Giustizia: metà dei detenuti ha meno di 40 anni, ma nelle carceri pochi possono lavorare di Maria Serena Natale Corriere della Sera, 18 settembre 2012 Oltre il 50% della popolazione carceraria oggi in Italia ha un’età compresa tra i 21 e i 39 anni. Al mese di giugno 2004 un detenuto su tre risultava di età pari o inferiore a 29. Secondo dati del Ministero della Giustizia sono 31 i carcerati che tra gennaio e luglio 2012 si sono tolti la vita: età media 37,7 anni, 10 erano stranieri e 21 italiani, 3 donne. Il più giovane, Alessandro Gallelli morto a San Vittore, aveva 21 anni; il più anziano, Giuseppe Cobianchi morto nella prigione milanese di Opera, 58. La maggior parte della popolazione carceraria italiana è in piena età lavorativa. “Giovani” che vivono il tempo dilatato della pena, in non luoghi dove il lavoro è una porta sul mondo di fuori e su un domani possibile. Dove il lavoro può scavare e ricostruire, con la stessa forza dell’arte che ci ha mostrato il capolavoro dei fratelli Taviani Orso d’oro a Berlino 2012, “Cesare deve morire”. Il potere rigenerante del lavoro, il suo ruolo rieducativo, è comprovato dalle statistiche: solo il 12-19% dei carcerati torna a delinquere se nel periodo di detenzione ha avuto la possibilità di lavorare presso imprese o cooperative esterne, mentre incorrono nella recidiva ben 7 su 10 detenuti che abbiano scontato dietro le sbarre la totalità della pena. Eppure, come ha denunciato sul Corriere Luigi Ferrarella, è in corso una progressiva riduzione dello stanziamento dei fondi che dovrebbero consentire ai detenuti di lavorare fuori dal carcere come previsto dalla Legge Smuraglia del 2000 attraverso una serie di incentivi fiscali e contributivi per le aziende. Negli ultimi due anni hanno subito pesanti tagli anche i fondi destinati al lavoro che si svolge all’interno degli istituti penitenziari. È l’altro volto della crisi: una società con sempre meno risorse e occupazione finisce per negare ai reclusi, gli esclusi per eccellenza, il primo strumento di riabilitazione e recupero, il lavoro come chiave d’accesso a una nuova vita in seno alla comunità. Lavorare per restituire dignità e qualità al tempo della detenzione. Imparare un mestiere per non ricadere ai margini una volta scontata la pena, a venti, trenta, quaranta, cinquant’anni. E i giovani “fuori”, cosa sanno della vita in carcere? Sono tanti i ragazzi che attraverso volontariato e attività sociali entrano in contatto con quella realtà originariamente sradicata, rimossa dal contesto urbano. Cosa s’impara da un’esperienza del genere, quali sono le necessità più urgenti per chi è dentro e per chi da fuori cerca di costruire ponti, percorsi di recupero e reinserimento? Farina (Pdl) e mosca (Pd) sollecitano approvazione legge lavoro detenuti “Dopo la visita al carcere di Padova dove i detenuti lavorano con profitto e dopo l’articolo del Corriere della Sera del 17/9/2012 a firma Luigi Ferrarella intitolato “far lavorare i detenuti conviene a tutti. Crolla la percentuale di chi torna a delinquere” il Ministro della Giustizia Severino ha dichiarato “l’impegno molto serio per il rifinanziamento della legge Smuraglia” da parte del Governo. Molto bene. Ricordiamo al Governo allora che la legge che rifinanziava seppur modestamente l’impiego dei reclusi è stata bocciata dal Ministero dell’Economia quando era già approdata in Aula per la votazione finale. A questo punto non c’è più nessuna ragione perché questa legge (AC 3010) di cui siamo promotori con l’Intergruppo per la Sussidiarietà non sia immediatamente approvata”. Lo dichiarano in una nota Renato Farina del Pdl e Alessia Mosca del Pd. Giustizia: Napolitano riceve firmatari appello per le carceri, ma Rita Bernardini è esclusa di Valter Vecellio Notizie Radicali, 18 settembre 2012 È Sara Nicoli a raccontare su “Il Fatto” come, finalmente, il presidente Giorgio Napolitano si sia deciso a ricevere una delegazione dei firmatari dell’appello che riprendendo gli interrogativi di Primo Levi (“Se non ora quando? Se non così, come?”) chiede un intervento incisivo e pubblico, esplicito, seguendo i canoni e i binari della Costituzione, per quel che riguarda la situazione della Giustizia in Italia e la sua appendice, costituita dallo stato comatoso delle carceri. Una delegazione, racconta Vicoli, di cui faranno parte docenti universitari e cattedratici (Francesco Di Donato, Fulco Lanchester, Renzo Orlandi, Tullio Padovani, Marco Ruotolo, Franco Corleone, Vladimiro Zagrebelsky), ma non Rita Bernardini. La notizia era già stata data da Marco Pannella, nel corso della sua conversazione domenicale a “Radio Radicale”. “Il Fatto” poi raccoglie le dichiarazioni della stessa Bernardini e di Mario Staderini, che provano a dare una risposta alla domanda semplice e naturale: perché questa esclusione? Le risposte sono convincenti, e probabilmente colgono nel segno. E dopo averle messe in fila, e tenendo presente anche l’osservazione di Lanchester, la domanda resta: “Perché?”. Perché il presidente della Repubblica ha scelto di sciupare ancora una volta un’occasione per onorare la funzione che ricopre? Il 23 giugno 2011 il presidente Napolitano scriveva una lettera a Marco Pannella: “Caro Marco, desidero rispondere alle molte questioni e sollecitazioni che hai sottoposto alla mia attenzione nel nostro recente incontro al Quirinale e nelle lettere e documentazioni che mi hai inviato nei giorni scorsi. Credo che l’Italia ti debba il giusto riconoscimento per la determinazione con la quale hai intrapreso tante battaglie per sollecitare una piena affermazione e tutela delle libertà civili e dei diritti dei cittadini… Credo che la tua azione continuerà ad essere un prezioso stimolo, suscitando come già in passato discussioni e prese di coscienza che si rivelano poi col tempo la loro fecondità e lungimiranza. Inviandoti i miei migliori auguri, ti saluto con affetto e ti prego – in nome non solo dell’antica amicizia ma dell’interesse generale – di desistere da forme estreme di protesta di cui colgo il senso di urgenza, ma che possono oggi mettere gravemente a repentaglio la tua salute e integrità fisica…”. Chissà. Forse qualcuno al Quirinale avrà pensato che Rita Bernardini avrebbe colto l’occasione per ricordare quel “colgo il senso d’urgenza”… quel “senso di urgenza”, venne condiviso e fatto proprio da oltre ventimila cittadini, e almeno ventimila detenuti. Ed è a loro che occorre rivolgersi e confidare, ora. “Perché l’Italia torni a poter essere considerata in qualche misura una democrazia”. Così parte di un appello a sostegno dell’iniziativa di Pannella: “Emblematico del patente stato di illegalità anti-democratica in cui si trova l’intera Repubblica italiana è il caso della giustizia e delle carceri, oggetto di una dura lotta nonviolenta che, accanto a Marco Pannella, Rita Bernardini e Irene Testa, ha visto impegnati e coinvolti oltre 24mila cittadini che stanno partecipando allo sciopero della fame”. Insieme ai militanti radicali, l’Associazione radicale “Il Detenuto ignoto” e associazioni come “Antigone” e “Ristretti Orizzonti”, oltre 19mila detenuti, 4mila loro familiari e decine di agenti, psicologi penitenziari, educatori, direttori di carcere, avvocati dell’Unione camere penali, esponenti di sindacati di polizia e volontari”. I firmatari (alcuni) di quell’appello: Giorgio Albertazzi, Giuliano Amato, Franco Battiato, Marco Bellocchio, Gianrico Carofiglio, don Luigi Ciotti, Maurizio Costanzo, Giuseppe Di Federico, Vittorio Feltri, Luigi Ferrajoli, Dario Fo, don Andrea Gallo, Fulco Lanchester, Rita Levi Montalcini, Luigi Manconi, Giacomo Marramao, don Antonio Mazzi, Luigi Morcellini, Ennio Morricone, Mario Patrono, Riccardo Pacifici, Angelo Panebianco, Franca Rame, Stefano Rodotà, Enrico Sbriglia, Adriano Sofri, Valerio Spinarelli, Gianmarco Tognazzi, Paolo Villaggio. Hanno firmato circa trecento parlamentari di tutti i gruppi: Rosy Bindi, Pierluigi Castagnetti, Anna Paola Concia, Benedetto Della Vedova, Pietro Ichino, Enrico La Loggia, Marianna Madia, Alessandra Mussolini, Leoluca Orlando, Antonio Martino, Arturo Parisi, Gaetano Pecorella, Flavia Perina, Savino Pezzotta, Adriana Poli Bortone, Stefano Stefani, Jean-Leonard Touadì, Walter Veltroni; e gli euro-parlamentari Rita Borsellino, Rosario Crocetta, Patrizia Toia; il presidente dei Verdi Angelo Bonelli, il segretario di Rifondazione Comunista Paolo Ferrero, una quantità di sindaci e di presidenti di province e regioni… Vale per loro (e per tutti noi, beninteso), quel “se non ora, quando? Se non così, come?”, che chiude l’appello al presidente Napolitano. Che ha scelto di comportarsi in coerenza con la sua storia e il suo passato; come, per fare un esempio, quando era ministro dell’Interno. Era il luglio 1997 quando in “Terzo Stato”, giornale a stampa confezionato dai radicali, si poteva leggere: “Guardate quest’uomo: è il volto gentile e perbene, l’immagine e la misura politica e civile di un regime costituito sull’illegalità, sulla violazione e negazione del diritto e dei diritti…”. Rita Bernardini avrebbe senz’altro ricordato al presidente quella sua “continuità”, esortandolo al contrario a una “rottura”. È la risposta al “perché” della sua esclusione. Giustizia: Rai boccia trasmissione su emergenza carceri; proteste parlamentari Pd e Pdl Agenparl, 18settembre 2012 “Pollice verso per la scelta della Rai di annullare il progetto radiofonico di Massimo Giletti che aveva come oggetto l’emergenza all’interno delle carceri italiani, una questione impellente e sulla quale è intervenuto anche il capo dello Stato per sollecitare al Parlamento e alle forze politiche misure in grado di sanare una situazione non più sostenibile”, dichiara in una nota Melania Rizzoli. “La trasmissione avrebbe trattato, grazie anche alla partecipazione di rappresentanti del Dap, politici e personalità della cultura italiana, temi di grande utilità sociale e offerto così un importante contributo alla risoluzione della questione. Peccato che le priorità del servizio pubblico vadano in tutt’altra direzione”, conclude il deputato del Pdl. Serracchiani (Pd): la Rai dia spazio a dramma trascurato “La Rai dia spazio al problema delle carceri, un tema che dovrebbe essere al centro degli interessi di ogni società civile e che invece rimane drammaticamente trascurato”. Ad affermarlo è l’europarlamentare del Pd Debora Serracchiani. Secondo Serracchiani “il servizio radiotelevisivo pubblico in particolare dovrebbe accendere i suoi riflettori su una realtà il cui degrado è sempre più intollerabile. Dietro quelle mura migliaia di persone, talvolta madri con figli piccoli, non si limitano a scontare la loro condanna, ma patiscono nel silenzio una pena aggiuntiva: l’umiliazione dei loro diritti di cittadini carcerati. È una situazione che non può continuare a essere sottratta all’attenzione degli italiani: sovraffollamento, problemi igienici, inefficienza della macchina della giustizia e tempi dilatati all’infinito si traducono troppo spesso nel dramma dei suicidi, numerosi tra la popolazione carceraria ma anche tra il personale di polizia penitenziaria. Gli italiani - sottolinea Serracchiani - devono sapere”. “Per un breve momento - prosegue Serracchiani - è sembrato che la Rai avrebbe aperto i suoi microfoni sull’arcipelago-carcere con un nuovo programma condotto da Massimo Giletti e da Klaus Davi. Poteva essere un’occasione di verità e informazione, ma ancora una volta rimarrà un’occasione persa. Pare infatti che la Rai abbia deciso di privilegiare l’intrattenimento leggero, che certo non manca nei suoi palinsesti, all’approfondimento e all’inchiesta: al posto di Giletti e Davi andrà in onda un programma condotto da Lorella Cuccarini”. “Ognuno fa il suo mestiere e non avrebbe davvero senso prendersela con la Cuccarini, ma - aggiunge Serracchiani - è legittimo chiedersi perché il servizio pubblico sia così recalcitrante a far conoscere ai suoi abbonati una realtà drammatica, che io stessa ho potuto verificare in prima persona visitando le carceri della mia regione, il Friuli Venezia Giulia, dove nonostante gli sforzi del personale - conclude - quest’anno si sono già registrati due suicidi”. Portas (Pd): come mai si cancella Giletti? “Informare i cittadini sui problemi del loro paese dovrebbe essere lo scopo principale del servizio pubblico radiotelevisivo. Ma così non è se si sceglie di mandare in onda un programma di intrattenimento al posto di una trasmissione nella quale si sarebbe dovuto affrontare il problema delle carceri. Il progetto, che oltretutto non comportava spese eccessive per l’azienda di viale Mazzini, era stato presentato mesi fa ai vertici Rai dal conduttore Massimo Giletti e aveva registrato subito apprezzamento e gradimento, oltre alla garanzia di collaborazione da parte del Dap. Sarebbe ora gradito conoscere il motivo per cui è stato messo da parte”. Dichiarazione dell’on. Giacomo Portas, leader Moderati-Pd. Bernini (Pdl): Rai cambi posizione su programmi Giletti-Davi “Se è vero che la civiltà di un paese si misura dalle condizioni delle sue carceri, il silenzio di cui si circondano i problemi delle strutture penitenziarie del nostro paese è davvero un pessimo segnale. Per questo ritengo che la Rai, dispensatrice naturale (ed obbligata) di servizio pubblico e di informazione su temi di interesse generale, anche sensibili e scomodi, debba fare seguire alle parole i fatti non sottraendosi alla descrizione dei drammi del pianeta carcere, di cui anche il presidente Napolitano ha più volte sottolineato la prepotente urgenza”, dichiara in una nota Annamaria Bernini. “Il paese deve quindi essere messo in condizione di conoscere per capire i drammatici problemi della popolazione carceraria e di tutto l’indotto umano che intorno ad esso gravita: familiari, polizia penitenziaria, personale tecnico e di volontariato, magistrati di sorveglianza. Ciò, anche attraverso la conferma di trasmissioni come quella di Massimo Giletti e Klaus Davi, che con la loro professionalità e competenza possono e vogliono puntare un riflettore di attenzione sulle sofferenze rinchiuse dietro le mura delle strutture penitenziarie. Ci si augura quindi un ravvedimento operoso ed attivo della Rai sull’approvazione del programma”, conclude il deputato del Pdl. Giustizia: arriva “Soft”, progetto sperimentale per abbattere la recidiva dei sex offenders di Ilaria Lonigro Il Fatto Quotidiano, 18 settembre 2012 Il programma è in attesa di fondi europei e prevede un trattamento capace di ridurre la ripetizione di reati sessuali dal 17 al 3 per cento: sono coinvolti 400 detenuti sui 2000 che hanno condanne di questo tipo. Potrebbe essere approvato presto dalla Commissione Europea il finanziamento di “Soft”, il nuovo progetto italiano per il trattamento dei detenuti per reati sessuali. Soft sta per Sex Offenders Full Treatment (trattamento completo per gli autori di reati sessuali), il programma che, stando ai progetti sperimentali, potrebbe abbattere la recidiva dei sex offenders dal 17,3% al 3,2%, grazie a un intervento congiunto di criminologi, psicologi e psichiatri durante e dopo la pena. In Italia sono 2000 i detenuti per reati sessuali. Soft ne coinvolgerebbe 400, in un percorso volontario e biennale del costo di 630mila euro, che interessa le carceri di Rebibbia e Cassino nel Lazio, San Vittore, Opera e Bollate in Lombardia, Pesaro nelle Marche e, in Campania, Secondigliano e Poggio Reale. A capo del progetto Angiolo Marroni, garante dei diritti dei detenuti del Lazio. Niente a che vedere con la castrazione chimica, vietata in Italia - nonostante le proposte di legge di Alessandra Mussolini nel 1997 e di Roberto Calderoli nel 2001- ma applicata in Paesi come Moldavia, Norvegia, Danimarca, Francia, Inghilterra, Germania, Svezia, e addirittura, nel caso della Georgia, persino a insaputa dei soggetti. “Soft non prevede l’utilizzo di psicofarmaci” mette in chiaro a ilfattoquotidiano.it Paolo Giulini, criminologo e mediatore, presidente del Centro Italiano per la Promozione della Mediazione. È stato proprio il Cipm a introdurre per la prima volta in Italia, 6 anni fa, percorsi di trattamento per i sex offenders reclusi, a Bollate. Una rivoluzione copernicana: trattare le vittime di abusi sessuali, infatti, si dà per scontato. Ma prendere in carico anche chi li abusi li ha commessi, un po’ meno. Eppure è altrettanto importante: solo così, infatti, si combatte la recidiva. Una questione fondamentale, se si pensa che, stando alla casistica internazionale, dopo 4 anni di libertà il 17,3% dei sex offenders torna a colpire, e addirittura fino al 30% lo fa dopo 10 anni. “Soft è l’estensione ad altre carceri del nostro progetto: a Bollate siamo alla sesta annualità, a Pesaro alla prima” precisa Giulini, che è anche responsabile dell’Unità di Trattamento Intensificato su autori di reati sessuali al carcere di Bollate. L’obiettivo del trattamento, che in fase sperimentale ha contato solo 3 recidive su 140, è offrire a queste persone “un’opportunità di rielaborare il proprio reato e capirne fino in fondo le dinamiche e le conseguenze”, come spiega il sito del Cipm. L’isolamento in carcere è la prima cosa da combattere: i sex offenders sono “gli infami” nel gergo penitenziario e non di rado sono separati anche fisicamente dagli altri detenuti. È importante evitare “l’instaurarsi di un circolo vizioso in cui disagio, rancori, violenze fisiche e verbali contribuiscono ad aggravare situazioni problematiche che spesso esitano in vere e proprie patologie” si legge ancora. A beneficiare di Soft, insomma, potrebbero essere tutti. Per chi avesse dei dubbi, può essere utile la lettura di “Buttare la chiave?. La sfida del trattamento per autori di reati sessuali” scritto dallo stesso Giulini con Carla Maria Xella (324 pp., 2011, Cortina Ed., 24,30 euro). Il libro - un resoconto dell’esperienza reale di Bollate - descrive la complessità di questo trattamento basato sulla teoria del Good Lives Model, elaborata per la prima volta nel 2002 dallo psicologo neozelandese Tony Ward. Ed esplora un territorio poco conosciuto, quello della violenza sessuale vista da chi commette il reato. Giustizia: secondo giorno di sciopero dei penalisti “il problema delle carceri è urgente” di Antonio Piemontese Monza Today, 18 settembre 2012 Settimana di astensione dei legali italiani. Ma la protesta nazionale ha un risvolto locale: entro un anno chiuderà infatti la sede distaccata di Desio. “Non esiste ancora un piano per gestire il trasferimento”. E intanto il carcere di Monza scoppia. Dignità nelle carceri, stop agli abusi sulle intercettazioni, riforma della giustizia, specializzazione per l’avvocatura del futuro. I penalisti italiani incrociano le braccia da lunedì 17 sino a venerdì 21 settembre. Ma la protesta nazionale si colora di un risvolto locale per la chiusura imminente del tribunale di Desio. I penalisti brianzoli non approvano gli effetti della riforma delle circoscrizioni. “La riforma non ha tenuto conto delle peculiarità delle singole situazioni territoriali - spiega Marco Negrini, presidente della Camera penale di Monza. La sede distaccata smaltisce una mole di lavoro da tribunale ordinario: era impensabile chiuderla, ma ormai i giochi sono fatti. Il problema è che al momento non esiste un piano per gestire il passaggio”. La giustizia, temono i legali, rischia di ingolfarsi, se non si trova una soluzione in tempi brevi. Entro un anno tutta l’attività giudiziaria svolta dalla sede staccata di Desio passerà nel capoluogo: la cittadina brianzola non gode infatti della deroga concessa alle sedi che operano in edifici di proprietà statale, e che avranno sei anni di tempo per organizzare il trasferimento. Le mura del tribunale di Desio sono di proprietà comunale. Attenzione anche al problema delle carceri: “In Italia si abusa della carcerazione preventiva - prosegue Negrini - È necessario depenalizzare alcuni reati minori e in mancanza di altro, sarebbe forse il caso di pensare a una - mi rendo conto impopolare - amnistia. È una battaglia che noi avvocati portiamo avanti da anni, ma il tema interessa solo ai radicali”. E dà qualche cifra: in Italia ci sono 43.000 posti nelle carceri, ma 68.000 detenuti. A Monza, ci sono 450 posti disponibili, ma gli occupanti sono 850. Della questione si è interessata anche la parlamentare Pd Alessia Mosca, che a gennaio si recò in visita alla casa circondariale di Monza assieme al collega del Pdl Renato Farina. “È necessario pensare al reinserimento nella società: la nostra giurisdizione è troppo rigida e giustizialista”. Giustizia: Sappe; rischio fondamentalismo islamico, massima vigilanza in carceri italiane 9Colonne, 18 settembre 2012 “L’inasprimento delle tensioni in Afghanistan, Libia, Tunisia ed Egitto potrebbe avere risvolti inquietanti anche all’interno delle carceri italiane, considerati da un lato l’altissimo sovraffollamento delle celle e l’altrettanto elevato numero di detenuti stranieri e dall’altro il fatto che oggi nei nostri penitenziari italiani vi sono più detenuti di religione islamici che non cattolici o aderenti ad altri credi”. Lo afferma Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, che aggiunge: “I nostri istituti di pena ospitano oggi una popolazione detenuta di origine extracomunitaria estremamente vasta, variegata, rabbiosa e soprattutto sconosciuta: il 40% degli oltre 66mila detenuti presenti, percentuale che in alcuni istituti del Nord arriva addirittura a raggiungere l’80% dei presenti. Di pochi di questi detenuti conosciamo i reali collegamenti con l’esterno: non solo, ma questi soggetti fanno della comune situazione di detenzione un valido strumento di predicazione verso i soggetti più deboli e diseredati ristretti con loro. Da tempo, ad esempio, esprimiamo preoccupazioni per le recenti conversioni, in carcere, di detenuti italiani all’Islam”. Ricorda quindi che “un pregiudicato siciliano, convertitosi all’Islam in carcere dov’era detenuto per reati minori, fece esplodere due bombole di gas nel metrò di Milano (11 maggio 2002) e nei templi della Concordia di Agrigento (5 novembre 2001)”. E conclude: “Auspichiamo che il Governo ed il Ministero della Giustizia assumano urgenti provvedimenti anche su questa pericolosa criticità”. Lazio: il Garante Marroni lancia allarme, detenuti in continuo aumento, sono 7.130 Asca, 18 settembre 2012 Sono sempre di più i detenuti reclusi nelle carceri del Lazio. Secondo i dati diffusi dal Dap, il 16 settembre i detenuti nei 14 istituti della Regione erano 7.130, oltre 2.300 in più rispetto ai 4.838 posti disponibili. I dati sono stati resi noti dal Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni che ha sottolineato come il numero dei reclusi presenti sia aumentato di oltre 60 unità nelle tre ultime settimane, e di ben 300 unità dallo scorso maggio. Ma sono altri numeri a suscitare la preoccupazione del Garante e che sembrano confermare la percezione che, nel Lazio, il tasso di crescita dei reclusi sia superiore rispetto al resto d’Italia. Secondo i dati, infatti, dal 30 agosto ad oggi i detenuti sono cresciuti nel Lazio dello 0,8% contro lo 0,2% del resto d’Italia. Ed anche il tasso del sovraffollamento (il rapporto tra posti disponibili e presenze effettive) nel Lazio (147%), è di un punto superiore rispetto alla media nazionale (146%). “Dietro i numeri ci sono le persone - ha detto il Garante - è per questo che dati e percentuali non riescono a rendere, in tutta la sua dimensione, il dramma che si sta vivendo nelle 14 carceri della regione: a Regina Coeli i detenuti sono 1035, 30 in più rispetto a 20 giorni fa ed oltre 300 oltre la capienza regolamentare. Ma il dato non tiene conto che due sezioni, la V e la VI, sono chiuse, e i posti disponibili sono di meno. E a Velletri per accogliere i 573 detenuti presenti è stato appena aperto il III piano del nuovo padiglione detentivo e già si parla di aprire anche il IV, nonostante ci siano in servizio solo 195 agenti di polizia penitenziaria e 4 educatori”. Secondo Marroni, “con una situazione del genere è quasi inutile parlare di soluzioni che possano alleviare i disagi sempre più pesanti che si vivono in carcere. Sotto questo punto di vista, è evidente che la tutela dei diritti dei detenuti ha subito un brusco arretramento, come del resto è evidente che lo Stato ha nei fatti abdicato alla sua funzione di garantire il recupero sociale del detenuto, stabilita dalla Costituzione”. Nelle 206 carceri italiane sono recluse 66.138 persone (2.834 le donne) a fronte di 45.588 posti disponibili. Nel Lazio sono invece reclusi 6.595 uomini e 466 donne. I detenuti stranieri sono quasi il 40%. Quasi la metà dei reclusi è in attesa di giudizio definitivo. Padova: Severino in visita a Casa di Reclusione, per conoscere “modello” di trattamento www.padova24ore.it, 18 settembre 2012 La giornata padovana del ministro della Giustizia, accompagnata dal capo dell’amministrazione penitenziaria Giovanni Tamburino, inizia alle 14 alle porte della casa di reclusione. Accolta dal prefetto Ennio Mario Sodano, dopo il picchetto d’onore, saluta poche selezionate autorità, tra cui i magistrati di sorveglianza guidati dal presidente Giovanni M. Pavarin e, in rappresentanza del mondo esterno, gli operatori delle principali cooperative impegnate in Italia nel lavoro ai detenuti: Piero Parente della Ecosol di Torino e Luciano Pantarotto e Raimondo Pietroletti di Men at Work, Rebibbia, nonché i rappresentanti di Legacoop e Federsolidarietà. Paola Severino dal canto suo fa capire subito che non si tratta di una visita formale o di cortesia. Pochi convenevoli, una breve ispezione in un reparto rinnovato e poi il tete-a-tete con i carcerati che fa disperare le sue guardie del corpo. Tra loro - dieci ammassati in una cella da cinque - e lei, circondata dai suoi due preoccupati angelo custodi, solo le sbarre verdi in acciaio rinforzato. Parole di rabbia si mescolano ad altre più meditate di richiesta. Sovraffollamento, misure alternative alla detenzione, lavoro, sanità in carcere. I temi sono ben noti. Paola Severino anzitutto ascolta. Poi parla con poche e misurate parole di umana comprensione. “Non sono un politico, non faccio promesse”. Ma ricorda che questa settimana ci saranno alcuni passaggi fondamentali per due leggi - sul lavoro e sulle misure alternative - bloccate rispettivamente da problemi di fondi e di consenso politico. Lavoro, soprattutto. “È la vera soluzione stabile ai problemi del carcere”. Parole pesanti. “Quando vado nelle carceri chiedo sempre di misurarmi con le situazioni più difficili”, spiega. E anche alla casa di reclusione la musica non cambia. La colonna sonora è quella delle urla dei carcerati che dalle celle chiedono libertà e amnistia. Un cenno con la mano da lontano e poi l’incontro con gli agenti di polizia penitenziaria. Dopo i detenuti quelli che stanno peggio sono loro. Eppure il loro pensiero va prima di tutto ai reclusi. “Essere chiusi qui dentro 24 ore su 24 è disumano”, dice il sovrintendente Giovanni Vona a nome di tutti gli agenti. “È una sfida anche per noi, e la superiamo solo per il nostro grande senso di appartenenza allo Stato”. Parole molto apprezzate dal ministro che ricorda anche il grande impegno del Capo dello Stato sul tema. Si passa poi, con la guida del presidente del Consorzio Rebus Nicola Boscoletto, alle lavorazioni che con il marchio Officina Giotto coinvolgono circa 150 detenuti. Call centre (con un nuovo impegnativo progetto che potrebbe potenziare call center e pasticceria con 40 nuovi posti di lavoro), valigeria, catena di montaggio delle biciclette, pen drive per le camere di commercio, cucina, pasticceria. Ovunque il ministro incontra gli imprenditori che ci hanno creduto, che hanno investito su questi lavoratori dalla produttività eccezionale, come Zhang, il cinese che è il mago delle chiavi usb. La visita prosegue nella redazione di Ristretti Orizzonti, dove il ministro ha parole di apprezzamento per il prezioso lavoro culturale che l’attività di informazione realizza. In auditorium, dopo un breve video sulle attività e gli incontri della cooperativa in questi anni, la parola passa senz’altro ai detenuti. “La mia vita qui in carcere è migliore di prima di entrare - dice Dinja, albanese, in modo spiazzante. “Sono condannato per reati brutti. Mi vergogno, giorno dopo giorno, per le brutte cose che facevo prima. Io ho tolto la vita a un essere umano che oggi poteva essere mio fratello. Ho distrutto due famiglie: la famiglia della vittima e la mia famiglia”. Eppure la coscienza del male non è l’ultima parola. “Due anni fa ho adottato un bambino in Uganda. Si chiama Cristiano Dinja. Ho fatto questo piccolo gesto perché vorrei, come posso, dare e sostenere un’altra vita, perché tutto il rispetto va alla famiglia della vittima”. È poi la volta di Alessandro, italiano, che lavora al laboratorio di biciclette. “Oggi il lavoro è parte di me. Sono in laboratorio dalle 8.00 alle 6.00 del pomeriggio. In stagione ci fermiamo qui anche al sabato perché bisogna produrre tanto e bene. Non è più un passatempo”. Altri detenuti fanno eco. Gianni parla anche a nome del fratello Biagio, e riporta il suo dramma. “Abbiamo avuto un grave lutto: la morte di mia nipote di 23 anni, figlia di mio fratello Biagio. Se tutte queste cose fossero avvenute in un altro contesto non so se io e Biagio ne saremmo usciti cosi integri”. Il croato Davor. pasticcere, 47 anni, testimonia di aver fatto “un percorso vero”: “spero che questo possano farlo tantissimi altri detenuti nelle varie carceri Italiane”. Conclude Michele del call center “Io non vengo dal mondo della delinquenza, non posso dire d’essere stato uno stinco di santo, ma la vita che facevo non era indirizzata a farmi finire qui dentro, ero un imprenditore e lavoravo nell’azienda di famiglia. Dico questo per farvi capire che non è impossibile finire dietro le sbarre”. Ora, “da quando ho iniziato a lavorare, la mia vita detentiva è migliorata”. “Mi sento sicura tra di voi - è la replica di Severino - non ho timore di sedere in questa assemblea o di dialogare con voi in carcere. Perché so che voi, coinvolti in questo percorso lavorativo, avete capito che anche dopo contribuirete alla sicurezza della società con il vostro reinserimento”. Al ministro Severino i detenuti regalano i prodotti del loro lavoro, una bicicletta e una valigia, faranno recapitare a Roma una torta per i suoi nipotini, ma è già tempo di scappare verso il centro città, nell’aula magna che rappresenta il cuore della vita universitaria padovana, là dove insegnò Galileo. Organizza l’incontro il gruppo studentesco Articolo27, dall’omonimo punto della Costituzione in cui si ricorda che la giustizia nel nostro paese non è punitiva. Saluti delle autorità, il rettore Giuseppe Zaccaria e il sindaco Flavio Zanonato, ma le parole più attese sono quelle di Pietro Calogero, magistrato delle grandi inchieste contro il terrorismo rosso e nero negli anni Ottanta. Calogero si augura l’avvio di “un’era di riforme utili” di cui vede già l’albore. “Sono convinto che oggi partirà un processo virtuoso di responsabilizzazione”, spiega il magistrato “sull’importanza del lavoro nel circuito di risocializzazione dei detenuti”, con tutti i relativi provvedimenti, soprattutto gli incentivi alla legge Smuraglia. Boscoletto ricorda la storia degli interventi “esterni” in carcere con un fuori programma: invitando il pubblico ad applaudire Lorenzo Contri, docente universitario 90enne, il primo a portare il profumo dell’università dietro le sbarre (oggi i laureati detenuti a Padova sono decine). Si parla poi dei primi esperimenti con i corsi di giardinaggio della Cooperativa Giotto, fino alle attuali lavorazioni. Padova ha una storia lunga, ricorda Boscoletto, fino agli anni Ottanta la Rizzato ha costruito biciclette nel penitenziario di piazza Castello, e poi è stata costretta alla ritirata da una legislazione infelice. Si arriva all’oggi, con le cifre incredibili (“ma dovrebbero essere normali”) sulla recidiva di chi lavora, inferiore all’uno per cento. “Vigilando redimere - il lavoro come elemento fondamentale nel recupero del detenuto” è il tema del convegno. Luigi Ferrarella ha appena fatto uscire in prima pagina del Corriere della Sera un articolo che coraggiosamente si intitola “Far lavorare i detenuti conviene a tutti”. Il giornalista propone quella che chiama “una piccola scheda” di numeri imbarazzanti, 66mila detenuti in Italia, ben oltre la capacità delle carceri. E sono cifre in forte ripresa. L’edilizia penitenziaria? Arriveranno presto altri 6.400 posti. “Che servono però solo a prendere tempo”, spiega Ferrarella. Ciò che può cambiare veramente la situazione sono altri provvedimenti: ad esempio quello sulle misure alternative. Che però incontrano una scarsa propensione delle forze politiche. Forse perché le elezioni si avvicinano? Oggi i detenuti che lavorano veramente in carcere (non con i cosiddetti “lavori domestici”) sono solo 900 su 66mila. L’ex presidente della Camera Luciano Violante esordisce con un paradosso. “Un detenuto in carcere costa attorno ai 140 euro al giorno. Se prendessimo queste persone dandogli 2500 euro al mese e pregandoli gentilmente di non fare reati risparmieremmo un sacco di soldi…”. Il pendolo tra compassione e rifiuto è una falsa dialettica da evitare. L’idea di fondo da maturare è che la pena deve “punire, dissuadere ed integrare”. Ma non si può chiedere a una persona di rispettare i nostri diritti se noi non rispettiamo i suoi. Ma come far entrare questo tema tra quelli più caldi dell’agenda politica e istituzionale? Ad esempio coinvolgendo le università. Non si varano buone leggi se non ci sono alla base delle idee, ricorda Violante: “Non si può raccogliere se non si è seminato”. Concorda con Violante, Paola Severino. L’università deve favorire una cultura della legalità diffusa. “È un circuito virtuoso da creare”. Dobbiamo averlo dentro il senso vero della pena, quello di cui parla l’articolo 27 della Costituzione. E Padova è una città in cui l’attenzione a questi temi è stata coltivata. Secondo il ministro, coniugare sicurezza sociale e sicurezza dei cittadini è la via maestra, come dimostrano i dati sulla recidiva. Di qui anche l’idea del lavoro dei detenuti per la ricostruzione post terremoto in Emilia, attuata nonostante le critiche. “Il reinserimento sociale dei detenuti non crea pregiudizi o danni alla comunità”, è la convinzione della penalista napoletana. Raccontando gli incontri al circondariale, il ministro punta il dito sul problema della carcerazione preventiva: “Iniziare a scontare la pena prima di essere condannati è terribile”, afferma. L’importante è iniziare percorsi nuovi, come quelli padovani. Percorsi di concretezza, come quelli che un’impresa come il consorzio Rebus ha attuato. il lavoro non è assistenzialismo o benevolenza. “I miei 21 esami in diritto penale e criminologia non mi avevano insegnato nulla dell’utilità del lavoro in carcere” dice il ministro. “Io oggi in carcere ho visto dei lavori straordinari, non i soliti pezzetti messi insieme per far passare il tempo ai detenuti. Le biciclette, i panettoni, i call centre che funzionano. Non elemosine, ma qualcosa di attrattivo per gli imprenditori e utile per l’economia del paese”. Ma anche la stampa ha grande importanza. “È un merito del Corriere della Sera e di Ferrarella aver portato in prima pagina l’importanza del tema del lavoro in carcere”. Tutta la società deve sapere quali sono i benefici del lavoro carcerario. Anche l’edilizia carceraria ha la sua parte, ma ciò che conterà sarà il provvedimento sulle misure alternative. La calendarizzazione, prevista per fine settembre, sta scivolando più avanti. “Spero non sia un affossamento”, dice Severino. “Ma solo questa è la vera soluzione”. È un mantra quello del ministro, dalle celle alle aule accademiche. La determinazione sembra proprio quella giusta. Il ministro conclude con alcuni semplici calcoli economici. “Insisterò sul rifinanziamento della legge Smuraglia in carcere, sviluppando il rapporto tra costi e benefici. Cosa convince l’opinione pubblica sulla bontà di un fenomeno? Anche il suo versante economico. Lo stesso ragionamento che ho fatto a Cernobbio sulla corruzione dobbiamo farlo sul lavoro carcerario. È un diritto, ha fondamento nella Costituzione, ma porta anche sicurezza e benefici misurabili economicamente. Qui a Padova ce l’avete dimostrato. Avevo scritto un bel discorso, quello che ho detto è molto più disordinato, ma ho voluto condividere con voi le emozioni di quello che ho vissuto oggi in carcere”. Da ultimo il ministro prendendo spunto da un suggerimento di Luciano Violante propone proprio all’Università di Padova di avviare uno studio approfondito sugli effetti del lavoro penitenziario, invito immediatamente accolto dal magnifico rettore Giuseppe Zaccaria. Trani: detenuto aggredito con calci e pugni dal compagno di cella, è grave in ospedale www.radiobombo.com, 18 settembre 2012 Calci e pugni all’addome del compagno di cella che adesso è ricoverato all’ospedale Vittorio Emanuele II di Bisceglie. Questo è quanto accaduto negli scorsi giorni all’interno del Carcere di Trani, secondo quanto riportato oggi sulla Gazzetta del Mezzogiorno da Antonello Norscia. Un piccolo “sgarro” (forse un furto di effetti personali) pagato caro da Massimo Lops, un 38 enne, aggredito dal proprio compagno di cella. Nei confronti dell’aggressore non sarebbe stato adottato alcun provvedimento cautelare di natura penale, ma il suo nome è stato iscritto nel registro degli indagati della Procura della Repubblica di Trani. Il pm Luigi Scimè ipotizza il reato di lesioni personali aggravate. Il codice non scritto che regola la vita quotidiana all’interno della struttura carceraria, non ha permesso agli inquirenti di avere una collaborazione spontanea dei protagonisti della vicenda (all’interno della cella nella quale si è verificata l’aggressione vi erano altri detenuti), ma in Procura pare non abbiano dubbi sull’identità dell’aggressore. Ad alcuni giorni dall’accaduto non vi è stata alcuna nota ufficiale sulla vicenda. Milano: Michele Ferrulli, 51 anni, morì durante l’arresto; processo per quattro poliziotti La Repubblica, 18 settembre 2012 Michele Ferrulli, 51 anni, secondo la Procura fu colpito “ripetutamente anche con l’uso di corpi contundenti” dai quattro agenti. Che devono rispondere all’accusa di omicidio preterintenzionale. Il gup milanese Alfonsa Ferraro ha rinviato a giudizio con l’accusa di omicidio preterintenzionale i quattro poliziotti che avrebbero percosso nel corso di un arresto Michele Ferrulli, il 30 giugno 2011 a Milano, quando era già “immobilizzato a terra”. I poliziotti sono Francesco Ercoli, Michele Lucchetti, Roberto Stefano Piva e Sebastiano Cannizzo. Secondo la Procura, quando l’uomo “si trovava a terra in posizione prona, era immobilizzato e invocava aiuto”, i quattro lo avrebbero colpito “ripetutamente anche con l’uso di corpi contundenti”. L’uomo, un facchino, di 51 anni, quella sera morì per arresto cardiaco. Il giudice ha riqualificato l’ipotesi di reato da cooperazione in omicidio colposo a omicidio preterintenzionale, rinviando direttamente gli agenti davanti alla Corte d’assise. Il processo per loro inizierà il prossimo 4 dicembre prossimo. “È un ottimo inizio”, ha commentato Domenica Ferrulli, figlia di Michele. “Siamo davvero soddisfatti. Nella sfortuna abbiamo avuto la fortuna di trovare chi ha fatto indagini veloci, pulite e senza voler nascondere nulla a nessuno”. A richiedere il processo per gli agenti era stato il pubblico ministero Gaetano Ruta, che da un’iniziale ipotesi di omicidio preterintenzionale aveva poi chiuso le indagini nei confronti dei quattro con l’ipotesi di cooperazione in omicidio colposo. Secondo l’accusa, gli agenti avrebbero “ecceduto i limiti del legittimo intervento”, concorrendo “a determinare il decesso” dell’uomo, dovuto fra le altre cose “alle percosse”. Ferrulli si trovava in via Varsavia, alla periferia sud-est di Milano, vicino a un bar, dove una volante della polizia intervenne perché da una casa vicina erano arrivate lamentele per i continui schiamazzi in strada. L’uomo, con precedenti penali per resistenza a pubblico ufficiale e lesioni, stando a quanto era stato riferito in questura, quella sera era ubriaco, “aggressivo e ostile”. I poliziotti, secondo il pm, avrebbero agito “con negligenza, imprudenza e imperizia, consistite nell’ingaggiare una colluttazione eccedendo i limiti del legittimo intervento, percuotendo ripetutamente la persona offesa in diverse parti del corpo (pur essendo in evidente superiorità numerica) e continuando a colpirlo anche attraverso l’uso di corpi contundenti”. Asti: cinque detenuti diffidano presidente regione Cota “deve nominare il nostro garante” La Repubblica, 18 settembre 2012 Cinque detenuti nel carcere di Asti hanno sottoscritto la diffida stragiudiziale dell’associazione radicale Adelaide Aglietta rivolta al presidente della Regione Roberto Cota e al presidente del Consiglio regionale. Il loro scopo è obbligare le istituzioni a nominare, entro 90 giorni, il garante dei detenuti, come impone la legge approvata dallo stesso consiglio. In caso contrario sarà un giudice amministrativo a obbligare la Regione a farlo. “È una legge seria e da rispettare”, ha detto ieri Giulio Manfredi dopo la visita al carcere Lorusso e Cutugno di Torino assieme a Bruno Mellano, alla deputata del Pd Elisabetta Zamparutti e all’avvocato Antonio Polito. I radicali hanno incontrato i detenuti (1.518 a fronte di una capacità di mille persone), l’ispettore di polizia penitenziaria Gianluca Colella e la direttrice Francesca D’Acquino. Milano: don Gino Rigoldi; basta con il “piccolo Vallanzasca”… serve una tirata d’orecchi di Chiara Sirianni Tempi, 18 settembre 2012 Intervista a don Gino Rigoldi, cappellano del carcere minorile Beccaria: “Dietro l’arroganza c’è un ragazzo che vuole essere guardato, capito e trattato da persona, non da personaggio”. Per il Gip è un pericolo “elevatissimo per la collettività”, che “mostra disinvoltura e propensione all’attività delittuosa”. Si sa poco di questo ragazzino di quattordici anni, tutti vissuti a Quarto Oggiaro, tra piccoli furti e delinquenza. La gente del quartiere lo chiama “pulce” per quanto è magrolino. Lui vuole essere chiamato - così dicono i giornali. Vallanzasca, come il bel Renè, l’eroe della mala milanese, il suo mito. E quando il 16 settembre ha dato il via a una rivolta nel carcere minorile Beccaria (bruciando materassi e asciugamani e buttando tutto nei corridoi e nel cortile) la narrazione mediatica si è giocata tutta sul confronto tra i due: il quartiere di periferia, con il clan a celebrarne le gesta e la famiglia a proteggerlo, la sfrontatezza, l’abilità nella fuga. Un approccio che fa infuriare don Gino Rigoldi, 73 anni, che del Beccaria è cappellano e soprattutto guida (spirituale e umana) per tanti ragazzi. Risponde al telefono mentre sta andando a trovarlo, per “tirargli le orecchie, a lui e a quelli più grandi”, a fare, insomma, “il solito castiga matti”. Sa bene di essere uno dei pochi che fra quelle mura viene ascoltato. “Di storie come la sua ne ho viste migliaia. E per il suo bene, per favore, non chiamatelo il piccolo Vallanzasca”. Non certo per pietismo o per fare sconti, anzi… “Ero talmente arrabbiato con lui, dopo il casino che ha combinato, che a Messa, invece che dire “il Signore sia con voi”, ho sbottato: “Siete una manica di pirla”. Io sono un po’ sanguigno, loro lo sanno bene. Ma devono ricordarsi una cosa: se si trovano in carcere è ovviamente perché hanno commesso un’azione criminale e hanno il dovere di tenere un comportamento corretto”. Perché un adolescente difficile finisce per abbracciare chi lo rimprovera con durezza, mentre rifugge da chi lo idolatra? “È fondamentale comunicare, perché dietro quell’arroganza c’è una gran voglia di essere guardato. E capito. È un ragazzo che sa sorridere, e io lo tratto come cerco di trattare tutti: da persona, e non da personaggio”. Si tratta insomma di non cedere alla retorica della malavita, alle pose prese in prestito da Gomorra (paradossalmente) o dalla Banda della Magliana, alla mitizzazione del crimine. “I comportamenti deviati hanno sempre un motivo scatenante. Più dei giudizi morali, serve un richiamo alla responsabilità. Alla ragione. Per questo dividere il mondo in buoni e cattivi non mi appartiene, come categoria di pensiero. Non faccio mai sconti, ma non dimentico che non c’è nessun disagio che non abbia dietro una storia. Di solito legata alle condizioni familiari e sociali. In questo caso la sua famiglia è quasi orgogliosa di avere un delinquente in casa. I cosiddetti “amici” lo temono, o ne ridono. La madre l’ha nascosto in casa, contemporaneamente piangendone la scomparsa a “Chi l’ha visto”. Il fratello maggiore è in carcere anche lui. In un contesto del genere, lui si è convinto di essere un grande uomo. Con la classica mancanza di responsabilità degli adolescenti gioca a fare quella parte. Ha tanta rabbia e voglia di affermazione. Ma a livello mediatico, non andrebbe pompato così. Assolutamente. Occorre trovare un linguaggio nuovo che lo faccia cambiare, possibilmente in bene”. La causa scatenante della rivolta è stata un’ora d’aria mai avvenuta. “È anche colpa degli altri, più grandi, che gli sono andati dietro, convinti che si trattasse di una giusta battaglia di emancipazione. Purtroppo questa situazione capita tutti i sabati e tutte le domeniche: abbiamo pochissimo personale, i poliziotti non bastano a tenere sotto controllo tutti i ragazzi. Quindi si fa a turno”. Qual è la situazione al Beccaria, quali le criticità principali? “Il sovraffollamento, prima di tutto. E il numero di agenti di polizia penitenziaria, assolutamente inadeguato. È un lavoro molto faticoso, non si possono fare turni di otto ore. Al massimo sei. E se uno si ammala, non è giusto che gli altri lavorino doppio”. E gli educatori? “Il Comune deve aumentarli. Non posso pensare che se io dovessi andarmene, portando via i due o tre volontari con cui collaboro, mi lascerei alle spalle un vuoto. Personalmente sono stufo di convegni e anche di buoni consigli, c’è bisogno di fatti. Non voglio più sentir parlare di bilanci, di mancanza di risorse, sono stufo di essere invitato a incontri in cui si filosofeggia. Voglio vedere i politici entrare nelle carceri per visitare i detenuti, per rendersi conto. È inutile continuare a parlare di quanto la situazione sia complessa: ormai sappiamo molto più di quanto ci serva sapere. Inoltre non servono figure che rischiano di essere soltanto un’operazione di immagine, senza poteri effettivi. Occorre prevenire, presidiando il territorio, e i quartieri difficili. E poi pensare seriamente al reinserimento lavorativo. Perché i miei ragazzetti, quando escono, si trovano in situazioni a rischio. Che tanti di quelli che si riempiono la bocca di belle parole non si immaginano neanche lontanamente. E anche se sono molto motivati, se disoccupati, se lasciati soli, ricadono nella delinquenza. Occorre aumentare il numero degli operatori. Servono spazi e risorse. Servono fatti, insomma, non parole. E anche urgentemente”. Ferrara: cinque incontri su carcere duro, misure alternative e penitenziari italiani www.estense.com, 18 settembre 2012 “La pena oggi è priva di senso, senza utilità, non rieducativa. È avvilente e bisogna veramente voltare pagina”. A parlare è Desi Bruno, garante regionale dei detenuti, intervenuta alla presentazione del ciclo di incontri “Nuovi libri dietro le sbarre”. L’iniziativa giunge quest’anno alla seconda edizione e comprende una serie di appuntamenti con la lettura e l’attualità: cinque incontri che si svolgeranno all’interno della libreria Ibs di Ferrara a partire da giovedì 20 settembre. La rassegna incentrerà la discussione sullo spinoso tema della detenzione, scegliendo di volta in volta focus diversi. Passerà dal carcere duro agli ospedali psichiatrici giudiziari, dall’architettura della casa circondariale al trattamento del corpo detenuto. Il primo approfondimento sarà dedicato a “Il senso odierno della pena”, e prenderà spunto dal libro di Gherardo Colombo, “Il perdono responsabile”. “Su questo tema c’è bisogno di attenzione continua - ha proseguito Bruni: è di pochi giorni fa la notizia relativa allo slittamento della riforma sulle forme alternative alla detenzione, un provvedimento equilibrato e ragionevole, modesto, che pure non riesce ancora a venire alla luce”. Promotore dell’iniziativa è il docente Unife Andrea Pugiotto, ordinario di diritto costituzionale, supportato dall’ateneo e dalla Scuola forense, come dall’amministrazione comunale e provinciale. “Ferrara ha un rapporto problematico con le carceri - ha più volte sottolineato: deve fare i conti con la struttura vuota di Codigoro, conclusa nel 2001 e mai aperta, oltre che con il sovraffollamento dell’Arginone”. Proprio sul cantiere previsto in quest’ultimo sito è voluto intervenire il garante dei detenuti di Ferrara, Marcello Marighelli: “è in programma la costruzione di un nuovo padiglione da 200 posti, è già stato pubblicato il bando di gara. Fa parte di un piano di ampliamento ma in verità costituirà un restringimento: verrà edificato all’interno del perimetro attuale, sottraendo spazio alle attività che sarebbero prioritarie, quelle della rieducazione e della risocializzazione. Questi progetti sono già in crisi, bloccati a seguito del terremoto. Ci mobiliteremo per evitare che subiscano ulteriori ridimensionamenti”. Anche l’assessore provinciale Caterina Ferri ha voluto ribadire la difficoltà di organizzare percorsi di reinserimento lavorativo: “la loro realizzazione è molto difficile, c’è poco personale addetto al controllo e questo non facilita l’accompagnamento formativo. Come Provincia è capitato che finanziassimo progetti che poi non si riuscisse a realizzare, ma bisogna insistere: il lavoro non è solo un’opportunità per i detenuti ma per l’intera comunità”. Tante dunque le criticità, non solo a Ferrara ma in Italia, tanti gli argomenti sui quali il ciclo “Nuovi libri dietro le sbarre” intende sollecitare un confronto. L’edizione 2011 ha da questo punto di vista segnato una tappa importante a livello nazionale: da essa infatti è scaturita una lettera aperta rivolta al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, firmata da 136 giuristi impegnati sulla questione, cui a breve dovrebbe seguire risposta. “La politica non parla volentieri di carcere e detenzione, ma sono argomenti sui quali è fondamentale cresca l’opinione pubblica, come pure il dibattito nelle sedi istituzionali”, ha concluso il vicesindaco Massimo Maisto. Perugia: consegnati attestati dei Corsi formazione promossi dalla Provincia Ansa, 18 settembre 2012 Da Provincia di Perugia e direzione della Casa circondariale del capoluogo umbro, “un impegno ad individuare forme di collaborazione permanenti che, anche attraverso una partnership con operatori economici, possano coinvolgere i detenuti in attività di formazione professionale capaci di creare opportunità lavorative al termine della pena”: ne hanno parlato stamani a Capanne il vice presidente della Provincia, Aviano Rossi e la direttrice del carcere, Bernardina Di Mario, in occasione della consegna degli attestati di partecipazione dei progetti di inclusione sociale finanziati dall’ente con le risorse del Fondo sociale europeo. Il progetto - riferisce una nota della Provincia - dal titolo “Dai Paesi di domani”, ha visto la realizzazione di due percorsi formativi: “Addetto alla cucina” con il coinvolgimento di 14 detenuti maschi con il rilascio di un attestato di qualifica e “Addetto alla manutenzione del verde” con il coinvolgimento di otto detenute ed il rilascio di un attestato di frequenza. “Occorre superare l’idea che la detenzione rappresenti solo la privazione della libertà, per essere invece considerata come una occasione per riflettere e per ricostruire un’opportunità, una prospettiva ed un progetto di vita che deve passare per il lavoro”, ha affermato il vice presidente durante la consegna dei diplomi ai detenuti. “L’esperienza di questi corsi - ha aggiunto - sarà l’occasione per sperimentare un modello di formazione che possa diventare un cantiere sempre aperto ed un punto di riferimento per coloro che avranno la sfortuna di passare qui dentro”. Soddisfazione è stata espressa anche dalla direttrice Di Mario. Pordenone: domenica lo scrittore Pino Roveredo e il comico Paolo Rossi visitano i detenuti Messaggero Veneto, 18 settembre 2012 Lo scrittore Pino Roveredo conferma il suo impegno nel sociale e non si è fatto cogliere impreparato quando il CSS Teatro stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia, attivo da 25 anni nell’opera di formazione con le Case Circondariali, gli ha proposto una visita al carcere nei giorni di Pordenone Legge. Un’iniziativa realizzata con il sostegno della Direzione centrale salute, integrazione sociosanitaria e politiche sociali, della Regione Fvg. E con Roveredo ci sarà anche il comico Paolo Rossi. Insieme domenica 23 alle 12.30, saranno all’interno della Casa Circondariale di Pordenone per presentare il libro appena edito da Pino Roveredo, Mio padre votava Berlinguer (Bompiani), in collaborazione con la Festa del libro con gli autori. In questi anni - si legge in una nota - il CSS ha garantito la presenza costante e continuativa di artisti, esperti e operatori all’interno delle carceri della regione. In particolare, sono state svolte attività laboratoriali in diversi ambiti creativi, continuando a proporre, in parallelo, spettacoli teatrali, concerti e lezioni-concerto per la popolazione detenuta. Paolo Rossi, ha sempre partecipato con sensibilità artistica e disponibilità. Ugualmente lo scrittore e giornalista Pino Roveredo ha curato, nell’ambito del Progetto di contrasto, corsi di scrittura creativa e laboratori di canzoni d’autore, su testi e musiche composti da detenuti nelle Case Circondariali di Udine, Gorizia e Pordenone. Libia: parla don Mussie Zerai, l’angelo dei profughi Famiglia Cristiana, 18 settembre 2012 “Anche stamattina mi hanno chiamato disperati. Ci sono state nuove percosse e maltrattamenti, una donna incinta all’ottavo mese è terrorizzata all’idea di partorire in queste condizioni”, racconta don Mussie Zerai, sacerdote cattolico eritreo che vive tra Roma e la Svizzera. Con la sua Associazione Habeshia, che si occupa di dar voce a chi scappa dall’Eritrea e dall’Etiopia, è in contatto con molti dei migranti subsahariani detenuti nelle carceri libiche, grazie a cellulari che sono riusciti a nascondere. Dati certi non ce ne sono, ma don Mussie ha censito 21 prigioni; 150 detenuti nel carcere di Hums provenienti dal Ciad, dalla Nigeria, ma soprattutto dalla Somalia, dall’Etiopia e dall’Eritrea, altrettanti a Sibrata Mentega Delila (Tripoli), oltre 400 a Bengasi. Addirittura, molti detenuti del Corno d’Africa sono richiedenti asilo politico e rifugiati, già riconosciuti dall’Unhcr nei campi profughi del Sudan. Alla faccia della protezione internazionale, c’è chi è recluso da anni. Da quando gli Stati europei, e l’Italia in prima fila, hanno stretto accordi con Ghedaffi per frenare l’immigrazione, i militari libici hanno arrestato molti africani con retate, casa per casa, nei quartieri popolari di Tripoli e di altre città. Altri sono stati imprigionati dopo essere stati respinti nel Mediterraneo da navi italiane. Nessuno di loro è mai stato processato davanti a un giudice. L’unica colpa è di aver attraversato il deserto per provare a raggiungere la “Fortezza Europa”. Tecnicamente, sono potenziali “clandestini” nel nostro continente. Da questo punto di vista, c’è piena continuità tra la Nuova e la Vecchia Libia. Racconta don Mussie: “Venerdì 24 agosto, i militari libici hanno ucciso tre prigionieri. È stata la risposta a uno sciopero della fame, indetto da alcune donne per ottenere cure mediche per tre detenute eritree incinta. I militari hanno picchiato selvaggiamente un ragazzo come capro espiatorio, per poi sparargli senza nessuna ragione. Di fronte alle urla di spavento degli altri detenuti, hanno sparato nuovamente. Alla sera, i cadaveri erano tre”. Non è un caso isolato. Il 21 luglio, a Sibrata, per sedare le richieste di cibo dei detenuti, i militari hanno sparato contro un diciottenne eritreo, ferito all’addome. È stato presentato come un mercenario di Ghedaffi, ma era semplicemente un giovane richiedente asilo politico. Un altro ragazzo di 19 anni è stato colpito all’orecchio con una sbarra di ferro. Anche le donne di Sibrata, 6 delle quali in gravidanza, sono state colpite con sedie di ferro. Spiega don Mussie: “Qui, i militari si accaniscono particolarmente contro i detenuti cristiani, etiopi ed eritrei: il mese scorso li costringevano a digiunare per il Ramadan, mentre aizzavano contro di loro i prigionieri di fede islamica. Alle donne cristiane, a differenza di quelle musulmane, non permettono di andare in bagno e fare la doccia”. “La situazione di tutti i detenuti è comunque un inferno”, commenta don Mussie. “In celle di pochi metri quadri, sono rinchiuse fino a quaranta persone, tenute a pane e acqua. Dormono per terra, non ci sono materassi”. E ogni giorno sono sottoposti a umiliazioni e vessazioni da parte della polizia: “Bastonati, costretti come schiavi ai lavori forzati, le donne subiscono violenze sessuali da parte dei militari”. La situazione più grave è quella dei minori: “La madre di un bambino di due anni e mezzo continua a ripetermi che non sa cosa dare da mangiare al figlio, bisognoso anche di cure mediche”. A Sibrata, si trovano anche i 76 eritrei, richiedenti asilo politico, protagonisti il 29 giugno scorso di quello che don Mussie chiama “uno strano respingimento italiano”. “Soccorsi in acque internazionali da una nave italiana, sono stati portati su una piattaforma petrolifera gestita dall’Eni. Qui, sono stati poi presi in consegna dalla polizia libica e trasferiti direttamente nel carcere di Sibrata, compreso un bambino di due anni”. Secondo il sacerdote, “dovevano invece essere affidati alla Marina italiana”. Il Presidente dell’Associazione Habeshia conclude lanciando un appello alle istituzioni europee e italiane: “La morte, venerdì, dei tre richiedenti asilo nel carcere di Hums è una grave colpa anche dell’Europa, perché non sta vigilando sulla nuova Libia. Faccio appello al Parlamento Europeo affinché richiami il Governo di Tripoli al rispetto dei diritti umani e dei richiedenti asilo politico. Occorre liberare tutti i profughi e consegnarli all’Unhcr”. Messico: in 130 evadono da carcere, “codice rosso” per ritrovare e catturare i prigionieri Ansa, 18 settembre 2012 Almeno 130 detenuti sono fuggiti da un carcere a Piedras Negras, nello stato messicano di Coahuila (nord del paese, a ridosso della frontiera col Texas) dopo aver scavato un tunnel di 7 metri di lunghezza. Lo riferiscono le autorità locali, che hanno fatto scattare il “codice rosso” per rintracciare e catturare gli evasi. Secondo ricostruzioni della stampa locale, l’evasione di massa è stata scoperta ieri sera, quando si procedeva alla conta dei reclusi. “Hanno usato un tunnel di circa 1,2 metri di larghezza e sette di lunghezza, a una profondità di 2,9 metri, che si apriva dove prima si trovava l’officina di falegnameria e portava fino a una delle torri del perimetro del carcere, che guarda a nord. Una volta là, hanno tagliato la recinzione e sono usciti uno ad uno”, ha indicato una fonte della procura locale. L’ultima fuga collettiva da un carcere messicano era avvenuta lo scorso 19 febbraio ad Apodaca, nello stato di Nuevo Leon, dove un gruppo di 30 affiliati al clan di narcos dei Los Zetas erano riusciti a fuggire coperti da un gruppo di fiancheggiatori, con la complicità di parte del personale penitenziario, attaccava detenuti appartenenti al Cartello rivale del Golfo, uccidendone oltre 40 con pietre e oggetti contundenti. Secondo il quotidiano El Universal il governatorato di Cohauila ha offerto di 200mila pesos a chiunque fornirà informazioni preziose per trovare e arrestare i detenuti in fuga. Finora, però, non sembra che la taglia stia funzionando ed è stato arrestato solo un detenuto, Ismael Alonso Estrada, che secondo le attività “camminava con fare sospetto” per le strade della stessa località dove si trova il penitenziario di Piedras Negras. Sembra che quattro evasi siano stati uccisi durante un conflitto a fuoco con le forze dell’ordine subito dopo l’evasione, però adesso il dito è puntato contro il sistema di sicurezza del carcere e il direttore, assieme a un secondino, sono stati interrogati dalla polizia. Per loro si prospetta un’accusa per “negligenza”. Intanto, massima allerta sul confine nord del Messico. 132 evasi non possono certo volatilizzarsi nel nulla e la polizia crede che presto faranno dei passi falsi, o almeno lo spera. Stati Uniti: negata la grazia a condannato morte che uccise suo molestatore Adnkronos, 18 settembre 2012 Il Board of Pardons del tribunale di Harrisburg, in Pennsylvania, ha rifiutato la richiesta di grazia per Terrance Williams, il detenuto con l’accusa di omicidio che sarà giustiziato il prossimo 3 ottobre. Nel 1984 Williams aveva ucciso a Philadelphia Amos Norwood, l’uomo che, secondo i suoi difensori, l’aveva molestato da quando aveva 13 anni. Secondo quanto scrive il New York Times, Tom Dolgenos, avvocato del distretto di Philadelphia, ha dichiarato che le accuse di molestie sessuali a carico della vittima sono soltanto riferite da terzi, e sono state utilizzate da Williams nel tentativo di impedire l’esecuzione solo dopo la condanna a morte nel 1986. Tre membri del Board su cinque hanno votato a favore della grazia, ma non è stato sufficiente perché per la concessione della grazia è necessaria l’unanimità. Stati Uniti: cantante Elton John denuncia discriminazioni contro detenuti sieropositivi Asca, 18 settembre 2012 Gli stati dell’Alabama e della Carolina del Sud discriminano i detenuti sieropositivi, separandoli dagli altri ed escludendoli sistematicamente ai programmi di rilascio anticipato. Lo ha denunciato il cantante Elton John in un articolo scritto per il Washington Post. “Negli anni ottanta la gente malata di Aids subiva orrende e quotidiane discriminazioni e ingiustizie”, sostiene la rockstar britannica. “Oggi, Alabama e Carolina del Sud mettono in atto discriminazioni eclatanti e pericolose nei confronti dei detenuti sieropositivi”. In particolare, in Alabama sarebbero costretti a indossare delle fasce bianche sul braccio, mentre in Carolina del Sud verrebbero trasferiti in prigioni di massima sicurezza che spesso ospitano anche condannati a morte. ‘Privando i prigionieri sieropositivi di uguali trattamenti, Alabama e South Carolina promuovono paura, pregiudizio e anche violenza contro di loro”, sostiene ancora Elton John, in pieno accordo con gli argomenti della class action promossa dalla American Civil Liberties Union proprio in Alabama. Medio Oriente: manifestazione a sostegno dei detenuti palestinesi in sciopero fame Asca, 18 settembre 2012 Circa 200 palestinesi hanno manifestato oggi davanti alla sede della Luna Rossa a Ramallah in solidarietà con i detenuti che stanno effettuando lo sciopero della fame nelle carceri israeliane. Secondo l’organizzazione che offre sostegno ai prigionieri palestinesi, quattro di loro hanno presentato domanda per il rilascio senza processo e uno, il 38enne Samer Barq, è stato trasferito presso il centro di terapia intensiva di Assaf Harofeh, per un grave crisi di ipoglicemia. Nello stesso ospedale c’è anche un altro prigioniero, Hassan Safdi, mentre gli altri due, Ayman Sharawneh e Samer Assawi, sono ancora in cella. Secondo la Commissione Internazionale della Croce Rossa, Barq, Safdi e Sharawneh rischiano la vita. Lo scorso maggio circa 1.500 detenuti palestinesi avevano interrotto lo sciopero della fame dopo un accordo con le autorità carcerarie, che prevedeva il rilascio di coloro che erano in detenzione amministrativa, ovvero senza precise accuse. Safadi ha ricominciato lo sciopero della fame dopo che il suo ordine di detenzione è stato rinnovato.