La nave Vlora del 1991, un film che racconta quando è nata l’idea dello straniero mostro Il Mattino di Padova, 10 settembre 2012 I luoghi comuni sugli immigrati sono sempre esistiti, ne sono state vittime i tanti italiani emigrati in passato, ne sono vittime le migliaia di cittadini stranieri che cercano faticosamente di inserirsi nella nostra società. “Immigrati tutti delinquenti” è una convinzione molto diffusa, e anche quando un immigrato un reato l’ha realmente commesso, il trattamento che gli è riservato è mediamente più pesante di quello che tocca a un italiano che è finito in carcere. Molti albanesi ritengono, spesso a ragione, che è stato l’arrivo a Bari nel 1991 della nave Vlora, carica di ventimila uomini, donne, bambini in fuga dall’Albania, e il modo in cui fu raccontato quell’evento a determinare una svolta pesantemente negativa nel modo in cui gli italiani “vedevano” gli albanesi. Oggi un film-documentario di Daniele Vicari, La nave dolce, ristabilisce un po’ di verità su quell’evento. In carcere sono tanti i ragazzi albanesi che ricordano quella nave, e sanno bene che da allora spesso hanno pagato a prezzo ancor più caro i loro errori proprio perché erano albanesi: uno di loro ha visto e commentato quel film. “La nave dolce” di Vicari, il giudizio sugli albanesi C’era una volta una nave piena di zucchero che attraversò l’Adriatico. Non ricordo quante volte mi è stata raccontata la storia della nave dolce. I primi racconti li ho ascoltati seduto sul marciapiede di fronte a casa. Sandali, pantaloncini e canottiera bianca, una fila di otto quindicenni ascoltava con la testa in su il vicino diciottenne che, tornato il giorno prima da Bari, raccontava la sofferenza del viaggio, le umiliazioni dell’attesa sul molo, le violenze nello stadio. Avevo vissuto da vicino il cambiamento politico di Tirana. Uscire sotto casa mentre era in corso una delle prime manifestazioni degli studenti mi era costato un polpaccio ferito da una pietra di un manifestante, una manganellata sulla spalla da parte di un militare, e una sfuriata finale di mia madre. Poi avevo visto la statua di Enver Hoxha tirata giù con le corde dagli stessi ragazzi che poco tempo dopo, armati di spranghe, avevano battagliato sull’arena dello stadio di Bari per accaparrarsi i panini lanciati dagli elicotteri. Io ho atteso di finire il liceo per emigrare, e in questi diciassette anni italiani, la vita mi ha portato a incontrare centinaia di connazionali, ognuno con la propria storia di disperazione, ma per tutti quelli della nave dolce rimangono i più sfortunati. Sono passati ventun anni. Seduto nella Sala Grande della Biennale di Venezia, attendo di vedere la storia della nave di zucchero. Immagini video di repertorio mi ricordano i discorsi al paese di Enver Hoxha, e la mia divisa da pioniere. Poi la caduta del muro di Berlino, le proteste degli studenti a Tirana, il cambiamento del sistema politico, e il desiderio collettivo di scappare. Le riprese sono dell’Archivio di stato albanese. Riconosco le strade vuote di Tirana, le file di fronte ai negozi, i vecchi camion Skoda in attesa di partire per il porto di Durazzo, la nave coperta di persone, e gli ultimi arrivati che si aggrappano alle corde per unirsi agli altri nell’avventura italiana. È l’inizio di una storia che conosco, ma le immagini mi prendono alla gola e seguo gli eventi come se fossi tornato indietro nel tempo. Non c’è un narratore che interpreta quegli eventi. Ci sono le testimonianze di chi ha vissuto l’esperienza in prima persona. I testimoni sorprendono con la loro allegria. Non esprimono giudizi. Con generosità regalano frammenti preziosi della loro esperienza, come si sono arrampicati sulla nave, come hanno trascorso il viaggio, come sono sopravvissuti alla lunga detenzione nello stadio. Il tono non è disperato, non ci sono piagnucolii e tantomeno rivendicazioni. Sono semplicemente le vite di uomini, donne e bambini, i pezzi di un puzzle che, messo insieme, restituisce l’anima di quella nave che aveva fatto tanta paura. Mi trovo di fronte a un racconto nuovo. Le immagini dello stadio trasformato in un carcere costringono alla paura. L’affacciarsi sui muri dello stadio, le urla in una lingua straniera, i continui tentativi di evasione, gli scontri con la polizia, il rumore degli elicotteri e delle sirene, tutti i colori di un quadro di paura. Nell’immaginario di noi albanesi, l’Italia corrispondeva al mondo della televisione. Prima della caduta del muro gran parte degli italiani invece non aveva alcuna idea dell’Albania. Dopo l’arrivo della nave Vlora, l’albanese è diventato qualcuno da temere, qualcuno da respingere. È iniziata così la creazione dell’immaginario sullo “straniero mostro”, così forte da legittimare le autorità a mettere in atto ogni tipo di reazione per difendere la “fortezza” Italia. L’istinto di paura, si sa, spesso prevale sulla ragione. E quando ci sono situazioni in cui lo Stato decide soluzioni violente, la paura dell’opinione pubblica diventa la migliore giustificazione. È successo anche al G8 di Genova, dove le immagini di alcuni gruppi di manifestanti violenti hanno suscitato in milioni di spettatori il consenso a una repressione feroce di tutta la manifestazione. Poi il documentario “Diaz” di Daniele Vicari ci ha regalato un’altra prospettiva: anche in quella occasione, le singole storie dei partecipanti alla manifestazione ci hanno restituito le vere identità di quelli che tanti media avevano descritto come una massa pericolosa da cui difendersi. Così come a Genova, anche a Bari quelle ventimila persone, nude, stanche, ammassate su una banchina coperta di polvere di carbone, potevano essere viste come disperati da soccorrere da parte della Protezione civile. Invece hanno presto risvegliato le stesse fobie che in altri tempi hanno dato consenso a soluzioni finali tragiche. In questo modo, è stata legittimata la loro detenzione senza un ordine giudiziario, ciò che oggi viene chiamato “trattenimento”, e in giro per l’Italia sono stati costruiti decine di piccoli stadi, chiamati CPT, per rinchiudere le persone arrivate in Italia senza documenti. Il documentario ricorda anche il contrasto tra l’allora Presidente della Repubblica Francesco Cossiga e il sindaco di Bari, tra il governo centrale che aveva deciso di risolvere il problema in termini di emergenza dell’ordine pubblico e l’amministrazione locale che si opponeva, denunciando il trattamento inumano della reclusione nello stadio. Ma è prevalso il principio dell’emergenza che, in contrasto con il principio di ragionevolezza ed equilibrio, non ha permesso nemmeno di separare le donne e i bambini, rinchiudendo anche loro in condizioni disastrose, senza acqua, senza cibo e senza servizi. Ci sono accadimenti storici che macchiano un po’ tutti, dando un senso di sporco anche a chi è rimasto impotente a guardare gli eventi. Ormai c’è un’assuefazione collettiva ai respingimenti in mare, ai naufragi, alla conta dei cadaveri sulle spiagge, un’adesione collettiva al rifiuto dell’ospitalità, una mancanza di sensibilità giustificata da concetti come “emergenza”, “insicurezza”, “ordine pubblico”. Tali oltraggi alla dignità umana a volte sporcano anche noi immigrati che viviamo il tutto con una sensazione di impotenza, una rassegnazione collettiva verso una realtà ormai considerata ineluttabile; alcuni invece si rifiutano di accettare questa realtà e rimangono fuori dal sistema cercando una vita diversa nell’illegalità, con l’inevitabile conseguenza del carcere, dove l’umiliazione e la perdita della dignità sono totali. Al termine del film, gli applausi non finiscono più. Mi stupisce l’effetto suscitato dal film a tal punto che mi viene il sospetto che la sala sia piena di albanesi. Mi guardo intorno e sento solo commenti in italiano. Allora voglio pensare che la nave dolce forse ha addolcito il giudizio degli italiani su noi albanesi. Se la storia della nave Vlora rimarrà sempre una drammatica avventura, questa volta ho provato uno strano senso di gioia nell’ascoltarla: per una volta, gli albanesi sono proiettati sullo schermo nella loro umanità, liberati dal ruolo del mostro essi assumono l’importanza di essere testimoni, e di trasmettere oggi la memoria di un evento che ha cambiato la percezione dello straniero. Elton Kalica, Ristretti Orizzonti Giustizia: 3.800 posti in più entro il 2013, ecco il piano-carceri contro il sovraffollamento di Marco Ludovico Il Sole 24 Ore, 10 settembre 2012 Sprint finale per il piano carceri. Lo stato di emergenza scade alla fine dell’anno e il ministro della Giustizia, Paola Severino, schiaccia sull’acceleratore per chiudere appalti e procedure. Nei 206 istituti penitenziari italiani al 30 agosto 2012 c’erano 66.345 detenuti e più volte il presidente della Repubblica, Giorgio Napoli-tano, ha parlato di una “situazione insostenibile”. Adesso ci sono in ballo gare per 3.800 nuovi posti, pari a 17 padiglioni da costruire in istituti già esistenti. La previsione è che entro novembre appalti e relativi contratti saranno tutti conclusi. Tempi rapidissimi, rispetto alla media nella pubblica amministrazione, considerato che il nuovo commissario, il prefetto Angelo Sinesio, si è insediato alla fine di gennaio. Dalla conclusione dei contratti, secondo le regole, la tempistica prevede 3-400 giorni - a seconda della grandezza dell’appalto - per la consegna finale. I 3.800 nuovi posti distribuiti tra Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Abruzzo, Lazio, Campania, Puglia e Sicilia, potrebbero dunque arrivare tra la fine dell’anno prossimo e l’inizio del 2014. II ministro Severino, del resto, ne aveva già parlato ad agosto anche in Consiglio dei ministri. Le procedure diper sé non sono rapide anche perché in regime di ordinarietà le competenze sulla materia - anomalia tipica italiana - riguardano tre ministeri di massimo livello: oltre alla Giustizia, infatti, ci sono anche Economia e Infrastrutture. Tanto che altri 122 milioni, decisivi per la Severino per bandire le gare per nuovi istituti di pena a Torino, Camerino e Pordenone, rischiano di non essere disponibili ma ripartiti - così vorrebbe il Tesoro - tra il 2012 e i prossimi due anni. Con circa 40 milioni l’anno, perciò, è impossibile bandire le gare. Per ora, intanto, si corre con quello che c’è. Quest’anno, con lavori di ristrutturazione, sono stati già consegnanti 650 nuovi posti e si prevede di aggiungerne altri 1.250 entro dicembre. A Siracusa è stata chiusa la gara per il padiglione da 200 nuovi posti e i sindacati locali degli edili, Cgil in testa, hanno salutato la novità “come l’unica opportunità lavorativa concreta che, da qui a poco, prenderà il via nel nostro territorio”. La Cgil poi richiama attenzione e vigilanza sulle infiltrazioni mafiose nei lavori. Ma proprio, ad aprile tra il ministero dell’Interno, guidato da Anna Maria Cancellieri, e l’ufficio del commissario alle carceri, è stato sottoscritto un protocollo di legalità per combattere l’inquinamento della criminalità organizzata negli interventi di edilizia carceraria. La Corte dei Conti ha definito dì recente questa intesa “un’attività minuziosamente organizzata per prevenire infiltrazioni della criminalità”. Ma in tempi di spending review la magistratura contabile ha sottolineato anche con “vivo apprezzamento” che nel “2012 l’attuazione del Piano carceri avverrà con una struttura commissariale riadeguata e resa più snella, con un notevole contenimento di costi, in particolare per le collaborazioni esterne”. Alla fine “il nuovo assetto organizzativo comporterà un risparmio di 14 milioni l’anno”. Certo, le economie di spesa sono ormai un obbligo, ma non è così comune la rinuncia a emolumenti che possono arrivare anche a diverse centinaia di migliaia di euro l’anno. Il commissario delegato, per esempio, non ha accettato un compenso aggiuntivo rispetto allo stipendio di prefetto. Anche il responsabile delle ristrutturazioni, il magistrato Alfonso Sabella - già al pool antimafia di Palermo, ha arrestato tra gli altri Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca - non ha voluto una retribuzione ulteriore. L’ingegner Maurizio Trainiti avrebbe potuto percepire come Rup (responsabile unico dei procedimenti), in base alla legge, emolumenti fino a 760mila euro complessivi: ha rinunciato. E Fiordalisa Bozzetti, responsabile della parte economica e considerata il cuore pulsante dell’ufficio, ha un’unica retribuzione di 80rnila euro l’anno. I tecnici del Dap che collaborano con il commissario hanno rinunciato alle somme previste dalla legge per la validazione dei progetti. Inoltre porta risparmi, ma è innanzitutto l’attuazione doverosa del principio costituzionale di rieducazione della pena, l’ultima novità: in tutte le nuove strutture carcerarie mobili e arredi saranno costruiti con l’ausilio (retribuito) dei detenuti. Giustizia: mercoledì l’ok del Csm al ddl su depenalizzazione e misure alternative Tm News, 10 settembre 2012 Nel plenum di mercoledì prossimo, alla ripresa dei lavori dopo la pausa estiva, il Consiglio superiore della magistratura esaminerà il parere proposto dalla sesta commissione consiliare sul disegno di legge per la depenalizzazione e le misure alternative al carcere. Il parere, redatto dal neopresidente della sesta, Paolo Auriemma (consigliere togato di Unicost), ha un contenuto sostanzialmente positivo sul progetto del Governo, finalizzato tanto alla deflazione della giustizia (ad esempio attraverso la sospensione del processo agli irreperibili e la sospensione in caso di “messa in prova” dell’imputato ai servizi sociali) quanto alla riduzione del sovraffollamento carcerario, con l’istituzione della detenzione domiciliare come forma di pena principale, che può cioè essere irrogata direttamente dal giudice all’atto della condanna. Norme sule quali, se il plenum approverà la delibera, l’organo di autogoverno della magistratura darà un parere “ampiamente favorevole”, anzi, spiegano fonti di palazzo dei Marescialli, offrirà qualche suggerimento alla politica perché vada avanti su questa strada anche con una maggiore dose di coraggio. Giustizia: il Pd presenta progetto di legge su nuovi criteri per la custodia cautelare Public Policy, 10 settembre 2012 Affrontare il problema del sovraffollamento e del disagio delle carceri, quando è dovuto all’uso della detenzione preventiva: è l’obiettivo di una proposta di legge presentata da alcuni parlamentari Pd alla Camera. I firmatari sono tre: Donatella Ferranti, Anna Rossomando e Andrea Orlando, quest’ultimo è responsabile del Pd sui temi della giustizia. Il progetto di legge propone di modificare il Codice di procedura penale nella disciplina della carcerazione preventiva, introducendo nuovi criteri per la sua applicazione. “La custodia cautelare - si legge nella proposta di legge - può essere disposta soltanto quando le altre misure coercitive o interdittive, anche se applicate cumulativamente, risultino inadeguate”. Con questo passaggio si rafforza un principio già contenuto del Cpp, che prevede l’applicazione della carcerazione preventiva “solo quando ogni altra misura risulti inadeguata”. La norma propone di stabilire che il pericolo di fuga, in quanto criterio per far “scattare” la detenzione cautelare debba essere non solo concreto, ma anche “attuale”, nel senso che il rischio che la persona possa fuggire deve essere imminente. Finora, la Cassazione aveva stabilito che la valutazione del rischio di fuga dovesse essere fatta in base all’esistenza di elementi concreti, inerenti ad esempio la tendenza dell’imputato a delinquere e a scappare, o le sue frequentazioni. La stessa modifica viene applicata anche per la reiterazione del reato. Anche in questo caso, la legge propone di introdurre il vincolo dell’”imminenza” del rischio per far scattare la custodia cautelare. La proposta di legge stabilisce che il pericolo di fuga non debba essere desunto solo dalla gravità del reato (e quindi dalla severità della sanzione), e prevede che il rischio che il soggetto commetta nuovi reati non possa essere desunto unicamente dalla vicenda criminosa in oggetto. I parlamentari Pd propongono di estendere il periodo di applicabilità delle misure interdittive (come la sospensione dall’esercizio di potestà dei genitori, o il divieto di esercitare determinate attività professionali), a 12 mesi rispetto ai due attualmente previsti. Per alcuni casi più marginali di spaccio di stupefacenti la pena viene ridotta da sei a tre anni, portando così il periodo di detenzione al di sotto della soglia prevista per autorizzare l’applicazione della custodia cautelare (finora, questa poteva essere applicata solo per reati la cui pena prevista era superiore a quattro anni). Scopo del provvedimento è consentire un uso più calibrato delle soluzioni cautelari, “alla luce della frequenza con cui questa ipotesi di reato ricorre nella prassi giudiziaria cautelare”. Giustizia: crimini dei deboli e... dei potenti di Laura Coci Il Cittadino, 10 settembre 2012 A poche settimane dalla dichiarazione del Ministro della giustizia, Paola Severino, secondo cui un terzo dei detenuti nelle carceri italiane potrebbe godere di misure alternative, il numero delle persone ristrette è ancora quasi 67.000 (66.528), a fronte di una capienza “regolamentare” di circa 45.000 posti (45.584). A oltre un anno dal “Satyagraha” - lo sciopero della fame e della sete promosso il 14 agosto 2011 da Marco Pannella e dai Radicali italiani con associazioni attive nella tutela dei diritti o che operano in ambito carcerario (A buon diritto, Ristretti Orizzonti, Antigone) e sindacati di polizia penitenziaria - nulla è cambiato. Una situazione di evidente illegalità, tanto più grave in quanto ne è responsabile lo Stato (uno Stato, per di più, recidivo), che proprio la legalità dovrebbe garantire, in particolare ai cittadini che gli sono affidati in custodia. Spesso, invece, non ne garantisce neppure la nuda vita: il numero dei suicidi all’interno dei penitenziari è circa sette volte superiore rispetto a quello che si registra “fuori”: nel solo 2012 sono morte in carcere, di carcere, 105 persone, di cui 37 suicide (fonte: Ristretti orizzonti, aggiornamento al 26 agosto 2012). Eppure il carcere resiste, grazie al consenso sociale di cui gode. La sensazione diffusa nell’opinione comune è che le persone detenute meritino quello che stanno passando: invisibilità e disperazione. Ma chi sono le persone detenute, quali persone entrano in carcere oggi? Lasciamo da parte colpevoli di associazione di stampo mafioso (416 bis), narcotrafficanti di livello internazionale, autori di crimini efferati e affini, per i quali risultano non proponibili pene differenti rispetto alla detenzione: sono un numero residuale. Una buona parte dei 67.000 (ovvero 26.307) si trova in situazione di custodia cautelare, ovvero non sconta una condanna definitiva ed è dunque, tecnicamente, innocente (fonte: Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, aggiornamento al 30.6.2012). Sulla base delle statistiche pregresse, quasi metà di questi sarà assolta (e lo Stato sarà chiamato a risarcire il danno dell’ingiusta detenzione). Oltre un terzo dei 67.000 (27.001) è detenuto per reati connessi all’uso di sostanze stupefacenti: si tratta di (giovani) uomini e donne che avrebbero bisogno di cure e terapie, non di celle e prigioni. Una quota piccola ma significativa dei 67.000 (2.150) è costituita da cittadini stranieri già irregolarmente soggiornanti in Italia, che pertanto scontano una condizione, non un reato. Altri, infine (gli esempi sono reali), sono incarcerati per tentato furto di scarpe sportive, ubriachezza, molesta, oltraggio a pubblico ufficiale. Azioni riprovevoli, certo, ma già nel 1764 Cesare Beccaria raccomandava che tra reato e pena ci fossero gradualità e proporzione. In realtà, con eccezioni, oggi in carcere entrano uomini (soprattutto) e donne già respinti in quella “zona sociale carceraria” (secondo la definizione di Vincenzo Ruggiero) che in tempo di crisi economica si allarga paurosamente: sono gli ultimi, gli oppressi, i dannati (la denominazione si scelga in base alla scuola di pensiero preferita).Ci sono, d’altra parte, persone che in carcere non entrano proprio, nonostante abbiano commesso reati, forse perché appartengono a categorie altre rispetto a quelle compulsate in precedenza: non sono né ultimi, né oppressi, né dannati. Il discorso rischia di cadere nella demagogia, di cui certo non si avverte il bisogno, pure è impossibile non pensare ai crimini dei cosiddetti “colletti bianchi”, autori di reati impalpabili che riguardano la finanza illegale e illecita: corruzione (aggravata dalla transnazionalità), falso, frode, riciclaggio, inquinamento (dettato dalla logica del profitto), agiti con spregiudicatezza che presuppone impunità e neppure percepiti come tali, per quanto responsabili di morte e rovina. E anche agli autori di reati ben più tangibili, duramente tangibili: per esempio gli agenti delle forze dell’ordine riconosciuti colpevoli di aver infierito su inermi alla scuola Diaz di Genova nel luglio 2001, che non sconteranno un solo giorno di carcere. Meglio per loro. Perché sia chiaro che non chiediamo più prigione per tutti. Il contrario: che il carcere sia l’extrema ratio per 416 bis e affini; per gli altri, che sono quasi tutti, si pongano in essere le misure alternative già consolidate e se ne sperimentino di nuove, senza aprire nuove carceri e anzi - reimpiegando il personale nei servizi dell’esecuzione penale esterna - chiudendo alcune di quelle esistenti sul territorio nazionale. Perché il carcere non serve a chi sta “dentro” ma a chi sta “fuori”: rafforza il senso di comunità e di appartenenza dei cittadini attraverso l’esclusione e il disprezzo per i detenuti. È un luogo di potere, non di rieducazione, in spregio all’articolo 27 della Costituzione repubblicana, che proprio nella finalità rieducativa indica non un elemento accessorio, ma l’elemento strutturante della pena, altrimenti inumana. Giustizia: dalla “Battitura della speranza”, nuovo impulso nella lotta per l’amnistia di Fabrizio Ferrante www.epressonline.net, 10 settembre 2012 Lo scorso 30 agosto le carceri italiane sono state un unico grande teatro ideale di rivolta non violenta, contro un regime che cancella i diritti umani e quelli costituzionalmente garantiti una volta varcato il portone d’ingresso di un istituto di pena. Sono 89 i penitenziari in cui i detenuti hanno aderito all’invito di Marco Pannella, di organizzare una mezz’ora di battitura delle sbarre per chiedere l’amnistia, una detenzione che rispetti le norme vigenti e ascolti i continui richiami che giungono dall’Europa. In 89 penitenziari italiani si è dunque svolta la “Battitura della speranza”, con code anche di diversi giorni che hanno coinvolto anche realtà della zona Flegrea, come il carcere femminile di Pozzuoli. In contemporanea, dunque, per 30 minuti da 89 istituti di pena si è levato un unico coro di sbarre percosse con qualunque oggetto in grado di essere efficace allo scopo. “Suoneremo così le nostre campane” aveva dichiarato Marco Pannella alla vigilia dell’appuntamento, aggiungendo che “dalle catacombe della civiltà che sono le carceri italiane i fedeli alla religiosità della libertà umana faranno suonare le loro campane di dolore ma soprattutto di speranza”. Catania, Cosenza, Roma Rebibbia e Regina Coeli, Napoli Poggioreale e Secondigliano, Lecce, Cagliari Buoncammino, Trento, Milano San Vittore, Genova Marassi, Venezia, Bologna e, come detto, Pozzuoli, sono solo alcune delle località in cui i detenuti hanno aderito. Una volta di più si conferma la simbiosi fra la comunità penitenziaria - che intanto registra un nuovo suicidio avvenuto a Rebibbia, quello del 71enne Luigi Del Signore - e l’anziano leader radicale in una lotta che vede impegnati i Radicali non su mere questioni umanitarie ma nel tentativo di ripristinare la legalità. Il massiccio numero di adesioni non meraviglia più di tanto, dato che spesso le visite ispettive dei parlamentari radicali finiscono per riservare vere e proprie ovazioni per Marco Pannella, sempre destinatario di cori o saluti a dir poco affettuosi da parte dei detenuti. Detenuti che, nel frattempo, sono tornati a ridosso di quota 67 mila, a fronte di una capienza legale complessiva che non supera le 45 mila unità. Del resto, già allo stato attuale in molte carceri ci si arrangia in vari modi, come ad esempio a Secondigliano dove “soggiornano” due detenuti in ogni cella, all’interno di una struttura concepita unicamente per celle da una persona sola. Oppure, per restare alla realtà napoletana, come a Poggioreale dove l’antica quanto funzionale falegnameria non viene più utilizzata per dare lavoro ai detenuti - mancano i fondi - e in molte aree un tempo adibite alla socialità si è provveduto a installare ulteriori celle. Tutto ciò non impedisce di assistere a spettacoli degradanti per la dignità umana, come dodici detenuti stipati in celle in grado di contenerne cinque o sei, quando va bene. Ad aggravare ulteriormente la situazione, il dato statistico sull’impatto della carcerazione preventiva nel numero di reclusi. La metà dei detenuti “non definitivi” - che a loro volta rappresentano circa la metà della popolazione complessiva - infatti, è destinata a ricevere l’assoluzione in giudizio con annessi risarcimenti per il periodo di detenzione indebitamente scontato. Disfunzioni che vanno a impattare sulle casse dello Stato assieme alle continue sanzioni che l’Europa ci infligge da anni per violazioni dei diritti umani nelle carceri. Proprio dalla Corte di Strasburgo potrebbe essere emessa a breve una sentenza pilota contro il nostro paese, nel tentativo di indurre il Governo a emettere misure risolutive della questione. Secondo i Radicali, solo l’amnistia e una riforma della Giustizia che preveda depenalizzazioni dei reati minori e limitazioni nell’uso della carcerazione preventiva - come proposto anche da Alfonso Papa, Pdl - può rappresentare la soluzione strutturale a un problema affrontato sempre con i cosiddetti “pannicelli caldi”. Dopo l’indulto “monco” del 2006 per la mancanza di un’amnistia in grado di sgomberare i tavoli dei magistrati - con l’effetto di quasi 200.000 prescrizioni all’anno e di dieci milioni di processi pendenti, inclusi quelli civili - e lo “svuota-carceri” che non ha svuotato nulla se non se stesso, è ora di dare risposte coraggiose e definitive. Nonostante le evidenze, dal Governo si continua a parlare di costruire nuove carceri, senza che si parli di nuove assunzioni in seno alla Polizia Penitenziaria, cronicamente in carenza d’organico. Forse all’interno dell’esecutivo si ignora - o si vuole ignorare - che molti padiglioni nuovi e funzionali già esistono in diverse realtà ma mancando i fondi per i trasferimenti dei detenuti o per assumere agenti, essi restano inutilizzati. Alla luce dei numeri e di una battitura della speranza che pochi giorni fa ha visto la partecipazione dei detenuti anche da penitenziari storicamente “controllati” dalla criminalità organizzata, non resta che prendere atto dell’ineluttabilità di un’amnistia in grado di sanare diritti umani e costituzionali, violati ormai da troppi anni nell’indifferenza delle istituzioni nazionali. Giustizia: carceri italiane, l’inferno dimenticato di Viola Nava www.ecodellevalli.tv, 10 settembre 2012 I dati concernenti il sistema carcerario italiano spaventano. Sono circa 70mila i detenuti, compressi in strutture carcerarie predisposte per ospitarne 45mila. Sul totale dei detenuti, soltanto sul 56,2% pesa una condanna definitiva, pronunciata con sentenza passata in giudicato e, pertanto, non più impugnabile. La restante parte, circa la metà, si trova in carcere in attesa di giudizio, in quanto destinataria di misure cautelari coercitive restrittive della libertà personale. Nei loro confronti vale certo la presunzione di innocenza, ma in presenza di un grave quadro cautelare, ond’evitare la reiterazione del reato, il pericolo di fuga ovvero l’inquinamento delle prove, i nostri magistrati hanno ritenuto opportuno disporre nei loro confronti la misura maggiormente afflittiva, quella cioè della custodia in carcere. Diversi i bilanci degli altri paesi europei: basti pensare che in Inghilterra sono il 16,7% i detenuti in attesa di giudizio, in Germania il 16,2%, in Spagna il 20,8%, in Francia il 23,5%. Il sovraffollamento nei luoghi di detenzione italiani ha raggiunto cifre mostruose e intollerabili, aggirandosi attorno al 148%. Un grande contributo alla situazione, allarmante già dal lontano 1983, è stato apportano dagli ultimi provvedimenti in materia di stupefacenti e immigrazione, la Legge Fini-Giovanardi e la Bossi-Fini, che hanno causato in incremento circa del 60% delle detenzioni. In Europa, soltanto la Serbia versa in una situazione peggiore della nostra. Questi i dati forniti dal progetto “Space” (Statistiques Penales Annuales) creato dal Consiglio d’Europa. Da ormai troppi anni si parla in Italia dell’esigenza di riformare la giustizia, di processi senza un epilogo, di una burocrazia eccessiva. A poco è servita la normativa introdotta nel 2001, la c.d. Legge Pinto, che secondo le intenzioni del legislatore avrebbe dovuto garantire la ragionevole durata del processo, pena l’onere per lo Stato di risarcire il danno, sia morale che patrimoniale. I tempi corrono, le istituzioni hanno altro a cui pensare, tra spread in costante salita e problemi occupazionali, ed intanto la riforma della giustizia continua a rimanere lettera morta. Si preferisce chiudere sezioni distaccate di Tribunale per ridurre i costi, senza preoccuparsi del fatto che la mole di lavoro che gravava sul tali sedi andrà inevitabilmente ad intasare quelle strutture che già prima non riuscivano a garantire ai cittadini quell’efficientismo divenuto ormai indispensabile. Nel 2011 l’attenzione del Governo in tema giustizia s’è rivolta verso altre questioni, come la separazione delle carriere di giudice e pubblico ministero, la responsabilità civile dei magistrati o l’inappellabilità ad opera del pm delle sentenze di assoluzione. Nessuno s’è preoccupato del fatto che, per esempio, in una città come Brescia - e così in molte altre - sono necessari quasi 150 giorni per ottenere un decreto ingiuntivo o due anni per un amministrazione di sostegno. E se il problema si avverte anche nei processi civili, il male maggiore si riscontra nell’ambito penale giacché si tratta di attendere giudizi relativi non tanto ad aspetti patrimonialistici quanto piuttosto alla libertà individuale, tra l’altro diritto inviolabile dell’uomo riconosciuto e garantito all’interno della Carta Costituzionale. Anche il Papa, nell’intenzione di preghiera scelta per il mese di agosto, ha chiesto di pregare “perché i carcerati siano trattati con giustizia e venga rispettata la loro dignità umana”. Il Papa “prega ogni giorno per i carcerati: in loro si identifica Gesù stesso, come ha detto lo scorso dicembre durante la visita nel carcere romano di Rebibbia, e nel Giudizio finale - ha scritto in una nota Radio Vaticana citando le parole del Pontefice - ci sarà una domanda sull’attenzione rivolta ai prigionieri”. Le statistiche, per quanto accurate, non sono tuttavia in grado di descrivere al meglio il dramma delle carceri e troppo poco si parla di un argomento di primario interesse quale questo. La dignità umana credo debba porsi al vertice della gerarchia delle priorità: quella degli istituti di pena è una questione di prepotente urgenza sia sul piano costituzionale che su quello civile. Celle talmente affollate da non consentire ai detenuti di poter stare contemporaneamente tutti in piedi, water accanto al tavolo dove si mangia, assenza di muri divisori e pavimentazioni, condizioni igieniche disastrose, bisogni fatti a vista davanti a tutti, brande incollate al soffitto: questo e molto altro è quel che si può vedere in una prigione italiana. In molti istituti di pena non vengono rispettati i parametri di legge e i detenuti sono costretti a condizioni al limite dell’umano, ma tale notizia non sembra fare troppo scalpore. Ad oggi sono stati 36 i detenuti che da gennaio hanno deciso di togliersi la vita e più di 100 sono stati quelli morti in carcere. Dal 2002 al 2012 il suicidio è stato la prima causa di morte, perché, sì, si può anche morir di carcere. Ne sapevano qualcosa anche i 7 agenti della Polizia Penitenziaria che quest’anno sono ricorsi al suicidio. A tutto ciò si aggiunga il fatto che nel giugno del 2011 il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha comunicato che gli incentivi alle assunzioni di detenuti, da parte di cooperative sociali e imprese, previsti dalla legge 22.6.2000, n. 193, c.d. Smuraglia, non sarebbero stati più operativi essendo esaurito il budget a disposizione per la copertura dei benefici fiscali. Quanto alla situazione del bresciano, Canton Mombello ha mostrato ormai da tempo le proprie inadeguatezze: attraverso proteste, presidi e scioperi della fame i detenuti hanno cercato di far sentire la loro voce, ma, per ora, il loro sforzo s’è rivelato vano. Nel mese di luglio, presso la Corte d’Appello di Brescia, alla presenza della Presidente, del Procuratore Generale, della Magistratura di Sorveglianza, della Direzione della Casa Circondariale cittadina e dei rappresentanti del Foro bresciano si è stato aperto un confronto sulle problematiche connesse allo strutturale sovraffollamento carcerario. In attesa dei necessari e improcrastinabili interventi di edilizia penitenziaria che, mediante il contributo sinergico di tutti gli operatori istituzionali competenti, si auspica possano trovare realizzazione in tempi ragionevoli, si è convenuto a conclusione dell’incontro che la cause principali del sovraffollamento devono essere ravvisate nell’eccessivo ricorso alla misura della custodia cautelare e nel fatto che, essendo la maggior parte dei detenuti stranieri clandestini, si riduce sensibilmente la possibilità di fare ricorso alle cc.dd. misure alternative. E, grazie al cielo, in Italia la pena detentiva assolve (o, per lo meno, dovrebbe assolvere secondo le intenzioni del legislatore) a funzioni rieducative, essendo finalizzata a favorire il reinserimento sociale del reo. L’art. 27, comma terzo, della Costituzione, infatti, recita: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. A pochi interessano le condizioni dei detenuti, si preferisce ricorrere a luoghi comuni, del tipo che “se la sono cercata”. Una moderna ed efficace concezione di sicurezza, tuttavia, non coincide solo con opzioni securitarie e custodiali ma anche e soprattutto con reali programmi d’inclusione sociale, in grado di garantire il contenimento della recidiva come statisticamente comprovato e, in ultima analisi, il perseguimento della finalità rieducativa della pena. Irrinunciabile, pertanto, è l’apporto della società civile, non potendo il problema carcerario essere confinato ai soli protagonisti diretti, nel senso che ineludibile deve ritenersi il contributo di tutte le forze sociali, in primis delle istituzioni. E se “dallo stato delle carceri si misura il livello di civiltà di un Paese”, come ha detto il Ministro della Giustizia Paola Severino sulla scia delle parole di Dostoevskj, l’Italia non può astenersi dal fare i conti con una cruda realtà. Giustizia: il rispetto delle regole in uno Stato premiale per alcuni e totalitario per altri di Sandro Padula Ristretti Orizzonti, 10 settembre 2012 L’indifferenza verso chi non rispetta le regole è alimentata da uno Stato premiale per alcuni e totalitario per altri. In Italia la diffusa indifferenza verso chi non rispetta le regole ha diverse cause. Nella patria del diritto (scritto) e quindi della civil law, dominante a livello mondiale, convive senza dubbio “una singolare forma di common law, in virtù della quale molti decidono che una certa norma può essere ignorata.” (“Perché siamo indifferenti a chi viola regole e leggi” di Giovanni Belardelli, Corriere della Sera, 8 settembre 2012). Il problema più grave è però un altro: dagli anni 70 e soprattutto con la cultura neoliberista sviluppatasi a partire dal decennio successivo, l’Italia è stato un paese all’avanguardia nel configurare diritti e leggi premiali che favoriscono i comportamenti più discutibili e i poteri più forti. L’elevata evasione fiscale e la mancata osservanza dei vincoli edilizi esistono rispettivamente non solo a causa di un sistema tributario iniquo e di una bassa educazione al rispetto ecologico dell’ambiente naturale e sociale ma anche da ipocrite perdonanze statuali che, dal 1973 in poi, si sono caratterizzate sotto forma di condoni fiscali e condoni edilizi. I condoni fiscali del 1973 col governo Rumor IV, del 1982 col governo Spadolini I, del 1991 col governo Andreotti VI e del 2009 col governo Berlusconi IV (lo “scudo fiscale”), il condono edilizio del 1985 col governo Craxi I, il condono edilizio e il concordato fiscale del 1995 col governo Dini e i condoni edilizi e fiscali del 2003 col governo Berlusconi II dimostrano che è proprio lo Stato ad essere tollerante verso i principali responsabili dell’evasione fiscale e del non rispetto dei vincoli edilizi. Non c’è quindi nulla di cui meravigliarsi se, in base ad una verifica della Guardia di Finanza, nella città di L’Aquila del dopo-terremoto certi proprietari di case si sarebbero messi d’accordo “con un’impresa per dichiarare lavori non effettuati (il totale rifacimento del tetto invece della risistemazione solo parziale, reinstallazione di ponteggi in realtà mai avvenuta e così via) ottenendo in tal modo un maggiore rimborso da parte dello Stato” (ibidem). Qualcuno invece sembra allarmato dalla circostanza per cui, rispetto a tale scandalo, “su 73 pratiche esaminate, quelle che conterrebbero dati intenzionalmente falsi sarebbero più di un terzo” (ibidem). La percentuale non è piccola ma, stando alla cultura della perdonanza statuale di certi crimini economico-sociali, non è nemmeno da considerarsi “molto elevata”. Solo in piccola parte è vero che in Italia, come scrisse alcuni anni fa il giurista Sabino Cassese, la distinzione fra lecito e illecito sia stata sostituita “da più complesse scale di obblighi, per cui un comportamento può essere obbligatorio, raccomandato, permesso, riprovato, vietato” (Lo Stato introvabile, Donzelli). È vero piuttosto e soprattutto che la distinzione fra lecito e illecito è stabilita e ristabilita di continuo da uno Stato postmoderno, premiale verso una parte e arrogante verso l’altra. Gli illeciti tributari ed ecologici costituiscono alcuni fra i reati amnistiati con ritmo periodico dai governanti per il banale motivo che questi ultimi ricevono l’appoggio e il consenso dei responsabili di quei crimini, non a caso afferenti per lo più ai ceti alti e medi. Di condoni per la moltitudine imprigionata, per lo più appartenente ai ceti bassi e poveri della società, non se ne parla più dall’indulto del 2006, che per altro fu selettivo e cancellabile in caso di recidiva. Eppure, da quel tempo ad oggi la situazione, in questi sei lunghi anni, è nettamente peggiorata nelle carceri ed il numero dei detenuti ha raggiunto la cifra di 67 mila detenuti di fronte ad una capienza di posti letto pari a circa 45 mila. La realtà, più che il pensiero di qualcuno, pone il problema di come e quando realizzare una vera e propria amnistia. Risulta quindi sbagliato affermare, come ha fatto il responsabile delle Riforme del Pd Luciano Violante al meeting di Comunione e Liberazione, che le amnistie ai detenuti sono roba da Stato fascista e pre-repubblicano. Senza dubbio gli antifascisti e i “comuni” scarcerati dalle amnistie del ventennio mussoliniano non hanno mai avuto l’idea di rifiutare quei benefici. Al loro posto nessuno degli odierni politici italiani avrebbe preferito restare in galera e quindi le critiche di Violante alle amnistie di quel tempo non hanno alcun senso logico, politico, filosofico, giuridico, etico e culturale. Ciò di cui bisogna discutere, in tema di carceri e giustizia, è invece del presente e al presente. In questa fase storica - ribaltando il ragionamento di Violante e rimettendo le cose con i piedi per terra - l’assenza di amnistie per i detenuti è la più vergognosa caratteristica di uno Stato che, dopo aver stravolto e differenziato la civil law (peggiorando perfino il vigente codice penale fascista), non ha l’intelligenza di superare le logiche postmoderne, premiali e neomedievali del diritto contemporaneo. Non si tratta di fare le amnistie per i detenuti con lo stesso ritmo dei condoni fiscali e dei condoni edilizi. Si tratta di ragionare con un cervello collettivo, considerando la concreta realtà in cui viviamo, con il massimo rispetto dell’altrui dignità e con quello spirito libertario senza il quale l’Italia sarà destinata ad una decadenza totale. Ad ogni livello. Giustizia: il pm Antonio Ingroia: “sì a un’amnistia mirata, contro sovraffollamento” Ansa, 10 settembre 2012 La tragica situazione delle carceri italiane è stata al centro dell’intervento di Antonio Ingroia, procuratore aggiunto di Palermo, a Radio Radicale. “Io solitamente sono contrario alle amnistie generalizzate, e sono invece favorevole a una forte depenalizzazione”, ha detto il magistrato, “ma la situazione è grave, il mondo carcerario sta scoppiando, in molti casi i detenuti sono tali per reati bagatellari, certo di non grande allarme sociale”. “Dunque una amnistia mirata sui reati meno gravi, associata a una robusta depenalizzazione, potrebbe rendere più efficiente il sistema penale”. Giustizia: Cicchitto (Pdl); clamorosa violazione della legge nei colloqui in carcere Adnkronos, 10 settembre 2012 “Dal Mattino di oggi apprendiamo maggiori particolari di una verbalizzazione fatta da un ufficiale di Polizia penitenziaria dei colloqui avuti dagli onorevole Sonia Alfano e Lumia con il camorrista Bidognetti, in dispregio della legge che regola le visite dei parlamentari ai detenuti”. Lo afferma il presidente dei deputati Pdl Fabrizio Cicchitto. “Quello che emerge - continua – è di una gravità straordinaria, sia perché è addirittura clamorosa la violazione della legge sia perché questa irresponsabile iniziativa ha consentito, a parere dei magistrati della Dda di Napoli, al capo-camorrista Bidognetti di inviare messaggi obliqui e ricattatori non si sa bene a chi”. “Questi - aggiunge - sono i risultati di iniziative che, invece di essere verbalizzate, avrebbero dovuto essere tempestivamente bloccate mentre i colloqui erano in corso, proprio perché la violazione della legge è clamorosa. E la presenza degli agenti di polizia penitenziaria è motivata proprio dalla necessità di fare in ogni caso rispettare la legge nel corso dei colloqui. Da quello che riferisce Il Mattino si è arrivati fino al punto che uno dei due parlamentari ha consigliato a Bidognetti di “rivolgersi a un bravo chirurgo”, cioè al “magistrato giusto”. Per Cicchitto “tutto ciò dimostra che siamo arrivati in un certo senso al punto estremo dell’esercizio del giustizialismo che non viene più portato avanti solo da magistrati cosi esplicitamente politicizzati come coloro - Ingroia solo per fare un esempio - che oggi alla Versiliana partecipano alla Festa del loro giornale, ma anche da alcuni parlamentari che lavorano nelle carceri sul piano investigativo”. “Tutto ciò però - prosegue il capogruppo Pdl alla Camera - chiama in causa e in modo assai rilevante il ministro della Giustizia e il direttore del Dap che hanno la responsabilità di assicurare il rispetto della legge e di intervenire, non con frasi di circostanza, quando essa viene violata. Questa violazione, infatti, costituisce un vulnus non solo alla legge ma allo stato di diritto in quanto tale. Infatti nel momento in cui i parlamentari appartenenti a partiti o gruppi giustizialisti non solo possono, come è giusto, svolgere liberamente la loro azione politica, ma addirittura la traducono in attività investigativa, è evidente che qualcosa di profondo si è rotto nella legittimità del funzionamento dello Stato. Ci ripromettiamo - conclude - di investire del problema per la sua gravità non solo l’autorità di governo, ma anche l’autorità massima dello Stato che presiede il Csm”. Lettere: 150 Tavor… per non tirare a campare di Francesco Lo Piccolo vocididentrojournal.blogspot.it, 10 settembre 2012 Chissà quante volte si è sentito dire “fatti la galera, non rompere”. Dopo due anni di carcere per una serie di truffe, senza più speranze e illusioni, con un fine pena molto lontano negli anni, il mio amico D.S., detenuto a Vasto, ha inghiottito 150 pillole tra Tavor e altri farmaci. Una scorpacciata di tranquillanti per farla finita una volta per tutte, per non tirare a campare, per smettere di campare in una cella, in un posto di merda, senza futuro. D.S. per fortuna si è salvato, e dopo due giorni di incoscienza, ha riaperto gli occhi. È intubato e non può parlare, ma è vivo. Gli ho scritto una lettera ed è stato molto difficile perché se prima quando interveniva e partecipava ai nostri laboratori di scrittura spesso mi metteva angoscia, adesso D.S. col suo gesto mi ha letteralmente mandato in crisi. Perché indirettamente mi ha detto che quello che faccio, quello che fa Voci di dentro, non basta. Certo spesso il nostro operare come volontari mostra e dà speranze a gente senza nemmeno i sogni, ma in realtà troppe volte illude. A dire il vero non sempre l’illusione è negativa, anzi spesso è una molla capace di vincere paure e di creare desideri, insomma fa andare avanti. Ma per chi vive 24 ore su 24 dentro una cella, la disintegrazione fisica e psicologica è tale che la molla scatta al contrario, e l’illusione-suggestione che in molti casi può guarire, lì dentro invece poco a poco ti strozza e ti uccide. Qualche cosa abbiamo fatto, anzi in alcuni casi molto; per alcuni detenuti siamo anche riusciti a costruire e ricostruire un percorso di vita fatto di studi e anche di lavoro, ma sono gocce nel mare. Ed è un mare in burrasca quello delle carceri, un mare in tempesta dove la pena non ha alcun senso rieducativo, è inutilmente coercitiva e mortificante, mette insieme malati e sani, distrugge dignità, e toglie vite umane. Il fatto è che D.S. ha messo a nudo un mio nervo scoperto: il suo gesto- il suo per fortuna non riuscito suicidio e quello di tanti altri invece riusciti- mostra la realtà carceraria per quello che è: un posto sbagliato, una costruzione antiquata e barbara. La mia lettera inviata a D.S. chiudeva così: “[…] ma, caro amico, arrendersi non serve, tirare la spugna ancora meno. Siamo in ballo e bisogna ballare perché noi sappiamo bene quello che va fatto affinché la vita, anche quella dentro una cella, non sia un tirare a campare e affinché siano altri e non noi gli uomini della resa, affinché siano quelli che pensano “fatti la galera” coloro che devono rimangiarsi le loro convinzioni…[…] dammi una mano a vincere, per me, per te, per tutte quelle persone che spesso finiscono in carcere, come ha sostenuto C.M. Martini, per ignoranza, mancanza di realismo, irresponsabilità, asocialità, istinti negativi, condizioni di abbandono, cattiva educazione. Insomma non sempre per loro colpa. L’altro giorno quando sono venuto a trovarti con Mascia ti ho lasciato una frase, “un abbraccio” ho scritto sulla copertina di Voci di dentro. L’ho lasciata a un agente che era di guardia alla tua stanza d’ospedale. Una brava persona. Anche per lui, per gente come lui, io non voglio mollare”. Teramo: progetto inclusione, 14 detenuti diventano baristi Asca, 10 settembre 2012 Si tratta di 14 detenuti, con età compresa tra i 17 ed i 21 anni, che saranno i protagonisti del progetto formativo promosso dalla Regione Abruzzo, e attuato dalla società Eventitalia, la cui finalità è quella di formare e avviare a un percorso professionale riabilitativo, 14 giovani detenuti abruzzesi. L’intervento formativo, dal titolo “Programma di inclusione globale per adolescenti autori di reato”, sarà presentato ufficialmente mercoledì 12 settembre, alle 10.30, nella sala consiliare del Comune di Teramo. Alla conferenza stampa di presentazione parteciperanno l’assessore regionale alle Politiche del lavoro Paolo Gatti, l’assessore alle Politiche sociali del Comune di Teramo Giorgio D’Ignazio, l’assessore alle Politiche sociali del Comune di Giulianova Nausica Cameli, il presidente della Comunità Montana del Gran Sasso, Nando Timoteo, e il progettista Gianni di Giacomantonio. Lecce: Pdl; il carcere è invivibile, il Presidente Vendola dalle parole passi ai fatti… www.ilpaesenuovo.it, 10 settembre 2012 “La grave situazione delle carceri pugliesi diviene drammatica emergenza nel carcere di Lecce dove ai detenuti non viene garantita dalla Regione una adeguata assistenza sanitaria. Quotidianamente le cronache denunciano disservizi e anche il Vescovo di Lecce in proposito ha lanciato un monito alle Istituzioni competenti che, però, sembra essere purtroppo caduto nel nulla”. La nuova denuncia sulla situazione presente a Borgo San Nicola arriva stavolta dal capogruppo del Pdl alla Regione Puglia, Rocco Palese, che chiede quindi l’intervento del Presidente Vendola: “Da sempre - prosegue Rocco Palese - a parole, Vendola dice di voler mettere i deboli al centro delle politiche del suo Governo ma ormai da sette anni i fatti e gli atti sono diametralmente opposti. Chiediamo quindi un intervento urgente del Presidente sull’assessore alla Sanità e sul Direttore Generale della Asl di Lecce, che peraltro continua a promettere interventi di cui ad oggi non vi è traccia e preannunciamo - avverte il capogruppo del Pdl - che chiederemo un’audizione in Commissione Sanità dei rappresentanti del Sappe, da sempre attento e presente su questo tema, dell’assessore Attollini e del manager della Asl di Lecce, affinché in brevissimo tempo si possa fare il punto sui numeri dell’emergenza e far in modo che la Regione, come previsto dalla Legge, garantisca l’assistenza sanitaria anche ai detenuti”. Caltanissetta: Osapp; nella Casa Circondariale intollerabili condizioni igieniche Adnkronos, 10 settembre 2012 “Presso la Casa Circondariale di Caltanissetta le condizioni igieniche delle sezioni detentive sono al limite della tollerabilità”. A dichiararlo è il Vice Segretario Generale dell’Osapp Domenico Nicotra che denuncia le scarsissime condizioni igieniche in cui il personale di Polizia Penitenziaria nisseno è costretto ad operare. “Infatti, continua il sindacalista, la vetustà dei locali, per i quali anche la manutenzione ordinaria è diventata un miraggio, il sovraffollamento, la presenza di molti detenuti fumatori allocati in celle adiacenti alle postazione destinate al personale di Polizia stanno rendendo il quotidiano e lungo lavoro (turni di otto ore) dei Poliziotti un’agonia permanente”. “A questo, continua Nicotra, si deve aggiungere che i servizi igienici destinati ai Poliziotti in servizio sono assolutamente paragonabili a delle vere e proprie “latrine”. Conclude il sindacalista che “è necessario e urgentissimo intervento per ridare dignità al personale di Polizia Penitenziaria e per questo ha già interessato tutti gli organi competenti dell’Amministrazione Penitenziaria per la risoluzione definitiva delle scarsissime condizioni igieniche in cui attualmente si opera nell’Istituto nisseno”. Pisa: Sappe; agente aggredita in carcere, personale è spesso lasciato da solo www.gonews.it, 10 settembre 2012 Un’agente della polizia penitenziaria, in servizio al carcere di Pisa, è stata aggredita ieri da una detenuta straniera, di origine Rom, dovendo poi ricorrere alle cure dei sanitari. È quanto riferisce Donato Capece, segretario del sindacato di polizia penitenziaria Sappe spiegando che mentre la poliziotta “passava un piatto tramite lo spioncino del cancello, la detenuta l’ha afferrata e l’ha graffiata alle braccia e al petto”. “Questa ennesima aggressione ci preoccupa” scrive in una nota Capece che “torna a chiedere al Governo urgenti provvedimenti per impedire l’implosione del sistema” e rilancia il problema della carenza di organico, non solo tra gli agenti. “Spesso, come a Pisa - afferma -, il personale di polizia penitenziaria è stato ed è lasciato da solo a gestire all’interno delle nostre carceri moltissime situazioni di disagio sociale e di tensione, 24 ore su 24, 365 giorni all’anno. Le tensioni in carcere crescono non più di giorno in giorno, ma di ora in ora: bisogna intervenire tempestivamente per garantire adeguata sicurezza agli agenti e alle strutture ed impedire l’implosione del sistema”. Genova: Uil Penitenziari; a Marassi dal lato stadio, lancio di telefonino, droga e altro 9Colonne, 10 settembre 2012 Ieri mattina dal lato dello stadio Marassi è stato lanciato all’interno del carcere, nell’area passeggi II Sezione, un involucro contenente un telefonino con scheda sim, 10 gr. di sostanza stupefacente ed alcune pastiglie, che si presume siano ecstasy. “La manovra non è sfuggita agli attenti agenti della polizia penitenziaria che - rivela Fabio Pagani Segretario Regionale della Uil Penitenziari - hanno recuperato, attraverso una immediata operazione di “bonifica”, l’involucro prima che i detenuti in quel momento al passeggio (circa cento) potessero impossessarsi del contenuto.” Questo episodio conferma l’assoluta necessità di ripristinare la Sala Regia, quale presidio di sorveglianza remota. “Ancor più - sottolinea il sindacalista della Uil - in una condizione di iper-affollamento. Oggi a Marassi si contano 797 detenuti a fronte di una capienza regolamentare prevista in 497 e se non vi sono sistemi di sicurezza adeguati potrebbero determinarsi situazioni ad alto rischio. Anche in concomitanza di eventi sportivi la decisione di utilizzare il piazzale davanti al carcere quale terminal per i pullman è un fattore di grave rischio per la sicurezza e l’incolumità pubblica. Nei prossimi giorni - conclude Pagani - valuteremo se sia il caso di investire Sindaco e Prefetto sulla questione. Di certo non sempre si è nelle condizioni di sequestrare i vari oggetti e le varie sostanze che vengono lanciate dall’esterno verso l’interno del carcere. Occorre, quindi, non solo ripristinare la Sala Regia (i cui fondi ci risultano già stanziati) quanto prevedere anche ulteriori barriere atte ad impedire i lanci dall’esterno”. Isili (Nu): il progetto “Adotta una Storia” presenta “Io mi racconto” Comunicato stampa, 10 settembre 2012 Giovedì 13 settembre alle ore 9.30 la Casa di Reclusione di Isili in collaborazione con l’associazione culturale Il Colle Verde, Arkadia Editore, il presidio del libro Carpe Liber della Casa di Reclusione di Isili, il marchio Galeghiotto del progetto Colonia, presenta “Io mi racconto” del progetto Adotta una Storia. Il progetto consiste proprio nell’adottare la storia del detenuto (persona) e trasfigurare, spalancando il cassetto delle emozioni dello stesso, il suo vissuto attraverso l’arte della scrittura. Il progetto è innovativo nel suo genere e per la prima volta in un carcere in Italia i detenuti avranno a disposizione le penne degli scrittori per raccontare e raccontarsi. Gli scrittori, invece dovranno ascoltare con attenzione la storia del detenuto per poi provare a ridisegnarne, attraverso il racconto, una traccia di ampio respiro alla libertà di parola degli ospiti della Casa di Reclusione di Isili, che leggeranno con attenzione e curiosità il “prodotto finito” e dovranno scrivere la prefazione e la post-prefazione delle opere. Insomma, il detenuto diventa protagonista della storia ma anche il primo critico. L’emozioni rivelate ad una decina di scrittori divengono così racconto, trasposizione di vita, e allo stesso tempo gioco di relazioni che si intrecciano. Il gioco consiste nel realizzare le opere entro una decina di giorni e l’obiettivo è quello di confezionare, con storie minimaliste, un universo da “scoprire e liberare”. Il detenuto è protagonista nel scegliere lo scrittore che ricostruirà il contenuto del cassetto nella raccolta antologica che verrà edita dalla Casa Editrice Arkadia prima di Natale. Progetto “Adotta una Storia” Un giorno, un detenuto, congedandosi da un colloquio, nel stringermi la mano dice: “Noi detenuti scriviamo tanto e qualcuno di noi vince i premi. Ma vorrei, un giorno, poter raccontare la mia storia ad uno scrittore, uno scrittore vero e provare a leggere quello che lui riuscirebbe a tirare fuori dalla mia vita”. Da questa dichiarazione d’amore per le storie minime siamo partiti e abbiamo provato a costruire qualcosa che da nessuna parte è stato fatto. Il detenuto che legge i libri, che incontra gli scrittori, che ascolta quello che dicono e che poi sceglie il suo scrittore e gli racconta la storia. In una giornata dentro un carcere. Il detenuto e lo scrittore che passeggiano in un non luogo alla ricerca di luoghi da scoprire e da scolpire con le parole. Ma è anche un gioco. Serio. Non si vince nulla. Ma i racconti delle vite raccontate agli scrittori diventeranno un libro e con i proventi di quel libro i detenuti, proprio loro, adotteranno un ragazzo, uno dei loro figli che potrà acquistare libri e continuare a studiare, imparando, con la lettura a rimanere libero. Volevamo fare una cosa nostra, forte, coriacea, densa, di una terra che sa essere ospitale non solo con i turisti ma anche con i detenuti. Abbiamo deciso per una bella flotta di scrittori sardi che hanno almeno pubblicato un libro con una casa editrice e che racconteranno le storie. Le loro storie. Un misto di colori forti d’Africa, tenui di ragazzi dell’est, caldi di quelli sudamericani. Tutto questo per raccontare il mondo. Perché dalle storie piccole nascono le passioni. Per informazioni: ilcolleverde(et)hotmail.it oppure tel. 346-1257076 Giampaolo Cassitta, scrittore, educatore per detenuti Dirigente Ufficio detenuti e trattamento del Provveditorato regionale della Sardegna Porto Azzurro (Li): i detenuti portano “Moby Dick” in carcere Il Tirreno, 10 settembre 2012 Qualcuno lo ha definito un respiro dell’anima e un appuntamento irrinunciabile per i pochi ammessi tra le mura del carcere di Porto Azzurro ogni fine estate. Quelli convinti della possibilità di rieducazione e reinserimento futuro nella società per gli ospiti della casa di reclusione elbana. Pur tra mille difficoltà il Carro di Tespi, il laboratorio teatrale che vanta il patrocinio della Regione e la collaborazione con il teatro Goldoni di Livorno, porta da 20 anni i detenuti a esprimersi nei palcoscenici improvvisati nel piazzale, dove prima sorgevano le officine a cui lavoravano i detenuti. Lo spettacolo di quest’anno era liberamente ispirato al Moby Dick di Melville. “Il teatro si impegna a fondere una comunicazione che sia il più globale possibile - ha spiegato la regista, Manola Scali - perché la popolazione detenuta è composta da molti extracomunitari. Abbiamo quindi scelto un linguaggio che ci abbia avvicinato a culture che non conosciamo”. Il lavoro è nato da riflessioni dei detenuti sulle letture sacre, dal Corano alla Bibbia alle poesie sufi. Nella scenografia essenziale del teatro sperimentale i 22 detenuti insieme alle sette attrici del Goldoni si sono concessi ai loro spettatori con uno spettacolo complesso e intimistico con testi che, intervallati da musiche e salmi, ha accompagnato lo spettatore in un viaggio fantastico tra religione e drammatizzazione di quella che diventa la metafora delle vicende umane e degli scopi che ognuno di noi persegue in modi diversi. “L’unica libertà che resta a questi ragazzi è quella interiore - ci ha detto Bruno Pistocchi che ha curato i testi dello spettacolo - e il teatro rappresenta una di queste forme. La ristrettezza che vivono quotidianamente li porta a cercare ogni piccolo spiraglio che permetta di fare qualcosa di diverso”. Immigrazione: il ministro Severino “stroncare la tratta di migranti nei Paesi d’origine” Corriere della Sera, 10 settembre 2012 Caro direttore, l’orrore dell’ennesima strage consumata nel buio della notte nei pressi di Lampedusa suscita in ognuno di noi sentimenti di sdegno e di umana solidarietà. Non posso fare a meno di pensare con raccapriccio agli ultimi istanti di vita di quegli uomini, donne, bambini passati dall’illusione di una vita migliore alla disperazione di una morte orribile. Né riesco ad allontanare il pensiero da quei sopravvissuti che hanno cercato in ogni modo di portare in salvo con sé mogli, fratelli, figli e li hanno visti sparire nel buio della notte a pochi metri dall’approdo. Sono certa che questi sentimenti siano condivisi dal popolo italiano, che ben prima di altri ha vissuto il dramma dell’emigrazione; così come sono certa che altri, molto meglio e più appropriatamente di me sapranno evocare il ricordo di quell’esercito di annegati nel Mediterraneo che negli anni si sono affollati intorno ad un sogno impossibile. Vi è però un aspetto di ciò che è accaduto l’altra notte e tante altre notti, meritevole di un approfondimento anche sotto l’aspetto giuridico. Il sospetto che coloro che hanno organizzato questa spregevole tratta, sfruttando povertà e di degrado, non si siano fatti scrupolo di buttare in mare le decine di persone che avevano stipato a bordo. Questa considerazione consente di concentrare il fuoco dell’attenzione sul vero cuore del problema dell’immigrazione: colpire efficacemente coloro che organizzano questo traffico, intervenendo alla radice del fenomeno. In tal modo si eviterebbe che gruppi di persone senza scrupoli, dopo aver tolto a chi già aveva poco i risparmi raccolti a costo di immensi sacrifici, non esitino a togliere loro anche la vita. L’ordinamento giuridico italiano è già dotato di un eccellente strumentario volto a colpire il fenomeno della tratta e dello sfruttamento di emigranti; si tratta di norme moderne, adatte a cogliere tutti gli aspetti di questo crimine ed a sanzionare con pene molto aspre gli autori del reato, tutelando efficacemente le vittime. Il problema va dunque affrontato in primo luogo applicando queste norme, affinando le capacità investigative di chi deve distinguere tra scafisti e trasportati, sollecitando l’utilizzo di ogni energia e mezzo investigativo per l’individuazione dei colpevoli, inducendo le vittime a contribuire alle indagini con quei sistemi premiali che la nostra disciplina in materia opportunamente prevede. Il problema va poi inquadrato in un più ampio contesto internazionale ed affrontato alla radice nei Paesi nei quali la tratta nasce e viene organizzata. E lì che il fenomeno criminoso andrebbe affrontato e stroncato, prima di produrre i devastanti effetti che sono sotto gli occhi di noi tutti. È lì che le sensibilità dei Paesi di origine sono state sempre sollecitate da tutti gli ultimi governi italiani. È lì che l’attuale Governo, pur tra le mille difficoltà derivate dai postumi della primavera araba e delle guerre che ne sono conseguite, mantiene una task force che sta cercando di ricostruire intese e patti internazionali. È lì che dovrà dirigersi l’attenzione di quelle forze di polizia internazionali sul cui ulteriore sviluppo ha tanto lavorato la Ministro Cancellieri. È lì che si dovrebbe richiamare l’attenzione dell’Europa affinché, nel rinnovato spirito ricostruttivo che oggi la anima, ci aiuti a far ridiventare il Mediterraneo quel “mare nostrum” che accomunava genti e popoli diversi e non un luogo in cui si consumano orrendi crimini in danno dei più deboli. Paola Severino Ministro della Giustizia Afghanistan: al carcere di Bagram oggi passaggio di consegne tra autorità Usa e afghane Adnkronos, 10 settembre 2012 Storico passaggio di poteri oggi tra le autorità militari americane e quelle afghane per il controllo del carcere di Bagram, 40 chilometri a nord di Kabul, dove sono detenuti circa tremila combattenti talebani e sospetti terroristi. Il provvedimento rientra nell’accordo raggiunto tra Washington e Kabul sul trasferimento delle carceri afghane alle autorità locali dopo il ritiro delle forze Nato dal Paese alla fine del 2014. Come riferisce la Bbc, mentre è in corso una cerimonia che sancisce il trasferimento di poteri, le autorità afghane hanno annunciato che i detenuti del carcere sono ora sotto la responsabilità di Kabul. Il carcere di Bagram è noto come la “Guantanamo dell’Afghanistan” per le numerose denunce di abusi che si sarebbero svolti all’interno della struttura. Rinominata “Centro di detenzione di Parwan”, il carcere di Bagram è collocato all’interno di una delle principali basi Nato in Afghanistan. Tra i tremila detenuti, anche una cinquanta di stranieri che non saranno passati in gestione alle autorità afghane, sempre in base a quanto prevede l’accordo firmato a marzo. L’esercito americano intende comunque mantenere il controllo su una parte delle prigioni in Afghanistan e su alcuni detenuti. Gli Usa temono che se non dovessero essere più loro i responsabili, alcuni detenuti di alto livello potrebbero essere torturati o rilasciati. Un atteggiamento che ha indisposto il presidente afghano Hamid Karzai, che ha rivendicato invece il pieno controllo delle sue autorità come una questione di sovranità nazionale. Sudan: a “Tg1-Fà la cosa giusta” appello per salvare la vita di Layla Il Velino, 10 settembre 2012 Layla Ibrahim Issa Jumul, 23 anni, sudanese, è stata condannata a morte tramite lapidazione. Accusata di adulterio è detenuta nel carcere di Omdurman, Sudan, con il figlio di sei mesi. Dopo il successo della mobilitazione internazionale contro la lapidazione di Intisar Sharif - anche lei accusata di adulterio e in isolamento con il figlio di 5 mesi e poi liberata - l’associazione Italians for Darfur rilancia la sfida con una raccolta di firme per liberare Layla. A Tg1-Fà la cosa giusta, a cura di Giovanna Rossiello, in studio Antonella Napoli, giornalista, presidente di Italians for Darfur e storie di donne fustigate, raccolte dal corrispondente Rai a Nairobi Enzo Nucci. Finora per salvare la vita di Layla sono state raccolte circa 9.500 firme. Etiopia: liberati i due giornalisti svedesi detenuti da 14 mesi, per grazia presidenziale Tm News, 10 settembre 2012 I due giornalisti svedesi detenuti da 14 mesi in Etiopia per “sostegno al terrorismo”, dopo essere stati arrestati in compagnia di ribelli, sono stati liberati. Lo ha annunciato il portavoce del ministero degli Esteri etiope, Dina Mufti, senza precisare dove si trovano. I due giornalisti sono stati liberati nell’ambito di una grazia presidenziale in occasione del nuovo Anno etiope che si celebra l’11 settembre. “Si, sono stati liberati”, ha dichiarato Dina Mufti, interpellato dall’Afp, a proposito dei due giornalisti, Martin Schibbye e Johan Persson che, incarcerati dal loro arresto nel luglio 2011, erano stati condannati nel dicembre successivo a 11 anni di reclusione. Una conferenza stampa del governo etiope era prevista oggi a fine giornata sui dettagli della grazia presidenziale che dovrebbe interessare complessivamente circa 2.000 persone. Una fonte governativa etiope aveva in precedenza riferito all’Afp in condizione di anonimato che il Primo ministro Meles Zenawi, morto a metà agosto e capo dell’esecutivo, aveva “approvato la liberazione dei due giornalisti svedesi prima di essere ricoverato in ospedale”. I due erano stati arrestati nell’Ogaden, regione del sud est del Paese abitata prevalentemente dalla minoranza somala, insieme a dei ribelli del Fronte di liberazione nazionale dell’Ogaden, dopo essere penetrati illegalmente in territorio etiope dalla vicina Somalia.