Giustizia: i medici i loro errori li nascondono sotto terra, i giudici… in galera di Valeria Centorame Notizie Radicali, 11 settembre 2012 “L’indagato innocente avrebbe più vantaggi dall’essere giudicato in base al lancio di una monetina che in base a delle perizie”. Questa sconvolgente intervista, di cui il titolo è parte integrante è un clamoroso atto di denuncia del sistema giudiziario italiano, fatto da chi - Edoardo Mori - magistrato lo è stato, in modo instancabile e apprezzatissimo, per 42 anni. Quello che racconta è lo sfacelo totale. Fu rilasciata a Il Giornale a cura di Stefano Lorenzetto, anche se non recente, l’ho riletta da poco sul blog “le urla del silenzio” dal diario del caro Pasquale De Feo e visto che è davvero estremamente raro che un Magistrato, specie se ha svolto ruoli importanti, faccia dichiarazioni di questo livello, consiglio una attenta lettura specialmente ai tanti giustizialisti incalliti. Magistrati, alzatevi! Stavolta gli imputati siete voi e a processarvi è un vostro collega, il giudice Edoardo Mori. Che un anno fa, come in questi giorni, decise di strapparsi di dosso la toga, disgustato dall’impreparazione e dalla faziosità regnanti nei palazzi di giustizia. “Sarei potuto rimanere fino al 2014, ma non ce la facevo più a reggere l’idiozia delle nuove leve che sui giornali e nei tiggì incarnano il volto della magistratura. Meglio la pensione”. Per 42 anni il giudice Mori ha servito lo Stato tutti i santi i giorni, mai un’assenza, a parte la settimana in cui il figlioletto Daniele gli attaccò il morbillo; prima per otto anni pretore a Chiavenna, in Valtellina, e poi dal 1977 giudice istruttore, giudice per le indagini preliminari, giudice fallimentare (il più rapido d’Italia, attesta il ministero della Giustizia), nonché presidente del Tribunale della libertà, a Bolzano, dov’è stato protagonista dei processi contro i terroristi sudtirolesi, ha giudicato efferati serial killer come Marco Bergamo (cinque prostitute sgozzate a coltellate), s’è occupato d’ogni aspetto giurisprudenziale a esclusione solo del diritto di famiglia e del lavoro. Con un’imparzialità e una competenza che gli vengono riconosciute persino dai suoi nemici. Ovviamente se n’è fatti parecchi, esattamente come suo padre Giovanni, che da podestà di Zeri, in Lunigiana, nel 1939 mandò a farsi friggere Benito Mussolini, divenne antifascista e ospitò per sei mesi in casa propria i soldati inglesi venuti a liberare l’Italia. Mori confessa d’aver tirato un sospirone di sollievo il giorno in cui s’è dimesso: “Il sistema di polizia, il trattamento dell’imputato e il rapporto fra pubblici ministeri e giudice sono ancora fermi al 1930. Le forze dell’ordine considerano delinquenti tutti gli indagati, i cittadini sono trattati alla stregua di pezze da piedi, spesso gli interrogatori degenerano in violenza. Il Pm gioca a fare il commissario e non si preoccupa di garantire i diritti dell’inquisito. E il Gip pensa che sia suo dovere sostenere l’azione del Pm”. Da sempre studioso di criminologia e scienze forensi, il dottor Mori è probabilmente uno dei rari magistrati che già prima di arrivare all’università si erano sciroppati il Trattato di polizia scientifica di Salvatore Ottoleghi (1910) e il Manuale del giudice istruttore di Hans Gross (1908). Le poche lire di paghetta le investiva in esperimenti su come evidenziare le impronte digitali utilizzando i vapori di iodio. Non c’è attività d’indagine (sopralluoghi, interrogatori, perizie, autopsie, Dna, rilievi dattiloscopici, balistica) che sfugga alle conoscenze scientifiche dell’ex giudice, autore di una miriade di pubblicazioni, fra cui il Dizionario multilingue delle armi, il Codice delle armi e degli esplosivi e il Dizionario dei termini giuridici e dei brocardi latini che vengono consultati da polizia, carabinieri e avvocati come se fossero tre dei 73 libri della Bibbia. Nato a Milano nel 1940, nel corso della sua lunga carriera Mori ha firmato almeno 80.000 fra sentenze e provvedimenti, avendo la soddisfazione di vederne riformati nei successivi gradi di giudizio non più del 5 per cento, un’inezia rispetto alla media, per cui gli si potrebbe ben adattare la frase latina che Sant’Agostino nei suoi Sermones riferiva alle questioni sottoposte al vaglio della curia romana o dello stesso pontefice: “Roma locuta, causa finita”. Il dato statistico può essere riportato solo perché Mori è uno dei pochi, o forse l’unico in Italia, che ha sempre avuto la tigna di controllare periodicamente com’erano andati a finire i casi passati per le sue mani: “Di norma ai giudici non viene neppure comunicato se le loro sentenze sono state confermate o meno. Un giudice può sbagliare per tutta la vita e nessuno gli dice nulla. La corporazione è stata di un’abilità diabolica nel suddividere le eventuali colpe in tre gradi di giudizio. Risultato: deresponsabilizzazione totale. Il giudice di primo grado non si sente sicuro? Fa niente, condanna lo stesso, tanto - ragiona - provvederà semmai il collega in secondo grado a metterci una pezza. In effetti i giudici d’appello un tempo erano eccellenti per prudenza e preparazione, proprio perché dovevano porre rimedio alle bischerate commesse in primo grado dai magistrati inesperti. Ma oggi basta aver compiuto 40 anni per essere assegnati alla Corte d’appello. Non parliamo della Cassazione: leggo sentenze scritte da analfabeti”. Soprattutto, se il giudice sbaglia, non paga mai. “La categoria s’è auto applicata la regola che viene attribuita all’imputato Stefano Ricucci: “È facile fare il frocio col sedere degli altri”. Le risulta che il Consiglio superiore della magistratura abbia mai condannato i giudici che distrussero Enzo Tortora? E non parliamo delle centinaia di casi, sconosciuti ai più, conclusi per l’inadeguatezza delle toghe con un errore giudiziario mai riparato: un innocente condannato o un colpevole assolto. In compenso il Csm è sempre solerte a bastonare chi si arrischia a denunciare le manchevolezze delle Procure”. Il dottor Mori parla con cognizione di causa: ha dovuto subire ben sei provvedimenti disciplinari e tutti per aver criticato l’operato di colleghi arruffoni e incapaci. “Dopo aver letto una relazione scritta per un pubblico ministero pugliese, con la quale il perito avrebbe fatto condannare un innocente sulla base di rivoltanti castronerie, mi permisi di scrivere al procuratore capo, avvertendolo che quel consulente stava per esporlo a una gran brutta figura. Ebbene, l’emerita testa mi segnalò per un procedimento disciplinare con l’accusa d’aver “cercato di influenzarlo” e un’altra emerita testa mi rinviò a giudizio. Ogni volta che ho segnalato mostruosità tecniche contenute nelle sentenze, mi sono dovuto poi giustificare di fronte al Csm. E ogni volta l’organo di autogoverno della magistratura è stato costretto a prosciogliermi. Forse mi ha inflitto una censura solo nel sesto caso, per aver offuscato l’immagine della giustizia segnalando che un incolpevole cittadino era stato condannato a Napoli. Ma non potrei essere più preciso al riguardo, perché, quando m’è arrivata l’ultima raccomandata dal Palazzo dei Marescialli, l’ho stracciata senza neppure aprirla. Delle decisioni dei supremi colleghi non me ne fregava più nulla”. Perché ha fatto il magistrato? “Per laurearmi in fretta, visto che in casa non c’era da scialare. Fin da bambino me la cavavo un po’ in tutto, perciò mi sarei potuto dedicare a qualsiasi altra cosa: chimica, scienze naturali e forestali, matematica, lingue antiche. Già da pretore mi documentavo sui testi forensi tedeschi e statunitensi e applicavo regole che nessuno capiva. Bè, no, a dire il vero uno che le capiva c’era: Giovanni Falcone”. Il magistrato trucidato con la moglie e la scorta a Capaci. “Mi portò al Csm a parlare di armi e balistica. Ma poi non fui più richiamato perché osai spiegare che molti dei periti che i tribunali usavano come oracoli non erano altro che ciarlatani. Ciononostante questi asini hanno continuato a istruire i giovani magistrati e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Ma guai a parlar male dei periti ai Pm: ti spianano. Pensi che uno di loro, utilizzato anche da un’università romana, è riuscito a trovare in un residuo di sparo tracce di promezio, elemento chimico non noto in natura, individuato solo al di fuori del sistema solare e prodotto in laboratorio per decadimento atomico in non più di 10 grammi”. Per quale motivo i pubblici ministeri scambiano i periti per oracoli? “Ma è evidente! Perché “. Ci sarà ben un organo che vigila sull’operato dei periti. “Nient’affatto, in Italia manca totalmente un sistema di controllo. Quando entrai in magistratura, nel 1968, era in auge un perito che disponeva di un’unica referenza: aver recuperato un microscopio abbandonato dai nazisti in fuga durante la seconda guerra mondiale. Per ottenere l’inserimento nell’albo dei periti presso il tribunale basta essere iscritti a un ordine professionale. Per chi non ha titoli c’è sempre la possibilità di diventare perito estimatore, manco fossimo al Monte di pietà. Ci sono marescialli della Guardia di finanza che, una volta in pensione, ottengono dalla Camera di commercio il titolo di periti fiscali e con quello vanno a far danni nelle aule di giustizia”. Sono sconcertato… “Anche lei può diventare perito: deve solo trovare un amico giudice che la nomini. I tribunali rigurgitano di tuttologi, i quali si vantano di potersi esprimere su qualsiasi materia, dalla grafologia alla dattiloscopia. Spesso non hanno neppure una laurea. Nel mondo anglosassone vi è una tale preoccupazione per la salvaguardia dei diritti dell’imputato che, se in un processo si scopre che un perito ha commesso un errore, scatta il controllo d’ufficio su tutte le sue perizie precedenti, fino a procedere all’eventuale revisione dei processi. In Italia periti che hanno preso cantonate clamorose continuano a essere chiamati da Pm recidivi e imperterriti, come se nulla fosse accaduto”. Può fare qualche caso concreto? “Negli accertamenti sull’attentato a Falcone vennero ricostruiti in un poligono di tiro - con costi miliardari, parlo di lire - i 300 metri dell’autostrada di Capaci fatta saltare in aria da Cosa nostra, per scoprire ciò che un esperto già avrebbe potuto dire a vista con buona approssimazione e cioè il quantitativo di esplosivo usato. È chiaro che ai fini processuali poco importava che fossero 500 o 1.000 chili. Molto più interessante sarebbe stato individuare il tipo di esplosivo. Dopo aver costruito il tratto sperimentale di autostrada, ci si accorse che un manufatto recente aveva un comportamento del tutto diverso rispetto a un manufatto costruito oltre vent’anni prima. Conclusione: quattrini gettati al vento. Nel caso dell’aereo Itavia, inabissatosi vicino a Ustica nel 1980, gli esami chimici volti a ricercare tracce di esplosivi su reperti ripescati a una profondità di circa 3.500 metri vennero affidati a chimici dell’Università di Napoli, i quali in udienza dichiararono che tali analisi esulavano dalle loro competenze. Però in precedenza avevano riferito di aver trovato tracce di T4 e di Tnt in un sedile dell’aereo e questa perizia ebbe a influenzare tutte le successive pasticciate indagini, orientate a dimostrare che su quel volo era scoppiata una bomba. Vuole un altro esempio di imbecillità esplosiva?”. Prego. Sono rassegnato a tutto. “Per anni fior di magistrati hanno cercato di farci credere che il plastico impiegato nei più sanguinosi attentati attribuiti all’estrema destra, dal treno Italicus nel 1974 al rapido 904 nel 1984, era stato recuperato dal lago di Garda, precisamente da un’isoletta, Trimelone, davanti al litorale fra Malcesine e Torri del Benaco, militarizzata fin dal 1909 e adibita a santabarbara dai nazisti. Al processo per la strage di Bologna l’accusa finì nel ridicolo perché nessuno dei periti s’avvide che uno degli esplosivi, asseritamente contenuti nella valigia che provocò l’esplosione e che pareva fosse stato ripescato nel Benaco dai terroristi, era in realtà contenuto solo nei razzi del bazooka M20 da 88 millimetri di fabbricazione statunitense, entrato in servizio nel 1948. Un pò dura dimostrare che lo avessero già i tedeschi nel 1945”. Ormai non ci si può più fidare neppure dell’esame del Dna, basti vedere la magra figura rimediata dagli inquirenti nel processo d’appello di Perugia per l’omicidio di Meredith Kercher. “Si dice che questo esame presenti una probabilità d’errore su un miliardo. Falso. Da una ricerca svolta su un database dell’Arizona, contenente 65.000 campioni di Dna, sono saltate fuori ben 143 corrispondenze. Comunque era sufficiente vedere i filmati in cui uno degli investigatori sventolava trionfante il reggiseno della povera vittima per capire che sulla scena del delitto era intervenuta la famigerata squadra distruzione prove. A dimostrazione delle cautele usate, il poliziotto indossava i guanti di lattice. Restai sbigottito vedendo la scena al telegiornale. I guanti servono per non contaminare l’ambiente col Dna dell’operatore, ma non per manipolare una possibile prova, perché dopo due secondi che si usano sono già inquinati. Bisogna invece raccogliere ciascun reperto con una pinzetta sterile e monouso. I guanti non fanno altro che trasportare Dna presenti nell’ambiente dal primo reperto manipolato ai reperti successivi. E infatti adesso salta fuori che sul gancetto del reggipetto c’era il Dna anche della dottoressa Carla Vecchiotti, una delle perite che avrebbero dovuto isolare con certezza le eventuali impronte genetiche di Raffaele Sollecito e Amanda Knox. Non è andata meglio a Cogne”. Cioè? “In altri tempi l’indagine sulla tragica fine del piccolo Samuele Lorenzi sarebbe stata chiusa in mezza giornata. Gli infiniti sopralluoghi hanno solo dimostrato che quelli precedenti non erano stati esaustivi. Il sopralluogo è un passaggio delicatissimo, che non consente errori. Gli accessi alla scena del delitto devono essere ripetuti il meno possibile perché ogni volta che una persona entra in un ambiente introduce qualche cosa e porta via altre cose. Ma il colmo dell’ignominia è stato toccato nel caso Marta Russo”. Si riferisce alle prove balistiche sul proiettile che uccise la studentessa nel cortile dell’Università La Sapienza di Roma? “E non solo. S’è preteso di ricostruire la traiettoria della pallottola avendo a disposizione soltanto il foro d’ingresso del proiettile su un cranio che era in movimento e che quindi poteva rivolgersi in infinite direzioni. In tempi meno bui, sui libri di geometria del ginnasio non si studiava che per un punto passano infinite rette? Dopodiché sono andati a grattare il davanzale da cui sarebbe partito il colpo e hanno annunciato trionfanti: residui di polvere da sparo, ecco la prova! Peccato che si trattasse invece di una particella di ferodo per freni, di cui l’aria della capitale pullula a causa del traffico. La segretaria Gabriella Alletto è stata interrogata 13 volte con metodi polizieschi per farle confessare d’aver visto in quell’aula gli assistenti Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro. Uno che si comporta così, se non è un pubblico ministero, viene indagato per violenza privata. Un Pm non può usare tecniche da commissario di pubblica sicurezza, anche se era il metodo usato da Antonio Di Pietro, che infatti è un ex poliziotto”. Un sistema che ha fatto scuola. “La galera come mezzo di pressione sui sospettati per estorcere confessioni. Le manette sono diventate un moderno strumento di tortura per acquisire prove che mancano e per costringere a parlare chi, per legge, avrebbe invece diritto a tacere”. Che cosa pensa delle intercettazioni telefoniche che finiscono sui giornali? “Non serve una nuova legge per vietare la barbarie della loro indebita pubblicazione. Quella esistente è perfetta, perché ordina ai Pm di scremare le intercettazioni utili all’indagine e di distruggere le altre. Tutto ciò che non riguarda l’indagato va coperto da omissis in fase di trascrizione. Nessuno lo fa: troppa fatica. Ci vorrebbe una sanzione penale per i Pm. Ma cane non mangia cane, almeno in Italia. In Germania, invece, esiste uno specifico reato. Rechtsverdrehung, si chiama. È lo stravolgimento del diritto da parte del giudice”. Come mai la giustizia s’è ridotta così? “Perché, anziché cercare la prova logica, preferisce le tesi fantasiose, precostituite. Le statistiche dimostrano invece che nella quasi totalità dei casi un delitto è banale e che è assurdo andare in cerca di soluzioni da romanzo giallo. Lei ricorderà senz’altro il rasoio di Occam, dal nome del filosofo medievale Guglielmo di Occam”. In un ragionamento tagliare tutto ciò che è inutile. “Appunto. Le regole logiche da allora non sono cambiate. Non vi è alcun motivo per complicare ciò che è semplice. Il “cui prodest?” è risolutivo nel 50 per cento dei delitti. Chi aveva interesse a uccidere? O è stato il marito, o è stata la moglie, o è stato l’amante, o è stato il maggiordomo, vedi assassinio dell’Olgiata, confessato dopo 20 anni dal cameriere filippino Manuel Winston. Poi servono i riscontri, ovvio. In molti casi la risposta più banale è che proprio non si può sapere chi sia l’autore di un crimine. Quindi è insensato volerlo trovare per forza schiaffando in prigione i sospettati”. Ma perché si commettono tanti errori nelle indagini? “I giudici si affidano ai laboratori istituzionali e ne accettano in modo acritico i responsi. Nei rari casi in cui l’indagato può pagarsi un avvocato e un buon perito, l’esperienza dimostra che l’accertamento iniziale era sbagliato. I medici i loro errori li nascondono sottoterra, i giudici in galera. Paradigmatico resta il caso di Ettore Grandi, diplomatico in Tailandia, accusato nel 1938 d’aver ucciso la moglie che invece si era suicidata. Venne assolto nel 1951 dopo anni di galera e ben 18 perizie medico-legali inconcludenti”. E si ritorna alla conclamata inettitudine dei periti… “L’indagato innocente avrebbe più vantaggi dall’essere giudicato in base al lancio di una monetina che in base a delle perizie. E le risparmio l’aneddotica sulla voracità dei periti”. No, no, non mi risparmi nulla… “Vengono pagati per ogni singolo elemento esaminato. Ho visto un colonnello, incaricato di dire se 5.000 cartucce nuove fossero ancora utilizzabili dopo essere rimaste in un ambiente umido, considerare ognuna delle munizioni un reperto e chiedere 7.000 euro di compenso, che il Pm gli ha liquidato: non poteva spararne un caricatore? Ho visto un perito incaricato di accertare se mezzo container di kalashnikov nuovi, ancora imballati nella scatola di fabbrica, fossero proprio kalashnikov. I 700-800 fucili mitragliatori sono stati computati come altrettanti reperti. Parcella da centinaia di migliaia di euro. Per fortuna è stata bloccata prima del pagamento”. In che modo se ne esce? “Nel Regno Unito vi è il Forensic sciences service, soggetto a controllo parlamentare, che raccoglie i maggiori esperti in ogni settore e fornisce inoltre assistenza scientifica a oltre 60 Stati esteri. Rivolgiamoci a quello. Dispone di sette laboratori e impiega 2.500 persone, 1.600 delle quali sono scienziati di riconosciuta autorità a livello mondiale”. E per le altre magagne? “In Italia non esiste un testo che insegni come si conduce un interrogatorio. La regola fondamentale è che chi interroga non ponga mai domande che anticipino le risposte o che lascino intendere ciò che è noto al pubblico ministero o che forniscano all’arrestato dettagli sulle indagini. Guai se il magistrato fa una domanda lunga a cui l’inquisito deve rispondere con un sì o con un no. Una palese violazione di questa regola elementare s’è vista nel caso del delitto di Avetrana. Il primo interrogatorio di Michele Misseri non ha consentito di accertare un fico secco perché il Pm parlava molto più dello zio di Sarah Scazzi: bastava ascoltare gli scampoli di conversazione incredibilmente messi in onda dai telegiornali. Ci sarebbe molto da dire anche sulle autopsie”. Ci provi… “È ormai routine leggere che dopo un’autopsia ne viene disposta una seconda, e poi una terza, quando non si riesumano addirittura le salme sepolte da anni. Ciò dimostra solamente che il primo medico legale non era all’altezza. Io andavo di persona ad assistere agli esami autoptici, spesso ho dovuto tenere ferma la testa del morto mentre l’anatomopatologo eseguiva la craniotomia. Oggi ci sono Pm che non hanno mai visto un cadavere in vita loro”. Ma in mezzo a questo mare di fanghiglia, lei com’è riuscito a fare il giudice per 42 anni, scusi? “Mi consideri un pentito. E un corresponsabile. Anch’io ho abusato della carcerazione preventiva, ma l’ho fatto, se mai può essere un’attenuante, solo con i pregiudicati, mai con un cittadino perbene che rischiava di essere rovinato per sempre. Mi autoassolvo perché ho sempre lavorato per quattro. Almeno questo, tutti hanno dovuto riconoscerlo”. Non è stato roso dal dubbio d’aver condannato un innocente? “Una volta sì. Mi ero convinto che un impiegato delle Poste avesse fatto da basista in una rapina. Mi fidai troppo degli investigatori e lo tenni dentro per quattro-cinque mesi. Fu prosciolto dal tribunale”. Gli chiese scusa? “Non lo rividi più, sennò l’avrei fatto. Lo faccio adesso. Ma forse è già morto”. Intervistato sul Corriere della Sera da Indro Montanelli nel 1959, il giorno dopo essere andato in pensione, il presidente della Corte d’appello di Milano, Manlio Borrelli, padre dell’ex procuratore di Mani pulite, osservò che “in uno Stato bene ordinato, un giudice dovrebbe, in tutta la sua carriera e impegnandovi l’intera esistenza, studiare una causa sola e, dopo trenta o quarant’anni, concluderla con una dichiarazione d’incompetenza”. “In Germania o in Francia non si parla mai di giustizia. Sa perché? Perché funziona bene. I magistrati sono oscuri funzionari dello Stato. Non fanno né gli eroi né gli agitatori di popolo. Nessuno conosce i loro nomi, nessuno li ha mai visti in faccia”. Si dice che il giudice non dev’essere solo imparziale: deve anche apparirlo. Si farebbe processare da un suo collega che arriva in tribunale con Il Fatto Quotidiano sotto braccio? Cito questa testata perché di trovarne uno che legga Il Giornale non m’è mai capitato. “Ho smesso d’andare ai convegni di magistrati da quando, su 100 partecipanti, 80 si presentavano con La Repubblica e parlavano solo di politica. Tutti espertissimi di trame, nomine e carriere, tranne che di diritto”. Quanti sono i giudici italiani dai quali si lascerebbe processare serenamente? “Non più del 20 per cento. Il che collima con le leggi sociologiche secondo cui gli incapaci rappresentano almeno l’80 per cento dell’umanità, come documenta Gianfranco Livraghi nel suo saggio Il potere della stupidità”. Perché ha aspettato il collocamento a riposo per denunciare tutto questo? “A dire il vero l’ho sempre denunciato, fin dal 1970. Solo che potevo pubblicare i miei articoli unicamente sul mensile Diana Armi. Ha chiuso otto mesi fa”. Giustizia: l’Agcom condanna la Rai per non aver dato spazio ai problemi delle carceri Notizie Radicali, 11 settembre 2012 L’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, con la delibera n. 354/12/Cons, ha accertato l’inottemperanza da parte della Rai a un precedente provvedimento della stessa Agcom con cui la Concessionaria di servizio pubblico era stata richiamata a informare e approfondire la situazione della giustizia e delle carceri italiane. Dopo che per più di un anno la Rai ha ignorato il richiamo, l’Agcom ha adesso ordinato di “assicurare la trattazione delle iniziative intraprese dai Radicali e dal loro leader Marco Pannella sul sovraffollamento delle carceri in programmi di approfondimento che, per congrua durata e orario di programmazione, risultano maggiormente idonei a concorrere adeguatamente alla formazione di una opinione pubblica consapevole su temi di attualità di rilevante interesse politico e sociale, entro il termine di quattro mesi a decorrere dal mese di settembre 2012”. Nel mirino trasmissioni di grande ascolto come Ballarò, Che tempo che fa o Porta a Porta in prima serata. Se la Rai non ottempererà all’ordine dell’Agcom è prevista una sanzione da 250 mila euro sino alla sospensione dell’attività. A seguito della condanna, il Segretario di Radicali italiani, Mario Staderini, e il deputato radicale Marco Beltrandi, componente della Commissione di vigilanza, hanno oggi scritto una lettera al Presidente e al Direttore generale della Rai sottolineando che “non è questione che riguarda un soggetto politico, quello Radicale, bensì un tema di fondamentale importanza rispetto al quale il servizio pubblico è venuto meno ai suoi obblighi, impedendo all’opinione pubblica di conoscere e di approfondire una questione sociale e politica dagli evidenti e gravi riflessi negativi sullo Stato di diritto, valutabili anche in termini di mancata crescita economica”. Staderini e Beltrandi, nel ricordare la strutturale violazione da parte della Rai delle norme vigenti in materia di informazione e comunicazione politica, hanno quindi chiesto ai vertici Rai di esercitare le loro prerogative “affinché la Rai ottemperi tempestivamente agli obblighi cui è tenuta per legge e per le decisioni dell’Autorità”. Lettera di Mario Staderini e Marco Beltrandi ai vertici Rai Gentile Presidente, gentile Direttore, con la presente ci rivolgiamo a Voi, assurti da poche settimane alla guida della Rai, in merito a due questioni che riteniamo non più differibili, e che in larghissima misura attengono direttamente alle responsabilità connesse al vostro ruolo nell’azienda. Il 2 agosto scorso l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni ha adottato la delibera n. 354/12/Cons con cui ordina alla Rai, a pena di una significativa sanzione economica, di “assicurare la trattazione delle iniziative intraprese dai Radicali e dal loro leader Marco Pannella sul sovraffollamento delle carceri in programmi di approfondimento che, per congrua durata e orario di programmazione, risultano maggiormente idonei a concorrere adeguatamente alla formazione di una opinione pubblica consapevole su temi di attualità di rilevante interesse politico e sociale, entro il termine di quattro mesi a decorrere dal mese di settembre 2012”. Tale delibera segue l’inottemperanza da parte della Concessionaria, malgrado i ripetuti solleciti dell’Autorità, della delibera n. 211/11/Cons del 20 luglio 2011 con la quale l’Autorità aveva accertato “l’indubbio rilievo che la questione delle carceri e della giustizia riveste per il Paese in quanto tema di rilevante interesse politico e sociale connesso all’attualità della cronaca” e richiamato la Rai a incrementare l’informazione nei telegiornali e nei programmi di approfondimento. Come si evince dai dispositivi delle delibere richiamate, non è tanto o soltanto una questione che riguarda un soggetto politico, quello Radicale, bensì un tema di fondamentale importanza per l’Italia che viene da lungo tempo occultato nella programmazione del servizio pubblico: l’urgenza, la necessità indifferibile (sono parole del Capo dello Stato), di affrontare la situazione della giustizia e delle condizioni carcerarie. Le delibere richiamate, nelle loro motivazioni contengono i dati di fatto che evidenziano come il servizio pubblico radiotelevisivo sia venuto meno ai suoi obblighi, impedendo all’opinione pubblica di conoscere e di approfondire una questione sociale e politica dagli evidenti e gravi riflessi negativi sullo Stato di diritto, valutabili anche in termini di mancata crescita economica. Tutto ciò nonostante le continue, persino clamorose, iniziative politiche, anche nonviolente, messe in campo non solo dai Radicali, ma anche da oltre 40 mila cittadini che per la Rai non hanno avuto diritto di parola. In particolare, sul tema giustizia e carcere è stata pervicacemente negata la possibilità anche di un solo dibattito in uno dei contenitori di approfondimento della Rai che vanno in onda in prima serata (come ad esempio Ballarò e Che tempo che fa): quando molto raramente se ne è parlato lo si è fatto solo unicamente, come sottolineato dall’Autorità, in programmi trasmessi in orari di basso ascolto o in spazi non congrui per consentire un minimo approfondimento e conoscenza. In occasione della ripresa dei programmi di approfondimento, vi chiediamo pertanto di esercitare le vostre prerogative affinché la Rai ottemperi tempestivamente agli obblighi cui è tenuta per legge e per le decisioni dell’Autorità. Da quanto descritto emerge anche una seconda questione che iniziamo oggi a porre alla Vostra attenzione, ovvero la strutturale violazione da parte della Rai delle norme vigenti in materia di informazione e comunicazione politica. Ciò è dimostrato da un pregresso letteralmente impressionante di pronunce ripetute dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni. Solo con riferimento ai Radicali, sono cinquanta (!) le delibere dell’Autorità che negli ultimi anni hanno accertato in capo alla Rai la responsabilità di aver impedito ai cittadini italiani di conoscere e giudicare le iniziative e le lotte dei soggetti politici radicali. In questa sede ci limitiamo a richiamare un paio di indicatori di questo stato di cose: esistono trasmissioni di approfondimento in prima serata Rai che da anni, sottolineiamo da anni, non ospitano alcun esponente radicale, nemmeno sui tanti temi che sono pure oggetto di nostre significative iniziative politiche. Così come esiste in Italia un leader politico, Marco Pannella, letteralmente vietato dal palinsesto Rai, nemmeno citato persino in due recenti documentari di Rai Storia, uno relativo alle battaglie degli anni 70 sui diritti civili e sul divorzio, l’altro relativo alle lotte per i diritti degli omosessuali. Tutto ciò premesso, fermo restando ulteriori approfondimenti in merito alle modalità con cui dare riparazione ai cittadini del comportamento tenuto per anni dalla Rai e rimanendo a disposizione per qualsivoglia chiarimento, siamo ad insistere nell’immediata ottemperanza a quanto ordinato dall’Agcom nelle delibere citate. Giustizia: alla Camera rapido esame del ddl su pene alternative a reclusione in carcere Asca, 11 settembre 2012 La Commissione Giustizia da oggi e per tutta la settimana sarà impegnata nel proseguire l’approfondimento del ddl 4041, contenente il cosiddetto “pacchetto Severino” per le misure di depenalizzazione e pene alternative alla detenzione per attenuare il sovraffollamento carcerario. Il ministro della Giustizia ha più volte sottolineato la necessità ed urgenza di questo provvedimento anche per dare risposta all’emergenza carceri, ma l’ampiezza delle misure contenute nello schema normativo e, soprattutto, la non piena concordanza di valutazioni dei partiti che sostengono il Governo hanno già reso molto ampio il confronto sul testo. Il ministro ha già rilevato l’esigenza di chiudere l’iter referente prima che sia avviato il confronto in Assemblea già programmato a partire dal 24 settembre. Giustizia: Sappe querela Ferrara per l’affermazione “in alcune carceri italiane si tortura” Apcom, 11 settembre 2012 Se rischiò quasi di finire in rissa il confronto tv tra i due giornalisti Giuliano Ferrara e Marco Travaglio sulla presunta trattativa tra Stato e mafia, confronto andato in onda nel corso della puntata del 28 agosto scorso di Bersaglio Mobile, trasmissione condotta da Enrico Mentana e in onda su La7, di certo finirà in un’aula di giustizia. Questa mattina, infatti, Donato Capece, Segretario Generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, ha presentato al Palazzo di Giustizia di Roma una querela nei confronti di Ferrara. Nel corso dell’acceso dibattito, infatti, il direttore de Il Foglio e conduttore di Radio Londra, disse a Travaglio che avrebbe dovuto “essere arrestato e torturato come succede in alcune carceri in Italia”, frase questa che ha suscitano la protesta e l’iniziativa giudiziaria del primo Sindacato della Polizia Penitenziaria, il Sappe. “Ferrara ha offeso la Polizia Penitenziaria e quando parla di carcere non sa cosa dice” chiarisce Capece. “Il Sappe non accetta che le donne e gli uomini della Polizia penitenziaria che lavorano, ogni giorno, nelle strutture detentive del Paese con professionalità, zelo e abnegazione vengano rappresentate da certe corrispondenze di stampa che, come quella del direttore de Il Foglio, associano, più o meno velatamente, al nostro lavoro i sinonimi inaccettabili di violenza, indifferenza e cinismo, persino di tortura! Noi, che rappresentiamo il primo e più rappresentativo Sindacato della Polizia Penitenziaria, siamo i primi a chiedere che il carcere sia una casa di vetro, perché non abbiamo nulla da nascondere. I poliziotti e le poliziotte penitenziari italiani hanno salvato negli ultimi vent’anni decine di migliaia di vite umane in carcere, intervenendo tempestivamente e salvando la vita a chi ha tentato di suicidarsi (impiccandosi alle sbarre della finestra, inalando gas da bombolette di butano che si continuano a far detenere nonostante la loro pericolosità, avvelenandosi con farmaci, droghe o detersivi, soffocandosi con un sacco infilato in testa) e impedendo che atti di autolesionismo potessero degenerare ed ulteriori avere gravi conseguenze. Altro che tortura. È importante per il Paese conoscere il lavoro svolto dai poliziotti penitenziari, è importante che la Società riconosca e sostenga l’attività risocializzante della Polizia Penitenziaria e ne comprenda i sacrifici sostenuti per svolgere tale attività, garantendo al contempo la sicurezza all’interno e all’esterno degli Istituti. Il nostro Corpo è costituito da persone che nonostante l’insostenibile, pericoloso e stressante sovraffollamento credono nel proprio lavoro, che hanno valori radicati e un forte senso d’identità e d’orgoglio. Persone che lavorano ogni giorno, nel silenzio e tra mille difficoltà ma con professionalità, umanità, competenza e passione nel dramma delle sezioni detentive italiane. E per questo ho presentato oggi una querela contro Giuliano Ferrara, che ha offeso il prestigio e l’onorabilità della Polizia Penitenziaria e dei suoi appartenenti con quella grave affermazione, peraltro amplificata dal potere mediatico della tv”. Giustizia: Aidaa; più carcere e lavori forzati “socialmente utili” per chi maltratta animali Agenparl, 11 settembre 2012 “Siamo stanchi dei continui casi di maltrattamenti a cui sono sottoposti gli animali, non passa giorno che non si leggono notizie orrende di sevizie nei confronti di animali domestici in ogni angolo dello stivale. Per questo motivo Aidaa propone di cambiare ed inasprire le pene per chi viene riconosciuto colpevole di maltrattamento o uccisione di animale introducendo l’obbligo di lavori forzati (socialmente utili), quali pulizia delle strade e marciapiedi dalle cacche dei cani, costruzione di nuove aree cani, volontariato coatto in canili ed altre strutture che ospitano gli animali domestici, ed inoltre l’Associazione Italiana Difesa Animali ed Ambiente chiede altresì l’inasprimento del carcere da un minimo di due anni ad un massimo di 5 anni per chi maltratta ed uccide gli animali (aumentata se l’uccisione avviene dopo torture). Aidaa chiede che il carcere sia obbligatorio e che sia accompagnato dai lavori forzati socialmente utili, e che tutti i condannati sia al carcere che ai lavori forzati, siano obbligati a seguire corsi di vario livello di educazione e tutela degli animali al fine di poter ottenere una riabilitazione sociale. Per questo motivo Aidaa lancia una raccolta firme online alla quale si può accedere collegandosi al sito: firmiamo.it. Lettere: noi reclusi a Poggioreale, tre giorni di digiuno in nome della dignità di Valerio Esca Il Mattino, 11 settembre 2012 Tre giorni di sciopero della fame e di auto-consegna nelle celle per sollecitare l’amnistia. “Dal pianeta carcere, dalla casa circondariale di Poggioreale, chiediamo a tutti di dare voce a questa nostra infinita, quanto inascoltata manifestazione di protesta, che ponga fine a questo stillicidio e calvario, di noi sepolti vivi”. Queste le parole con la quale hanno inizio i primi versi della lettera, firmata in maniera congiunta dai detenuti del padiglione Avellino di Poggioreale, che il Mattino pubblica in esclusiva. Il messaggio sarà spedito poi al presidente della Camera Gianfranco Fini, al direttore del carcere, al Garante del detenuto, a diversi parlamentari, gruppi politici e giornali locali. I detenuti annunciano, attraverso questa lettera, tre giorni di protesta, “pacifica, silenziosa, civile e non violenta”. “Ci asterranno dal 20 al 23 settembre dal ricevere il vitto dell’amministrazione e rifiuteremo di partecipare alle due ore d’aria che ci vengono concesse, e rifiuteremo di andare in chiesa”. Uno sciopero della fame e l’auto-consegna nelle proprie celle. Un atto dimostrativo forte, che non ha precedenti nel padiglione Avellino, dove i detenuti vengono soprannominati i “gandhiani” dagli altri occupanti di Poggioreale. La data non è stata scelta a caso, infatti in quei giorni verrà presentato dal Ministro della Giustizia, Paola Severino, il “pacchetto giustizia”. I detenuti non ne fanno una questione di protesta contro qualcuno, ma cercano attraverso azioni pacifiche di riuscire a fare alzare dalle loro celle un grido di protesta che possa arrivare in alto, a chi, come dicono nella lettera “abbia il coraggio di approvare provvedimenti concreti”. Poi scorrendo la missiva i detenuti spiegano nel situazioni disumane nelle quali sono costretti a vivere: “La situazione nelle carceri italiane è drammatiche, sono polveriere, specie questi casermoni di Poggioreale. Quasi tremila detenuti - precisamente duemila settecento circa - ammassati in 15, anche 18 per cella. C’è totale carenza di igiene e il 60% dei detenuti è colpito dall’epatite C, mentre il restante 40% è colpito da altre malattie veneree in continua proliferazione” sottolineano ancora i detenuti del padiglione Avellino. Nelle righe della lettera ammettono le loro colpe “abbiamo sbagliato e dobbiamo pagare” dicono, ma chiedono soltanto che i loro diritti non vengano calpestati o addirittura “negati”. Il degrado di Poggioreale, come di molte altre carceri sovraffollate non è certo la scoperta dell’acqua calda, ma in questo momento è quanto mai attuale, visto che in queste ore si sta decidendo come portare avanti, tra le stanze del Parlamento, il pacchetto giustizia e come poter risolvere la problematica delle carceri. Nei giorni scorsi hanno protestato, sempre a Napoli, anche le detenute della casa circondariale femminile di Pozzuoli per sollecitare l’approvazione di una legge di amnistia. E proprio con questa richiesta i “gandhiani” chiudono il loro messaggio: “Chiediamo si arrivi ad un amnistia, indulto e pene alternative e che queste ultime diventino legge”, per loro non è solo una speranza, ma un ritorno alla vita. Opera (Mi): detenuto di 26 anni si impicca in cella, è il 40esimo suicidio da inizio anno Adnkronos, 11 settembre 2012 Ancora una morte dietro le sbarre. Un detenuto si è tolto la vita nel Carcere Opera di Milano. Si tratta del giovane Daniele Ridolfi, di soli 26 anni. Il ristretto si è impiccato nella sua cella ed è morto venerdì 7 settembre in ospedale, dove era stato trasportato dopo l’accaduto. Salgono così a 112 i detenuti morti nei primi 9 mesi del 2012, di cui ben 40 sono stati i suicidi. Tuttavia la notizia del suicidio è stata diffusa solo nella giornata di martedì 11 settembre. Il fatto risale allo scorso 2 settembre. Era all’incirca mezzanotte quando Daniele ha scelto di farla finita impiccandosi con l’ausilio di una tenda che aveva attaccato alla sua finestra. Tra l’altro l’oggetto in questione er vietato dal regolamento eppure c’era nell’area dei detenuti protetti dove aveva la sua cella il 26enne. Inutile ogni tentativo di soccorso. Dopo l’impiccagione il detenuto è entrato in coma ed il decesso è avvenuto la scorsa domenica. I genitori hanno autorizzato l’espianto degli organi. Inevitabile la domanda sul perché: sarebbe uscito dal carcere il prossimo 26 dicembre. Ferrante (Pd): situazione carceraria sotto linea civiltà “Il suicidio del ragazzo 26enne, detenuto nel penitenziario milanese di Opera, ripropone la drammaticità della situazione carceraria del nostro Paese, che è al di sotto della linea della dignità e della civiltà. Nelle carceri italiane ogni giorno si consuma un furto di giustizia, perché il sovraffollamento causa drammi intollerabili di cui i suicidi sono l’atroce punta dell’iceberg”. Lo dichiara il senatore del Pd Francesco Ferrante. “I detenuti in Italia - prosegue Ferrante - sono circa 70mila, compressi in strutture carcerarie predisposte per ospitarne 45mila. Dunque ogni giorno si lede, per la mancanza di spazi, personale, assistenza, il diritto alla dignità dell’essere umano, che non può essere giustificato dal dovere di espiare la pena. Proprio oggi, in occasione della decima giornata mondiale per la prevenzione del suicidio, dobbiamo registrare per l’ennesima volta che lo Stato è lontano proprio dove dovrebbe essere più vicino e attento, ovvero in carcere. Di questa drammatica assenza dello Stato, di carcere e civiltà parlerà, insieme a studiosi e associazioni, nel corso del convegno Ergastolo e democrazia che si terrà in Senato il prossimo 2 ottobre” - conclude Ferrante. Papa (Pdl): ancora morte dietro le sbarre “La scorsa domenica è stata segnata da una duplice scomparsa, quella di un detenuto e di un agente di polizia penitenziaria”. Lo comunica il deputato del Pdl Alfonso Papa. “Un giovane di 26 anni è morto in ospedale dopo aver tentato il suicidio nel carcere di Opera. L’agente di polizia era invece in servizio a Poggioreale, ma in malattia dallo scorso marzo perché soffriva di manie di persecuzione e stress da lavoro”, racconta Papa. “Gli episodi di morte sono sempre più frequenti: 111 sono i detenuti morti nelle carceri italiane dall’inizio dell’anno, 40 per suicidio - conclude Papa. Se non è ancora scoppiata la rivolta nelle carceri, dobbiamo dire grazie a detenuti e agenti, che animati da un senso profondo di responsabilità tengono duro, e sempre più spesso perdono dei compagni di strada”. In Lombardia il 40% di detenuti in più rispetto alla capienza L’assessore regionale Boscagli: “Più del 40 per cento dei detenuti è in attesa di giudizio. Celebriamo i processi per risolvere il problema”. “Nel nostro Paese è assurdo che si affronti il tema della situazione carceraria solamente di fronte a fatti dolorosi e gravi come quello accaduto oggi presso il carcere di Opera. Regione Lombardia in questi anni ha messo in campo numerose iniziative e interventi per aiutare la popolazione carceraria e sostenere la polizia penitenziaria, serve però un intervento decisivo a livello nazionale, che riguardi anche i tempi del giudizio e la carcerazione preventiva”. Con queste parole l’assessore alla Famiglia, Integrazione, Conciliazione e Solidarietà Sociale di Regione Lombardia Giulio Boscagli ha commentato la notizia del suicidio di un ragazzo di 26 anni, detenuto presso il carcere di Milano Opera. “La nostra Costituzione - ha detto l’assessore - contiene principi di attenzione e rispetto per la persona anche quando è in carcere. La pena infatti è volta al recupero del reo, ma gli oltre 30 suicidi avvenuti nei carceri italiani nel solo 2012 evidenziano come questo sia difficile, innanzitutto per le condizioni di disagio in cui si trovano a vivere le persone detenute e anche il personale penitenziario a causa del sovraffollamento”. La popolazione carceraria in Lombardia è distribuita in 19 istituti, con picchi di presenze che vanno dai 1.635 di Milano, ai 1.331 di Opera, ai 1.115 di Bollate, fino ai 42 di Sondrio. Gli istituti penitenziari della Lombardia hanno una capienza regolamentare di 5.652 posti; i detenuti presenti nelle carceri sono 9.559, di cui 4.105 sono stranieri (42,9 per cento). Sono quindi presenti nelle carceri lombarde 3.907 detenuti in più di quelli previsti (40,9 per cento). “Il dato che più impressiona - ha aggiunto Boscagli - è che più del 40 per cento dei detenuti è in attesa di giudizio. Se queste persone fossero fuori, il problema del sovraffollamento sarebbe risolto. Questa è una distorsione enorme del nostro sistema, una ingiustizia palese e un limite della gestione della giustizia in Italia”. “Si celebrino - conclude Boscagli - processi in tempi più rapidi e si riducano al minimo le carcerazioni preventive, strumento usato con troppa superficialità nel nostro Paese, ma soprattutto si studino misure alternative alla carcerazione, come è stato affermato anche da Luciano Violante e Giovanni Maria Pavarin al Meeting di Rimini di quest’anno”. Napoli: suicida poliziotto penitenziario di 46 anni, era in malattia per “stress da lavoro” Il Mattino, 11 settembre 2012 È stato eseguito nella giornata di ieri l’esame autoptico sul corpo di Alfredo Langellotti, il quarantaseienne Assistente della Polizia penitenziaria trovato morto all’interno dell’auto del fratello. Nella mattinata di oggi si dovrebbero tenere i funerali. Il ritrovamento del corpo di Langellotti era stato effettuato nel pomeriggio di domenica nei pressi del cimitero di Alife dai militari dell’Arma della locale stazione. Langellotti, attualmente in aspettativa, si era allontanato di casa 24 ore prima. Una giornata di angoscia per i suoi familiari che poi si è trasformata in dolore. Sabato mattina Langellotti era stato visto per l’ultima volta in città. Poi, poco prima di mezzogiorno, aveva telefonato ad alcuni parenti. Dopo avere attaccato di lui non si è avuta più nessuna notizia. Sono stati gli stessi parenti, allarmati da quella chiamata, a lanciare l’allarme. Sono così state contattate le forze dell’ordine che si sono messe alla ricerca dell’quarantaseienne. A mettere i carabinieri di Alife sulle tracce dell’uomo è stata una segnalazione arrivata da un passante che aveva visto un’auto parcheggiata nei pressi del cimitero. Giunti sul posto i militari hanno visto che nella vettura c’era proprio Langellotti, ormai senza vita. La salma dell’uomo era stata così trasportata all’Istituto di Medicina legale dell’ospedale civile di Caserta dove è stata eseguita l’autopsia. Il comunicato del Sappe Aveva 46 anni, era in servizio a Napoli Poggioreale e da tempo era in malattia per manie di persecuzione e stress da lavoro. Domenica scorsa A.L., assistente della Polizia Penitenziaria, è morto dopo aver ingerito un micidiale mix di farmaci: era sparito dalla sua abitazione il giorno precedente. Era in stato di malattia dal 10 marzo 2012. Lo rende noto Donato Capece, segretario generale del Sappe. ‘Piangiamo oggi un altro collega morto suicida: una vita spezzata a 46 anni che ci lascia sgomenti. Quel che ci lascia perplessi è che l’Amministrazione Penitenziaria pensa di avere messo sul piatto soluzioni concrete al dramma del disagio lavorativo dei poliziotti penitenziari, ma non è affatto così. Ad avviso del primo Sindacato della Polizia Penitenziaria, il Sappe, l’incontro che si era tenuto a Roma lo scorso 31 luglio scorso su questo drammatico tema è stato deludente ed inconcludente”. Così lo stesso Capece in una nota. “Il collega era scomparso da casa ed è stato trovato domenica nei pressi del cimitero di Alife. I casi di suicidi tra i baschi azzurri dovrebbero fare seriamente riflettere ed invece confermano come sono distanti i vertici del Dap dalla realtà delle carceri italiane. L’approccio al delicato e drammatico tema, la morte per suicidio di 7 poliziotti penitenziari negli ultimi 7 mesi (più di 100 i casi dall’anno 2000), non ha visto mettere in campo a nostro avviso efficaci azioni per contrastare il disagio lavorativo del personale di Polizia penitenziaria e contestualmente stimolarne la professionalità. Le uniche soluzioni proposte dal Dap Giovanni Tamburino sono state la realizzazione di una brochure da diffondere tra il Personale e la previsione di un numero verde di ascolto, da contattarsi in caso di necessità. Questo, secondo il primo Sindacato della Polizia Penitenziaria, il Sappe, significa non affrontare il problema alla radice. Mancano concrete iniziative per garantire e favorire il benessere dei Baschi Azzurri. Le soluzioni proposte dal Dap servono solamente all’Amministrazione Penitenziaria per scaricarsi la coscienza su un tema tanto drammatico e delicato che avrebbe avuto necessità di ben altra sensibilità umana ed istituzionale”, conclude Capece. Ragusa: detenuto 30enne tenta di togliersi la vita, salvato dai compagni e dagli agenti La Sicilia, 11 settembre 2012 Stanotte un detenuto trentenne di nazionalità egiziana, ristretto presso la Casa Circondariale di Ragusa, ha tentato il suicidio all’interno della propria stanza detentiva, lasciandosi cadere dalla sopraelevata finestra con un cappio al collo realizzato con un lenzuolo. Fortunatamente, tale gesto estremo, non ha avuto sviluppi irreversibili grazie all’intervento tempestivo praticato in suo aiuto dai compagni di stanza e dal personale di Polizia penitenziaria addetto alla vigilanza del reparto detentivo. Al riguardo, nonostante l’inadeguatezza organica, del personale di Polizia penitenziaria assegnato alla Casa Circondariale di Ragusa, oggi carente di circa 50 unità, più volte denunciata dalla segreteria Provinciale Cil Fns ai vari livelli istituzionali ancora una volta, a scongiurare l’epilogo di tale gesto estremo è servita la spiccata professionalità e l’elevato spirito di abnegazione dei poliziotti che con immani difficoltà cercano ad ogni modo, delle volte anche con mezzi di fortuna, di salvaguardare la vita dei reclusi e la sicurezza dei cittadini, mettendo a repentaglio anche la propria incolumità fisica. “Certamente - dice il dirigente locale del sindacato, Lorenzo Pagano - il sovraffollamento della popolazione detenuta, formata maggiormente da soggetti stranieri, la vetustà dei locali, contribuiscono al malessere degli stessi, i quali spesso mostrano problemi di adattamento alla vita detentiva e al rispetto regole ad essa correlate. Basti pensare che ultimamente, per mancanza di posti letto, sono stati allocati detenuti all’interno delle aule scolastiche in attesa di una migliore sistemazione”. La Cisl FNS auspica che a seguito di tale “ennesimo” episodio spiacevole, l’Amministrazione centrale intervenga urgentemente per porre rimedio alle difficoltà che affliggono il Personale che opera presso la casa circondariale di Ragusa e non esiterà mai a denunciare nelle sedi opportune le problematiche legate alle condizioni lavorative dei Poliziotti dovute principalmente alla gravosa carenza nell’organico. Palermo: Osapp; troppo stress fisico per agenti, mediamente 50-60 assenti per malattia Ansa, 11 settembre 2012 “Nel carcere dell’Ucciardone a Palermo il personale è ormai arrivato allo stremo delle forze e il malcontento che è stato ingenerato ha raggiunto livelli elevatissimi”. Lo sostiene il vice segretario nazionale dell’organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria (Osapp) Domenico Nicotra. “Se mediamente vi sono 50-60 unità di polizia penitenziaria assenti per motivi di salute - aggiunge - è evidente che lo stress fisico accumulato ha raggiunto e superato la soglia di sopportabilità”. “Inoltre - continua il sindacalista - la direzione dell’istituto, calpestando i diritti dei lavoratori sottoscritti sia a livello regionale che locale con le organizzazione sindacali, ha riorganizzato a distanza di qualche mese il personale negli uffici. Pertanto - sottolinea Nicotra - oltre allo stress fisico si aggiunge il modus operandi della direzione, che genera nel personale non poca confusione: ha deciso unilateralmente di riorganizzare l’assetto del personale di polizia penitenziaria che assicura il servizio di vigilanza ai passeggi dei detenuti”. Lecco: emergenza carceri, l’On. Codurelli (Pd) in visita alla Casa Circondariale www.lecconotizie.com, 11 settembre 2012 Anche la casa circondariale di Lecco condivide le criticità di molte altre carceri italiane: sovraffollamento e percorsi di ricollocazione insufficienti per i detenuti. A denunciarlo è l’onorevole del Pd Lucia Codurelli, che nella mattinata di lunedì ha visitato la prigione di Pescarenico insieme al presidente del Consiglio Comunale, Alfredo Marelli: “Purtroppo la situazione è peggiorata anche a Lecco, dove dai 60 detenuti si è passati agli attuali 82. Ciò comporta che celle adatte ad ospitare una sola persona vengono invece divise da due detenuti; spazi ristretti, che non permettono una vita degna”, spiega l’onorevole Codurelli. Una popolazione carceraria composta per una metà di cittadini italiane e per l’altra da extra-comunitari, 30anni l’età media , 28 detenuti con problemi di tossicodipendenza. Reclusi, certo, ma soprattutto persone con una pena da scontare ed un futuro che, per la maggior parte di loro, li porterà ad oltrepassare le mura della prigione per tornare nella società: “La cittadinanza spesso crede che la sicurezza nelle proprie città si risolva chiudendo i criminali nelle carceri. Se non seguiti con attività formative adeguate e senza che siano previsti percorsi di reinserimento, però, i detenuti rimessi in libertà rischiano di tornare a delinquere e di riaffollare nuovamente i reclusori - sottolinea Codurelli. In questo, Pescarenico evidenzia problemi maggiori rispetto ad altre carceri lombarde, anche perché destinato a ospitare reclusi condannati a pene brevi”. “Sono gli stessi detenuti a dispiacersi - spiega ancora l’onorevole - vorrebbero lavorare, svolgere maggiore attività formativa e motoria, ma mancano mezzi economici e personale; inoltre, lo scorso inverno le aule erano rimaste al freddo a causa dell’impianto di riscaldamento non funzionante e gli insegnanti hanno dovuto sospendere le lezioni”. Una soluzione a questo disagio, secondo la deputata democratica, potrebbe essere rappresentata del garante dei detenuti, una figura d’intermezzo tra i carcerati e il provveditorato; il problema principale però, il sovraffollamento, ha un’unica possibilità: “È necessaria una legge che istituisca alternative serie al carcere, che risolva questa criticità, non solo sociale ma anche economica, visto che attualmente un detenuto costa mediamente allo Stato 250 euro al giorno”. Bologna: grazie alla Caritas consegna gratuita di ortofrutta ai detenuti della Dozza Sesto Potere, 11 settembre 2012 È ripreso la scorsa settimana, e andrà avanti fino alla metà di gennaio 2013, il trasporto di frutta e verdura dalla piattaforma Caritas di Villa Pallavicini, dove si raccolgono prodotti ortofrutticoli conferiti gratuitamente dalla Comunità europea e da distribuire a persone e famiglie indigenti al carcere della Dozza di Bologna: una attività che era stata sospesa alla fine dello scorso aprile perché i costi del servizio, che doveva essere svolto da una società esterna, non erano sostenibili per l’associazione di volontariato. Lo rende noto Desi Bruno, Garante delle persone sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale dell’Emilia-Romagna, che si era direttamente interessata alla questione e non può quindi che accogliere con piacere la notizia, dal momento che, ricorda, “l’interruzione della fornitura aveva costituito un elemento negativo per la vita delle persone detenute, per la cui alimentazione l’amministrazione penitenziaria destina pochi euro, con evidenti problemi di adeguatezza della stessa ai bisogni di una popolazione povera e spesso malata”. Caritas ha deciso di “riprendere il trasporto in via del tutto eccezionale”, informano dall’ente benefico, perché “anche le persone ristrette alla Dozza rientrano nel novero di quella povertà di cui tanto si parla e che la Caritas non vuole dimenticare”, ma il proseguimento dell’iniziativa è assolutamente legato alla speranza che l’ente locale dia la propria disponibilità accollandosi il costo del trasporto per il 2013, come è stato richiesto all’assessorato alle Politiche sociali del Comune di Bologna. Infatti, ricorda la Caritas, tutte le realtà caritative che fruiscono di queste provvidenze si fanno carico autonomamente di ritirare la frutta dalla piattaforma e allo stesso modo, al momento di stringere accordi con la direzione della Dozza, “ci fu assicurato che il costo del trasporto alla Casa circondariale sarebbe stato assunto dall’ente pubblico”. “L’Ufficio del Garante ringrazia la Caritas per la disponibilità dimostrata - conclude Bruno - e auspica la prosecuzione dell’iniziativa”. Ivrea (To): inaugurata venerdì mattina “l’area verde” per colloqui alla Casa circondariale di Rita Cola La Sentinella, 11 settembre 2012 Il gruppo dei Barbapapà colorati e, su un altro muro, Paperino che dice: “Papà, giochi con me?”. Nel prato lo scivolo, l’altalena e i cavallini a dondolo. Sotto i portici, davanti ai murales, alcuni tavolini con le sedie. Se non si alzano gli occhi a grate, cancellate e muri, l’area verde inaugurata venerdì mattina alla casa circondariale, è uno scampolo di normalità. Spazio dove i detenuti con figli possono chiacchierare con la famiglia nel momento della visita. L’area verde è uno degli effetti concreti del progetto Re-start, promosso dal Comune, con un ampia partnership di enti, la casa circondariale e il contributo della Compagnia di San Paolo. Sono stati gli stessi detenuti a costruire, curando anche i dettagli più piccoli, la rampa con lo scivolo per disabili e i servizi igienici. E sono stati altri detenuti a realizzare i murales. Venerdì mattina il momento dell’inaugurazione, con la consegna di un encomio ai detenuti che hanno collaborato all’iniziativa, i volontari, la polizia penitenziaria e l’assessore alle Politiche sociali Paolo Dallan. Dallan ha voluto dedicare all’analisi del progetto Re-start una giornata composta da vari momenti. “Abbiamo promosso - spiega - una serie di iniziative per facilitare il reinserimento sociale e lavorativo delle persone scarcerate, attraverso il loro coinvolgimento nel periodo della detenzione in attività tese a migliorare le loro relazioni affettive. La famiglia e gli affetti sono una parte importante nel percorso di vita che affrontano le persone detenute”. Il progetto è composto da tirocini, percorsi formativi, laboratori, stage, attività a sostegno della genitorialità. Centosedici i detenuti coinvolti (alla casa circondariale, venerdì, i detenuti erano 287), per tutti i kit di prima necessità, distribuiti dai volontari penitenziari, che collaborano all’individuazione dei bisogni dei singoli. Dallan sottolinea che il progetto è stato sottoposto anche all’Università, che ha il compito di monitorare le azioni e, soprattutto, di individuare le criticità. “A noi - sostiene l’assessore - non interessano iniziative autoreferenziali. Ci interessa capire quali sono le criticità (burocratizzazione delle azioni e turn over dei detenuti, ndr), in modo da poterne tenere conto ed essere più incisivi nelle azioni successive. Ivrea da molti anni ha in piedi progetti con il carcere”. Alba (Cn): merenda nel giardino del carcere, con lo chef Maurilio Garola La Stampa, 11 settembre 2012 Sarà una merenda molto speciale quella che va in scena oggi, ad Alba. Prima di tutto per la location: il giardino racchiuso tra le mura della casa circondariale. E poi per lo chef: il cuoco stellato Maurilio Garola, che per un giorno abbandonerà i confortevoli fornelli del suo Tornavento a Treiso per cercare di abbattere attraverso la convivialità della tavola le barriere di diffidenza che circondano l’ambiente carcerario. A proporre l’insolito pic-nic è l’associazione Sapori Reclusi, che ha arruolato lo chef per cucinare insieme con i detenuti un menù a base di verdura proveniente dalle coltivazioni delle carceri e prodotti del commercio equo-solidale e dalle terre confiscate alla mafia. L’appuntamento è per le 18,30 e il successo dell’iniziativa è già assicurato dal numero di prenotazioni: oltre cento persone che hanno deciso di provare l’insolita esperienza. L’intero ricavato della cena (30 euro) sarà devoluto al laboratorio di Apicoltura del carcere per l’acquisto di uno smielatore. Immigrazione: i Cie, la salute e la dignità umana… la storia di Omar di Alberto Barbieri (Coordinatore generale di Medici per i Diritti Umani) www.linkontro.info, 11 settembre 2012 Ci sono forme di privazione della libertà personale in ogni Stato, che, sotto un’apparenza di necessità, si rivelano ingranaggi incomprensibili ed iniqui. La cui supposta utilità non regge al vaglio della ragionevolezza e del buonsenso. La cui natura si scontra palesemente con i principi fondanti di una stessa collettività. Uno Stato di diritto, una cultura democratica dovrebbero avere le risorse per emendare tali misure, tanto più quando queste minano il loro bene più prezioso: i diritti fondamentali della persona. La tutela della salute è senz’altro uno di questi diritti ed i centri di detenzione per gli immigrati - i centri di identificazione ed espulsione altrimenti noti come Cie - sembrano essere uno degli iniqui ingranaggi di quest’epoca di veloci trasformazioni e di grandi migrazioni. Ho conosciuto Omar in un corridoio di un ospedale romano. Omar ha poco più di trent’anni , viene dall’Africa occidentale ma da diversi anni si trova nel nostro Paese. Racconta la sua storia in un buon italiano, i suoi modi sono pacati e riflessivi, non usa mai termini drammatici, non va mai sopra le righe, non esprime rabbia nonostante sia consapevole della malattia. La vicenda di Omar non è eccezionale ma, si potrebbe dire, rientra nella drammatica quotidianità di tante altre storie di immigrati che, come lui, hanno vissuto la reclusione all’interno di un Cie (in quelle strutture cioè, che dal 1998 hanno inaugurato in Italia il sistema della detenzione amministrativa con il fine dichiarato di identificare ed espellere quegli immigrati che, essendo privi di permesso di soggiorno, continuano troppo spesso ad essere chiamati, nel modo più rozzo e sbrigativo, clandestini). Dal suo essere storia comune, derivano il suo valore in qualche modo esemplare e il suo interesse, non solo per chi si occupa di immigrazione o di carceri, ma, crediamo, per tutti i cittadini che hanno a cuore i valori di civiltà della nostra democrazia. Il motivo del nostro incontro, e le ragioni per cui Omar ha contattato Medici per i Diritti Umani, sono proprio la sua malattia e la detenzione, prima nel carcere, e poi nel centro di identificazione ed espulsione per immigrati irregolari di Ponte Galeria a Roma. Omar ha sbagliato e il suo errore lo ha pagato per intero con due anni di carcere. Proprio durante il periodo della detenzione comincia ad avvertire una piccola tumefazione al braccio sinistro, all’altezza del bicipite. Segnala subito il suo problema ai medici del penitenziario, anche perché con il passare delle settimane la tumefazione continua a crescere e a dargli prima fastidio e poi dolore. Non è facile evidentemente per un carcerato avere accesso ad accertamenti diagnostici fuori dall’istituto di pena; siamo nell’Italia del profondo Sud, il Servizio sanitario nazionale ha lunghe liste di attesa anche per i cittadini liberi. Fatto sta che passano ben quattro mesi prima che Omar venga sottoposto ad un’ecografia. Il referto dell’esame è tranquillizzante e depone per un probabile vecchio ematoma. Questo tipo di esame non è però dirimente e nel referto si consiglia l’esecuzione di una biopsia per escludere altri tipi di patologie. Anche per questo esame Omar deve però attendere diversi mesi, in cella, con la tumefazione che cresce e il dolore che si fa sempre più continuo. Altri 5 mesi e finalmente viene eseguita la biopsia. Anche questa volta il responso non è allarmante: si tratterebbe di un fibroma, una forma di tumore benigno. Il problema è però che le diagnosi vanno in una direzione e la malattia in un’altra; la massa continua a crescere. Dopo oltre undici mesi dall’insorgenza dei primi sintomi Omar finisce di scontare finalmente la sua pena. O almeno dovrebbe. In realtà succede qualcosa che Omar non aveva previsto; viene infatti trasferito nel centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria trovandosi così a scontare, de facto, una nuova pena in assenza di reato (ed è qui il caso di ricordare ancora una volta che gli immigrati internati nei Cie, si trovano privati della libertà per la loro condizione di sans papier - per la violazione, cioè, di una disposizione amministrativa - e non per aver commesso un reato). In realtà questa è una sorte comune a molti immigrati detenuti a cui capita di essere tradotti senza soluzione di continuità dalla galera al Cie poiché lo Stato - negligentemente - non provvede all’identificazione durante il periodo della reclusione carceraria. Il problema, si dice, è dovuto al mancato coordinamento tra l’ amministrazione penitenziaria ed il Ministero dell’Interno. Situazione sconcertante in cui il migrante deve scontare una pena aggiuntiva, ovviamente percepita come una vera ingiustizia e lo Stato ha un aggravio di spesa per dover trattenere diversi ulteriori mesi - fino al massimo di una anno e mezzo - il migrante da espellere. Nel Cie di Ponte Galeria - secondo quanto ci ha riferito lo stesso direttore del centro durante l’ultima visita di Medici per i Diritti Umani (febbraio 2012) - i migranti uomini che arrivano dal carcere sono addirittura quattro su cinque! Il dramma di Omar dunque continua dal carcere al Cie dove viene trasferito per essere identificato ed espulso in quanto immigrato irregolare. Omar - ancora una volta - fa presente il suo problema ai medici del centro, i quali si rendono conto che forse qualcosa non torna tra la supposta diagnosi e la reale situazione clinica, tanto è vero che richiedono una visita chirurgica specialistica da effettuarsi in un centro ospedaliero esterno al Cie. Il Cie però, malgrado i rappresentanti del Ministero dell’Interno e gli operatori che lo gestiscono continuino a chiamare gli immigrati trattenuti “ospiti”, è una vera e propria istituzione carceraria chiusa al mondo esterno (i medici che operano nei Cie sono contrattati direttamente dagli enti che gestiscono il centro per conto dello Stato poiché il personale sanitario delle Asl non è ammesso) ed un paziente che si deve sottoporre ad un visita o ad un accertamento diagnostico in qualsiasi struttura esterna deve essere obbligatoriamente scortato dalle forze di polizia. Ed è proprio a causa della mancanza della scorta che la visita chirurgica una volta salta. Un’altra volta Omar riesce ad arrivare in ospedale ma è accompagnato con un tale ritardo che non è possibile effettuare la visita ambulatoriale. Viene allora visitato da un medico nel pronto soccorso che si rende conto della gravità della situazione e cerca di far ricoverare il paziente in ogni modo. “Finalmente avevo davanti un medico che prendeva sul serio quello che gli dicevo. Che credeva che veramente stavo male e non che stessi fingendo” ricorda Omar. Come in un perfetto dramma dell’assurdo, il ricovero, però, non avviene e il paziente viene ricondotto al Cie. E certo uno degli effetti perversi sulla garanzia della salute nei centri di detenzione per i migranti è proprio l’interazione sorvegliante-sorvegliato e la reciproca sfiducia che si instaura tra chi dovrebbe essere curato e chi dovrebbe curare. Da un lato la denuncia dei pazienti trattenuti di una scarsa attenzione ai problemi di salute da parte dei sanitari, dall’altro il sospetto sempre presente di tentativi di simulazione di una qualche malattia. Questa dinamica pregiudica seriamente il normale rapporto medico-paziente potendo, tra l’altro, provocare ritardi nella diagnosi tempestiva di malattie potenzialmente gravi. Mi chiedo se questo non sia stato anche il caso di Omar sia nel carcere che nel Cie. Omar riesce comunque ad essere sottoposto ad una risonanza magnetica solo due mesi dopo l’ingresso nel Cie. È proprio in questo periodo che veniamo contattati dall’avvocato di Omar, indignata per le condizioni in cui il suo assistito viene lasciato all’interno di un centro di detenzione malgrado la malattia. Nel frattempo la tumefazione al braccio ha raggiunto le dimensioni di un’arancia ed i dolori sono controllati in modo sempre meno efficace dagli analgesici prescritti dai medici di Ponte Galeria. Cerchiamo di parlare del caso con la Prefettura, Omar richiede l’autorizzazione ad avere un colloquio con me in qualità di medico e persona di fiducia. La funzionaria è stupita della descrizione del caso che gli sottoponiamo ma in ogni caso respinge perentoriamente la richiesta di colloquio poiché gli “ospiti” del Cie sono autorizzati ad incontrare esclusivamente “il proprio avvocato, i familiari di primo grado ed i conviventi che possano dimostrare tale condizione”. Se Omar fosse stato ancora in carcere avrebbe avuto il diritto di incontrarmi ma nel Cie no. Come del resto nel Cie (e sono queste quotidiane imposizioni che, più di ogni altra cosa, rivelano le dinamiche di degradazione della dignità umana che operano in queste strutture) non è consentito agli “ospiti”- per motivi di sicurezza, certo - il possesso di un libro, di un giornale, di una penna, di un pettine. Fino al grottesco, come quando l’anno scorso - nei mesi più freddi e in camerate spesso sprovviste di riscaldamento - i detenuti di Ponte Galeria dovettero dar vita a una protesta, “la rivolta delle ciabatte”, perché obbligati da un’ordinanza prefettizia ad indossare ciabatte in luogo di scarpe con i lacci per scongiurare pericoli di fughe. Ed in effetti, paradossalmente, i detenuti nelle carceri godono di più garanzie dei detenuti dei centri per immigrati. “Qui è peggio di un carcere” è la frase che mi è capitato di sentire con più frequenza, direi in modo ossessivo, da parte degli “ospiti” in differenti Cie e in differenti periodi. Un giudizio che, alla luce delle tante evidenze raccolte, appare più una sgradevole verità che un’iperbole dettata dalle circostanze. Ed è proprio a proposito del carcere che la funzionaria della prefettura esprime un commento piuttosto significativo: “Ah, dunque questo signore proviene dalle patrie galere !”. “Si è così. Ma questo cosa vuol dire” le rispondo “ha scontato la sua pena ed ha comunque diritto all’assistenza sanitaria come qualunque altra persona”. “Si, si certo” si affretta a replicare la funzionaria. Ed in effetti nelle parole e nei toni della funzionaria ritrovo lo stesso retro pensiero del medico del Cie quando replica ai miei dubbi sulla gestione della malattia di Omar nel suo doloroso percorso carcere-Cie: “Ma lo sai che i trattenuti qui nel Cie hanno dei canali preferenziali per curarsi, per fare gli esami diagnostici? Qui siamo in un’isola felice! Conosco pazienti italiani con un tumore (e cita il caso di una sua vicina parente) che devono aspettare mesi per fare una Tac. Qui ci facciamo in quattro per inserirli nelle liste”. In sostanza, secondo il collega, dal punto di vista sanitario è addirittura quasi una fortuna finire in un Cie. Si viene curati meglio e prima che stando fuori. Eppure, nonostante la buona volontà di singoli operatori, il caso di Omar, e di tanti altri migranti incontrati nei Cie sparsi per l’Italia, dimostrano esattamente il contrario. E poi il cittadino libero può comunque decidere di rivolgersi ad un altro ospedale, ad un medico di fiducia, ha la facoltà di scegliere da chi essere curato. Il paziente internato nel Cie, invece, libertà di scelta non ne ha. La vita e la salute di Omar sono completamente affidate allo Stato. Ma la via dolorosa di Omar prosegue. Il referto della risonanza magnetica descrive una grossolana formazione espansiva che necessita di un accertamento istologico. Nel frattempo passa un altro mese prima che Omar possa finalmente venire ricoverato in ospedale. Un giorno di febbraio - ben tredici mesi dopo i primi segni di insorgenza della malattia - Omar entra infine in una sala operatoria ed il tumore viene asportato chirurgicamente. L’esame istologico della neoformazione evidenzia un tipo di tumore maligno aggressivo, con alta frequenza di recidiva. A questo punto finalmente le porte dell’Italia si schiudono per Omar che al termine del ricovero può lasciare il Cie (può venire dismesso, secondo un inquietante neologismo utilizzato fino a non molto tempo fa dal personale del Cie) e tornare a vivere da uomo libero a Roma. Ora, “grazie” alla malattia che lo pone in pericolo di vita, Omar non rischia, almeno per il momento, di essere espulso dal nostro Paese. Certo è un prezzo molto alto quello pagato da Omar. E certo è un prezzo molto alto quello pagato dallo Stato italiano in termini di salvaguardia dei diritti umani e della dignità della persona per non parlare dei costi economici di questi centri. Perché della totalità dei migranti ristretti nei 13 Cie italiani - in condizioni spesso invivibili, all’interno di vere e proprie gabbie - solo la metà, e a volte meno, viene effettivamente rimpatriata. Se poi si considera l’insieme degli immigrati irregolari che si stima siano presenti in Italia (circa 450.000 nel 2011), i Cie sono in grado di rimpatriarne ogni anno meno dell’1%. E allora cui prodest? Non certo allo Stato di diritto e alla salvaguardia della dignità umana nel nostro Paese che in questo caso, si, sembrano essere stati dismessi; non certo alla casse dello Stato e non certo neanche all’effettivo contrasto dell’immigrazione irregolare. Ecco allora che la pena inflitta alle persone internate nei Cie appare gratuita ed incomprensibile. A meno che non si voglia considerare compito di queste strutture quello di servire da “discarica umana” al pari di un’altra istituzione totale del passato come il manicomio, anch’esso per lungo tempo e a torto considerato necessario ed insostituibile. È il sociologo canadese Goffman il primo a utilizzare il termine istituzione totale nel suo saggio Asylum (1961) nel quale descrive magistralmente i meccanismi degradanti che operano in luoghi come gli ospedali psichiatrici e le carceri. Luoghi “della nostra società occidentale” dove segregare e contenere coloro che vengono, di volta in volta, considerati socialmente indesiderabili. Certo è che nelle gabbie anguste dei centri di identificazione ed espulsione si ritrovano a convivere donne e uomini con percorsi di vita e prospettive spesso profondamente diversi tra di loro: migranti appena giunti nel nostro Paese e persone che vivono e lavorano da anni in Italia, richiedenti asilo e (incredibile!) cittadini dell’Unione europea (nel 2011 sono stati 494 - terza nazionalità per numero di presenze - i romeni trattenuti nei Cie italiani), persone provenienti dal carcere e vittime della tratta della prostituzione, giovani nordafricani giunti a seguito degli sconvolgimenti delle primavere arabe ed anziani clochard stranieri che, come ci riferì un direttore di Cie, “non si sa dove mettere perché disturbano i passanti e alterano il decoro dei nostri marciapiedi”. Ma la condizione di straniero danneggia ancora una volta Omar. In effetti l’intervento chirurgico a cui viene sottoposto non risulta affatto risolutivo; si è trattato di una semplice asportazione della massa, mentre - dati la gravità e lo stato di avanzamento della malattia - sarebbe stata necessaria una resezione più drastica con completa asportazione del muscolo bicipite. I sanitari dell’ospedale ci dicono che il paziente stesso non ha autorizzato un intervento così demolitivo. Omar racconta però che il suo mancato consenso è dovuto esclusivamente a un problema linguistico e di comunicazione. Troppo tecnico forse l’italiano con cui gli è stato presentato il quadro clinico e le possibili opzioni terapeutiche. Troppo complessa la spiegazione, in assenza di un mediatore, anche per chi, come lui, con l’italiano se la cava bene. Una volta dimesso dall’ospedale, indirizziamo Omar verso una struttura specialistica. I chirurghi e gli oncologi valutano e spiegano con il tempo e la chiarezza necessari. Omar accetta di sottoporsi ad un nuovo intervento chirurgico dopo un mese, questa volta radicale, con il sacrificio quasi totale del muscolo bicipite del braccio sinistro. A questo punto di avanzamento del cancro, però, tutto ciò non è sufficiente. Dopo alcuni mesi il paziente sviluppa multiple metastasi polmonari come conseguenza della malattia primitiva e deve iniziare vari cicli di chemioterapia. A prescindere dalle diverse opinioni che si possono avere su una questione grande e complessa come l’immigrazione, non si può dubitare che in questa storia il paziente-carcerato-immigrato irregolare Omar, abbandonato a se stesso alla stregua di un malato di second’ordine, abbia a lungo sentito su di se il peso insostenibile della discriminazione: un male forse più insidioso del cancro. Non si può negare che il pesante ritardo nella corretta diagnosi abbia avuto conseguenze assai gravi - e purtroppo a tutt’oggi non del tutto prevedibili - sulle prognosi quod vitam di un malattia in cui il tempo è decisivo; non si può negare che i suoi errori verso la collettività e lo Stato italiano Omar li abbia pagati fino in fondo; non si può negare che lo Stato italiano al contrario sia venuto meno ai suoi doveri di civiltà non garantendo appieno quanto limpidamente stabilito dall’articolo 32 della nostra Costituzione: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo”, di ogni individuo. Omar lotta ancora con il suo male. L’ultima volta che parliamo al telefono è appena stato operato per la terza volta per una recidiva del tumore sul braccio. Descrive la sua situazione con la stessa calma e la stessa misura del nostro primo incontro. “La chemioterapia l’ho sopportata bene” mi dice “ho solo avuto dei forti mal di testa. Poi il braccio si è gonfiato di nuovo e mi hanno dovuto operare un’altra volta”. Se Josef K., il protagonista del Processo di Kafka, fosse stato un nostro contemporaneo, forse sarebbe finito in un Cie. Unione Europea: Stati membri indaghino su presunte prigioni Cia in Europa Il Velino, 11 settembre 2012 La risoluzione legislativa non vincolante, approvata martedì, stabilisce che gli Stati membri dell’UE devono condurre indagini per scoprire se ci siano state prigioni segrete o strutture sul loro territorio nelle quali fossero detenute - nei primi anni del 2000 - persone del programma segreto della Cia di consegna e detenzione. Lituania, Polonia e Romania, in particolare, sono incoraggiate ad aprire, o riprendere, indagini indipendenti. La risoluzione adottata oggi dal Parlamento sottolinea che “solo valide ragioni di sicurezza nazionale possono giustificare il segreto”. Il documento esprime preoccupazione in merito agli ostacoli posti alle indagini parlamentari e giudiziarie a livello nazionali sul coinvolgimento di alcuni Stati membri nel programma della Cia. Per i deputati, i principali ostacoli sono rappresentati dalla “mancanza di trasparenza, classificazione dei documenti, la prevalenza degli interessi nazionali e politici (...) la mancanza di rigorose tecniche investigative e di cooperazione”. “Il voto di oggi è una vittoria per il Parlamento europeo, che mantiene la sua richiesta di verità contro la negazione e l’oblio e fa prevalere i fondamenti democratici dell’Unione su considerazioni nazionali e di parte”, ha affermato la relatrice Hèlène Flautre, la cui relazione è stata adottata con 568 voti favorevoli, 34 contrari e 77 astensioni. “La relazione sostiene l’esistenza di un vasto e segreto sistema illegale che ha portato alla tortura e sparizioni forzate. Esso si basa su fatti nuovi, in particolare sui dati aerei gestiti da Eurocontrol”, ha aggiunto. Stati Uniti: a Guantanamo muore un detenuto, è il nono decesso dal 2002 Ansa, 11 settembre 2012 Un prigioniero è morto nella base militare statunitense di Guantanamo. Lo comunica un portavoce della base, il capitano Robert Durand, spiegando che le autorità stanno cercando di informare i familiari e il Paese di origine dell’uomo. L’esercito statunitense ha lanciato un’indagine sulle cause. Si tratta del nono decesso di un detenuto dall’apertura del carcere, nel gennaio 2002. Secondo fonti militari Usa, degli otto precedenti, due sono avvenuti per cause naturali e sei per suicidio. L’esercito fa sapere che il prigioniero è stato trovato sabato privo di sensi nel carcere, quindi condotto all’ospedale militare e dichiarato morto da un medico “dopo che ampie misure per cercare di salvargli la vita sono state eseguite”. Ben poco per ora si sa della sua storia. Non sono stati diffusi né il nome né la sua nazionalità. Al momento del decesso, spiega ancora Durand, l’uomo si trovava nel Camp 5, sezione del carcere dove vengono confinati i detenuti che hanno violato le regole del centro. Di recente aveva spruzzato una guardia con quello che i funzionari militari chiamano “cocktail”, un mix di cibo e fluidi corporei, e per questo aveva ricevuto una sanzione disciplinare. In passato, il detenuto aveva intrapreso uno sciopero della fame, ma lo aveva terminato il primo giugno. Attualmente, ha aggiunto Durand, era al 95% del suo peso forma e pesava 6 chilogrammi in più di quando era entrato nella base militare. Un medico legale è stato condotto nella base per determinare la causa della morte, mentre il Naval Criminal Investigative Service sta conducendo l’indagine. Alcuni operatori ora laveranno il corpo dell’uomo e lo collocheranno in un lenzuolo, come prevede il rito islamico, prima di rimpatriarlo nella sua terra d’origine. Nel carcere militare statunitense, situato sull’isola di Cuba, attualmente sono detenuti 170 prigionieri in situazioni legali molto diverse. L’uomo morto sabato non era accusato formalmente e nei suoi confronti non era stato fissato un procedimento penale. L’ultima morte di un prigioniero a Guantanamo risaliva all’aprile 2011, quando un 37enne afghano morì per un apparente suicidio. Il suo avvocato all’epoca disse che l’uomo aveva da tempo una malattia mentale e aveva cercato di uccidersi già una volta in precedenza. Nel giugno del 2006 due prigionieri sauditi e uno yemenita furono trovati impiccati nelle proprie celle. In quell’occasione l’esercito parlò di suicidio coordinato. Cina: varata la “riforma dei gulag”, il regime rivede il sistema di “rieducazione” di Alessandro Proietti www.dirittodicritica.com, 11 settembre 2012 Sono almeno 60mila i detenuti che, attualmente, lavorano nei campi di lavoro. I prigionieri sono attivisti delle Ong, scrittori, autori di petizioni e membri di gruppi religiosi illegittimi La parola “laojiao” non suona macabra come “gulag” per gli europei, ma il significato è lo stesso. Il sistema brutale cinese di “rieducazione”, attraverso i lavori forzati, non è così diverso da quello messo in atto dall’Unione Sovietica durante la Seconda Guerra Mondiale e oltre. Attualmente, sono circa 60mila (ma c’è chi sostiene che siano qualche milione) i detenuti che stanno lavorando duramente nei campi della Repubblica popolare cinese. Tra i prigionieri ci sono veterani delle Ong, scrittori dissidenti, autori di petizioni scomode per il regime e membri di sette religiose non autorizzate. I prigionieri possono essere incarcerati per un massimo di tre anni senza un processo. Fin dal 1957, i campi di rieducazione sono diventati una prassi nel sistema cinese nonostante la segretezza abbia contribuito alla loro diffusione. Sempre più “vittime” sono state trascinate nei campi, ma una protesta per l’abolizione di questa barbarie sta trovando terreno fertile nei comitati di lavoro. Una campagna di sensibilizzazione sul tema, nella città orientale di Hangzhou, ha raccolto più di 7mila firme. Oltre alle cifre stimate di 60mila detenuti almeno nei campi di rieducazione, alcuni organi di stampa, non legati al regime, hanno quantificato la paga mensile irrisoria per i “lavoratori”, ovvero 8 yuan, 1 euro. Il regime cinese non ha preso bene questa fuga di notizie, anche se ha capito l’importanza della questione, cercando di trovare in tempi brevi una soluzione. Hu Xingdou, professore presso l’Istituto di Tecnologia di Pechino, ha detto al quotidiano Global Times che il sistema dei campi di rieducazione ha una logica per il mantenimento della stabilità sociale e come fonte di profitto notevole grazie al lavoro dei detenuti. “Il sistema dei campi di lavoro - ha precisato Xingodu, rappresenta il più grande ostacolo per la costruzione di un sistema di legalità e rispetto dei diritti umani in Cina”. Nel mese scorso, la rabbia cinese è esplosa attraverso blog locali. L’agenzia cinese Xinhua, filo regime, ha riportato la storia di una donna che era appena uscita da un campo di lavoro. La sua colpa è stata di aver protestato contro alcune sentenze di condanna non severe a danni di uomini che avevano stuprato e costretto a prostituirsi la figlia di 11 anni. La scorsa settimana, un tribunale nella città di Changsha, ha respinto i ricorsi di sette persone condannate ad almeno un anno di lavori forzati nei campi di rieducazione per aver protestato contro la demolizione delle loro case o aziende, un dissenso esplicitato sotto la bandiera cinese a Pechino, nella storica piazza di Tienanmen. Ghana: campi di concentramento per le streghe, 800 donne esiliate dai villaggi di Michele Farina Corriere della Sera, 11 settembre 2012 Asana, 27 anni, è arrivata al campo di concentramento di Gambaga accompagnata dal nuovo marito: “A casa non posso proteggerti”, le ha detto. Ad accusarla (“quella strega mi è apparsa in sogno e mi voleva uccidere”) è stato l’ex compagno, quando ha scoperto che Asana era al quinto mese di gravidanza. Dopo averla picchiata l’ha trascinata davanti a un piccolo altare votivo “e mi ha versato addosso della plastica fusa”. Allora il nuovo marito, anziché alla polizia, l’ha condotta a Gambaga, uno dei sei campi nel Nord del Ghana dove vengono “concentrate” le donne accusate di magia nera. In ottocento vivono nelle capanne di fango di questi “witch camps” lontani dai centri abitati, secondo l’ultimo censimento dell’organizzazione umanitaria ActionAid che vi opera dal 2005. Sono carceri dalle mura invisibili, ghetti-rifugio vecchi di cent’anni. Niente sbarre o catene e questo a pensarci è ancora più spaventoso, quando l’unica libertà che ti resta è scegliere la prigionia, quando Asana che vive a Gambaga passa per fortunata in confronto alle “streghe” che devono affrontare ogni giorno lo stigma e la violenza di “fuori”. Per le donne come Asana (gli uomini accusati di magia sono pochissimi) tornare nei villaggi vorrebbe dire rischiare di essere uccise, subire la sorte di quella povera 72enne che nel 2010 fu arsa viva dai vicini. E allora meglio rimanere per tutta la vita nei sicuri campì della vergogna come ha fatto Sano Kojo, 66 anni, che fu mandata al ghetto di Kukuo nel 1981, accusata di aver tolto il respiro a un cugino. “A nessuno importa di noi. Una volta che arrivi qui, si dimenticano di te”. In Ghana come in molte altre parti dell’Africa la stregoneria (lo juju) nel Terzo Millennio resta una cosa seria. A tutti i livelli sociali. La canadese Karen Palmer, autrice del libro Spellbound: Inside West Africàs Witch Camps (Sotto maleficio: dentro i campi per le streghe dell’Africa), l’ha sperimentato di persona frequentando anche i ghanesi “colti”, molti dei quali fanno comunque ricorso a santoni o fattucchiere, amuleti e riti magici. È indicativo che nei campi delle esiliate, secondo il rapporto di ActionAid, ci siano quasi tutte donne anziane, al 70% vedove o non sposate, senza figli e in maggioranza prive di reddito al momento della cacciata dai villaggi. “I campi sono una drammatica manifestazione dello status delle donne in Ghana”, sostiene il professor Dzodzi Tsikata. Sono le persone più vulnerabili a essere accusate di stregoneria nella regione più povera di un Paese che fu il primo territorio africano a veder approdare i colonizzatori europei. Una storia di successo (economico, civile e pure calcistico): oro, cacao (secondo produttore mondiale) e una bella Costituzione che garantisce sulla carta uguaglianza e diritti civili. I “witch camps” intaccano la fedina internazionale di un Paese che ha ridotto la dipendenza agli aiuti stranieri dal 46% al 27%. Anche per questo il governo di Accra l’anno scorso ha promesso (con un pò di ipocrisia?) di chiudere i campi della vergogna entro il 2012. Ottimo, ma non subito: non sembri paradossale l’appello di ActionAid, che invita le autorità a uno smantellamento graduale dei ghetti per streghe. Una ricerca del 2008 ha dimostrato che il 40% di quante erano state reintegrate nei villaggi d’origine entro un anno hanno fatto ritorno ai campi di prigionia. Sono ghetti ma anche rifugi. Lì le “streghe” non vengono attaccate perché si ritiene che il territorio sacro neutralizzi i loro malefici. D’altra parte, dice Lamnatu Adam, la vita è dura e umiliante. Ristrettezze materiali (cibo, acqua) e “il senso di vergogna per essere state cacciate dalla comunità”. Talvolta gli accusatori sono gli stessi familiari. I campi sono governati da capi o santoni maschi detti Tindanas, ritenuti in possesso di poteri soprannaturali. Sono loro, a Gambaga, a svolgere le “cerimonie di purificazione” dopo aver giudicato se una nuova arrivata sia colpevole di magia nera, il rituale (inutile) è equivalente al nostro lancio della monetina. Alle divinità viene sacrificato un pollo. Se il pennuto muore a testa in giù, il verdetto è: colpevole. Altrimenti in teoria la donna potrebbe tornare al villaggio (ma questo non succede per la paura e il clima di discriminazione). Un destino peggiore tocca alle nipotine che vengono mandate (dalle famiglie) ad aiutare le streghe esiliate. Nei campi vivono anche 500 minori. Non vanno a scuola (compagni e insegnanti non li accettano). Anche loro si portano addosso lo stigma, il “contagio” del malocchio. E quando raggiungono la maggiore età, è difficile che oltrepassino quelle mura invisibili. Libia: rinviato a data da destinarsi il processo a Saif el-Islam Ansa, 11 settembre 2012 È stato rinviato a data da destinarsi il processo a Saif el-Islam, figlio quarantenne del colonnello Gheddafi, detenuto a Zenten nel sud della Libia, dove è stato catturato nel novembre dello scorso anno. Il 23 agosto scorso la procura generale libica aveva annunciato che il processo sarebbe stato celebrato entro settembre. Il rinvio sine die del procedimento, ha detto all’agenzia stampa Afp un portavoce della Procura generale, è stato imposto dalle indagini che si dovranno fare dopo l’estradizione, nei giorni scorsi dalla Mauritania, dell’ex capo dei servizi segreti libici Abdallah el-Senussi. Quest’ultimo, detenuto per mesi in una prigione di Nouakchott, è stato consegnato a due ministri libici che, mercoledì scorso, lo hanno preso in consegna nell’aeroporto della capitale mauritana.