stato e delle strutture pubbliche, nessuno dei quali offrirà soccorso. Cucchi trascorre la prima notte in due diverse caserme dei Carabinieri e, la mattina dopo, viene portato in tribunale per la convalida dell’arresto; qui, nelle celle di sicurezza del palazzo di giustizia, subisce le violenze di alcuni agenti di polizia penitenziaria. Poi, infermeria e pronto soccorso e carcere, fino a un vero e proprio abbandono terapeutico, il volto coperto dal lenzuolo, il corpo accartocciato, nel letto dell’ospedale Pertini. Qui trova la morte all’alba del 22 ottobre: come occultato e sottratto allo sguardo e alle cure dei familiari che, per sei lunghissimi giorni, non hanno avuto la possibilità di incontrarlo né di accoglierne l’ultimo respiro. Per questa vicenda, la procura di Roma ha rinviato a giudizio tre agenti di polizia penitenziaria e nove tra medici e infermieri, e il processo è attualmente in corso. E tuttavia, già subito dopo l’esame autoptico, è emersa una valutazione profondamente diversa tra i consulenti di parte civile e quelli del pubblico ministero a proposito della datazione della frattura vertebrale L3 riscontrata sul corpo di Cucchi. Ora, le ultime verifiche effettuate dalla Procura di Roma permettono di dimostrare, senza ombra di dubbio, ciò che i consulenti della famiglia Cucchi hanno sempre sostenuto. Ovvero che la frattura sull’emisoma postero superiore - cioè sulla parte più alta della vertebra L3, sul lato esterno e più esposto della stessa - è recentissima. In altre parole, che quella frattura riscontrata proprio sulla schiena, non è pregressa, né tanto meno di antica data, bensì appena precedente la morte. Ed è possibile ipotizzare che questa frattura, non sia l’esito di una caduta, come è stato sostenuto, bensì il risultato di un trauma diretto che ha riguardato la parte più esposta della vertebra. Ed è questa, appunto, la novità. Attraverso l’esame della documentazione medica da poco depositata, e dei radiogrammi reperiti dalla famiglia, è possibile notare inequivocabilmente l’esistenza di due fratture: oltre a quella di cui si è appena detto, un’altra, distinta e autonoma, risalente appunto al 2003. In termini inevitabilmente tecnici, si tratta di una frattura sul “versante antero superiore di L3”: sul lato opposto, cioè, rispetto alla frattura ultima (2009), e situata internamente rispetto alla colonna vertebrale. Quella prima frattura mostra segni di guarigione già dall’aprile del 2004; e si trova in tutt’altro distretto della vertebra rispetto alla frattura riportata da Cucchi presumibilmente il 16 ottobre 2009. Al di là del linguaggio medico, emerge un quadro decisamente nitido. Sul corpo di Cucchi, all’atto della morte, erano rilevabili due fratture, una risalente al 2003, non compatibile con l’ipotesi di un trauma prodotto da un colpo inferto da terzi, e un’altra, recente, compatibile con un’azione violenta subita. Ora, c’è da chiedersi: quando i consulenti della procura parlavano dell’esistenza di una sola frattura pregressa “da caduta” e di un esame istologico che ne confermava la datazione non recente, si riferivano alla prima (quella del 2003)? C’è da crederlo, in quanto la collocazione della lesione, all’interno della colonna, è tipica della caduta e non di un possibile trauma diretto, causato da colpo inferto sulla schiena. Se così fosse, l’equivoco, si fa per dire, sarebbe clamoroso. Ma è possibile che si sia verificato un simile travisamento e che due fratture, indubbiamente esistenti, siano state considerate come una sola? E analizzate come una sola? E che, di una sola, sia stata accertata datazione ed esatta collocazione e che, solo su questa, sia stato effettuato l’esame istologico? È urgente avere risposte precise, perché la posta in gioco non è solo - ed è comunque già enorme - la possibilità di raggiungere la verità su una vicenda sommamente iniqua come la morte di Stefano Cucchi. La posta in gioco è, anche in questo caso, il buon funzionamento di una giustizia giusta. Giustizia: il sistema delle “rendition” era bipartisan… di Sergio Finardi Il Manifesto, 23 settembre 2012 Due giorni fa la quinta sezione penale della Corte di Cassazione, giudicando le conclusioni raggiunte sul caso Abu Omar dal processo d’appello (Corte di Milano) del dicembre 2010, ha emanato una sentenza le cui conseguenze andranno ben oltre il merito del caso di extraordinary rendition (17 febbraio 2003) relativo all’iman della moschea di viale Jenner a Milano. Due elementi indicano che la sentenza della sezione presieduta da Gaetanino Zecca avrà un valore storico. In primo luogo la sentenza della Cassazione ha di fatto giudicato incongrua l’apposizione del segreto di Stato nel caso Omar ed ha deciso per un nuovo processo presso la Corte d’Appello di Milano nei confronti degli ex appartenenti al Sismi, servizio segreto militare ora Aise, Nicolò Pollari, Marco Mancini, Giuseppe Ciorra, Luciano Di Gregori e Raffaele Di Troia. Nei confronti di questi ultimi si era in precedenza deciso il non luogo a procedere appunto perché le loro responsabilità non potevano essere accertate vigente il segreto apposto inizialmente dal governo Berlusconi (2001-2006) e indi da quello Prodi (2006-2008) e ancora dal governo Berlusconi (2008-2011). Il nuovo processo dovrebbe quindi finalmente permettere di portare alla luce gli “88 documenti” di cui Pollari, al vertice del Sismi durante il rapimento di Abu Omar (Hassan Mustafa Osama Nasr), ha rivelato l’esistenza nei precedenti processi e che indicherebbero la estraneità sua, e del Servizio in quanto tale, al rapimento. Come già scrivemmo nel 2009 (manifesto del 1 ottobre), l’importanza di questi documenti è anche maggiore della prova o meno della complicità di Pollari, in quanto rivelerebbero la catena di comando segreta e incostituzionale che ha permesso una flagrante violazione del diritto nazionale e internazionale sul suolo italiano. Pollari ha sempre protestato la sua impossibilità di difendersi perché tenuto al rispetto del segreto di Stato e i suoi avvocati hanno invocato la corte perché chiedesse al governo di togliere quel segreto. Prova che quei documenti, se non proprio l’estraneità, potrebbero provare chi diede a Pollari un ordine o chi agiva altrove nella stessa direzione. O semplice bluff, ben sapendo che il segreto molto difficilmente sarebbe stato tolto? In ogni caso un elemento decisamente diverso tornerebbe alla ribalta: su quali uomini - al di là degli apparati cui appartengono o appartenevano - potevano e possono contare in Italia i centri di potere statunitensi quando vogliono realizzare operazioni segrete? Vi sono ancora linee di comando che più o meno informalmente partono da Washington (o da Langley) e finiscono a Roma? Quelle storiche le teneva l’ex-presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Quelle nuove? In secondo luogo, storica la sentenza lo è già per la parte che condanna in via definitiva gli agenti della Cia e il loro capo in Italia, Robert Lady Seldon, prima sentenza definitiva al mondo a bollare inequivocabilmente le operazioni di extraordinary renditions come illegali e criminali, a testimonianza della solidità dell’apparato accusatorio dei pubblici ministeri Pomarici e Spataro. I servi di vecchia data (si definivano “patrioti”, ma chissà di quale patria) e i servi nuovi che in Italia hanno fatto buon viso a cattivo gioco sostenendo che il programma era “utile”, non solo non hanno mai voluto capire nulla delle ragioni vere del programma delle renditions così come si è trasformato sotto Cheney e Bush (uno strumento di terrore internazionale destinato a suscitare ondate di terrorismo e tenere in piedi la “guerra infinita”), ma nemmeno dell’abisso in cui precipitava gli stessi servizi segreti di nazioni ove la tortura, sebbene certo occasionalmente praticata, non era più un “sistema” (almeno fuori delle carceri speciali). La pratica della tortura è non solo proibita dalla Convenzione di Ginevra e dal diritto umanitario, senza eccezione alcuna - terroristi o meno - ma è anche altamente controproducente. E proprio la sentenza definitiva sul caso Omar e le vicende che sono emerse nel processo provano che gli apparati statunitensi costringevano i catturati a diventare “collaboratori” o a subire le più orrende torture, avviando il circolo vizioso tipico di tutte le procedure di tortura per cui pur di liberarsi dai tormenti o di provare la propria utilità come informatore - i malcapitati inventano accuse contro chi pensano possa essere un candidato credibile agli occhi dei persecutori. In decine e decine di casi è venuto a galla che gli uomini degli apparati statunitensi facevano a gara ad attribuirsi la cattura di elementi “sospetti” e la loro “rendition” ai torturatori dei propri servizi o di quelli di Paesi esteri, sulla base di “prove” le più inconsistenti o manifestamente false. Ultimo caso quello dello yemenita Adnan Farhan Abdul Latif, tenuto a Guantánamo dal 2002 senza processo e tra orribili sofferenze, mortovi qualche giorno fa nonostante nel 2010 un giudice statunitense avesse ordinato la sua scarcerazione per l’assoluta inconsistenza delle prove contro di lui. Ma in Italia nessuno ne sapeva niente, naturalmente, e Pollari e il suo “network” bipartisan non erano i soli. Altri “network” - misteriosamente bipartisan pure loro - non ne sapevano niente. L’allora capo della polizia di Stato (2000-2007), Giovanni De Gennaro, grande tessitore delle relazioni tra apparati investigativi italiani e statunitensi, non ne sapeva niente, mentre 26 aerei (al minimo) delle renditions atterravano, nel periodo, 80 volte negli aeroporti italiani sotto la sorveglianza della polizia di Stato (il manifesto del 24 gennaio e 3 marzo 2006). E Prodi, presidente della Commissione Europea dal 1999 al 2004 non ne sapeva niente nemmeno lui, mentre i cieli e gli aeroporti d’Europa - ben monitorati da agenzie sotto la sua responsabilità - erano attraversati dagli aerei e dai prigionieri degli apparati statunitensi, per non parlare delle prigioni segrete istituite in quegli anni in Romania, in Polonia, in Lituania, al servizio degli statunitensi. Il nuovo processo agli uomini del Sismi potrebbe approdare in molte altre spiagge. Giustizia: Lele Mora e Alfonso Papa; stop detenzione preventiva Ansa, 23 settembre 2012 “In Italia il carcere senza condanna è diventata la consueta anticipazione della pena nei confronti dei presunti non colpevoli”. Alfonso Papa, deputato del Pdl, e l’agente dei vip Lele Mora uniscono le forze per denunciare la degenerazione del carcere preventivo. E in una conferenza stampa a Rimini annunciano nuove iniziative. “Con Lele abbiamo in cantiere una serie di iniziative per potenziare il lavoro dei detenuti”, spiega Papa, in carcere per 101 giorni nell’ambito dell’inchiesta sulla cosiddetta P4. “Insistiamo per essere ricevuti dal ministro Severino, che può dare una spinta decisiva al mio progetto di legge contro l’abuso della carcerazione preventiva di cui sia io che Lele siamo stati vittime”. “Quattrocento giorni di carcere, per lo più preventivo, ti cambiano per sempre”, rincara la dose Lele Mora, che si dice vittima di un errore giudiziario. In carcere per bancarotta fraudolenta, “le mie disgrazie finanziarie - sostiene Mora - sono state la conseguenza di questo errore”. Mora propone l’orto terapia, la raccolta differenziata e la commercializzazione di prodotti made in jail (fatti in carcere) per migliorare la vita in cella. Sassari: Tribunale di Sorveglianza; più lavoro per i detenuti per città più sicure di Elena Laudante La Nuova Sardegna, 23 settembre 2012 Il Tribunale di Sorveglianza vuole “assumere” 4 condannati. La presidente: ma servono fondi, le amministrazioni ci aiutino. Lavorare per non tornare a delinquere, per non rappresentare più una minaccia alla sicurezza dei cittadini. Ecco perché impiegare energie represse e le braccia dei detenuti “vuol dire anche vivere in città più sicure”. Lo ha spiegato con parole franche, dirette, la presidente del Tribunale di Sorveglianza ai rappresentanti di Comune e Provincia. Per poi lanciare loro un appello: “Bisogna trovare fondi per far lavorare i reclusi”, in modo da eliminare quello stigma che si ritrova il detenuto quando riacquista la libertà, ma spesso non la dignità. Maria Antonia Vertaldi, presidente di quel tribunale che si occupa da vicino della vita dei carcerati, ha sollecitato le due amministrazioni a trovare risorse per realizzare un progetto già approvato dal ministero della Giustizia. Si propone di consentire a quattro detenuti di lavorare proprio nell’ufficio giudiziario di via Budapest per creare il “fascicolo elettronico”, una sorta di data base che racchiuda - detenuto per detenuto - tutti i provvedimenti e gli atti, che poi potranno essere consultati anche da altri uffici giudiziari, e dagli avvocati attraverso smart card. Si tratta di due applicazioni virtuose di uno stesso principio. Quello delle “best practice”, ovvero migliorare le pratiche interne agli uffici, le loro performance, per poi rendere un servizio migliore ai cittadini. Se l’ufficio da razionalizzare e ottimizzare è un ufficio giudiziario, allora i percorsi virtuosi potrebbero servire a snellire l’elefantiaca macchina giudiziaria. Magari anche a renderla più veloce, sebbene con piccoli interventi, spesso finanziati con pochi spiccioli. Detetenuti e lavoro. L’assunto è questo, e deriva da dati statistici del ministero della Giustizia: i reclusi che restano per tutta la durata dell’espiazione nella loro cella, hanno il 70 per cento di possibilità di tornare commettere reati. Chi invece ha potuto riavvicinarsi alla società attraverso un impiego - soprattutto esterno - ha solo due probabilità su dieci di sbagliare ancora. Il vantaggio è evidente: il lavoro per chi è finito dietro le sbarre è forse l’unica forma di prevenzione efficace alla criminalità, interrompe quel ciclo quasi inevitabile nel quale resta incastrato, ad esempio, chi viola la legge per fame, e poi si ritrova dentro per reati efferati. È questo il senso del discorso fatto martedì dalla Vertaldi ai delegati di Comune, Provincia, carcere di Alghero, Sassari, Tempio, ufficio Uepe (esecuzione penale esterna). Nel corso di una conferenza dei servizi il presidente della Sorveglianza ha invitato i presenti alla discussione, ma soprattutto ad aprire i cordoni della borsa per consentire a quattro detenuti di uscire dalla cella per 400 ore in un anno, per tre anni, e lavorare alla digitalizzazione dei fascicoli. Difficile trovare fondi, soprattutto perché anche quelli destinati alle povertà estreme - ha spiegato l’assessore comunale Michele Poddighe, responsabile delle Politiche sociali - sono stati ridotti. “Ma vi è un congruo finanziamento del Fondo sociale europeo per un progetto “impresa della legalità” per giovani dai 16 ai 25 anni”, ha ipotizzato. Dunque c’è uno spiraglio, anche perché come ha sintetizzato Maria Paola Soru, responsabile dell’area trattamentale di San Sebastiano, anche il Tribunale “può essere ricompreso fra le imprese”. Best practice. Forse è anche per questo, per far comprendere che in fondo l’amministrazione della giustizia deve essere equiparata alla erogazione di un buon servizio, che il Tribunale di Sorveglianza ha partecipato al progetto delle best practice finanziato con circa 80mila euro del Fondo sociale europeo. Quello di Sassari è stato il primo ufficio di Sorveglianza a sperimentarlo in Italia, tanto che il 2 ottobre la Vertaldi andrà ad illustrare i risultati ottenuti in un incontro col Guardasigilli Paola Severino. Con l’aiuto dei consulenti della Ernst & Young, è stata stilata la carta dei servizi, il bilancio sociale, sono stati ottimizzati i temi del procedimento in un ufficio che oggi non ha alcuna pendenza. “Questo consente ai giudici di Sorveglianza di occuparsi ancora di più dei detenuti”, spiega l’alto magistrato. Ma alla lunga - sottolinea il manager della E&Y Rocco Defina - “migliora il rapporto degli uffici con i cittadini”. Santa Maria Capua Vetere: “anomalie al carcere, presentate 2 interrogazioni parlamentari Notizie Radicali, 23 settembre 2012 La prima sul sovraffollamento, la seconda su un detenuto di 84 anni con gravi problemi di salute che è ancora rinchiuso in cella. Santa Maria Capua Vetere - Nelle ultime settimane l’Associazione “Legalità & Trasparenza”- Radicali Caserta ha organizzato vari sit-in antistante la Nuova Casa Circondariale di Santa Maria Capua Vetere. “Nei vari sit in - fanno sapere - abbiamo avuto modo di raccogliere numerose adesioni all’appello di Marco Pannella per l’amnistia e inoltre abbiamo registrato numerose testimonianze dei parenti dei detenuti, che alle prime luci dell’alba già affollano il parcheggio antistante il penitenziario”. A dichiararlo è Luca Bove del comitato Nazionale di Radicali Italiani che continua. “In seguito ai vari sit-in e soprattutto alla visita ispettiva effettuata lo scorso 8 agosto, nei giorni scorsi sono state realizzate due interrogazioni parlamentari, presentati dai senatori Radicali, Marco Perduca e Donatella Poretti, dove vengono segnalate numerose anomalie che avvengono in questo istituto di pena”. Infatti lo scorso 8 Agosto, Luca Bove e Domenico Letizia, dei Radicali Caserta, hanno accompagnato il Senatore Marco Perduca nella visita ispettiva al carcere di Santa Maria Capua Vetere; sulla base di questa visita, lo stesso Marco Perduca, insieme alla Senatrice Donatella Poretti, sono state realizzate due interrogazioni parlamentare, indirizzate al Ministro della Giustizia. “Nella prima vengono segnalate le numerose anomalie esistenti nella struttura. La prima interrogazione riguarda la non chiarezza sulla regolamentare capienza della struttura, i dati oscillano tra le 450 e le 547 unità, ma in entrambi i casi essa è ben lontana dal numero di presenze realmente detenute e cioè 928, di cui 52 donne. Inoltre la struttura presenta numerosi problemi d’infiltrazione e di umidità ma, soprattutto il mancato collegamento coll’acquedotto del comune di Santa Maria Capua Vetere, per cui i detenuti possono usufruire di acqua corrente solo per poche ore al giorno. Di fronte al forte sovraffollamento della struttura, si registra una non sufficiente presenza del personale penitenziario, la pianta organica prevede 521 agenti ma attualmente risultano assegnati 481, da dividere in tre turni giornalieri non inferiore alle otto ore, per cui la struttura viene sorvegliata da appena 200 agenti penitenziari suddivisi in vari reparti e con molteplici funzioni con ripercussioni sulle condizione lavorative degli agenti di polizia penitenziaria. Viene inoltre segnalato, che nella rimessa della casa circondariale sono fermi da mesi 20 veicoli a causa di mancanza di fondi per la loro manutenzione, ciò crea, non pochi problemi per il trasporto dei detenuti verso i vari tribunali, a volte distanti centinaia di chilometri. È stata presentata anche una seconda interrogazione, sempre con le firme Perduca, Poretti che inerente ad un detenuto, F.L di 84 anni che molti problemi di salute, il detenuto in questione inizialmente è stato recluso nella casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere ma alla fine del mese di Agosto è stato trasferito al carcere di Secondigliano, dove avrebbe dovuto ricevere un’assistenza sanitaria adeguata ma le sue condizioni sono peggiorate al punto di mettere in pericolo la sua vita. Sulla vicenda intervengono i militanti dell’Associazione Radicale di Caserta. Abbiamo avuto, direttamente dai parenti del detenuto in questione, delle notizie davvero preoccupante sulla salute di F.L e contiamo che presto le autorità competenti intervengono, perché in un paese civile un uomo di 84 anni con gravi problemi fisici non può essere detenuto in strutture non idonee dove non è possibile garantire le più semplice assistenze sanitarie”. Vigevano (Pv): il carcere scoppia; troppi detenuti, poco personale La Provincia Pavese, 23 settembre 2012 Dormono in tre nelle celle da 7 metri quadrati: la mattina si devono smontare due letti e rimontarli la sera, altrimenti non si cammina. Piccolini, un carcere che rischia sempre più di esplodere per il sovraffollamento in costante crescita, e la cronica carenza di personale. “Una situazione ormai ben oltre il limite”, sintetizza il consigliere regionale Pd Giuseppe Villani, in visita alla casa circondariale con il segretario Pd di Vigevano, Valter Ricci, e Alessia Minieri dei Radicali Italiani. Il carcere di via Gravellona, consegnato nel 1993, ospitava ieri 505 detenuti, di cui 44 donne: due mesi fa erano 484, il picco massimo è stato 514 ospiti. Due anni fa i reclusi erano 400, numero ritenuto il tetto massimo di tollerabilità di una struttura concepita per 236 persone. Fra i detenuti comuni gli extracomunitari sono il 70 per cento, la media è un detenuto straniero su due. I tossicodipendenti in cura al momento sono circa 200. Se i detenuti sono il doppio della capienza, mancano gli agenti di polizia penitenziaria: 180 divise attualmente in servizio, su un organico teorico di 270 agenti. Il rapporto ottimale tra agenti di polizia penitenziaria e detenuti è di uno a due, nel carcere di Vigevano il rapporto è di uno a quattro. Mancano anche i volontari per l’assistenza agli ospiti: in questo periodo sono soltanto due. Altra nota dolente: il personale amministrativo, anch’esso insufficiente. Il carcere dei Piccolini, diretto attualmente da Davide Pisapia, occupa una superficie di15mila metri quadri, di cui 10mila coperti. Ha otto sezioni, ognuna delle quali formata da venticinque celle. Due sezioni sono di alta sicurezza, una maschile e una femminile, dove sono rinchiusi detenuti condannati per reati connessi alla criminalità organizzata. C’è anche una sezione di detenuti protetti perché hanno commesso reati a sfondo sessuale. I visitatori di ieri segnalavano anche elementi positivi: cinema e biblioteca funzionano, la sartoria è in piena attività. C’è un’ottima infermeria “con un medico, due infermieri, e uno specialista radiologo che da un anno e mezzo viene gestita direttamente dall’Asl. “Ma con i tagli dei fondi regionali destinati ai piani di zona “ dice Villani “ la qualità dell’assistenza sanitaria in carcere potrebbe peggiorare”. Il consigliere ricorda di aver ottenuto la costituzione di una commissione speciale a livello regionale sulle carceri: “Si deve impedire la riduzione dei fondi regionali, ampliare gli istituti di detenzione o quanto meno trovare forme di riduzione della pena, organizzare corsi di accoglienza”. Alessia Minieri auspicava un garante provinciale per i diritti dei detenuti. Reggio Emilia: grazie al teatro l’Opg apre le porte alla cittadinanza La Gazzetta di Reggio, 23 settembre 2012 “L’Opg si può raccontare, ma viverlo è un’altra cosa”. Ecco perché la Compagnia teatrale dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Reggio, guidata da Monica Franzoni, propone “In, Institution-Rewriting the Stanford prison experiment”, ovvero un “viaggio-spettacolo di esplorazione all’interno di Cassiopea”. In occasione della settimana della salute mentale, dalle 9 alle 14, il gruppo metterà oggi in scena questa nuova produzione proprio all’interno della struttura di via Settembrini. Una scelta senza precedenti, che loro stessi definiscono “un appuntamento unico, in quanto difficilmente il carcere di Reggio accetterà di aprirsi di nuovo alla città facendo entrare il pubblico nei reparti”. Come mai avete scelto di portare lo spettatore “dentro” e non lo spettacolo “fuori”, come avevate fatto fino ad oggi? Con “Institution” portiamo “dentro” chi non fa parte di questo mondo per offrirgli la possibilità di entrare in un luogo davvero poco conosciuto e sperimentare il vissuto di un paziente psichiatrico”. Che cosa dovrà aspettarsi in concreto lo spettatore? “Gli sarà richiesto di compiere in prima persona un “viaggio” all’interno dell’Opg come nuovo giunto. Sono stati ricreati nel reparto Cassiopea, in sette ambientazioni, i contesti significativi di vita di un internato dal suo ingresso alle prospettive finali di uscita. Chi vorrà compiere questo viaggio”esperienza potrà scegliere se indossare i panni del ricoverato o quelli dell’accompagnatore -osservatore”. Nel sottotitolo si parla anche di “esperimento”. In che senso? “Si fa riferimento a un esperimento scientifico realizzato nel ‘71 alla facoltà di Psicologia dell’Università di Stanford, in cui si ricostruì un ambiente carcerario e vennero attribuiti ruoli di detenuti e carcerieri a due gruppi di studenti. Dopo pochi giorni si verificarono episodi di violenza: i prigionieri mostrarono sintomi di disgregazione individuale e collettiva, seri disturbi emotivi; per contro le guardie continuarono a comportarsi in modo vessatorio e sadico. Si evinse che il contesto nel quale siamo inseriti condiziona in modo determinante il nostro comportamento, i nostri schemi mentali”. Che messaggio si vuole trasmettere con “Institution”? “L’Opg si può raccontare e tante volte il gruppo teatrale l’ha fatto con i suoi spettacoli, ma viverlo in prima persona è un’altra cosa, e questa è un’occasione unica per conoscere e capire una realtà da tanti anni chiusa e nascosta e che è destinata a concludersi il 31 marzo 2013. Inoltre in questo periodo in cui sono in atto tanti cambiamenti, riteniamo giusto fare sentire la nostra voce d’internati nel dibattito che avviene fuori e purtroppo non ci vede protagonisti. E la nostra voce è il teatro”. Trapani: presunto pestaggio di un detenuto; in Procura direttore carcere e agenti di polizia La Sicilia, 23 settembre 2012 Il direttore del carcere San Giuliano, Renato Persico, ed il personale della polizia penitenziaria sono stati sentiti nell’ambito delle indagini sul presunto pestaggio di Salvatore Savalli, l’operaio di 39 anni accusato di avere ucciso la moglie, Maria Anastasi. Gli inquirenti vogliono vederci chiaro. “Faremo tutto ciò che è possibile per chiarire questa vicenda”, dice il procuratore Marcello Viola. Le indagini sono coordinate dai sostituti procuratore Andrea Tarondo e Sara Morri, gli stessi che si occupano del caso della morte di Maria Anastasi. L’aggressione sarebbe avvenuta dopo la messa in onda della trasmissione “Quarto Grado”. Il programma condotto da Salvo Sottile, s’è occupato venerdì scorso della tragica fine della casalinga trapanese. Del delitto devono rispondere il marito, Salvatore Savalli, e l’amante, Giovanna Purpura. Nel corso della trasmissione sono state divulgate delle notizie false. È stato detto, ad esempio, che sarebbero state rilevate, sul bidone usato per bruciare il corpo della vittima, delle impronte riconducibili a Salvatore Savalli. Il reperto in realtà, ha chiarito la criminologa Roberta Bruzzone, consulente della difesa, è andato distrutto. Le notizie diffuse nel corso della trasmissione televisiva avrebbero fatto esplodere l’insofferenza di alcuni detenuti nei confronti dell’operaio trapanese. Sia il direttore che il personale della polizia penitenziaria hanno però smentito la circostanza. L’unica aggressione subita da Salvatore Savalli risalirebbe al mese di luglio, pochi giorni dopo il suo ingresso in carcere. Un vero e proprio giallo che gli inquirenti intendono risolvere. Un primo chiarimento potrebbe arrivare attraverso l’audizione di Salvatore Savalli. L’operaio dovrebbe essere sentito in queste ore dagli inquirenti. Il condizionale è d’obbligo visto che nulla trapela dagli uffici giudiziari. Maurizio Macaluso Ferrara: l’ex magistrato Gherardo Colombo “il carcere insegni a essere liberi” La Nuova Ferrara, 23 settembre 2012 “Si può educare all’obbedienza, oppure, si può educare alla libertà”. Con queste parole, nette, un vero aut aut, l’ex magistrato Gherardo Colombo ha aperto il suo intervento ieri pomeriggio nella Sala San Crispino della libreria Ibs in piazza Trento e Trieste. L’appuntamento, il primo, di “Nuovi libri dietro le sbarre” che punta a sensibilizzare la comunità tutta a tematiche come la giustizia, la vita in carcere, la funzione delle detenzione. L’ultimo piano di Ibs era affollato, carico di un pubblico pronto ad ascoltare e interagire. Il libro intorno al quale è ruotato l’incontro è “Il perdono responsabile” di Colombo che si interroga e confronta le due modalità con le quali la società reagisce alla violazione delle regole. “Il modello “vincente” o per lo meno che va per la maggiore - ha detto il coordinatore Paolo Veronesi, è quello restrittivo: al male si risponde col male. Il secondo modello, invece, attraverso un costante stimolo punta al perdono responsabile”. In questo libro, l’ex pm, si occupa sia della vita del detenuto, sia di quella dei suoi famigliari cercando di capire come la pena carceraria influisca sulla persona stessa e su quelle a lui direttamente collegate. “Dagli ultimi dati del ministero di giustizia -prosegue Veronesi, emerge che sette detenuti su dieci, se hanno espiato la pena unicamente in carcere, una volta fuori commettono altri reati. Più bassa la percentuale di coloro che durante il periodo di pena hanno svolto attività lavorative, ricreative e percorsi di recuperi volti a un reinserimento nella società”. Il garante regionale per le persone private di libertà personale, Desi Bruno, ha spiegato che “Proteggersi dietro lo scudo del sovraffollamento e rimandare sempre l’utilizzo di nuovi metodi e trattamenti è sbagliato. Il sistema penitenziario attuale non ha portato nessun miglioramento alla collettività. Dobbiamo lavorare sulle misure alternative non allargare i padiglioni. Lavoro, istruzione e attività che aiutino la persona a svolgere un percorso utile durante la pena; questa la strada da perseguire”. In chiusura Colombo ha spiegato quanto il suo discorso sull’educazione all’obbedienza o alla libertà non riguardi unicamente il sistema di giustizia ma tutto il tessuto sociale: “A scuola, in famiglia, sul lavoro, attraverso premi o castighi si educa all’obbedienza e secondo questo modello è difficile andare d’accordo con la nostra Costituzione che si basa sull’idea di una società responsabile e non obbediente. Responsabili lo si è soltanto se si è liberi; in caso contrario si è solo responsabili di avere obbedito”. Treviso: carcere e minorile senza impianti di condizionamento La Tribuna di Treviso, 23 settembre 2012 “I 200 mila euro per l’opera d’arte in tribunale? Usiamoli per installare il condizionamento del penitenziario trevigiani”. Il consigliere comunale di “Città Mia”, Alfio Bolzonello, rispolvera le polemiche sulla maxi spesa a carico del Comune per abbellire il Foro di Treviso e solleva un problema concreto delle strutture di Santa Bona. I 200 mila euro di cui parla Bolzonello sono quelli che il Comune deve impiegare (utilizzando fondi del ministero della Giustizia) per completare l’iter di collaudo amministrativo del nuovo edificio del tribunale. È una legge del 1949 a imporre quest’obbligo. Cà Sugana ha cercato di rimandare la spesa finché è stato possibile. Ora però si dovrà procedere con l’acquisto, contestatissimo. “E pensare che basterebbe un emendamento per cambiare la legge”, dice Bolzonello. Il consigliere indica anche una destinazione d’uso specifica: “Questa estate i detenuti hanno passato due mesi a 40 gradi”, continua, “Per un impianto di condizionamento capace di servire i due istituti, il carcere e l’istituto minorile, basterebbero 20 mila euro, un decimo di quella cifra”. Al minorile, intanto, si sta ragionando anche su un altro fronte. Il direttore ad interim, Alfonso Paggiarino, ha inviato al ministero di Giustizia un progetto, con preventivo di spesa compilato da una ditta, per portare le docce in ognuna delle 7 stanze dove dormono i giovani (tre singole, le altre da 4: la capienza è di 12, la tolleranza è fissata a 18, ma in alcuni casi si arriva a 23-24 ospiti). Al momento i ragazzi hanno docce condivise. Ora all’Ipm di Treviso si incrociano le dita perché la richiesta di fondi vada a buon fine. Compatibilmente con le risorse disponibili, sempre più risicate. Ragazzi in festa con video e concerti Il momento più emozionante? La performance di tre ragazzi - con chitarra, bonghi e batteria - “Knockin’ on heaven’s door” di Dylan. Quello più divertente? La magistrale esibizione hip-hop dello stesso terzetto, senza piatti o sintetizzatori, ma con il solo uso della bocca per imitare la musica. Il più meditativo? La visione del video “Take Away”, attori protagonisti i ragazzi dell’Ipm con i coetanei studenti delle superiori di Treviso, in un progetto estivo di video teatro curato dagli educatori Valentina Paronetto, Marika Tesser e Nicola Mattarollo. Giornata speciale, ieri, all’Istituto penale minorile di Santa Bona. Porte aperte alla stampa, ai volontari che d’estate hanno condotto i corsi per i detenuti, agli studenti delle superiori. Una festa per chiudere i progetti estivi dell’Ipm l’istituto per aiutare i ragazzi detenuti a scoprire quanto la vita può riservare ancora loro di positivo nonostante gli sbagli del passato. Il corso di musica, organizzato dall’associazione Blue Note legata alla scuola “Coletti”; le iniziative dell’Uisp, che ha fatto conoscere ai ragazzi Gianni Rivera; l’intrattenimento dei clown dell’associazione “Naso rosso libera tutti” e il progetto di video-teatro. Per non parlare della scuola e del progetto “Bottega grafica”. Il tutto con l’aiuto costante del Centro di servizi per il volontariato. Una bella giornata. Il segno tangibile che molto si può e si deve fare per questi ragazzi soprattutto per aiutarli ad affrontare la vita fuori di quelle mura, al di là di tutti i pregiudizi. Voghera: corso per volontari in carcere, quaranta iscritti La Provincia Pavese, 23 settembre 2012 Il corso per volontari in carcere ha riscosso notevole successo. Sono già 40 le iscrizioni per le lezioni che prenderanno il via domani alla Casa della Carità. “Ha suscitato notevole interesse il percorso formativo proposto dalla Consulta per i problemi sociali del Comune di Voghera con il sostegno del Centro Servizi Volontariato di Pavia e Provincia, in collaborazione con la Direzione della Casa Circondariale di Voghera, la Agape Cooperativa Sociale Onlus e con il gratuito patrocinio del Comune di Voghera e della Provincia di Pavia - spiega Moreno Baggini, della Caritas. L’obiettivo è quello di fornire una maggiore consapevolezza sull’ambito carcerario e di formare operatori capaci di gestire, in maniera costruttiva, relazioni d’aiuto in questo contesto specifico”. In un’ottica di avvicinamento carcere-territorio, la Consulta per i Problemi Sociali di Voghera ha avviato un confronto positivo e la messa in opera di questa formazione è uno dei primi risultati. Grazie al prezioso contributo di operatori e professionisti, che da anni operano all’interno del carcere locale e di altre città, il percorso si propone infatti di fornire un quadro concreto, realistico e funzionale agli interventi dei volontari che, a vario titolo, incontreranno i detenuti. Napoli: pizzaiolo finì in carcere per errore, ora ci torna per insegnare ai minori Tm News, 23 settembre 2012 Un errore giudiziario, l’arresto, poi il carcere da innocente: per 106 giorni fino all’assoluzione con formula piena “per non aver commesso il fatto”. Di quella terribile esperienza, tuttavia, Ernesto Fico, pizzaiolo 43enne di Napoli, ha fatto tesoro trasformando il suo calvario in un’occasione per aiutare i giovani detenuti del carcere minorile di Nisida con un corso per aspiranti pizzaioli”. È durato, a spese mie, quasi sei mesi, alla fine abbiamo fatto un’enorme festa convocando anche i calciatori del Napoli e vari amici ristoratori i quali hanno preso dei ragazzi a lavorare e grazie a me e all’associazione “Scugnizzi” abbiamo messo anche dei ragazzi a lavorare che escono e entrano”. Ernesto ha scritto la sua storia in un libro, “L’urlo dentro”, che fino a quando non ha vinto un concorso ha avuto difficoltà a trovare un editore. Tra le sue pagine, il pizzaiolo ripercorre il dramma della sua detenzione e il malessere vissuto tanto dietro le sbarre, quanto fuori, ripensando alle condizioni di vita dei detenuti”. Io ancora di notte sento i rumori dei secondini che passano vicino alle sbarre”. A “condannare” Ernesto la sua calvizie che, come racconta, ha fatto sì che la sua accusatrice lo scambiasse per il vero rapinatore”. Una donna di 25 anni era stata rapinata in un suo negozio, disse che un ragazzo senza capelli le aveva fatto una rapina e in quel momento mi ha accusato. Poi, grazie ai testimoni, hanno accertato che non ero io”. Bologna: processo più vicino per agenti accusati di aver rapinato pusher magrebini Dire, 23 settembre 2012 Processo in vista per i quattro poliziotti della Questura di Bologna che vennero arrestati, nel marzo scorso, con l’accusa di aver rapinato (e in un caso picchiato) tre pusher magrebini durante l’attività di servizio. Nei giorni scorsi, ai quattro agenti delle “volanti”, sono arrivati gli avvisi di fine indagine, atto che solitamente prelude alla richiesta di rinvio a giudizio da parte della Procura. Le accuse per Francesco Pace, Alessandro Pellicciotta, Valentino Andreani e Giovanni Neretti restano le stesse formulate fin dall’inizio e approvate anche dal gip Alberto Ziroldi che il 5 marzo scorso li ha mandati in carcere: rapina aggravata, lesioni e sequestro di persona (questi ultimi due reati sono relativi alla “spedizione” punitiva messa in atto nei confronti di uno dei tre pusher, che in una notte di novembre venne condotto nelle campagne nella zona di Castenaso, picchiato e poi abbandonato lì). La prospettiva del rito immediato (un tipo di processo che l’accusa sceglie quando ha in mano prove schiaccianti), è sfumata, di recente. Ma il motivo è tecnico e non ha nulla a che vedere con un cambio di strategia (o di idea) da parte della Procura: visto che i quattro agenti sono usciti dal carcere (ora sono passati all’obbligo di firma), il rito immediato non è più possibile (si può fare solo se le persone sono detenute). I quattro agenti furono sospesi la mattina stessa dell’arresto e lo sono tuttora. Viterbo: dal 26 al 28 settembre conferenza su diffusione malattie infettive in carcere Dire, 23 settembre 2012 La Simspe (Società italiana di medicina e sanità penitenziaria) congiuntamente a Simit (Società italiana di malattie infettive e tropicali), organizzano a Viterbo dal 26 al 28 settembre 2012 la “Conferenza Europea 2012 sulle Malattie Infettive, le politiche di riduzione del danno ed i diritti umani in carcere”, che intende affrontare questi problemi e mettere a confronto l’esperienza italiana con quelle europee identificando le maggiori criticità e i migliori modelli a cui ispirarsi per un auspicato miglioramento degli standard assistenziali per i cittadini detenuti nelle carceri europee. Durante la Conferenza verranno discusse nel corso di sessioni e tavole rotonde tra gli esperti ed il pubblico, tematiche di estremo interesse ed attualità, a partire dal ruolo delle Ong nel supporto della salute dei prigionieri, dalla situazione dei diritti umani in carcere, passando all’uso di droga e alle strategie di riduzione del danno dietro le sbarre, non senza offrire uno sguardo approfondito alla situazione della donna, sempre più esposta al rischio di malattie come Aids e Tbc. Ai lavori prenderanno parte, oltre ai massimi esperti italiani ed europei e molte delle Organizzazioni Internazionali attive in questi campi in Europa, esponenti dell’Organizzazione Mondiale per la Salute, Dirigenti Generali del Ministero della Giustizia, associazioni nazionali e internazionali per la tutela dei diritti umani come Ristretti Orizzonti, Nps, Lila, Medici senza Frontiere. E per toccare con mano la realtà della vita quotidiana dei detenuti, sarà organizzata una visita al super carcere di Viterbo. La lettura introduttiva sarà svolta da Stefano Vella, responsabile per l’Oms della lotta all’Aids nei Paesi in via di sviluppo. “Tra tutti i diritti violati quello alla salute è forse l’unico che ancora riesce a suscitare pieta”‘, sottolinea Giulio Starnini, Past President e Fondatore Simspe. “Non è giusto, però, accettare che la disperazione di chi sta in carcere, ma anche talvolta di chi ci lavora, per poter avere ascolto si trasformi in suicidio. Non dobbiamo credere ineludibili le centinaia di morti per cancro, per cirrosi epatica o per Aids. Non possiamo illuderci che la tubercolosi, che coinvolge il 20% dei detenuti, non travalichi le mura del carcere. Non vogliamo che la giustizia si trasformi in colpevole, violenta, indifferente”. Bologna: due agenti aggredite in reparto femminile della Dozza Ansa, 23 settembre 2012 Due agenti di polizia penitenziaria del reparto femminile del carcere bolognese della Dozza sono state aggredite da una detenuta. Lo rende noto Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto Sappe, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria. “Le agenti hanno dovuto fare ricorso alle cure mediche e non si conosce ancora la prognosi - ha aggiunto Durante. Gli eventi critici in Italia sono tantissimi. Le aggressioni sono oltre cinquemila, oltre mille sono i tentativi di suicidio. La polizia penitenziaria è costretta a lavorare sempre sott’organico e il governo ha pensato bene di aggravare ulteriormente la situazione tagliando gli organici per il prossimo triennio, nel corso del quale perderemo altri tremila agenti che si aggiungeranno ai settemila che già mancano. L’organico previsto è di 44.500 unità e attualmente ce ne sono solo 37.500. A Bologna mancano sempre 200 unità, mentre in Emilia Romagna ne mancano 650”. Immigrazione: quella galera chiamata Cie di Davide Lessi L’Espresso, 23 settembre 2012 A Torino, il Centro di identificazione ed espulsione per gli immigrati dovrebbe essere una struttura di accoglienza ma in realtà è una prigione di massima sorveglianza. Tra gabbie metalliche e ronde militari. Dove impera l’abuso di sedativi e psicofarmaci. E cresce il business per la gestione. “Ma cosa vogliono dire quelle scritte?”. Le domande dei bambini escono così. Per mano, in fila a un doposcuola, guardano dall’altra parte della strada. Su un muro si legge: “I militari rapiscono chi è senza documenti”. Corso Brunelleschi, Torino: dietro il cemento armato c’è il Cie, uno dei 13 Centri di Identificazione ed Espulsione attivi in Italia. Fuori il via vai del traffico e la gente che cammina veloce tra gli androni degli alti palazzi. “Paghiamo l’Ici come nei quartieri più costosi, ma non ne possiamo più”, ci dice un inquilino. E si sfoga: “I giovani vengono qui fuori a fare casino. La chiamano solidarietà con gli immigrati. Ma battono bastoni sui pali, urlano e sporcano i muri”. Non solo la Circoscrizione 3, tutta la città è un murale “No Cie”: scritte disseminate ovunque dalla stazione dei treni al mercato di Porta Palazzo. Eppure pochi sanno cosa sia la struttura amministrativa gestita dalla Croce Rossa Italiana dove, da gennaio 2011 a luglio 2012, sono transitate circa 2 mila persone. Migranti trovati senza regolare permesso di soggiorno, ma non solo. Ci sono richiedenti asilo, 135 solo nell’ultimo anno e mezzo. E poi tanta gente che arriva dritta dalla prigione: stime parlano del 40-50% dei trattenuti. “Il circuito carcere-Cie è ormai insostenibile”, ha denunciato la consigliera regionale Monica Cerutti (Sel) dopo l’ultima visita al centro. E ha spiegato: “Gli ospiti non capiscono perché dopo aver scontato una pena devono subire un’ulteriore detenzione”. Ospiti? No, detenuti a tutti gli effetti “Entrare o non entrare è una questione di sfortuna”, dice Aziz, un giovane nordafricano che dal Cie è fuggito due volte. “Sta tutto nell’incappare in un controllo di polizia ed essere condotti in Questura”. Dagli uffici immigrazione a Corso Brunelleschi la via è breve. Ma il trattenimento amministrativo, per decreto dell’allora ministro Roberto Maroni, può durare fino a 18 mesi. “Da noi la permanenza massima è di circa 40 giorni”, assicura Antonio Baldacci, colonnello e direttore responsabile del Centro. Si parla degli immigrati come di “ospiti”. Però, varcato il cancello d’ingresso, l’impressione è di una struttura di massima sorveglianza. Telecamere e torrette di pattugliamento vegliano le sei aree (quattro maschili e due femminili), chiamate con nomi di differenti colori. Una sezione, la “bianca”, è inagibile e porta i segni del fuoco di una recente rivolta. In ogni camera sette letti, ben ancorati al pavimento, hanno lenzuola fatte di materiali deteriorabili per evitare atti di autolesionismo e fughe. Intorno ad ogni area gabbie metalliche alte fino a sei metri. Fuori di queste, le ronde dei militari. “Le strutture assomigliano in tutto e per tutto a delle carceri”, si legge in uno studio coordinato dal professore Alberto di Martino e realizzato dai dottorandi della Scuola Superiore Sant’Anna di Firenze. La ricerca, indirizzata al Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura, denuncia: “Il sistema dei Cie non è compatibile con la Costituzione italiana”. Senza documenti e giustizia Violazione della libertà personale e incertezza del diritto. “L’assenza di paletti prestabiliti genera un sistema non garantista e la giustizia diventa un timone: dove la giri, va”, denuncia l’avvocato Dario Cardillo. Un suo assistito, originario dal Marocco, ha avuto il permesso di soggiorno in Italia per nove anni. Dal 2006 ha lavorato, con regolare contratto, come pizzaiolo a Torino. Una figlia di 4 anni e una sorella naturalizzata italiana, non gli sono bastate per evitare il provvedimento di espulsione. “Anni fa aveva commesso un furtarello prima di trovare impiego e un’altra volta aveva dato qualche grammo di hashish a un connazionale”, racconta il suo avvocato Cardillo. Che spiega: “È stato giudicato socialmente pericoloso, perciò da espellere”. Per i cittadini dell’Unione Europea, la fedina penale sporca non può di per sé giustificare l’adozione di provvedimenti di pubblica sicurezza. Per i cittadini di Stati terzi, specie se sans papier, basta e avanza. “Di fatto nei Cie si crea un sistema di diritto speciale: l’espulsione si colloca in una zona grigia tra diritto amministrativo e diritto penale”, aggiunge Guido Savio, avvocato membro dell’Asgi, Associazione di Studi Giuridici sull’Immigrazione. Una ragazza di 25 anni si è rivolta a lui per chiedere la protezione internazionale. In Moldavia era stata vittima di usura: un debito da 3.000 euro da ripagare con interessi del 15%. Fuggita a Torino, ha cominciato a prostituirsi. Poi è finita al Cie e per uscire dalla struttura si è cucita le labbra: sciopero della fame a oltranza. “L’hanno lasciata libera quando non riuscivano più a prendersi cura di lei”, racconta l’avvocato. Vita da Cie: tra corsi di magia e psicofarmaci L’autolesionismo paga. Sia per dare visibilità al proprio disagio che per cercare di fuggire se ricoverati all’esterno del Cie. “Nel 2011 ci sono stati 100 casi di ingestione di corpi esterni e 56 feriti da arma da taglio”, racconta Alberto Barbieri coordinatore dei Medici per i Diritti Umani (Medu). Dai dati della Prefettura emerge che il 35% dei trattenuti ha fatto ricorso a strutture ospedaliere. Più di uno su tre. L’11% per interventi radiologici. E poi un abuso incondizionato di sedativi e psicofarmaci: “Nella mia ultima visita su 120 trattenuti, 40 li assumevano. E questo in un contesto dove lavorano solo due psicologi, senza specialisti psichiatrici”, stigmatizza Barbieri. Che spiega: “L’incertezza sulla durata del trattenimento e l’ozio forzato cui sono costretti i migranti non fanno che peggiorare le cose”. Per battere l’inedia dei suoi “ospiti”, la Croce Rossa ha pensato alla pet-agility: i trattenuti possono assistere ogni settimana a spettacoli di cani addestrati a saltare gli ostacoli. “Questa iniziativa potrebbe presto essere affiancata dai corsi di magia”, aggiunge il colonnello Baldacci. Dal tetto della palazzina d’ingresso un funzionario ricorda la fuga di un trattenuto: “Non capivamo perché si allenasse di continuo. Poi, quel giorno, è stato velocissimo. A saperlo l’avremmo potuto iscrivere alle Olimpiadi con la maglia del Cie”. E ride. Il business della macchina delle espulsioni Si ride meno se si considerano i costi della struttura. Dal 1999, anno dell’apertura, tra costruzione, ampliamento e gestione, il Cie è costato più di 40 milioni di euro. Lo Stato ne dà ogni anno circa 3 milioni e 650 mila all’ente gestore. La Croce Rossa, pur subappaltando alcuni servizi (tra cui la mensa), impiega una settantina di persone tra medici, infermieri e dipendenti. La macchina delle espulsioni è un business. Che in Italia ha fatto gola a molti: dal consorzio Connecting People (quello dei Cie di Gradisca e Trapani) alla Misericordia di Modena, la confraternita presieduta da Daniele Giovanardi, fratello dell’ex sottosegretario di Berlusconi. Eppure quasi mai enti gestori e istituzioni raggiungono lo scopo dichiarato: l’espulsione coatta. Dei circa 500 mila migranti irregolari presenti in Italia (Caritas Migrantes) solo una percentuale minima va a finire nei 13 Centri di identificazione ed espulsione. Una frazione irrisoria al Cie Brunelleschi. Per Aziz, il giovane nordafricano fuggito per due volte dal Cie, il meccanismo è semplice: “Una macchina per andare avanti ha bisogno di tanta benzina, quella benzina siamo noi immigrati. I pezzi della macchina sono invece tutti quelli che sulla nostra pelle ci lavorano, tutto quello che ci sta intorno”. Ma a Torino, intorno al Cie Brunelleschi, a farsi le domande sono rimasti solo i bambini. Droghe: in Uruguay la marijuana diventa monopolio di Stato di Maurizio Stefanini La Repubblica, 23 settembre 2012 Il presidente uruguayano José Mujica ha annunciato la creazione di un monopolio di Stato sulla produzione della marijuana per ridurre la criminalità. Reazioni contrastanti dalla regione, anche se il proibizionismo è in crisi. Al momento di scrivere queste note, non è ancora iniziata l’annunciata “semina di settembre” che avrebbe reso disponibile la marijuana di Stato uruguayana entro marzo. Presumibilmente però si tratta solo di una questione di tempo. Il Congresso di Montevideo sta ancora discutendo i particolari - tra i quali la dimensione di 150 ettari - indicati dal presidente José “Pepe” Mujica. Lo stesso Mujica ha inoltre espresso l’esigenza di evitare che l’Uruguay diventi meta di un turismo di tossicodipendenti: “Il progetto mira a risolvere i problemi che ci sono tra di noi”. La maggioranza di sinistra sembra abbastanza compatta, e anche dall’opposizione di centro-destra arrivano alcuni consensi. Il sito unanuevalegislacion.com, che il governo dell’Uruguay ha aperto per difendere il suo progetto di “marijuana di Stato”, esibisce ad esempio l’approvazione del deputato Luis Lacalle Pou, del Partido nacional blanco. In America Latina dunque l’opzione antiproibizionista sta per passare dal dibattito alla sperimentazione. A elogiare l’idea sul sito governativo definendola “valorosa”, c’è anche il peruviano Mario Vargas Llosa, premio Nobel per la letteratura e noto liberale, che normalmente spara invece a zero contro i governi di sinistra latino-americani. È stato il presidente di destra guatemalteco Otto Pérez Molina il primo a parlarne. In compenso Tareck el Assaimi, ministro dell’Interno del governo di sinistra venezuelano, ha unito la propria voce a quella del presidente di destra colombiano Juan Manuel Santos, per chiedere che una misura del genere non sia presa in modo unilaterale, dal momento che la lotta al narcotraffico può avere successo solo se condotta su scala regionale. Questo nonostante Santos - assieme al presidente messicano Calderón, altro leader di destra - fosse sembrato all’inizio favorevole alla provocazione di Pérez Molina. Quanto al presidente boliviano Evo Morales, che da tempo si batte per chiedere all’Onu l’eliminazione della foglia di coca dalla lista delle sostanze bandite a livello internazionale, in un primo momento ha elogiato l’iniziativa uruguayana facendo pensare a un imminente passo analogo a La Paz; successivamente il governo ha smentito. Tra le opinioni critiche c’è poi anche quella dell’Onu, che considera la legge incompatibile con tutti gli accordi internazionali contro il narcotraffico sottoscritti dagli Stati membri. “Regolando come stiamo proponendo il mercato della marijuana, riusciremo in futuro a mettere sotto controllo anche il mercato delle altre droghe”, ha spiegato Julio Calzada, il segretario generale della Junta Nacional de Drogas uruguayana. Il presidente Mujica ha annunciato l’istituzione di un monopolio di Stato sulla marijuana all’interno di un piano di 15 misure per ridurre l’aumento della criminalità, anche se l’Uruguay resta uno dei paesi più sicuri del continente. “In Uruguay abbiamo 9 mila detenuti di cui 3 mila per il narcotraffico, e questo numero tende a crescere”, dice il presidente. In realtà sarà un monopolio sulla sola produzione: la distribuzione sarà poi affidata a privati, sia pure sottoposti a controllo. Verrà anche istituito un registro dei consumatori che prevede la distribuzione di un massimo di 30 grammi al mese per persona: un modo per evitare sia il mercato nero sia quel tipo di narco turismo che ha obbligato infine l’Olanda a cambiare la propria legge sui coffee shop (nei quali era permesso consumare derivati della cannabis) istituendo a sua volta un meccanismo di tesseramento. Poiché in Uruguay coloro che fanno uso di marijuana almeno una volta al mese sarebbero 75 mila, il governo ha previsto una produzione da 27 mila chili all’anno che verrà realizzata in un apposito appezzamento - prima previsto di un centinaio di ettari, poi portato a 150. La decisione è ora in corso di valutazione al Congresso. Il governo uruguayano ha chiarito di non volerci guadagnare sopra: gli utili e le imposte sulla vendita saranno destinati alla riabilitazione dei tossicodipendenti, mentre una parte della produzione verrà utilizzata per la realizzazione di farmaci contro il cancro. Il Frente Ampio ora al potere è una vastissima coalizione stile Ulivo, da Dc e tecnocrati fino agli ex-guerriglieri tupamaros. Il presidente Mujica è un tupamaro, come il ministro della Difesa Eleuterio Fernández Huidobro (che è anche lo storico ufficiale del gruppo), il quale ha annunciato al Congresso la “depenalizzazione della produzione della marijuana”: “Il consumo era già depenalizzato”. Questa scelta sarà posta “alla base della politica estera”. Che la depenalizzazione della produzione della canapa indiana vada accompagnata a un monopolio di Stato è una novità tra le legislazioni esistenti: la stessa famosa legge olandese si limita a autorizzare la commercializzazione all’interno dei famosi coffee shop. Non è però una novità in assoluto: all’inizio del XX secolo monopoli di Stato sull’oppio erano in vigore nelle colonie inglesi, francesi e olandesi in Estremo Oriente, e persino nel Marocco francese esisteva dal 1912 una Régie des Tabacs et du Kif che vendeva insieme tabacco e hashish. Proprio su quell’esperienza si basò poi l’Osservatorio geopolitico delle droghe di Parigi per criticare l’ipotesi antiproibizionista, osservando ad esempio che nelle Indie Olandesi il monopolio non impediva un fiorente contrabbando, simile a quello delle sigarette: i prezzi alti rendono ancora conveniente un’intermediazione criminale, mentre prezzi bassi rischiano di estendere il vizio invece di metterlo sotto controllo. Proprio questo regime di monopolio è criticato da alcune organizzazioni storiche dell’antiproibizionismo uruguayano, che chiedono il diritto all’autocoltivazione. Il tema è caldo in tutta la regione. Proprio una proposta di legge per autorizzare le “coltivazioni illecite” è stata presentata al Congresso di Bogotá, anche se il governo colombiano è contrario, mentre in Messico Calderón ha proposto una legge per autorizzare il consumo personale. Altrettanto spregiudicata, ma di impianto diverso, è stata la strategia del presidente salvadoregno Mauricio Funes - un giornalista eletto con i voti degli ex-guerriglieri che poi ha fatto spesso sponda con gli Usa, anche per bloccare le proposte di Pérez Molina. Per ridurre gli alti tassi di violenza, il capo di Stato del Salvador ha preferito trattare direttamente con le maras, le bande dei narcos, servendosi della mediazione della Chiesa. Ha poi dichiarato che da marzo è riuscito a ridurre drasticamente il tasso di omicidi del 52%: da 14 morti al giorno ad appena 4. Maurizio Stefanini, giornalista professionista e saggista. Free lance, collabora con Il Foglio, Libero, Liberal, L’Occidentale, Limes, Longitude, Theorema, Risk, Agi Energia. Ha redatto il capitolo sull’Emisfero Occidentale in Nomos & Kaos Rapporto Nomisma 2010-2011 sulle prospettive economico-strategiche. Specialista in politica comparata, processi di transizione alla democrazia, problemi del Terzo Mondo, in particolare dell’America Latina, e rievocazioni storiche. Germania: detenuti obbligati a lavorare per 1 euro l’ora, un business per lo Stato di Barbara Ciolli www.lettera43.it, 23 settembre 2012 Manodopera a basso costo dalla Cina? Nein, danke, no grazie. Meglio conservare il marchio made in Germany, appaltando lavori di costruzione e assemblaggio a migliaia di detenuti nelle carceri tedesche. A Ravensburg, una ventina di chilometri di distanza dal confine con la Svizzera, la prigione circondata da filo spinato che svetta sulla collina ospita impianti sportivi e alcuni centri di produzione che girano a pieno ritmo. Ogni giorno i carcerati ricevono commesse da fornitori di case automobilistiche, aziende di attrezzi e mobili per la casa e persino ordini dall’estero, che dalla Gran Bretagna arrivano fino a Israele. Non solo lavori interni di mensa e pulizie, mansioni socialmente utili per amministrazioni locali o appalti assegnati da società statali, dunque. Ma richieste di clienti privati che ormai offrono ampi margini di business ai gestori dell’amministrazione penitenziaria. Con la concorrenza dell’Est Europa, nell’ultimo decennio, le fabbriche tedesche dei detenuti-operai sono diventate sempre più competitive e orientate al mercato. In Baden-Württemberg, il Land di Ravensburg, nel 2011 i centri di produzione degli istituti penitenziari hanno prodotto 30 milioni di euro di fatturato, in Baviera e in Nord-Reno Westfalia sono stati oltre 43 milioni. In Germania, oltretutto, c’è grande competizione tra land e land, e tra le stesse carceri delle singole regioni. Attraverso un software, i dirigenti delle fabbriche all’interno delle galere (tecnicamente, trattasi di ispettori) possono accedere ai risultati dei loro colleghi, fare paragoni, elaborare strategie di marketing. In alcune prigioni, i detenuti hanno addirittura creato linee di produzione proprie: marchi come Jailers (secondini, in inglese), Robe dal carcere e simili che sfornano indumenti, accessori e oggettistica varia, rivenduta poi ai negozi o su portali online. Anche in questo caso, gli affari vanno a gonfie vele: solo a Ravensburg, nel 2011, 3 milioni di euro di fatturato, tra commesse e shop personale, per circa mezzo milione di utili. Altro che crisi, insomma. Tanti guadagni sono legati, innanzitutto, al basso costo del lavoro e alle spese di trasporto pressoché inesistenti in Germania, che rendono i prezzi assai concorrenziali persino rispetto a quelli delle società che delocalizzano la produzione ad aziende private nei Paesi dell’Est. Per sette ore e mezzo di lavoro al giorno, i carcerati tedeschi ricevono un compenso netto massimo di 1,97 euro all’ora, a fronte dei 7,89 euro di salario minimo garantito per un normale contratto part-time. Nel lordo, non sono compresi i versamenti della pensione e le spese di assistenza sanitaria sono a carico dello Stato. Del magro stipendio, inoltre, i detenuti incassano meno della metà: il resto viene loro corrisposto solo dopo la liberazione. Il 50% dei profitti va allo Stato, il resto alle carceri. Tuttavia, almeno a detta dei dirigenti di fabbrica, i lavoratori-galeotti sono molto motivati: anche solo per il fatto di poter uscire dalla cella, per più di un’ora d’aria al giorno. Ma se qualche occasione per ridere c’è - a Ravensburg, una delle ultime commesse è stata una partita di dildo in acciaio per sexy shop - tra i detenuti non manca la frustrazione per compensi così bassi. Ma lavorare si deve, primo perché (come in Italia) il lavoro è uno strumento di riabilitazione e secondo perché, come ammettono gli stessi dirigenti carcerari, il lavoro delle prigioni è diventato uno strumento di business discretamente redditizio. L’anno passato, in Baden-Württemberg circa 5 mila dei 7 mila internati sono stati impiegati nelle fabbriche, oltre la metà in Baviera. Il 50% dei profitti incamerati grazie a loro va nelle casse dello Stato, l’altra metà viene investita dalle singole strutture per modernizzare e mantenere le fabbriche. Solo nel carcere di Düsseldorf nel 2012 sono stati inaugurati due saloni di 5 mila metri quadrati di superficie, da destinare alla lavorazione e ai magazzini. Volenti o nolenti, i detenuti devono produrre. Compito dei loro team leader è spronarli a lavorare con entusiasmo, anche senza ricevere un soldo in più. Dalle stime aziendali, le prestazioni hanno raggiunto il 70% del loro potenziale. La corda si può tirare ancora di più. Stati Uniti: Guantánamo; diffusi nomi 55 detenuti da liberare ma che nessuno vuole Adnkronos, 23 settembre 2012 Il dipartimento americano della Giustizia ha diffuso per la prima volta i nomi dei 55 detenuti di Guantánamo per i quali è stato approvato il rilascio, ma che non hanno trovato alcun paese disposto ad accoglierli. “È una vittoria parziale in nome della trasparenza e dovrebbe essere uno sprone all’azione. Questi uomini sono stati tre anni in carcere dopo che l’intelligence civile e militare ha convenuto sul loro rilascio”, ha commentato Zachary Katznelson, avvocato per la American Civil liberties Union, l’organizzazione che aveva chiesto la pubblicazione della lista con una istanza alla corte distrettuale di Washington. Il gruppo dei 55 è composto da 24 yemeniti, oltre che dai tre ultimi uiguri (minoranza islamica in Cina) e i cinque ultimi tunisini di Guantánamo. Attualmente vi sono 167 detenuti nel campo di prigionia militare americano a Cuba, voluto dall’allora presidente George Bush. Obama aveva promesso di smantellarlo, ma si è scontrato con innumerevoli ostacoli pratici. Quest’anno soltanto tre detenuti sono stati liberati e accolti in altri paesi, mentre Adnan Latif, uno yemenita per il quale c’era il via libera al rilascio, è morto in cella il mese scorso. Georgia: detenuti in sciopero della fame, dopo diffusione video con abusi e violenze Corriere della Sera, 23 settembre 2012 Dopo il video che documentava gli abusi e le violenze sui detenuti nelle carceri nella repubblica della Georgia, i detenuti hanno iniziato uno sciopero della fame. Numerosi detenuti georgiani hanno cominciato uno sciopero della fame contro la violenza della polizia nelle carceri del Paese. Lo riferisce l’agenzia stampa Interpress. La protesta è partita sull’onda dello scandalo provocato in Georgia da un video sugli abusi in una prigione di Tbilisi, diffuso da una rete televisiva dell’opposizione. La vicenda ha provocato le dimissioni del ministro degli Interni, Bacho Ajalaja, a licenziarsi. La madre di uno dei carcerati che ha cominciato il digiuno, intervistata da Interpress, ha riferito che, nonostante le promesse delle autorità di porre fine a queste violenze, i secondini hanno continuato a maltrattare il figlio. Le guardie carcerarie sono accusate di avere torturato, stuprato e picchiato i detenuti, costringendo alcuni di questi, mentalmente disabili, a ballare e a cantare. Il presidente Mikheil Saakashvili ha promesso che il suo governo identificherà e punirà i responsabili delle violenze. Lo scandalo potrebbe spingere Saakashvili verso una riforma del sistema delle prigioni del Paese, in vista anche delle prossime elezioni parlamentari, il primo ottobre. Bulgaria: protesta polizia carceraria, per migliori condizioni di lavoro e aumento stipendi Nova, 23 settembre 2012 Cominciano oggi in Bulgaria due giorni di protesta da parte degli agenti di polizia, che chiedono un aumento degli stipendi e un migliore inquadramento legale. Lo ha annunciato l’associazione sindacale dei lavoratori del ministero dell’Interno. Questo pomeriggio prevista a Sofia una manifestazione nel parco antistante l’edificio del ministero. Alla protesta si sono associati gli agenti della polizia carceraria, che chiedono migliori condizioni di lavoro. Sostegno internazionale venuto dall’European police union, e al ministro dell’Interno Tsvetan Tsvetanov sono pervenute lettere dai sindacati polizia di molti paesi fra cui Olanda, Spagna, Austria, Germania in appoggio alla protesta dei colleghi bulgari. Iran: in carcere figlia ex presidente Rafsanjani, condanna per propaganda contro lo stato Adnkronos, 23 settembre 2012 La figlia dell’ex presidente iraniano Akbar Hashemi Rafsanjani è entrata in carcere per scontare una condanna a sei mesi per propaganda contro lo Stato. Come riferisce l’agenzia Irna, Faezeh Hashemi è stata arrestata nella tarda serata di ieri dopo essere rientrata da un viaggio a Londra. La donna era stata condannata a gennaio ma il suo ingresso in carcere era stato rimandato a seguito dell’intervento del padre presso le autorità. La 49enne Faezeh Hashemi, ex parlamentare e membro di spicco del movimento femminista iraniano, è stata anche inibita per 5 anni da qualsiasi attività politica o giornalistica.