Le domande da porre al ministro Severino Il Mattino di Padova, 17 settembre 2012 Oggi Paola Severino, Ministro della Giustizia, visiterà le carceri padovane, e non c’è detenuto che non vorrebbe dirle di persona come si convive con il sovraffollamento, come si perde ogni speranza nel futuro, farle vedere che a Padova, in un carcere portato a modello come la Casa di reclusione, ci sono senz’altro cose che funzionano, ma ci sono anche intere sezioni dove le persone vegetano in uno stato di desolante abbandono perché mancano le risorse, economiche e umane, per impegnarle in qualcosa di sensato. La prima domanda che tutti vorremmo farle è quella, semplice ed essenziale, che le hanno rivolto, in un appello accorato, tutti gli assistenti sociali che si occupano proprio dell’esecuzione delle pene: “Se è vero che più misure alternative e sostitutive delle pene carcerarie equivalgono a più sicurezza e meno costi, perché non si investe nell’esecuzione penale esterna e si continua a fare affidamento solo ed esclusivamente sul carcere?”. Al Ministro vorremmo dire che il carcere, così com’è oggi, peggiora gli uomini e le donne che ci finiscono dentro, e che tanti di loro non ci dovrebbero proprio stare, in galera, perché sono malati, perché sono tossicodipendenti, perché hanno bisogno più di cure che di “ammazzare il tempo” in cella. Ecco allora alcune riflessioni che i detenuti vorrebbero condividere con il Ministro. Un carcere che uccide qualsiasi possibilità di cambiamento Dopo aver passato per anni l’intero tempo della mia pena a combattere contro un sistema carcerario distratto nel rispettare i miei diritti, oggi mi trovo a pagare il conto delle mie azioni del passato, un passato fatto di un continuo rifiuto di accettare le regole degli istituti che mi ospitavano. Io pensavo che mettermi sullo stesso livello di chi violava i miei diritti, anche quelli più elementari, mi sarebbe servito a ottenere un trasferimento in un carcere migliore, ma soprattutto pensavo fosse il modo giusto per fare ascoltare la mia voce, o quanto meno attirare l’attenzione sul disagio che stavo attraversando in quel momento. Ma oggi, a distanza di anni da quei periodi, mi sono reso conto che non soltanto quel mio comportamento non mi ha permesso di usufruire della liberazione anticipata, cioè dello sconto di pena previsto per chi adotta un buon comportamento in carcere, ma non ha fatto altro che farmi girare, nei miei innumerevoli trasferimenti, oltre undici istituti, uno peggiore dell’altro. La conseguenza di tutto ciò la continuo a pagare oggi, quando provo a progettare un percorso verso l’esterno. Nonostante siano passati due anni in cui mi sono impegnato ad acquisire altri tipi di strumenti per portare avanti le mie ragioni e le mie idee, ponendomi in modo diverso dal passato, come riuscire ad ascoltare gli altri, e farmi ascoltare da loro comunicando e non ribellandomi alle regole che non trovo giuste o mi sembrano eccessivamente severe, e ottenendo cosi molti più risultati, le conseguenze delle mie azioni passate spesso prevalgono con forza, del tutto indifferenti al fatto che nel frattempo io ho cercato di migliorare e di iniziare un percorso serio per poter progettare un reinserimento vero nella società. Io credo che le istituzioni carcerarie dovrebbero fare meno uso dello strumento del rapporto disciplinare, magari servendosene solo in casi estremi, e dovrebbero soprattutto tenere in considerazione il fatto che non è facile vivere in un carcere sovraffollato, come si è costretti a fare oggi in Italia. E credo anche che le istituzioni che possono concedere benefici come le misure alternative al carcere, per promuovere un reinserimento del detenuto verso il futuro, non debbano far prevalere solo il passato del comportamento di un detenuto, ma debbano piuttosto valutare la persona nel complesso del suo percorso carcerario, e soprattutto si chiedano perché i detenuti tante volte arrivano ad accumulare molti rapporti disciplinari, e se non ci sia una parte di corresponsabilità anche degli istituti, che sono preposti ad ospitare un certo numero di detenuti ed invece ne ospitano il doppio e anche il triplo, facendoti vivere una detenzione fatta di passività, che non ti permette di acquisire nessuno strumento per migliorarti, e ti porta così ad accumulare una forte rabbia per le istituzioni, una rabbia che tu non riconosci come una caratteristica della tua persona, e che magari quando vivevi fuori non avevi mai provato. Un carcere di questo tipo, come ormai rischiano di diventare anche le carceri padovane, uccide qualsiasi possibilità di cambiamento. Luigi Guida Vorremmo parlare anche dell’urgenza di una radicale riforma del Codice Penale In questi giorni in carcere c’è un certo fermento per la visita in istituto del Ministro di Giustizia, le zone in vista e quelle che la Ministra dovrebbe visitare sono passate con la lente, gli spazi verdi puliti e l’erba tagliata con meticolosità, i capannoni in cui si trovano le lavorazioni, anche quelli tirati a lucido, insomma sembra quasi una sorta di pulizia di primavera… con una leggera differenza, che per quanto riguarda le sezioni in cui si trova la maggior parte della popolazione detenuta, stipata come in una scatola di sardine, non si riesce a fare nulla, quasi come se quando arriva un ospite si volesse far vedere solo il salotto buono, ripulito per l’occasione, cercando però di non alzare il tappeto perché non venga fuori il vero stato delle cose. So che prima faranno una visita alla Casa Circondariale, dove il sovraffollamento è davvero allucinante, dove per molti non c’è nessun tipo di attività, né lavorativa né scolastica, e al massimo si possono fare le ore di passeggio consentite da regolamento in cortili angusti. Poi passeranno alla Casa di Reclusione, dove al centro dell’attenzione saranno l’efficienza, la sensibilità e i risultati ottenuti attraverso i percorsi di reinserimento lavorativi e scolastici, ma il fatto è che di queste attività usufruisce una piccola parte dell’intera popolazione detenuta reclusa in questo carcere. E proprio i numeri potrebbero dare uno spunto per una riflessione seria su reinserimento e rieducazione, sull’utilità del carcere in riferimento alle tipologie dei reati, sul senso che una pena dovrebbe avere: la Casa di reclusione infatti è stata costruita per circa 400 detenuti, ma ne “ospita” oggi 940, dei quali circa un terzo impegnati in qualcosa, e gli altri? Sicuramente per affrontare questi temi in modo efficace si dovrebbe incominciare a non agire sempre in termini di emergenza, ma ad affrontare la situazione come un problema che implica un impegno serio, che coinvolga in termini di energia fisica e mentale tutti coloro che operano in questo settore, un problema che va affrontato con il ragionamento e non “di pancia”, come spesso spingono a fare tanta stampa e la televisione, quando parlano di reati, di pene, di carcere. Il rischio è invece che quello che conta sia l’apparenza, l’esteriorità, e si eviti accuratamente di affrontare il vero problema. Allora, ci piacerebbe immaginare un quadro diverso in occasione di questo evento che è la visita del Ministro della Giustizia, un quadro in cui possa essere fatta vedere la quotidianità vera di chi vive e lavora in carcere, le difficoltà che una giornata in galera comporta, lo stato di degrado e la perenne emergenza nella gestione di un istituto in cui le persone vivono ben al disopra della capienza consentita. E ci piacerebbe che si potesse parlare del modo indiscriminato in cui certe leggi (ex Cirielli sulla recidiva, Fini-Giovanardi sulle droghe) hanno portato a questo stato delle cose. Partendo da lì vorremmo sentire delle proposte che non siano mera propaganda come la costruzione di nuove carceri, per le quali non si capisce dove possa essere trovata la copertura finanziaria vista la precaria condizione delle casse dello Stato, ma che abbiano un costo accettabile e permettano comunque di abbassare il sovraffollamento e innalzare la sicurezza, come solo le misure alternative al carcere sono in grado di fare. E poi vorremmo parlare dell’urgenza di una radicale riforma del Codice Penale e di un ripensamento delle pene, che non possono essere solo galera, se non vogliamo che le galere si trasformino in autentiche fabbriche di delinquenti. Sandro Calderoni Giustizia: carcere e lavoro, chi viene recuperato non torna a commettere reati di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 17 settembre 2012 Quei 35 milioni che risparmieremmo facendo lavorare i detenuti. L’esperienza in un’azienda è offerta solo a 2mila carcerati su 66mila facendo lavorare i detenuti. Nessun Paese accetterebbe che negli ospedali morissero 7 ricoverati su 10 o che nelle scuole fossero bocciati 7 studenti su 10. Invece il carcere vive in Italia una doppia amnesia: non soltanto sullo scandalo di 66.000 detenuti stipati in 45.000 posti (da cui le condanne dell’Italia in Europa), ma ancor più sul fatto che 7 detenuti su 10 tornino poi a delinquere se hanno espiato la loro pena tutta in carcere, mentre soltanto una percentuale tra il 12% e il 19% incorra in questa recidiva se durante la detenzione in carcere ha avuto la possibilità di fare veri lavori per conto di imprese o cooperative esterne che li assumono grazie agli incentivi fiscali (516 euro di credito d’imposta per ogni detenuto) e contributivi (80% di riduzione) introdotti nel 2000 dalla legge Smuraglia (dal nome del senatore allora promotore della legge). Solo che dal 2000 la legge è stata rifinanziata sempre con gli stessi soldi: 4,6 milioni l’anno (dunque assottigliati già solo da inflazione e crisi), stanziamento che al momento consente di entrare in questo circuito lavorativo soltanto a 2.257 detenuti su 66.000. E siccome i soldi per quest’anno arrivavano a malapena ad agosto, i posti di lavoro si sono già ridotti. In Lombardia, ad esempio, i detenuti impiegati da ditte esterne sono stati nei primi 6 mesi dell’anno 310 contro i 470 del primo semestre 2011; e comincia a dover fare i conti con la situazione anche il caso-pilota di Padova, che oggi sarà visitato dal ministro della Giustizia Paola Severino e dove i detenuti impiegati dal “Consorzio Rebus” gestiscono il call center delle Asl venete, assemblano valigie di una nota marca, costruiscono 150 bici l’anno, digitalizzano i servizi delle Camere di Commercio, ricevono premi internazionali per il famoso panettone (63.000 confezioni a Natale) culmine della loro pregiata pasticceria. Nelle carceri va persino peggio all’altra tipologia di lavoro che in teoria dovrebbe essere assicurata a tutti i condannati e che invece solo per 13.961 detenuti ha dato luogo a mini periodi da “lavoranti” per le necessità pratiche dentro il carcere come spesini, scopini, scrivani, portavitto, tabellieri, manutentori: lavoro certo meno significativo di quello di chi opera per ditte esterne con ben altre pretese di tempi e standard qualitativi, che dunque non funziona da “ponte” tra la fine della pena e il ritorno nella società, ma che almeno allevia per qualche ora al giorno il sovraffollamento nelle celle, non lascia inattivi i detenuti e offre loro la possibilità di mettere da parte qualche quattrino (in media 200/300 euro al mese). Ma anche qui le “mercedi” sono ferme al 1994, e il capitolo “Industria” del bilancio della Direzione dell’amministrazione penitenziaria (Dap), con il quale vengono retribuiti i detenuti che lavorano nelle officine gestite dall’amministrazione penitenziaria per arredi e biancherie dei nuovi padiglioni in realizzazione, ha subìto un taglio addirittura del 71% in due anni, in picchiata dagli 11 milioni di euro del 2010 ai 3,1 milioni del 2012. È un’amnesia sociale ancor più miope se si pensa a tutti gli sterili “allarmi sicurezza” lanciati ad ogni eclatante delitto in questa o quella metropoli. Altro che esercito nelle città: ogni punto percentuale di recidiva che si riuscisse ad abbassare vorrebbe infatti dire quasi 700 ex detenuti restituiti alla società senza che delinquano più e senza dunque che infliggano ai cittadini i costi dell’insicurezza (persone ferite da curare, risarcimenti, beni rubati o rapinati o danneggiati, costi di polizie-magistrati-cancellieri per riarrestarli e processarli). E vorrebbe anche dire un risparmio secco per lo Stato di 35 milioni di euro l’anno, visto che le stime più sparagnine indicano in 140 euro al giorno il costo del mantenimento di un detenuto. Per fare un raffronto, il tanto avversato primo provvedimento del ministro Severino, da taluni temuto come “svuotacarceri”, nei primi tre mesi di applicazione ha fatto passare dalle celle ai domiciliari appena 312 detenuti e ha impedito che altri 3.000 vi entrassero per una manciata di ore con il noto fenomeno delle “porte girevoli”; e il segmento del piano-carceri in via di attuazione investe 228 milioni di euro per avere entro il 2014 circa 3.800 posti in più nelle carceri tra ristrutturazioni e ampliamenti degli istituti. Sottrarre invece alla recidiva un pari numero di detenuti richiederebbe (a statistiche invariate e in proporzione agli attuali pur avari stanziamenti) una ventina di milioni l’anno, ma solo in costi fissi ne farebbe risparmiare più di 250 allo Stato. Eppure la proposta di legge bipartisan Angeli-D’Ippolito-Vitale-Farina-Pisicchio, avanzata dall’intergruppo parlamentare per innalzare ad almeno 6 milioni l’anno il rifinanziamento della legge Smuraglia, incrementare a 1.000 euro al mese il credito d’imposta per ogni detenuto assunto, e applicare gli sgravi alle cooperative anche nei 12/24 mesi successivi alla fine della detenzione, stenta a decollare. Come se trovare i soldi per il lavoro in carcere fosse questione solo di buonismo. E non, invece, l’egoistica convenienza di una società che voglia davvero più sicurezza. Giustizia: Severino; impegno governo su fondi legge Smuraglia per lavoro detenuti Agi, 17 settembre 2012 Far lavorare i detenuti è fondamentale per il loro reinserimento e i fondi che permettono questo progetto devono essere oggetto di una seria discussione. Lo ha ribadito il ministro della Giustizia Paola Severino che oggi ha visitato due sedi carcerarie a Padova dove un consorzio di cooperative, la “Coop Rebus” impiega in lavori utili circa 200 reclusi. “Non sono molto brava a fare promesse - ha detto il ministro uscita dal carcere - però posso dire che c’è un impegno molto serio per questo, perché il progetto lavoro-detenuti è un progetto serio, quindi merita una riflessione seria e un impegno serio”. “Finora - ha detto ancora la Severino riferendosi alla cosiddetta legge Smuraglia finanziata annualmente con 4,6 milioni di euro, ormai insufficienti - è stata l’unica forma di attivazione del lavoro carcerario che non fosse semplice assistenzialismo o pietismo. Ha introdotto un modo di lavorare nel carcere utile, non solo per i detenuti ma anche per il reinserimento sociale e direi anche utile per le imprese”. “Oggi ho incontrato le imprese che hanno progettato e gestiscono questo progetto di lavoro in carcere - ha detto ancora il ministro della Giustizia - e mi hanno detto che ne hanno ricevuto una reciproca utilità: il lavoro in carcere non è più mettere insieme due bulloni, ma è fabbricare biciclette, confezionare panettoni straordinari, cioè fare dei progetti concreti, non si tratta più di intrattenere i detenuti per il tempo necessario a tenerli lontani dalla cella, ma abituarli a un lavoro utile, ad un lavoro per il futuro, ad un lavoro che sia già nella società”. Il ministro ha spiegato anche che uno studio sul fenomeno del lavoro per i carcerati e sugli effetti che riguardano la recidiva dei reati, oltre a un necessario finanziamento dei progetti, sono importanti. Giustizia: Severino; pene alternative sono risposta a problema sovraffollamento Adnkronos, 17 settembre 2012 “Contro il sovraffollamento mi sembra che un po’ di sana deflazione del carcere sia estremamente importante”. Lo ha detto il ministro della Giustizia Paola Severino oggi al suo arrivo all’Università di Padova per un convegno sul tema del lavoro in carcere. Il ministro prima aveva visitato le due carceri padovane e ha spiegato che “sono venuta a Padova e ho visitato due realtà carcerarie, ho constatato il sovraffollamento”. “Come affrontarlo? - si è chiesta il ministro - la ricetta è un mix di elementi. Noi abbiamo già avuto la legge salva carceri che ha cominciato a produrre qualche effetto, perché ci sono stati tremila ingressi in meno relativamente al fenomeno delle porte girevoli - ha continuato - poi c’è adesso la discussione sulle misure alternative alla detenzione e io credo moltissimo a questo progetto, non perché sia un progetto del governo, ma perché le misure alternative sono da tutti considerate il vero modo per affrontare il problema del carcere”. Secondo il ministro infatti “il carcere è l’estrema ratio di questo paese è l’ultima risorsa alla quale si ricorre quando gli altri tipi di pena non funzionano”. Ma per Paola Severino ci sono “casi in cui si potrebbe ricorrere alla messa in prova e per reati minori potrebbe addirittura evitare il processo e la detenzione”, ha spiegato riferendosi ad esempio al furto di cibo da parte di un pensionato in evidente stato di necessità, in un supermercato. Giustizia: intervista a don Virgilio Balducchi; urge la riforma del codice penale di Carmine Alboretti La Discussione, 17 settembre 2012 Il sovraffollamento è un problema serio l’amnistia potrebbe essere un primo passo ma da sola non basta a voltare pagina: il sistema va modificato. “La gente ascolta le notizie allarmanti che provengono dalla realtà carceraria ma non presta la necessaria attenzione al grido che proviene dai detenuti”. E la politica? “La volontà di cambiare c’è, come dimostra l’attivismo dell’attuale ministro della Giustizia. Servirebbe uno scatto di orgoglio del Parlamento”. Dal 1° gennaio di quest’anno don Virgilio Balducchi, 62 anni, è “ispettore generale dei cappellani delle carceri italiane”, incarico che il suo predecessore, monsignor Giorgio Caniato, ha ricoperto per ben quindici anni. Sacerdote dal 1976, si è sempre occupato di disagio sociale prima con i tossicodipendenti, poi con gli immigrati e, dal 1990, con gli ospiti del carcere di Bergamo. Con il nostro interlocutore abbiamo cercato di delineare le criticità della realtà carceraria, dove, nonostante tutto, proprio grazie all’impegno di tanti uomini di Chiesa e religiose, la dimensione trascendente costituisce un appiglio sicuro per chi ha commesso degli errori ma intende riparare al male compiuto per ricominciare a vivere in sintonia con la società e con Dio. Don Virgilio della figura del cappellano la gente comune sa quello che si vede nei film... Il cappellano penitenziario è un sacerdote o religioso che viene designato dal suo vescovo ad assumere l’incarico di ministro del culto cattolico all’interno dell’istituto di pena della diocesi di appartenenza. La sua presenza è prevista dall’ordinamento penitenziario ed è regolata da apposite circolari del Ministero, nel rispetto degli accordi concordatari stipulati tra la Santa Sede e lo Stato italiano che garantiscono il rispetto e l’autonomia delle reciproche competenze. L’incarico a cappellano del carcere è conferito con decreto del ministro della Giustizia, sentito il parere favorevole dell’Ispettore generale dei cappellani e del competente Ispettore distrettuale degli istituti di prevenzione e pena. Nel caso in cui l’incarico riguarda un istituto per minorenni il parere è del Direttore del Centro rieducazione per minorenni. Quali requisiti deve avere un sacerdote chiamato ad annunciare il Vangelo tra i detenuti? Per l’assunzione dell’incarico il presbitero deve possedere la cittadinanza, godere pienamente dei diritti politici, essere di sana e robusta costituzione e non avere più di settant’anni. L’ordinamento penitenziario prevede che a ciascun istituto sia addetto almeno un cappellano, due, se il carcere è di grandi dimensioni (con una popolazione detenuta che superi le novecento persone). Se in una diocesi ci sono più istituti di pena, ad ognuno di essi sarà assicurata la presenza di un sacerdote. Il cappellano è tenuto a rispettare un orario di lavoro settimanale che può essere organizzato e svolto secondo le sue esigenze in relazione all’assunzione di altri compiti pastorali esterni al carcere, sempre assicurando il pieno svolgimento delle proprie mansioni, e in accordo con la direzione dell’istituto. Quali sono, invece, i compiti dell’ispettore generale? L’ispettore generale ha funzioni di vigilanza sul servizio di assistenza religiosa negli istituti. Inoltre rappresenta un punto di riferimento per i Dipartimenti dell’Amministrazione Penitenziaria e della Giustizia Minorile nelle relazioni con la Conferenza episcopale italiana e con la Santa Sede. Padre come descriverebbe, in poche parole, la realtà nella quale è stato chiamato a svolgere il suo ministero? Il carcere, essendo una struttura di contenimento, è sempre una esperienza negativa per la persona. C’è, però, un aspetto che molto spesso viene dimenticato. Dietro le sbarre esiste una comunità cristiana composta dai detenuti, dagli agenti di custodia, dagli educatori e dagli operatori volontari che credono. Questa comunità, pur nelle condizioni che si possono immaginare, si sforza di condurre una esistenza conforme al Vangelo. Per questo la nostra presenza è sì di aiuto a chi ha bisogno, di carità concreta, ma anche di guida e di sostegno, affinché questi nostri fratelli e sorelle possano acquisire una piena consapevolezza degli errori commessi e, una volta usciti dal carcere, cominciare una esistenza nuova. A chi sta fuori, però, riesce difficile immaginare la realtà che ci ha appena descritto. La persona ristretta in carcere vive uno stato di sofferenza: è persona ferita, anche se si rifiuta di ammetterlo e se un tempo ha inferto, a sua volta, delle ferite. L’isolamento dalla comunità degli uomini costituisce, anzi, una ferita aperta. I sintomi più dolorosi sono la privazione della libertà di movimento e la percezione di essere spossessati di sé, in quanto si è consegnati totalmente nelle mani dell’istituzione. È una ferita che tocca le carni e, nel contempo, lacera lo spirito. Qualsiasi altro aspetto della vita in carcere ritorna a questo punto bruciante. I sentimenti che insorgono cercano una via di liberazione da questa lacerazione o attraverso la strada della rassegnazione, che elabora la situazione e quasi la metabolizza, o per quella della ribellione, sorda o aperta, che cerca una resistenza ad ogni costo. In ogni persona umana, però, vi sono anche risorse che la rendono capace di prendersi carico responsabilmente della propria situazione e di riprogettare la propria esistenza. Con tale strada si dà inizio ad un percorso di guarigione tanto più partecipato, quanto più la persona vive nella speranza la propria liberazione. Voi Cappellano come vivete il grave problema del sovraffollamento? Innanzi tutto va detto che il problema non è nato adesso, bensì si trascina da una decina di anni a questa parte. Il sovraffollamento ci crea non pochi problemi in quanto ci costringe a lavorare in spazi più limitati e in condizioni di tensione. In questo contesto diventa più difficile assistere le persone e seguirle nel loro cammino. Ciò nonostante la presenza dei cappellani nei penitenziari è palpabile: ogni sacerdote o religioso riesce a garantire una presenza di due/tre ore al giorno all’interno delle varie strutture. È evidente che, stante il sovraffollamento, che non è ascrivibile alla realtà penitenziaria in quanto tale, diventa sempre più difficile garantire l’esercizio di alcuni diritti primari del detenuto come il diritto all’assistenza sanitaria, al lavoro esterno, ad avere spazi di vita all’interno del carcere. Bisogna evitare che tutto questo si tramuti, come ha opportunamente sottolineato il Santo Padre Benedetto XVI, in una seconda pena rispetto a quella che i detenuti sono chiamati a scontare. Cosa si può fare per venirne a capo? Io credo che sia doveroso un provvedimento di amnistia che costituirebbe un atto di giustizia rispetto alla profonda ingiustizia di una condizione che offende la dignità delle persone. Ma questo non è sufficiente: c’è bisogno di riforme che permettano di scontare la pena responsabilmente all’esterno. La strada del carcere deve essere l’ultima soluzione possibile. Per questo sono convinto che la classe politica debba varare al più presto una riforma del codice penale. Il carcere deve essere l’ultima, extrema ratio. Qual è l’atteggiamento dei detenuti rispetto alla fede? Bisogna distinguere tra situazioni differenti. Il detenuto che non ha il dono della Fede magari comincia a porsi domande sul senso della vita e, in questo percorso, scopre la presenza di una realtà trascendente che può colmare il vuoto che sente dentro di sé. Il credente che, commettendo azioni delittuose, si è distaccato dalla religione ha davanti a sé un percorso più tortuoso, specie quando è stato protagonista di azioni particolarmente efferate. Inizia a dubitare che nessuno possa perdonarlo, nemmeno Dio. Per questo va aiutato a comprendere il valore della infinita Misericordia divina. Don Virgilio si congeda da noi e torna alle sue occupazioni quotidiane tra telefonate, fax, persone da ricevere. L’ufficio che lo ospita, posizionato al secondo piano di un palazzo dietro “Regina Coeli”, si affaccia sul Gianicolo e guarda le rotonde del complesso penitenziario. Il “panorama” non lo inquieta affatto: quello è sì un luogo di sofferenza ma anche di rinnovamento interiore. Le sbarre non impediscono ai detenuti di immaginare una società più giusta, nella quale a tutti sono riconosciute concrete possibilità di redenzione. E la speranza, si sa, è la molla più efficace per provare a cambiare vita. Giustizia: Spigarelli (Ucpi); adesione sciopero penalisti, iniziato oggi, è “pressoché totale” Agi, 17 settembre 2012 Adesione “pressoché totale” nei tribunali italiani all’astensione indetta dall’Unione camere penali per cinque giorni a partire da oggi. A renderlo noto sono gli stessi penalisti, ricordando che le ragioni della protesta - illustrate in quattro manifesti affissi negli uffici giudiziari di tutta Italia - sono riforma forense, intercettazioni, carceri e terzietà del giudice. “Il confronto con il governo è stato aspro - ha ricordato il presidente dell’Ucpi, Valerio Spigarelli, in un’intervista a SkyTg24 a proposito della riforma forense - ma ora la palla è passata al Parlamento, che deve fare presto”. Il leader dei penalisti ha puntato l’accento anche sulla legge riguardante le intercettazioni, una legge che “esiste ma viene spesso elusa”, e sull’abuso di custodia cautelare per cui “andrebbe rivisto l’intero sistema delle carceri, con una riforma strutturale”. Il tutto alla luce del principio di terzietà del giudice che “già esiste nella Costituzione, ma che dovrebbe essere attuato in primo luogo con la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri”. Giustizia: Sappe; mancano soldi per riparazioni; mezzi fermi, a rischio trasporto detenuti Adnkronos, 17 settembre 2012 “C’è il serio e fondato rischio che dal prossimo ottobre la Polizia Penitenziaria non sia più in grado di assicurare il servizio istituzionale del trasporto dei detenuti (le cosiddette traduzioni)”. A lanciare l’allarme è il Sappe, Sindacato autonomo di polizia penitenziaria, in una nota a firma del segretario Donato Capece. “Già oggi sono saltate diverse udienze in vari Tribunali, presso magistrature di sorveglianza e visite ambulatoriali programmate da tempo - denuncia Capece. Abbiamo in tutta Italia centinaia di automezzi del Corpo (più di 80 nel solo carcere di Napoli Secondigliano) fermi in attesa di riparazioni che non possono essere eseguite perché mancano i soldi, tanto che è lo stesso Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria a comunicarlo ufficialmente nelle note di risposta alle lettere delle Direzioni delle carceri che chiedono, appunto, fondi per le riparazioni”. Non solo, prosegue il segretario del Sappe: “tanti mezzi hanno oltre 300, 400 e persino 500mila chilometri e persino procedure obbligatorie di sicurezza come i periodici collaudi non vengono osservate proprio perché non ci sono soldi. È una situazione catastrofica: questo deve fare seriamente riflettere sui gravi rischi che le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria quotidianamente affrontano nel trasportare i detenuti”. Capece sottolinea infine l’incoerenza dell’Amministrazione penitenziaria che aveva nel 2007 istituito un Gruppo di lavoro presso il ministero della Giustizia per la rivisitazione delle modalità organizzative dei Nuclei traduzioni e piantonamenti: “Il Gruppo di lavoro nasceva proprio dalla necessità di riscrivere le modalità operative del personale alla luce delle esperienze concrete e quotidiane dei poliziotti dei Nuclei, ma l’Amministrazione lo ha boicottato fin da subito visto che ha convocato solamente due o tre riunioni e poi l’ha improvvisamente sciolto senza ragione alcuna”. Giustizia: Sappe; manca personale penitenziario, impiegare militari per vigilanza esterna Adnkronos, 17 settembre 2012 “Una prima soluzione urgente potrebbe essere quella di impiegare i militari per i servizi di vigilanza esterna degli istituti penitenziari”. È quanto afferma Donato Capece, segretario generale del Sappe (sindacato autonomo di polizia Penitenziaria), dopo la manifestazione di gruppi anarchici e no Tav, ieri pomeriggio, davanti al carcere di Alessandria. “Sono stati esposti striscioni contro i poliziotti penitenziari - spiega il sindacalista - gridate frasi ingiuriose e offensive, e lanciate pietre e bombe carta: occorre intensificare le misure di sicurezza per garantire l’incolumità di quanti operano all’interno del carcere, ma anche dei cittadini”. “Le manifestazioni di intolleranza verso l’istituzione penitenziaria sono sempre più frequenti - fa notare il leader dei baschi azzurri del Sappe - e il crescente sovraffollamento non aiuta certo a rasserenare gli animi, anche dei reclusi”. “Come Polizia Penitenziaria - conclude Capece - dobbiamo garantire, oltre a quella interna, anche la sicurezza esterna delle strutture carcerarie con una attenta vigilanza. Ma con carenze di organico così evidenti (a livello nazionale mancano ben 7mila agenti) sono evidenti le nostre difficoltà”. Lombardia: accordo tra Regione e Comune di Milano per superare l’emergenza carceri di Chiara Sirianni Tempi, 17 settembre 2012 Rimettere il tema della detenzione al centro del dibattito politico. E agire congiuntamente con un programma, molto concreto, di iniziative sul territorio milanese e lombardo. Con questo obiettivo la Commissione Speciale sul sistema carcerario di Regione Lombardia e il Comune di Milano si sono riuniti, per la prima volta congiuntamente, per confrontarsi sulle tematiche di reciproca competenza. “È un passo iniziale, molto importante” commenta Lamberto Bertolé (Pd), presidente della sottocommissione carceri a Palazzo Marino. “La situazione è drammatica, basti pensare che i suicidi in costante aumento, che non fanno nemmeno più notizia. Ed è urgente che le istituzioni programmino una serie di azioni coordinate. Il nostro impegno deve essere quello di far sì che le condizioni di detenzione non diventino un’ulteriore sanzione. Occorre ripartire dalle persone. E insieme si può fare molto”. Bollate, Opera, Beccaria, San Vittore. Quali sono le principali criticità delle case circondariali milanesi? “Bollate funziona molto bene, Opera sconta una struttura che risale agli anni Ottanta, il Beccaria ha un problema legato all’ala femminile, che è stata temporaneamente trasferita fuori città, causando grande disagio alle famiglie delle ragazze. Inoltre occorre rafforzare l’equipe educativa”. A San Vittore la situazione è molto critica, sia a livello di sovraffollamento che di spazi. “Vanno urgentemente ristrutturati. Abbiamo firmato un documento che sottoporremo ai rispettivi Consigli, per sollecitare il ministero in questo senso”. Definitivamente accantonata l’ipotesi di spostare il carcere in periferia, “sia perché così prevede il Pgt, sia per una ragione simbolica: le ipotesi di dislocamento fuori città rischiano di nascondere un problema. Che invece c’è, a una passo dalle nostre vite di cittadini liberi, e va affrontato con decisione”. Il “percorso comune” avviato con la Regione fonda le sue basi sulla gestione delle risorse. “Attraverso il meccanismo delle commesse si può fare molto, soprattutto finanziando le cooperative di tipo B, quelle che si occupano del reinserimento lavorativo” spiega Bertolé. L’obiettivo generale è quello di creare una cabina di regia, utile a ottimizzare le risorse umane ed economiche. La speranza è che si concretizzi lo spirito che il 22 dicembre 2011 portò il Consiglio comunale ad approvare una mozione che impegnava il sindaco Pisapia “a deliberare la formazione di una Commissione tecnica ad hoc con competenze medico-sanitarie, di igiene edilizia e sicurezza degli impianti, per rilevare le condizioni di vita nelle carceri milanesi”. L’assessore Pierfrancesco Majorino si era impegnato a formare la Commissione, ma tale impegno è finora rimasto disatteso. Quando sarà finalmente costituita e operativa? Secondo Mirko Mazzali (Sel) presidente della commissione sicurezza, il Comune “ha fatto la sua parte” ed è auspicabile che entro dicembre divenga operativa. Intanto, il 6 ottobre, il Consiglio si riunirà direttamente all’interno delle mura di San Vittore. “Un appuntamento senza precedenti - spiega Mazzali - in cui sarà discussa la delibera che istituisce il Garante per i diritti delle persone limitate nella libertà”. Dell’ipotesi di un Garante si parla da parecchi mesi. Si tratta di un organo di garanzia, terzo rispetto agli istituti penitenziari, che si occuperà di vigilare sui diritti dei detenuti. Il Garante promuoverà le opportunità di partecipazione alla vita civile e di fruizione dei servizi comunali delle persone private della libertà personale. Un’iniziativa bipartisan che nasce da un problema ben preciso: il sempre più drammatico sovraffollamento carcerario, che rende difficile l’applicazione delle adeguate garanzie previste dalla legge. Tra i compiti previsti dal regolamento c’è anche la promozione di iniziative e di momenti di sensibilizzazione pubblica sul tema dei diritti umani. Più concretamente, potrà rivolgersi alle autorità competenti per avere informazioni o segnalare il mancato o inadeguato rispetto dei diritti. “Non vogliamo fare un’operazione di immagine: ci interessa che questa figura abbia un profilo più che operativo” spiega Bertolè. “Per questo sarà nominato dal sindaco fra persone di indiscusso prestigio e di notoria fama nel campo delle scienze giuridiche, dei diritti umani e nelle attività sociali, purché in possesso dei requisiti necessari per la nomina dei consiglieri comunali. Resterà in carica per tre anni e il suo incarico sarà rinnovabile non più di una volta”. Basterà? “Il nostro obiettivo è quello di sensibilizzare anche la città. Pensiamo che il carcere non debba essere la maglia nera dell’agenda politica, non può essere una discarica sociale in cui le persone vengono marginalizzate. Per questo abbiamo deciso di fare il consiglio nel quarto raggio di San Vittore, quello che versa in condizioni più fatiscenti. Periodicamente andremo a visitare il carcere, l’impegno sarà costante. E cercheremo di far comunicare fra loro gli assessorati, superando la logica per cui ognuno si occupa solo del proprio pezzetto, senza interagire”. Trentino: mediazione penale e giustizia riparativa, intesa con il Ministero della Giustizia www.marketpress.info, 17 settembre 2012 Il Centro per la mediazione penale, istituito nel 2004 dalla Regione Trentino-Alto Adige a supporto dei giudici di pace, potrà realizzare percorsi di mediazione penale o di attività riparative anche con riguardo ai detenuti o ai soggetti in esecuzione penale esterna, nonché ai minori, rispetto ai quali il Centro già svolge in via sperimentale attività di mediazione in virtù di accordi precedenti. È quanto prevede l’intesa istituzionale sottoscritta oggi a Roma fra il Ministro della Giustizia Paola Severino ed il Presidente della Regione Lorenzo Dellai. L’intesa contempla principalmente una cornice programmatica di collaborazione tra la Provincia autonoma di Trento ed il Ministero della Giustizia, in relazione ad azioni finalizzate al trattamento e al reinserimento sociale dei soggetti in esecuzione penale, ma prevede altresì una collaborazione tra Regione Trentino-Alto Adige e Ministero della Giustizia per quanto riguarda l’ambito della mediazione penale e della giustizia riparativa. I servizi periferici dell’amministrazione penitenziaria quali ad esempio l’ufficio esecuzione penale esterna e della giustizia minorile (ufficio servizio sociale per i minorenni) si potranno avvalere dunque, ricorrendone i presupposti, dell’attività del Centro per la mediazione penale. Con l’intesa firmata a Roma oggi trovano sviluppo, inoltre, precedenti impegni in tema di mediazione penale derivanti dal protocollo di collaborazione siglato con il Ministero della Giustizia già nel 2005. Il Ministro Severino ha apprezzato l’esperienza sviluppata dal Centro per la mediazione, esperienza che conferma le convinzioni dell’amministrazione della giustizia al riguardo delle positive prospettive di sviluppo di forme alternative di risoluzione delle controversie. Sul tema della mediazione il Ministro ha auspicato che si possa tenere a Trento, sede accademica di eccellenza, una riflessione congiunta delle amministrazioni regionale, provinciale e della giustizia coinvolte in una significativa e complessiva collaborazione che comprende più ambiti del settore giustizia. Proprio questa mattina a Trento è stato sottoscritto un protocollo di collaborazione fra la Regione Autonoma Trentino-Alto Adige e l’Azienda Pubblica di Servizi alla Persona Civica di Trento che consentirà di dare ulteriore senso all’attività svolta dal Centro per la mediazione della Regione. L’accordo prevede che i minori coinvolti in procedimenti penali, cui le autorità giudiziarie abbiano prescritto percorsi di mediazione, possano intraprendere fattive azioni di riparazione simbolica delle conseguenze dannose del reato tramite lo svolgimento di attività di volontariato a servizio delle persone anziane Catania: costruzione nuovo carcere; intervista al Commissario delegato Sinesio di Vittorio Romano La Sicilia, 17 settembre 2012 Il sovraffollamento della casa circondariale di piazza Lanza presto potrebbe essere solo un ricordo. Catania avrà un nuovo istituto penitenziario con una capienza di 450 posti che sorgerà al fianco del carcere di Bicocca. Ieri mattina infatti è stata siglata, nella sede della Presidenza della Regione, la rimodulazione del piano carceri per la Sicilia. A sottoscrivere l’intesa i vertici dell’assessorato regionale al Lavoro, presente l’assessore Giuseppe Spampinato, e il prefetto Angelo Sinesio, catanese, dallo scorso gennaio commissario delegato del piano carceri per l’emergenza conseguente al sovrappopolamento degli istituti penitenziari presenti sul territorio nazionale (Sinesio ha rinunciato al compenso sia per l’attività di commissario straordinario sia per quella di commissario delegato). Prefetto, il nuovo istituto penitenziario di Bicocca sarà realizzato con la formula del project financing? “Il “piano carceri” non può operare in project financing perché si tratta di un’ordinanza di protezione civile dotata di un’autonomia finanziaria che viene assegnata dai ministeri dello Sviluppo economico e delle Finanze. Dunque oltre la scadenza non si può costituire debito. Ecco perché operiamo “in cassa”. Possiamo al momento azzardare una data di inizio lavori? E quali sono i tempi previsti? “Bandiremo la gara entro la fine del prossimo mese di ottobre, mentre l’aggiudicazione avverrà entro dicembre. Se non ci saranno ricorsi, assai frequenti purtroppo in tempi di crisi, il cantiere sarà aperto a marzo prossimo e i lavori dureranno 600 giorni, ovvero 20 mesi circa. Al momento - aggiunge il prefetto Sinesio - su tutto il territorio nazionale ci sono 15 padiglioni in gara e il mese prossimo partirà il cantiere del carcere di Caltagirone, che avrà una capienza di 200 posti. Ma il primo istituto penitenziario totalmente nuovo sarà quello di Catania Bicocca, cui seguiranno Torino, Pordenone e Camerino nelle Marche”. Quale sarà il costo dell’opera qui a Catania? “21 milioni e mezzo. Ma al di là delle cifre che lo Stato sta bene investendo, vorrei sottolineare il grosso sforzo organizzativo che questo ufficio sta sostenendo da gennaio scorso, mese del mio insediamento” (Sinesio è stato nominato in sostituzione del dottore Ionta, capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia. Ma tutte le opere in gara o già bandite sull’intero territorio nazionale sono partite quest’anno, ndr). Prefetto Sinesio, che caratteristiche avrà il nuovo istituto penitenziario di Bicocca? “Sarà interamente ecosostenibile. Autosufficiente dal punto di vista energetico, tutte le celle e l’intera struttura saranno realizzate a norma Ue. Ogni cella sarà 16 metri quadrati, ospiterà due persone, avrà il bagno e una temperatura costante che non farà soffrire il caldo d’estate o il freddo d’inverno. Anche sotto il profilo dell’automazione e della sicurezza l’edificio sarà all’avanguardia e dotato di modernissime strumentazioni che permetteranno anche di risparmiare sul personale”. Le carceri, dice Sinesio, “sono un biglietto da visita per lo Stato. E per i detenuti scontare la pena in una struttura dignitosa è sicuramente più educativo. Dobbiamo e vogliamo stare al passo con l’Europa”. Nel nuovo carcere di Bicocca sono previsti laboratori per i detenuti? “Sono previsti degli spazi ad hoc ma sarà il Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria, ndr.), insieme al direttore della struttura, a decidere come utilizzarli. Tutti gli arredi saranno realizzati esclusivamente da detenuti di altri istituti. I mobili sono già in produzione. Non abbiamo previsto un campo di calcio sol perché esiste già nella “vecchia” struttura adiacente, ma ci sarà uno spazio coperto destinato ad attività polisportive”. Che fine farà piazza Lanza? “Lo deciderà il Dap. Per il momento continuerà a funzionare, ma il problema del sovraffollamento sarà risolto grazie a 650 nuovi posti, 200 nella nuova struttura di Caltagirone e 450 a Bicocca”. Tuttavia, conclude Sinesio, “non si può negare che le carceri borboniche prima o poi saranno chiuse. Si tratta di strutture di pregio ma inadeguate allo scopo e con costi eccessivi”. Milano: laboratorio di sartoria a San Vittore, con la Cooperativa Sociale Alice Io Donna, 17 settembre 2012 Innanzitutto, qui è inutile cercare pigiami a righe. Non si fabbricano, non si vendono e non si indossano. Ma, in effetti, quella ruche che . decora il corpetto di un bell’abitino di lana color blu petrolio ha qualcosa di déjà vii. Già visto, però dove? “Sulla schiena di giudici e avvocati” scioglie il dubbio Paola, colombiana 37enne, bella, solare, sorridente tranne quando parla di quel suo “errore”, commesso 13 anni fa, che l’ha portata prima a San Vittore, poi a Bollate e, infine, semilibera, qui. Alla Cooperativa sociale Alice di Milano, il laboratorio esterno della Sartoria San Vittore, vicino al cantiere della vecchia Fiera campionaria, e abbastanza lontano dal vecchio carcere di via Filangieri. Ungrande seminterrato, ingombro di rotoli di stoffa, manichini, rocchetti di fili colorati, voluminose macchine per cucire di prima generazione, ma anche computer dai programmi innovativi che permettono di scannerizzare i disegni e poi stamparli, per trasformarli in cartamodelli a grandezza naturale. Paola mostra il dorso della toga nera che la sua collega Sofia, cinese, sta rifinendo a mano, punto per punto, lungo i profili di velluto: eccola lì, la stessa arricciatura, che richiama l’antico “nido d’ape”. Grazie a un guizzo di intuito femminile, si è trasferita pari pari dal severo capo d’ordinanza sulla scollatura di un tubino da cocktail della collezione autunno-inverno. Sembra un dettaglio, ma è un indizio: non sono poi così distanti i due mondi, quello “per bene” e quello “per male”. Non sono poi così alte le barriere che dividono chi trasgredisce e chi sanziona; né così insormontabili. Paola l’ha scoperto il giorno in cui è stata incaricata della consegna a domicilio di una delle toghe prodotte dalla sartoria. Era per un magistrato. Un magistrato donna. “Ho suonato al citofono della sua casa e ho detto subito; ho la sua toga, aspetto qui sotto. Mi ha risposto: no, salga, così la proviamo. Non potevo crederci: mi stava invitando a entrare in casa sua. Nell’appartamento di un giudice, io, una detenuta. Dopo tanto tempo in carcere ti abitui alla diffidenza altrui. Ci sono agenti di custodia che non vogliono nemmeno che tu sappia il loro nome”. Bisognerebbe provare a confezionare anche divise per la polizia penitenziaria, forse, perché con le toghe - come spiega la fondatrice della Cooperativa Alice, Luisa Della Morte - ha funzionato: “Si esce dal meccanismo vittima-persecutore, per entrare nella normale relazione tra fornitore e cliente”. Chi l’avrebbe immaginato appena quattro anni fa, quando la sartoria di San Vittore, all’epoca già attiva da più di 15 anni, inaugurò il nuovo brand: “Accadde durante un convegno” racconta Luisa Della Morte. “Il magistrato di sorveglianza, Giovanna Di Rosa, si presentò con la sua toga: propongo alla Cooperativa Alice, disse, di rimettermela a posto”. Il lavoro fu fatto a regola d’arte. Il passaparola fece il resto. “Ora riceviamo ordini da tutta Italia. Abbiamo un accordo con l’Associazione nazionale dei magistrati, con la Camera penale di Milano, Lodi, Treviso e altre città. Due delle nostre sarte si sono specializzate in questo articolo. Abbiamo cominciato con 50 toghe all’anno, ora ne produciamo 10-15 al mese”. Un successo che sembra non conoscere crisi: neo laureati e magistrati di prima nomina ordinano la loro toga via email alla cooperativa. E nei laboratori di San Vittore e di Bollate le detenute, come Mima, non avvertono più l’imbarazzo o il disagio iniziale, con la “cappa” nera della giustizia sulle spalle, mentre una “concellina”, come si chiamano fra loro le compagne di cella, prende le misure, o imbastisce l’orlo. Per quanto rappacificante, la confezione dì sole toghe sarebbe comunque un po’ monotona: “Il filone portante resta il negozio di via Terraggio, a Milano” informa Luisa. “L’ideazione è di una stilista esterna, Rosita Onofri, ma la realizzazione è tutta interna”. Vestiti, giacche, camicette, e la mitica serie dei “gatti galeotti” di Alessandro Previ che decorano magliette, tovaglie, shopper. “Sono oggetti fabbricati in carcere, ma senza troppi riferimenti al carcere” spiega Luisa. “Devono essere competitivi. Il nostro sogno? Un reparto per noi nella grande distribuzione: Coin, H&M, Ovs. Il nostro obiettivo è di dare lavoro a 50 detenute entro un anno”. Paola De Rossi, insegnante di sartoria all’Istituto Cova e maestra di ago e filo per le recluse, intreccia con loro anche i ricordi, e magari un bonario pettegolezzo su qualche apprendista o “concellina” illustre, conosciuta prima sulle pagine dei giornali e poi a San Vittore o a Bollate: Rosa, una ricamatrice formidabile, ancora perdutamente innamorata del suo Olindo. Vanna, sempre così elegante, come in tivù. Patrizia, che invece non vuole proprio saperne di imparare un mestiere. “Non la capisco. Per me il giorno più brutto è la domenica, quando la sartoria è chiusa” commenta l’altra Paola, la colombiana. L’importante è vedere il risvolto positivo: come quella bellissima detenuta che si è iscritta al corso per cucirsi da sola l’abito da sposa. “Quando me l’ha detto mi sono stupita” racconta l’insegnante, “Ma dove l’hai conosciuto, se sei qui dentro da 4 anni?”. “Per lettera” mi ha risposto. Lui sta nella sezione maschile”. Anche in sartoria, dicono, quello è stato il giorno più bello. Ancona: carcere di Montacuto al collasso, 100 detenuti trasferiti al Barcaglione Il Messaggero, 17 settembre 2012 Disinnescata la “bomba” del carcere di Montacuto di Ancona, costretto a ospitare in media oltre 380 detenuti a fronte di una capienza massima di 300. Situazione che aveva provocato gesti di autolesionismo, suicidi e perfino la rivolta di un’intera sezione. Ora il secondo carcere di Ancona, quello del Barcaglione, ospiterà 100 detenuti entro fine settembre, che saliranno a 180 per la fine dell’anno, con 50 agenti di custodia distaccati nella struttura. Così verrà reso meno problematico l’affollamento nel penitenziario di Montacuto. Ne dà notizia il segretario regionale del sindacato di polizia penitenziaria Aldo Di Giacomo, annunciando anche che il 20 settembre il capo del Dipartimento nazionale dell’amministrazione penitenziaria Giovanni Tamburino sarà ad Ancona, per incontrare le autorità locali e il sindacato. La preoccupazione del Sappe riguarda però la dotazione organica degli agenti di custodia, di recente rafforzata con l’assegnazione di 18 agenti al carcere di Montacuto, 14 a Pesaro e 6 a Fossombrone, per un totale di 768 addetti ai sette carceri della regione. “I 50 agenti previsti per Barcaglione - spiega Di Giacomo - verranno reclutati negli altri istituti marchigiani, di fatto vanificando il recente aumento di organico”. “Se il Dap confermerà questa scelta, dal 21 settembre entrerò di nuovo in sciopero della fame, e il sindacato organizzerà una protesta pubblica” conclude Di Giacomo che, nei mesi scorsi, è stato al centro a un clamoroso sciopero della fame che lo ha portato alle soglie di un grave collasso. Da ricordare che il Barcaglione era nato come istituto per detenuti a fine pena, e si tratta di una struttura a basso livello di protezione. Per questo si sono resi necessari lavori per accrescere la sicurezza. Milano: rientrata la protesta al carcere minorile, incendiati oggetti e vestiti Corriere della Sera, 17 settembre 2012 È rientrata la protesta dei giovani detenuti del carcere minorile Beccaria di Milano, grazie anche all’intervento di un funzionario della Questura. I ragazzi - secondo quanto spiegato dalla polizia - sono rientrati nei loro settori e nelle loro camerate senza incidenti. Al momento non risultano feriti né grossi danni, anche se rimane alta l’attenzione delle forze dell’ordine. Protesta, questa sera, al carcere minorile Beccaria di Milano per tensioni tra i secondini e i giovani detenuti. L’allarme è stato dato verso le 21.15. Una trentina di ragazzi ha dato fuoco alle suppellettili. Al momento nella struttura, che si trova in via Calchi Taeggi in zona Baggio alla periferia della città, la situazione risulta “stazionaria” secondo quanto spiegato dalla polizia che ha inviato sul posto diverse Volanti. Continua la protesta dei ragazzi detenuti anche se non esce più fumo dal carcere. Tutto al momento, però, sembra sotto controllo: non ci sono feriti e l’istituto è circondato dai poliziotti fra i quali anche un reparto della Mobile. Secondo quanto appreso, in serata i giovani, che non hanno occupate aree a loro proibite, hanno iniziato a urlare nelle camerate e hanno incendiato qualche vestito o qualche oggetto senza però determinare conseguenze serie. In questo momento la direzione e il personale stanno cercando di riportare tutto alla calma dialogando con i ragazzi anche per capire da cosa sia nata l’iniziativa. Il “piccolo Vallanzasca” guida la rivolta Ha 14 anni, ma come da peggior cliché della mala anche già due soprannomi. Uno se l’è dato da solo (“il piccolo Vallanzasca”), l’altro gliel’hanno affibbiato per la sua capacità di sfuggire alle forze dell’ordine (“la Pulce”). Dopo sole tre notti nel carcere minorile Cesare Beccaria di Milano, questo ragazzino originario del quartiere di Quarto Oggiaro, ieri, è riuscito a far scattare una rivolta. Con lui una trentina di giovani reclusi. Un’ora di disordini che hanno richiesto l’intervento di una cinquantina di agenti Nel provvedimento di custodia cautelare, scritto dal gip Marilena Chessa, viene definito “un pericolo elevatissimo e concreto per la collettività”, che mostra “disinvoltura e propensione all’attività delittuosa”, che commette “quotidianamente”. E ai furti d’auto, la guida spericolata e le rapine con la sua gang (il gruppo di largo Boccioni),”da ieri ha aggiunto la rivolta al Beccaria. Passate le nove di sera, ieri, il giovane delinquente ha appiccato il fuoco a due materassi e a qualche cestino, trainandosi dietro una trentina di detenuti. Scatenando il panico nell’istituto, dove la tensione è altissima, dopo l’evasione di un detenuto nell’ora d’aria avvenuta nell’ultima settimana. Sul luogo, in via dei Calchi Ta-eggi, zona Bisceglie, sono intervenute numerose volanti della polizia, oltre ai camion dei vigili del fuoco e a un’ambulanza a scopo preventivo. Sirene, uria, tonfi sordi, nel silenzio della periferia milanese. E quando gli agenti sono arrivati da lui, nei epa, centro di prima accoglienza da dove sono partite fiamme e proteste, lui li ha accolti così, sfrontato e tracotante. “E adesso picchiatemi: sono qui!”. Piccolo, fiero, esile, dicono abbia la faccia da bambino. Per due anni, fino al raggiungimento dei 14 armi, la polizia non ha potuto intervenire per l’impunibilità. Da febbraio, è arrivato l’ordine di custodia cautelare per una decina di reati tra furti, rapine e minacce. Figlio di pregiudicati, anche il fratello di 19 anni è in carcere. Pure l’arresto del baby Vallanzasca, avvenuto lunedì scorso in una palazzina popolare in via Voltri 4 zona Barena, aveva già mostrato i crismi di un piccolo “romanzo criminale”: la pulce era ospite da due amici incensurati, quando sono arrivati i poliziotti del commissariato di Quarto Oggiaro, banlieue milanese famigerata per la malavita. “Scappa! Sono venuti a prenderti!” grida la sua fidanzatina. E così via, di corsa, saltando da una finestra al balcone al terzo piano di un palazzo, dove è entrato nell’appartamento di due anziani senza farsi notare. Un balzo di oltre un metro e messo che ha lasciato gli agenti con la bocca aperta. Qui si è rintanato nel bagno dove la polizia è riuscita ad agguantarlo. L’ascesa della “Pulce” tra botte, furti e rapine Mani in alto, basta, ci arrendiamo. Così piccolo e così esile nei suoi centocinquanta centimetri d’altezza, i brufoletti, la fessura tra gli incisivi, il naso un poco a patata, gli occhi scuri da cucciolo che pur nel chiuso di una stanza di commissariato hanno avuto irrefrenabili, privatissime crisi di pianto. Eppure li ha disarmati tutti. Sempre. Dalle maestre all’assistente sociale al prete della comunità d’accoglienza che stanco e rassegnato lo portò in stazione, partiva un treno per Milano e ce lo mise sopra. In segno di resa. Quant’è fuori luogo il nomignolo che gli han dato in quartiere, Pulce. Certo meglio di quello che si è scelto lui, piccolo Vallanzasca; è un quattordicenne rimasto bimbo e già diventato un bandito adulto. Sabato giusto per “creare casino” ha comandato una rivolta al carcere minorile Beccaria, solitamente calmo. Cinquantanove i detenuti. Quaranta - il fuoco appiccato a lenzuola e materassi - hanno obbedito a Pulce, ospite del Beccaria da pochi giorni. Dall’angolo della cella incitava un poliziotto che cercava di calmarlo: “Mettimi le mani addosso mer...! Dai mer...!”. Pulce viene da Quarto Oggiaro, periferia. La strada si chiama via Pascarella. Cortili con Madonne votive circondate da palazzi di case popolari. Negli appartamenti le borse coi pantaloni e la giacca della tuta negli armadi, borse pronte per la galera. Camere da letto avvolte da enormi specchi nella convinzione, come raccontò un boss, di trasformare le stanze in amatoriali quotidiani set pornografici. La cocaina nascosta nei bilocali al buio, protetti dalle tapparelle, delle vecchiette incensurate e insospettabili. Sono in quattro, nella famiglia di Pulce. Padre pregiudicato, madre pregiudicata, fratello pregiudicato. Di notte sotto casa passavano alle tre squadre di ammiratori, adolescenti che inneggiavano a Pulce. Per la gioia di mamma. All’ennesimo colpo uno sbirro la prese da parte. “Lo capisce o no che finirà morto ammazzato?”. La donna emise un prolungato ghigno: “L’ho fatto mascolo io!”. Arruolato dai boss che dominavano il mercato della droga e a busta paga come sentinella, ladro di motorini, rapinatore, fidanzatine messe incinte che hanno abortito, picchiatore, lo sfrenato richiamo della foresta metropolitana a insidiarlo come un demone. Una mattina c’era un inseguimento sul marciapiede per regolamenti di conti, in cinque correvano appresso a uno di venticinque anni grande e grosso, Pulce non c’entrava, non erano fatti suoi, si trovava di passaggio. Aveva un casco in braccio, lo trasformò in arma, saltò addosso all’inseguito e gli fracassò il naso. Rubava dunque gli scooter, li smarmittava e rumorosamente percorreva chilometri, dal tramonto all’alba nel quartiere, il gladiatore che fa il giro dell’arena. La scuola non la conosce, un lavoro nemmeno. Se ne sta al Beccaria perché beccato in settimana dopo un furto. Aveva provato a fuggire, da una finestra al quarto piano s’era lanciato da fermo, sopra il balcone di sotto. Un commissario capo che sarebbe piaciuto al giallista Simenon - non il semplice tintinnare di manette ma una, a volte, tormentata curiosità per le ragioni sociali e il contesto del delinquere - ripete che Milano non può non salvare Pulce, la sua Pulce in cui tanto, troppo lui è incappato, fino a vederlo in lacrime. Forse i servizi sociali non l’hanno mai davvero seguito, forse come scrive il gip è un “pericolo elevatissimo e concreto per la collettività”. Forse. Don Gino Rigoldi, cappellano del Beccaria, ne ha visti di più crudeli, più spietati. È l’ultimo sulla linea del fronte, don Gino, 73 anni Un ultimo baluardo. Sarà l’ultimo duello? n sacerdote demolisce la retorica banditesca con la consueta semplicità: “n ragazzo è stato cresciuto da genitori che l’hanno trattato da eroe. Crede di stare nel mito, agisce per acclamazione, per i fan. Ora è solo, è in silenzio. L’ho visto, ci siamo scambiati uno sguardo. Sorrideva. Dobbiamo farcela, ce la faremo”. Milano: Sappe; al Beccaria 60 detenuti, capienza aumentata “per decreto” Redattore Sociale, 17 settembre 2012 Donato Capece, segretario del Sappe: “Il capo del Dipartimento giustizia minorile, Caterina Chinnici, deve mandare il personale nelle carceri di Milano invece che tenersi tutti alla sua corte”. “Caterina Chinnici (capo del Dipartimento di Giustizia minorile, ndr) deve mandare il personale nelle carceri di Milano invece che tenersi tutti alla sua corte”. È un fiume in piena Donato Capece, segretario del Sappe, il sindacato della polizia penitenziaria. La situazione al carcere Beccaria è fuori controllo, come testimonia la rivolta scoppiata sabato sera. E il dito di Capece punta i palazzi romani, sordi alle richieste del sindacato, prima fra tutte l’aumento del personale in servizio. Ad oggi sono ristretti 59 ragazzi, una cifra compatibile con il tetto massimo di 60 previsto dal ministero. “Ma fino a giugno il massimo era 48 e la soglia è stata innalzata così, senza interventi strutturali”, chiosa Roberto Martinelli, del Sappe. La sproporzione tra ciò che dice la carta e la realtà è ancora più evidente per quanto riguarda il personale in servizio. “In tutto - prosegue Martinelli - ci sono 54 agenti ma la quota prevista è di 98”. “Meno detenuti e più formazione - è la richiesta del segretario Capece: non è possibile fare attività con gruppi di 15-20 ragazzi con un solo educatore”. Era inevitabile che la situazione degenerasse, sostiene. “I minori sono detenuti sui generis, super tutelati, è facile che capitino rivolte. In questo caso il leader è un personaggio con un profilo criminale importante, seppur minore”, continua Capece. Dopo aver fatto proseliti, ha sfruttato un pretesto per scatenare la protesta. Nei giorni precedenti, però, c’erano tutte le avvisaglie: un’evasione, risse tra i detenuti, disordini durante i colloqui quotidiani. Sabato sera è stato necessario l’intervento dei vigili del fuoco e della polizia di Stato per far tornare la calma. La professionalità dei tre poliziotti penitenziari intervenuti immediatamente, precisa il Sappe nel comunicato stampa, ha impedito che i 40 “rivoltosi” facessero danni ancora più ingenti e che il bilancio dell’insurrezione fosse ben peggiore. Aosta: Sappe; detenuto ammesso al lavoro esterno evade dal carcere Adnkronos, 17 settembre 2012 Un giovane senegalese, detenuto nel carcere di Aosta per furto e reati comuni e con fine pena maggio 2013, ammesso al lavoro all’esterno del carcere, non è rientrato alla sera nel penitenziario. Lo rende noto Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, commentando l’episodio che “rientra purtroppo tra gli eventi critici che possono accadere”. “Era successo anche il 29 maggio scorso, sempre ad Aosta - afferma Capece in una nota - e anche in questo caso sarebbe dovuto rientrare nella serata di venerdì nella Casa circondariale ma non si è presentato. Questo - ammonisce - non deve certo inficiare l’istituto della concessione di permessi ai detenuti, anche perché gli episodi di evasione sono minimi, ma è evidente che c’è sempre qualcuno che se ne approfitta: nel 2011 sono state complessivamente 9 le evasioni commessa da soggetti ammessi al lavoro all’esterno, come in questo caso, 5 quelle poste in essere da Istituti di pena e 48 dopo aver fruito di permessi premio e 11 dalla semilibertà”. Capece sottolinea come proprio in questi giorni il Sappe è tornato a sollecitare la sensibilità delle Istituzioni e del Parlamento per mettere sul terreno idonee soluzioni alle criticità penitenziarie. “L’allarmante dato di circa 67mila detenuti che sovraffollano le carceri italiane, la cui capienza regolamentare è pari a poco più di 44mila posti, impone l’adozione di provvedimenti urgenti, come pure ha chiesto il Presidente della Repubblica in più occasioni. Non si dimentichi che oltre il 40% dei detenuti è imputato, quindi in attesa di giudizio. Ci appelliamo ai ministri dell’Interno Cancellieri e della Giustizia Severino perché riprendano dai cassetti quello schema di decreto interministeriale finalizzato a disciplinare il progetto che prevede l’utilizzo della Polizia Penitenziaria all’interno degli Uffici di esecuzione penale esterna (Uepe) nel contesto di un maggiore ricorso alle misure alternative alla detenzione”. Oggi - ricorda il segretario del Sappe - ci sono in Italia oltre 66mila detenuti in carceri idonee regolarmente per ospitarne regolarmente 45mila, abbiamo più del 40% dei detenuti in attesa di un giudizio definitivo e ben 7mila agenti di Polizia Penitenziaria in meno rispetto al previsto. È dunque auspicabile - auspica - che si concentrino sforzi comuni per varare una nuova legislazione penitenziaria, che riporti alla normalità le carceri terribilmente sovraffollate, che preveda un maggiore ricorso alla misure alternative alla detenzione, delineando per la Polizia Penitenziaria un nuovo impiego ed un futuro operativo, al di là delle mura del carcere, parallelamente all’affermarsi del suo ruolo quale quello di vera e propria polizia dell’esecuzione penale”. “Nelle scorse settimane - aggiunge - abbiamo valutato positivamente il ddl della Ministro Severino di percorrere la tanto da noi auspicata strada dei circuiti penitenziari differenziati con il potenziamento al ricorso delle misure alternative e della messa in prova. La situazione penitenziaria è ogni giorno sempre più incandescente e le donne e gli uomini della Polizia penitenziaria sono costretti a turni di servizio molto pesanti in termini di stress e di sicurezza, come dimostrano anche le costanti inaccettabili aggressioni a nostri Agenti. Per questo - conclude - ci amareggia il rinvio a data da destinarsi della discussione di quel provvedimento legislativo”. Cosenza: Corbelli (Diritti Civili); bimbo in cella con madre, nessuno li accoglie Ansa, 17 settembre 2012 Il leader del Movimento Diritti Civili ha lanciato un appello per un bimbo che vive in una cella con la madre detenuta nel carcere di Castrovillari. “È oltre che una grande ingiustizia - ha sostenuto Corbelli - una disumanità, un dramma umano, una barbarie a cui bisogna dire basta: quel bambino vive in carcere con la madre, detenuta per un piccolo reato, perché non si riesce a trovare una alternativa alla detenzione in prigione: gli arresti domiciliari in una struttura adatta, una casa famiglia, un centro di accoglienza. Ho sentito al telefono il direttore della casa circondariale castrovillarese, Fedele Rizzo, che mi ha informato che questo bambino ha meno di tre anni, perché altrimenti non potrebbe stare in cella con la madre. Per farlo uscire dal carcere basterebbe trovare per lui e per la madre una struttura alternativa, una casa famiglia, un centro di accoglienza. Purtroppo questo non è stato ancora possibile e quel bambino e la sua mamma continuano a rimanere in prigione. Quello del bambino del carcere di Castrovillari è il dramma comune di una sessantina di bimbi che sono attualmente negli istituti di pena italiani insieme alle loro mamme detenute”. Lodi: il carcere compie 100 anni… ma niente celebrazioni, per favore di Laura Coci Il Cittadino, 17 settembre 2012 Di una istituzione totale si celebra non l’inizio, ma la fine. L’11 dicembre prossimo, la Casa circondariale di Lodi compirà, nel suo assetto attuale, cento anni. Non gliene auguriamo altri cento. Senza rancore. Ma fa rabbrividire una denominazione quale “Hotel Cagnola” (dal nome della via ove si trova il carcere cittadino), che pure è apparsa sulla stampa. Chi trascorrerebbe una sola notte in una stanza d’albergo di undici metri quadrati, in compagnia di cinque sconosciuti? Con il bagno separato dall’ambiente in cui si mangia, si dorme, si vive, soltanto da un muro (bagno? tazza, lavandino e fornelletto - un bagno-cucina dunque -, per la doccia occorre aspettare il turno in altro locale). Senza sapone, senza dentifricio, senza carta igienica (per averli occorre inoltrare istanza attraverso l’apposita “domandina”). Con un solo pasto caldo al giorno, consumato in branda perché tutti seduti intorno al tavolo non ci si sta. Lodi non costituisce eccezione rispetto alla situazione nazionale di sovraffollamento: al 30 giugno scorso gli uomini ristretti nella Casa circondariale cittadina erano 95, a fronte di una capienza “regolamentare” di 51 posti (fonte: Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria). Ma anche la denominazione “Collegio Cagnola” lascia perplessi, per quanto il modello dell’obbedienza dei reclusi, a fronte del proprio accudimento, rimandi alle istituzioni educative dell’età moderna, ove bambini e adolescenti vivevano separati dal mondo adulto. È consolatorio voler pensare che la condizione in cui si vive non sia in assoluto la peggiore, che vi siano altri ancora più ultimi, ancora più oppressi, ancora più dannati. Meglio un collegio di un carcere. I detenuti non fanno eccezione a questa via di fuga, interiore e umanissima. Occorre ricordare, tuttavia, che i reclusi non sono soggetti liberi di esprimersi (né di assumere decisioni), perché la loro priorità è sopravvivere (all’istituzione penitenziaria, alle guardie, ai compagni, a sé stessi), per settimane, per mesi, per anni. “Sei nella palta, sai che ci devi restare. Così, ti adatti” ha scritto il Detenuto Ignoto. E se anche i ristretti giurassero di avere assoluta libertà di parola, non ci sarebbe da credergli. La libertà di pensiero è la sola data a questi uomini, e non è facile custodirla: proprio perché invisibili, le catene della mente sono ardue da sciogliere. L’11 dicembre prossimo, la Casa circondariale di Lodi compirà cento anni. Le celebrazioni inizieranno il 18 settembre. Di una istituzione totale ha senso scrivere la storia; dipanare i racconti individuali e collettivi di cui un luogo di dolore - non a caso chiamato di pena - serba memoria; restituire dignità alle vite di quegli “uomini infami” (come già fece Michel Foucault) che se non avessero incontrato, con proprio danno, il potere giudiziario non avrebbero lasciato traccia di sé nella storia, dalla quale sono assenti, sempre. Ha senso. Ma che non sia davanti agli “uomini infami” che in Cagnola sono attualmente detenuti. Non hanno bisogno di conoscere il carcere di ieri, non ora: conoscono quello di oggi, lo vivono ogni giorno sul proprio corpo. Si racconti il carcere di ieri e, soprattutto, si parli di quello di oggi agli abbienti, ai benpensanti, a quelli nati dalla parte giusta. Fossano (Cn): “La Rondine”, uscito nuovo numero del giornale dei detenuti www.cuneocronaca.it, 17 settembre 2012 “In volo verso la speranza…” è l’auspicio che i detenuti del “Santa Caterina” di Fossano affidano al loro giornale “La Rondine”. La speranza è bene simboleggiata nella copertina a colori, opera ancora di Francesco e rappresenta il filo conduttore di vari articoli che compongono il ricco numero. I detenuti di Fossano spiegano i motivi della loro massiccia partecipazione alle forme di protesta pacifica, attuate a livello nazionale, nella speranza di ottenere dal Parlamento la concessione di un provvedimento di clemenza. Si soffermano poi sull’aspettativa piena di speranza della “sintesi”, la relazione sul percorso rieducativo individuale, la cui chiusura favorevole può preludere a pene alternative al carcere. Ma la speranza per una persona reclusa è anche quella di superare il traumatico impatto della carcerazione e mettere in salvo la vita. “La Rondine” prosegue con articoli di attualità che mettono in luce situazioni di ingiustizia o carenze, tra cui la mancanza di una legge sulla tortura e la nomina di un garante dei detenuti a livello regionale. Un detenuto, poi, illustra il sistema detentivo svizzero sperimentato in prima persona. Anche in questo numero gli articoli sono intervallati da poesie e da un interessante racconto di vita di un redattore africano, nato nel Mali. Questa pubblicazione è stata realizzata da una redazione completamente rinnovata formata da una decina di detenuti, Aldo, Alessandro, Dabo, Denis, Fabio A., Fabio F., Francesco, Gian Franco, Marco, Mario, Maurizio, Roberto, molto motivati ed entusiasti del prodotto ottenuto. Con loro hanno collaborato due volontarie, una delle quali ha scritto l’editoriale sulla sua esperienza dentro il carcere. Il numero 27 può essere richiesto scrivendo a: larondinefossano(et)libero.it. oppure “La Rondine” c/o Istituto Suore Domenicane, Via Bava 36 - 12045 Fossano. A breve, comparirà sul sito del Comune di Fossano, in una nuova veste che stanno elaborando alcuni studenti dell’I.I.S. “Vallauri”. La redazione ringrazia la Fondazione Cassa di Risparmio di Fossano, la Città di Fossano e il settimanale cittadino “La Fedeltà” di cui “La Rondine” è un supplemento gratuito. Ringrazia anche i lettori e li invita a “farsi i fatti nostri” scrivendo agli indirizzi sopra indicati. Musica: intervista Marina Rei; a volte le canzoni più efficaci della politica di Helene Pacitto www.clandestinoweb.com, 17 settembre 2012 Marina Rei torna dopo tre anni di pausa dal panorama musicale. Il suo nuovo disc, in uscita il prossimo 18 settembre, porta il titolo “La conseguenza naturale dell’errore”. All’interno del nuovo lavoro dell’artista c’è anche spazio per la riflessione sull’emergenza carceri. Uno dei brani, che porta il titolo, “Qui Dentro” è dedicato proprio alla vita nei penitenziari, ispirato a storie vere, raccontate da alcuni detenuti a Radio Carcere attraverso delle lettere inviate alla redazione di Riccardo Arena. Abbiamo intervistato Marina Rei per scoprire qualcosa in più di questa nuova uscita discografica. Parliamo del tuo nuovo album. Dopo tre anni di assenza che Marina Rei dovranno aspettarsi i fan: cosa c’è dentro del tuo passato e cosa, invece, è cambiato? Tre anni sono un tempo necessario per meditare su un nuovo disco. Che deve essere a mio avviso dettato, sempre più, da forti motivazioni. Dall’ultimo album Musa, che ha seguito una serie di concerti, ho iniziato a pensare al disco che ha iniziato a vedere luce pian piano. Attraverso varie collaborazioni ho avuto modo di ampliare il mio punto di vista specialmente per ciò che riguarda la scrittura dei tesi. Gli artisti che ho scelto e con i quali ho avuto l’immenso piacere di collaborare, sono a mio avviso alcuni degli autori che in questo momento rappresentano la migliore e più seguita scena indipendente italiana. Personalmente non so cosa i fan si aspettino da me. Ma credo che chi mi segue da tempo abbia imparato ad ascoltare e a capire passo dopo passo il mio percorso artistico. Non si smette mai di crescere e di potenziare il proprio talento. A mio avviso un percorso necessario per chi ha, come me, il desiderio continuo di trasformare la passione nella massima espressione della sua vita. Come mai hai scelto di dedicare un brano a un argomento così delicato come quello dell’emergenza sovraffollamento delle carceri italiane? Ho scelto di porre al centro dell’attenzione un argomento di cui si parla troppo poco, ma per il quale c’è un fortissimo bisogno di discussione nonché di soluzioni immediate. Ho avuto la grande occasione, tramite Riccardo Arena, di leggere moltissime lettere che sono state recapitate a Radio Carcere. Lettere di detenuti provenienti da ogni carcere d’Italia. Il tema principale: l’insofferenza, il profondo disagio, il grido d’allarme molto spesso soffocato da un silenzio collettivo. Il mio intento non è mai stato quello di scrivere una canzone per indurre al pietismo, né inneggiare all’impunità. Bensì quello di denunciare e creare discussioni perché siamo silenti. Si parte da un cattivo funzionamento del processo penale, dalla mancanza di sanzioni diverse che possano essere applicate. Bisognerebbe pensare non tanto alla costruzione di nuove carceri, ma a carceri diverse. Carceri che creino occasioni di formazione per i detenuti. Il sovraffollamento delle carceri non garantisce più il rispetto al diritto alla salute. né la certezza del diritto secondo il senso di umanità. La canzone dal titolo “Qui dentro”, raccoglie storie vere, giunte alla redazione di Radio Carcere, quale quelle che ti hanno colpito di più? Tutte le lettere mi hanno colpito, ognuna in modo diverso. Goliarda Sapienza in un’intervista fatta da Enzo Biagi, disse che per conoscere bene il nostro paese bisognerebbe conoscere le carceri, gli ospedali, i manicomi. E per fare questo bisogna viverci dentro. Come, secondo te, la musica può contribuire a creare le condizioni per superare un’emergenza come quella del sovraffollamento nei penitenziari? La musica ha sempre dimostrato di poter arrivare laddove la politica non arriva. Spero presto di riuscire di nuovo a suonare nelle carceri come feci anni fa nella sezione femminile di Rebibbia. Gambia: presidente sospende esecuzioni detenuti in braccio della morte La Presse, 17 settembre 2012 Il presidente del Gambia Yahya Jammeh ha bloccato le esecuzioni dei prigionieri nel braccio della morte, almeno per ora. Jammeh ha emesso un comunicato spiegando di aver sospeso l’imminente esecuzione nei confronti di 37 detenuti condannati alla pena capitale, fino a quando il crimine violento non tornerà a crescere in Gambia. Il presidente ha spiegato di aver agito in risposta ai numerosi appello lanciati da organizzazioni e gruppi umanitari, che si sono moltiplicati dopo l’uccisione di nove condannati avvenuta lo scorso mese. Le esecuzioni avevano scatenato anche le condanne di molti organismi internazionali, tra cui l’Unione europea, l’Onu e Amnesty International. “Ciò che accadrà - si legge nella nota - sarà dettato dal tasso del crimine violento. Se diminuirà la moratoria sarà a tempo indeterminato, se invece ci sarà un incremento la moratoria sarà tolta automaticamente”. Le esecuzioni di agosto sono state le prime nel Paese africano negli ultimi 27 anni. Jammeh è al potere dal 1994. Belgio: detenuto gravemente ammalato chiede l’eutanasia e la ottiene di Leone Grotti Tempi, 17 settembre 2012 L’eutanasia in Belgio è legale. Il senatore Louis Ide ha lanciato l’allarme: il detenuto Frank ha chiesto l’eutanasia solo perché disperato e non perché malato. Intanto un altro carcerato l’ha ottenuta. Per la prima volta un detenuto in Belgio ha richiesto e ottenuto di essere ucciso sottoponendosi all’eutanasia. Come dichiarato dal medico Francis Van Mol, direttore generale del servizio sanitario penitenziario, l’uomo, che scontava una pena molto pesante, aveva tutti i requisiti per morire legalmente. In Belgio, chiunque può ottenere l’eutanasia a patto che lo richieda ripetutamente e che l’uso di medicine non possa lenire sofferenze fisiche o mentali incurabili. Ma è un altro il caso che sta scuotendo il Belgio. Secondo quanto riporta il canale televisivo Rtl.be, il detenuto Frank V.D.B:, detenuto nel carcere di Turnhout da 27 anni per omicidi e stupri, ha richiesto l’eutanasia “a causa di una grande sofferenza. (…) Sarebbe affetto da una malattia incurabile e per questo soddisfa le condizioni legali per l’eutanasia”. Ma secondo il senatore Louis Ide, che ha diffuso la notizia fino ad allora sconosciuta, il motivo per cui i detenuti chiedono l’eutanasia è perché sono disperati, in un ambiente dove mancano strutture di accoglienza e servizi sociali. Se il senatore paventa la possibilità che l’eutanasia venga richiesta da detenuti solo perché non riescono più a sopportare la vita in prigione, in Belgio ha fatto scalpore la violazione da parte del politico del diritto dei detenuti alla privacy. In Belgio chi viene ucciso attraverso l’eutanasia può legalmente donare gli organi. In un articolo apparso sulla rivista specializzata Applied Cardiopulmonary Pathophysiology, si fa notare come alcuni organi, come i reni, appartenenti a persone che muoiono con l’eutanasia siano di qualità superiore rispetto a quelli di persone che muoiono per cause naturali. Tra il 2007 e il 2009, secondo un comunicato stampa rilasciato dall’ospedale Leuven, sono stati effettuati quattro trapianti di rene da donatori morti per l’eutanasia. Il timore di molti è che l’eutanasia in Belgio venga sponsorizzata per risolvere il problema delle carceri, come consigliava l’attivista pro eutanasia Philip Nitschke nel suo libro Killing me softly, e per favorire la donazione di organi. Myanmar: nuova amnistia per i prigionieri politici Reuters, 17 settembre 2012 Il Myanmar potrebbe aver rilasciato tutti i suoi prigionieri politici in un’amnistia che oggi ha riguardato 514 detenuti. Lo riferisce il principale partito dell’opposizione, appena una settimana prima di una rara visita del presidente birmano negli Stati Uniti. “Siamo ottimisti che (l’amnistia) riguardi tutti i restanti prigionieri politici”, ha detto Naing Naing, membro del comitato esecutivo centrale della Lega nazionale per la democrazia, partito di Aung San Suu Kyi. Naing ha detto di aver inteso che 424 prigionieri politici sono stati liberati con l’amnistia. Il dato escluderebbe i detenuti ex-funzionari dell’intelligence militare epurati sotto la precedente giunta. Il presidente Thein Sein, il cui governo ha rilasciato oltre 650 prigionieri politici da quando è salito al potere nel marzo dello scorso anno, dovrebbe recarsi negli Usa il prossimo 24 settembre, dove parlerà per la prima volta da presidente all’Assemblea generale della Nazioni Unite a New York. Svizzera: due detenuti evadono da carcere Ginevra, un terzo muore in ospedale Reuters, 17 settembre 2012 Due detenuti sono evasi ieri mattina dal carcere di Ginevra. Uno dei fuggiaschi è stato ritrovato, mentre il secondo è tuttora latitante. Un terzo prigioniero, rinvenuto esanime una settimana fa nella prigione di Villars, sempre a Ginevra, è deceduto venerdì sera all’ospedale. Il marocchino di 34 anni era stato rianimato con un massaggio cardiaco prima del suo trasferimento all’Ospedale cantonale, dov’è rimasto in condizioni critiche per una settimana, indica oggi in un comunicato il Dipartimento cantonale della sicurezza. Un’inchiesta è stata aperta per chiarire le cause del decesso. I due detenuti evasi, dal canto loro, avrebbero dovuto beneficiare di una liberazione condizionata fra pochi mesi.