Giustizia: il “piano carceri” bocciato dalla Corte dei conti di Antonio Maria Mira Avvenire, 3 ottobre 2012 Carceri finite e ancora non utilizzate e altre abbandonate dopo costose spese di ammodernamento; il 10 per cento degli agenti penitenziari non utilizzato negli istituti detentivi; l’enorme spesa per i “braccialetti elettronici”, circa 10 milioni l’anno dal 2001 al 2011, per appena 15 applicati a detenuti “domiciliari”. Una “notevole sproporzione”, eppure si intende rinnovare il contratto dal costo “elevatissimo” tanto più “in un momento in cui i risparmi della spesa pubblica sono un’assoluta necessità per le finanze e per la ripresa del Paese”. È durissima la Corte dei Conti nella delibera, approvata lo scorso 13 settembre, sulle “Situazioni di criticità” nella “gestione delle opere di edilizia carceraria”. Partiamo dalle carceri non ancora utilizzate. Quello di Rieti, finalmente aperto a maggio grazie al trasferimento di agenti da altri istituti. “Un evento positivo - commenta al Corte, che pone fine ad un evidente spreco di risorse considerato che la costruzione è costata complessivamente 48,5 milioni, è iniziata nel dicembre 2004 ed è stata terminata nel 2008-inizio 2009, restando quindi inutilizzata per tre-quattro anni”. Ancora bloccato il carcere di Reggio Calabria-Arghillà, “dopo le costose progettazioni e realizzazioni effettuate, malgrado la consapevolezza di non poter aprire tale struttura stante la mancanza, ben nota di indispensabili, adeguati collegamenti stradali”. È stato necessario un nuovo finanziamento, “non certo modesto”, commenta la Corte, di 21,5 milioni, ridotto a 10,7, che dovrebbe permettere la realizzazione della strada. Ci sono poi le Case mandamentali, una decina, alcune nuove, altre rinnovate con costosi lavori di adeguamento, ma destinate all’abbandono. Ora, invece, le si vuole utilizzare come Case circondariali, ma, avverte la Corte, “i costi di questi interventi non appaiono invero sempre contenuti” ma almeno “le spese della trasformazione e del completamento servirà comunque a far recuperare le risorse che erano state impiegate per la loro realizzazione”. Non meno grave la situazione del personale. “In un quadro di forti difficoltà gestionali delle carceri derivanti anche dalle carenze quantitative degli appartenenti alla polizia penitenziaria - si legge nel documento - desta sorpresa e perplessità l’aver appurato che un numero elevato di unità (3.870), pari a più del 10% della forza complessiva (38.543), non sia stato utilizzato negli istituti detentivi per attività di sorveglianza o per attività connesse, anche grazie a istituti giuridici definiti dall’Amministrazione come distacchi e comandi, tra i quali una sessantina a favore della Presidenza del Consiglio o di alti organi, anche costituzionali o di rilevanza costituzionale”. E questo a fronte di grave carenze di organico che dovrebbe essere di 45mila agenti, e del sovraffollamento degli istituti. In questa situazione, denuncia la Corte, il personale già in sottorganico, rischia di non essere sufficiente per far fronte all’apertura delle “nuove e costose carceri o padiglioni” che così “risulterebbero inutili, quanto meno parzialmente o provvisoriamente. Giustizia: pochi agenti e troppi suicidi, un indulto per la Polizia penitenziaria L’Unità, 3 ottobre 2012 Le condizioni disumane in cui versano gli istituti di pena italiani non sono un problema che riguarda soltanto i detenuti, prime vittime dello stato di abbandono del sistema carcerario italiano. A pagarne le spese ogni giorno sono infatti anche gli agenti di polizia penitenziaria, ormai costretti a convivere con un sistema sull’orlo del baratro e ogni giorno più penalizzati dalla deriva in atto. “Perché un carcere invivibile - racconta uno di loro - è invivibile per i detenuti che ci sono costretti, ma anche per chi ci lavora dentro in condizioni sempre più difficili”. Una spia del disagio sono i casi di suicidio sempre più frequenti: numeri ufficiali non esistono (si parla di 89 morti fra il 2001 e il 2011) ma il problema è noto visto e soltanto poche settimane fa i sindacati sono tornati a denunciare l’emergenza dopo che, a distanza di poche ore, due agenti che si sono tolti la vita a Vasto e ad Augusta. Gli ultimi di una serie che preoccupa anche il ministero della giustizia visto che nel dicembre scorso l’allora capo del Dap Franco Ionta istituì “una commissione per lo studio del fenomeno dei suicidi del personale e per la formulazione di proposte tese alla definizione di un’omogenea strategia per la prevenzione del rischio derivante da stress da lavoro o da altri fattori”. Indipendentemente dai risultati della commissione, guidata dal Vice capo del Dipartimento Simonetta Matone, quello di cui tutti gli operatori sono convinti è che fra le cause di un simile disagio non possa non essere inclusa l’ormai cronica carenza di mezzi, ma soprattutto di uomini, della polizia penitenziaria. Anche in questo caso i dati sono impietosi: se l’organico previsto è fissato in 45mila unità, infatti, al momento gli agenti impiegati sono circa 37.500 per uno scoperto che si avvicina alle 8mila unità. I numeri, però, non dicono tutto se è vero che l’organico previsto dal ministero è stato fissato dieci anni fa (e da allora sono stati aperti nuovi istituti e nuovi padiglioni in strutture già esistenti) e che ogni giorno qualche migliaio di agenti è impegnato in attività fuori dal carcere. “Sono anni che siamo impegnati in questa battaglia - commentano Fabrizio Fratini e Francesco Quinti della Funzione Pubblica della Cgil - che non riguarda soltanto la sicurezza e l’efficienza. È una questione di diritti: degli agenti di polizia penitenziaria e degli stessi detenuti”. E la situazione, in tempi di tagli, è destinata a peggiorare ancora visto il blocco del turnover: “Può legittimamente affermarsi - scriveva il segretario generale del Sappe Donato Capece al premier Monti, e ai ministri Severino, Grilli e Patroni Griffi non più tardi di due settimane fa - che a decorrere dal 2013 le assenze in servizio si avvicineranno alle 10mila unità, vale a dire oltre il 20% dell’organico generale. Se le carceri sono ora al collasso - la conclusione di Capece - entro i prossimi otto-dieci mesi non sarà più materialmente possibile gestirle”. Dal canto suo, negli ultimi incontri, il ministro ha rassicurato i sindacato sulla possibilità di far rientrare in servizio nelle carceri circa 3mila agenti ora impegnati in altri servizi, ma è una “toppa” che certo non chiuderà la voragine che si sta aprendo. Anche perché la spending review, che ha risparmiato la penitenziaria, si abbatterà comunque su tutto il personale che si occupa del trattamento e dell’esecuzione pena della cosiddetta “presa in carico”: addetti delle comunità, assistenti sociali, educatori, operatori che si occupano dei detenuti non reclusi in carcere e che permettono l’affidamento alle strutture alternative. Ad oggi mancano già almeno 450 addetti, ma dopo la cura dimagrante imposta dal governo il numero è destinato a salire ulteriormente. “In questi giorni, oltre che di indulto e amnistia, si è tornato a porre l’accento sulla necessità delle pene alternative come misure per ridare vivibilità alle carceri - commenta Salvatore Chiaromonte, Fp-Cgil - ma la spending review andrà a colpire anche quel settore”. E siamo di nuovo daccapo: le carceri sono piene e in condizioni invivibili. Serve una soluzione e l’indulto è forse quella più immediatamente percorribile. Anche perché le strade messe a punto nel recente passato, quando la maggioranza di centrodestra non era disposta neanche a discutere della possibilità di fare ricorso ad un atto di clemenza, di fatto si sono rivelate inefficaci o difficilmente percorribili. È il caso dell’ambizioso “piano carceri” tanto sbandierato dall’allora Guardasigilli Angelino Alfano e caldeggiato del ministro dell’Interno Roberto Maroni. Costruire nuove strutture e nuovi spazi per ospitare i detenuti in eccesso: un progetto ambizioso più volte modificato in corso d’opera dall’allora direttore del Dap Franco Ionta e commissario per l’emergenza carceri. Alla prova dei fatti una montagna che, col passare del tempo, ha di fatto partorito un topolino. E anche questa volta il motivo è sempre lo stesso: mancano i soldi. Degli oltre diecimila posti previsti in un primo momento, infatti, non si andrà oltre i 3.800, pari a 17 padiglioni da costruire in istituti già esistenti in Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Abruzzo, Lazio, Campania, Puglia e Sicilia. Perché vedano la luce, però, ci vorrà ancora almeno un anno. Sembrano invece tramontati i progetti, almeno per il prossimo biennio, per dare il via alla costruzione di nuovi istituti a Torino, Camerino e Pordenone. Qualcosa comunque si è fatto ed entro la fine dell’anno saranno inaugurati nuovi spazi per un totale di 1200 posti letto in più. Le ultime strutture aperte sono quelle di Ancona, Oristano, Tempio e Rieti. Emblematica della situazione la travagliata storia dell’istituto del capoluogo laziale: costruito da tempo è rimasto per anni aperto a scartamento ridottissimo per la carenza di personale e soltanto negli ultimi mesi ha potuto ospitare detenuti a pieno regime. Nel frattempo, la struttura commissariale istituita al Dap ha subito una drastica cura dimagrante dopo i ricchi contratti di consulenza degli anni scorsi. Spese e remunerazioni che hanno più volte suscitato le proteste degli addetti ai lavori: “Un esercito di esperti che avrebbe dovuto indirizzare l’azione amministrativa dell’apparato, anche ordinario, di cui pure il Commissario delegato si è avvalso, garantendo la massima efficienza possibile! E invece... nessuno degli interventi previsti risulta non solo concluso, ma nemmeno appaltato”, ha tuonato in un articolo apparso su una rivista specializzata il dirigente penitenziario Ester Ghiselli. Giustizia: materassi anche nei parlatori, così si vive oggi in carcere di Rachele Gonnelli L’Unità, 3 ottobre 2012 “Se si parla di amnistia tra i detenuti? Non si parla d’altro, e non da ora, sempre”. Claudio Guidotti, romano di 56 anni, ha passato gli ultimi dieci anni della sua vita ospite delle patrie galere, un passato remoto di militante politico condannato a vent’anni per un grave reato, passato da una prigione all’altra tra i detenuti “comuni”, è uscito da meno di un anno con molti sconti di pena per buona condotta. “Sto appunto rispondendo alla lettera di un amico che è ancora dentro e vuole sapere cosa c’è di vero sull’intervento di Napolitano e di Bagnasco a favore di un’amnistia o di un nuovo indulto - dice - perché in prigione le notizie arrivano con un’eco tale che spesso distorce la realtà”. Violenze, autolesionismo. È questa la situazione prevalente che ha vissuto? “Sì, a parte l’ultimo periodo nel carcere modello di Gorgona. Regina Coeli è stata l’esperienza peggiore. Le tensioni sono proporzionali alla ristrettezza degli spazi e a Regina Coeli si sta in ambienti angusti, strapieni di mobiletti e con i letti a castello a tre piani. Ma ho sentito racconti di altre carceri dove si piazzano brandine nelle palestre già piccole per creare camerate di fortuna dove piazzare i meno pericolosi e persino di prefabbricati da installare nei cortili e materassi a terra nei parlatori, sempre per i meno agitati che di giorno, per permettere gli incontri con i familiari, stazionano negli spazi comuni”. Qual è la geografia sociale della popolazione carceraria che ha incontrato? “L’estrazione sociale è generalmente bassa, quasi sempre i più i istruiti sono gli immigrati anche se spesso hanno difficoltà a esprimersi in italiano, perché quelli che partono per cercare fortuna all’estero sono generalmente quelli con più strumenti anche culturali. Sommariamente si può dire che il 30 per cento dei detenuti sono stranieri, il 30 per cento tossicodipendenti e il restante 30 italiani. Mi è capitato di incontrare tanti italiani, in particolare napoletani, che a 35 anni non sapevano né leggere né scrivere, non avendo finito neanche la scuola dell’obbligo. Molti finiscono dentro per qualche motivo e non potendo pagare bravi avvocati, finiscono in un circolo vizioso. Si rivolgevano a me per scrivere alla fidanzata o più spesso le istanze per ottenere un permesso, una lamentela”. E i tossicodipendenti? “Il carcere non li aiuta, anzi spesso la loro condizione si aggrava. Potrebbero esserci pene alternative che invece difficilmente vengono applicate perché devono avere certi requisiti per essere accettati nelle comunità terapeutiche e anche se li hanno i posti sono pochi, senza contare che il magistrato di sorveglianza deve valutare anche i requisiti anche di sicurezza della comunità, che non sempre ci sono anche per scarsità di fondi delle comunità stesse, spesso basate su volontari e su auto aiuto”. E la rieducazione allora? “Se ne va a farsi friggere. Educatori e assistenti sociali sono così pochi che raramente si riesce ad avere con uno di loro un colloquio al mese. Poi anche lì ci sono quelli, rari e generalmente frustrati, che ci mettono passione e quelli che lavorano burocraticamente. In teoria anche gli agenti dovrebbero avere una funzione di discernimento dei bisogni dei detenuti ma per i bassi stipendi, e la scarsa preparazione, non hanno questa attenzione psicologica al singolo. Tra le cosiddette guardie, quasi sempre sarde o del Sud dove ci sono meno prospettive di lavoro di altro tipo, il tasso di suicidi è quasi pari a quello dei prigionieri. In effetti il personale vive quasi la stessa situazione. I turni prevedono minimo otto ore di riposo, perciò se fai dalle 7 del mattino alle 3 del pomeriggio, riattacchi a mezzanotte”. L’amnistia sarebbe una soluzione? “Solo temporanea. Dentro è una fissazione, tutto si ferma il martedì sera per sentire il programma su Radio Radicale che ne parla sempre. È l’unica sera in cui non si fa a botte sulla tv. Il 42% dei detenuti è in attesa di giudizio, intanto si dovrebbe evitare il carcere prima del terzo grado e poi si dovrebbe depenalizzare alcuni reati. Leggi come la Fini-Giovanardi sulle droghe o la Bossi-Fini, fatte per ragioni politiche, o la Cirielli sulle recidive, hanno annullato gli effetti dell’indulto e continuano a creare sovraffollamento”. Giustizia: Ucpi; Pd, Provincia… tutti d’accordo nel chiedere riapertura carcere Laureana Il Velino, 3 ottobre 2012 Il ministro della Giustizia “prenda provvedimenti che consentano non soltanto di riaprire il carcere di Laureana di Borrello ma di estendere quell’esperienza, da tutti ritenuta positiva, ad altre realtà carcerarie”. Così l’Unione camere penali in merito alla recente chiusura del carcere sperimentale “Luigi Daga” nel reggino. “A Reggio Calabria i processi con detenuti vengono rinviati regolarmente da due anni per carenza di personale penitenziario. Ebbene, la soluzione trovata dall’amministrazione penitenziaria è semplice - fanno notare ironicamente i penalisti -, è sufficiente chiudere il carcere di Laureana. D’altronde, non sarà la fine del mondo se un carcere sperimentale tra i migliori d’Italia dal punto di vista della rieducazione, capace di ospitare 68 detenuti avviati al lavoro e dotato di strutture all’avanguardia, chiude i battenti e i 29 agenti di polizia penitenziaria vengono mandati - peraltro soltanto in minima parte e con scarsa efficacia risolutiva - presso le strutture di Reggio Calabria e di Palmi”. Tutto ciò, prosegue la nota Ucpi, “con buona pace dei nobili ideali ispirati all’incentivazione delle misure alternative e alla risocializzazione del condannato”. Mentre il dibattito culturale, giuridico e politico “si affanna sui temi da sempre cari all’Unione, ossia quelli dell’eccessivo ricorso alla custodia cautelare in carcere e della necessità di incentivare misure alternative rispetto alla detenzione, spesso inutile e dannosa - aggiungono i penalisti - ecco il paradosso che si verifica puntuale. Si cerca di ovviare ad una situazione patologica, quella della inadeguatezza del personale, attraverso un provvedimento incomprensibile che annulla una realtà nettamente coerente con la finalità rieducativa della pena prevista dalla Costituzione. La decisione dell’amministrazione penitenziaria, peraltro, appare in contrasto con le stesse linee guida - si conclude - che ispirano il governo (apertura alla applicazione delle misure alternative) e che sono state di recente ribadite proprio dal ministro Severino in occasione del Congresso ordinario dell’Ucpi”. Lo Moro (Pd): chiudere Laureana di Borrello è sbagliato La casa di reclusione “Luigi Daga” di Laureana Borrello in provincia di Reggio Calabria ospita giovanissimi detenuti che scontano la prima pena. L’esperienza ha dimostrato che un sistema carcerario dedicato riesce a ridurre drasticamente le recidive e a garantire, per i giovani che sottoscrivono il previsto progetto di rieducazione, la funzione di rieducazione della pena prevista dalla Costituzione. Grazie ai percorsi di recupero dedicati ai giovani detenuti, il carcere di Laureana Borrello si è imposto come modello carcerario, anche oltre i confini regionali e nazionali. Una felice eccezione in un sistema carcerario che vive grandi criticità e che in Calabria soffre della mancata nomina di un provveditore delle carceri calabresi. Non possono essere ignorati i risvolti umani di una tale scelta la cui gravità si coglie pienamente dalla lettera pubblicata ieri sul “Quotidiano della Calabria” di un ex ospite della struttura che scrive, in particolare: “Grazie al trattamento di quest’istituto, voluto dal grande ormai scomparso ex provveditore Paolo Quattrone io e centinaia di altri ragazzi siamo stati salvati dalle grinfie di chi ci voleva soldati del crimine”. Per queste ragioni, dopo aver preso posizione immediata sulla questione, oggi, insieme ad altri parlamentari del gruppo Pd, abbiamo presentato alla Camera un atto di sindacato ispettivo, chiedendo un intervento urgente del Ministro. Dietro il provvedimento del Dap ci saranno sicuramente buone ragioni ma nessuna può giustificare la chiusura di un Istituto che si distingue positivamente nel sistema carcerario calabrese ed italiano e svolge una proficua azione di recupero di giovani alla prima detenzione disposti a cambiar vita. Doris Lo Moro - parlamentare Pd. Comunicato del Coordinamento provinciale terzo settore Reggio Calabria Esistono momenti in cui la società civile non può restare silente, vi sono scippi e violenze che non consentono alle coscienze di tacere… l’articolo 27 della Costituzione Italiana recita: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, per cui le istituzioni, ai vari livelli, hanno il dovere di attuare azioni e strategie atte a superare le difficoltà cui vanno incontro i soggetti sottoposti a misure penali. Ma è davvero così? Del resto lo sapevano bene i nostri padri costituenti. Già nel dibattito in seno all’Assemblea Costituente il socialista Lelio Basso affermava profeticamente “chi ha esperienza di vita carceraria, fatta come carcerato, sa che occorrerà del tempo prima di riuscire ad infondere nei nostri ordinamenti carcerari questo spirito di rieducazione”. Ciò che probabilmente all’epoca si ignorava e che passati quasi 70 anni ancora quella norma di grande umanità e saggezza avrebbe faticato a trovare applicazione, e non per colpa di incalliti criminali, ma di quello stesso Stato che la Costituzione tutela e difende. Quello che sta accadendo a Laureana di Borrello, un piccolo ma dignitoso paese di Calabria arroccato tra ulivi e agrumeti a nord della Piana di Gioia Tauro, ha dell’incredibile. Qualche anno fa un Provveditore particolarmente ispirato, il compianto Paolo Quattrone, che non si voleva arrendere di fronte al luogo comune di una terra, la Calabria, dove non possono trovare posto innovazione e sperimentazione, eccellenze e programmazione, ha dapprima sognato, quindi progettato, ed infine aperto un carcere a custodia attenuata. L’obiettivo di una tale struttura è chiaro anche ai meno addentro in questioni carcerarie: tendere alla rieducazione del condannato, preparandolo al reinserimento in società. Una struttura d’eccellenza, una delle pochissime sul territorio nazionale, in netta controtendenza con i contenitori di vite a perdere rappresentati dai carceri sovraffollati del resto d’Italia. Una sorta di piccolo gioiello, forse incastonato in un deserto civile, ma capace di sviluppare intorno a sé le sensibilità di un intero paese e di rappresentare modello per tante altre esperienze in Italia ed in Europa. Ebbene, invece di tutelare ed implementare una tale rarità, proprio in un momento in cui le carceri sembrano esplodere e la possibilità di attivare percorsi rieducativi è ai minimi storici, con un bliz degno delle teste di cuoio, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha deciso la chiusura dell’Istituto di Laureano, cancellando in un colpo solo anni di lavoro e di risultati. Riteniamo tale scelta un vero e proprio delitto: hanno ucciso un’altro pezzo di speranza, in una terra già troppe volte ferita da scelte scriteriate, dettate da mere motivazioni burocratiche, organizzative ed economiche. Il mondo del Terzo Settore e dell’Associazionismo, che da sempre opera nel mondo carcerario e conosce bene i danni inestimabili che si procurano alla società intera se non vi è la dovuta attenzione alla rieducazione del condannato, nel denunciare questa ennesima negazione di diritti, chiedono con forza che le Istituzioni e l’Amministrazione competenti provvedano a garantire la continuità dell’esperienza di Laureana. Il Portavoce, Luciano Squillaci Giustizia: Alfonso Papa (Pdl); il carcere preventivo è una vergogna italiana di Andrea Cuomo Il Giornale, 3 ottobre 2012 “Lo Stato italiano sottrae pezzi di vita più o meno ampi a cittadini innocenti”. Alfonso Papa, magistrato e deputato del Pdl, dopo essersi fatto nel 2011 ben 157 giorni di reclusione, 101 dei quali in carcere, per un presunto coinvolgimento nell’inchiesta sulla P4, si occupa a tempo pieno della condizione carceraria. E ha idee molto chiare su come la carcerazione preventiva rappresenti nel nostro Paese uno strumento di tortura”. Papa, davvero la carcerazione preventiva è una stortura tutta italiana? “Guardi, in nessun Paese democratico vi si fa ricorso in modo così massiccio. Le statistiche ci dicono che il 43 per cento dei detenuti sono soggetti in attesa di giudizio e per cui vale quindi la presunzione di innocenza. E che di questi il 50 per cento è poi riconosciuto non colpevole già nel giudizio di primo grado. Per questo sostengo che lo Stato rubi pezzi di vita”. Pezzi di vita trascorsi peraltro in condizioni disastrose... “I detenuti italiani hanno a disposizione meno di 3 metri quadri l’uno, collocandosi a metà strada tra quanto la legge stabilisce per le salme (1 mq) e i maiali di allevamento (3 mq). Non a caso nelle carceri italiane c’è un morto ogni cinque giorni, quasi tutti suicidi. L’Italia ripudia la pena di morte ma non nelle proprie galere. Inoltre per chi subisce la carcerazione preventiva la tortura è doppia: difficilmente infatti esce di prigione migliore di quanto era prima”. La responsabilità di tutto ciò è soltanto della magistratura? “Certo fa riflettere il modo in cui la magistratura metta in atto alcuni meccanismi di autodifesa. Ma anche la classe politica deve vergognarsi un po’, Pdl compreso. Anche se la carcerazione preventiva può essere uno di quei temi di civiltà con il quale il Pdl potrebbe riempire un momento di vuoto politico. Sono convinto che non siano i Fiorito a uccidere la politica italiana, ma la mancanza di battaglie per gli ideali”. Lei ha costituito il comitato per la prepotente urgenza. Che cos’è? “Intanto il nome: fu il Presidente della Repubblica a parlare un anno e mezzo fa di prepotente urgenza a proposito della situazione carceraria, salvo poi occuparsi di tutto in quest’ultimo anno e mezzo, compreso sostituire un governo scelto dal popolo con uno non eletto, tranne che di questa prepotente urgenza. Riuniamo diverse associazioni che vogliono costituire una fondazione per l’applicazione dell’articolo 27 della Costituzione. Con noi collaborano persone come Lele Mora. Personalmente ho presentato un progetto di legge contro l’abuso della carcerazione preventiva e visito un carcere all’incirca ogni dieci giorni. E sono sicuro che col tempo le coscienze si smuoveranno”. Anche il nostro (ex) direttore Alessandro Sallusti rischia di finire in galera. “Il caso Sallusti è la punta dell’iceberg di questo gulag che è diventato l’Italia. In nessun Paese esiste il carcere per un reato intellettuale, di opinione, per di più non commesso personalmente ma in base al principio della responsabilità oggettiva. Lascia sbigottiti la volontà di emanare una condanna esemplare che va a colpire chissà perché Sallusti prevedendone niente di meno che la pericolosità sociale. Questa è una vicenda importante, che ci fa riflettere sull’assoluta mancanza di democrazia nel nostro Paese. E che soprattutto ci mostra in quale modo lugubre e medievale il carcere, la gattabuia, venga evocata come vera risposta per tutti quei comportamenti non condivisi. Anche se poi il problema vero non sono i Papa o i Sallusti, ma le migliaia di persone senza volto, senza dignità, che sono la vera carne al macero del sistema carcerario italiano”. Giustizia: “braccialetti mangiasoldi” dal 2001 buttati 80 milioni per controllare 14 detenuti di Vittorio Malagutti Il Fatto Quotidiano, 3 ottobre 2012 Quattordici bracciali al modico prezzo di 81 milioni di euro. No, nessuna serata elegante in vista. Il conto l’ha saldato il ministero degli Interni. Denaro pubblico, una montagna di soldi sprecati per finanziare un progetto fallimentare. Un’ideona, almeno in teoria. Che c’è di meglio dei braccialetti elettronici per sorvegliare i detenuti ai domiciliari? Lo fanno anche in America. Già, solo che da noi, in Italia, si sono persi per strada più di 80 milioni di euro. Risultato: il nulla, o quasi. Perché l’ideona del governo è rimasta sulla carta. I bracciali entrati davvero in funzione sono solo 14 nell’arco di 10 anni, dal 2001 al 2011. In media fanno 5,7 milioni a pezzo, una spesa da gioielleria di gran lusso. Questo fiume di denaro è finito in gran parte nelle casse del gruppo Telecom Italia, che sin da 2001 ha fornito i dispositivi elettronici di controllo “nei confronti di persone sottoposte alle misure cautelari e detentive per l’intero territorio nazionale”, secondo quanto recita la convenzione ad hoc stipulata tra il ministero degli Interni e il più grande gruppo di telecomunicazioni nazionale. A TIRARE le somme di questa incredibile vicenda è stata la Corte dei conti che al termine di un’indagine chiusa pochi giorni fa, il 14 settembre, ha definito “antieconomica e inefficace” la gestione dell’affare braccialetti. Un affare solo per Telecom, a quanto pare. Tutto comincia nel 2001, quando viene siglata una prima convenzione definita sperimentale e limitata a sole cinque province: Milano, Torino, Roma, Napoli e Catania. Nel 2003 il servizio viene esteso a tutto il territorio nazionale: Telecom si impegna a fornire e gestire 400 dispositivi elettronici di controllo, come li definisce la Corte dei conti. Insomma, i braccialetti. Il costo del sistema ha superato i dieci milioni annui, segnalano i giudici contabili. E cioè 81 milioni di euro spalmati su otto anni complessivi, tra il 2003 e il 2011. Peccato che dei 400 braccialetti che dovevano entrare in funzione se ne sono visti soltanto 14. “Una spesa elevatissima”, commenta la Corte dei conti in vena di eufemismi. L’anno scorso il contratto con Telecom arriva a scadenza. E il governo che fa? Tira le somme e decide di chiudere una volta per tutte un esperimento quantomeno fallimentare, oltre che molto oneroso per la casse dello Stato. Macché. Il nuovo ministro degli Interni Annamaria Cancellieri, appena entrata in carica, si affretta a rinnovare la convenzione con Telecom. Un contratto di sette anni, questa volta, dal 2012 al 2018. SU QUESTA decisione, presa dal cosiddetto governo dei tecnici, il giudizio della Corte dei conti è inequivocabile. Vale la pena riportarlo per intero. “Il rinnovo della Convenzione con la Telecom, per una durata settennale, dal 2012 fino al 2018, ha reiterato perciò una spesa, relativamente ai braccialetti elettronici, antieconomica ed inefficace, che avrebbe dovuto essere almeno oggetto, prima della nuova stipula, di un approfondito esame, anche da parte del ministero della Giustizia, Dicastero più in grado di altri di valutare l’interesse operativo dei Magistrati, per appurare la praticabilità di un mancato rinnovo”. Questa la posizione dei giudici contabili messa nero su bianco nella loro relazione datata 13 settembre. Di più. Secondo la Corte, il rinnovo della convenzione, avvenuto a prezzi e prestazioni “non identici” e perciò qualificata “inesattamente come una “proroga”, avrebbe “dovuto, o potuto, essere oggetto di riflessione e/o di trattative, se non di comparazione con altre possibili offerte”. In poche parole, il contratto non andava rinnovato tale e quale con lo stesso fornitore. Serviva una gara per mettere in condizione il ministero di scegliere l’offerta migliore, anche in termini di costi. Non per niente, nel giugno scorso, su ricorso del concorrente Fastweb, il Tar del Lazio ha disposto con una sentenza che la nuova convenzione dovrà essere oggetto di una gara. Sia il ministero dell’Interno sia Telecom Italia hanno fatto ricorso contro la decisione del tribunale amministrativo. Sulla questione è chiamato a pronunciarsi il Consiglio di Stato. L’udienza è fissata per il 14 dicembre. Niente paura, però, il Tar ha dichiarato inefficace la convenzione non immediatamente, ma dalla fine del 2013. Un altro anno di ordinario spreco. E che sarà mai? Giustizia: Sallusti si è meritato condanna per diffamazione, ma non deve finire in carcere di Enrico Mentana www.vanityfair.it, 3 ottobre 2012 Caro Mentana, ma perché si parla tanto di questa condanna al direttore del Giornale? Finiscono in galera politici, magistrati, avvocati, finanzieri... Voi giornalisti proprio no? Ne condannano uno e tutti a gridare. Siete proprio una bella casta anche voi… Giordano Ascoli Purtroppo è una critica che ho sentito molto in questi giorni. Insieme a un’altra considerazione: ma non è proprio quel Sallusti che mise in moto la famigerata macchina del fango contro i nemici del proprietario del Giornale, nonché leader del Pdl? Ha cercato di screditarne uno di troppo, ed è stato punito. Con Alessandro Sallusti non ho confidenza. Anzi, in questo stesso numero di Vanity Fair c’è una sua intervista in cui parla di me in termini davvero sgradevoli. Intendiamo la professione in maniera diversa. Ma questo non c’entra con la sostanza, e cioè la sentenza a suo carico. Io non difendo Sallusti, e nemmeno il collega direttore di giornale. Per l’idea che mi sono fatto del caso, una diffamazione a mezzo stampa senza mai rettifiche o scuse, Sallusti s’è ampiamente meritato un verdetto di condanna, anche per colpa dell’autore dell’articolo. Ma non è concepibile che la diffamazione, per di più attuata per omessa vigilanza e non per volontà di screditare ad arte, venga punita con la reclusione. È una pena spropositata, per un simile reato, la perdita della libertà, quale che sia la considerazione che abbiamo del reo. Paghi una multa, rifonda anche profumatamente il danno di immagine subito dal querelante, sia costretto a ripristinare la verità dei fatti attraverso il suo giornale con tutta l’evidenza che merita, o anche di più. Ma la pena detentiva no, è un residuato fascista. E non per modo di dire. È una legge vecchissima, che non a caso nessuno nel Parlamento repubblicano ha mai modificato: giusto per tenere l’informazione sotto schiaffo, così ogni tanto uno ci finisce dentro, e tutti gli altri si danno una regolata. Per questo fanno ridere e arrabbiare i politici che adesso all’unisono criticano la condanna con accenti indignati. Gente che è alla Camera o al Senato da decenni e urla: è una legge da cambiare! Ma che ci state a fare in Parlamento? O rivendicate la bontà e l’efficacia della legge sulla diffamazione; oppure spiegateci perché non avete mai provato ad aggiornarla, a modificarla, a renderla più equa. Avete passato gli ultimi anni a occuparvi di giustizia, ma solo riguardo a un cittadino (proprio lui, l’editore del Giornale), per tutelarlo al di là di ogni pudore, o per metterlo irreparabilmente sotto scacco. Vi vergognate ad affrontare il tema delle carceri, degradate come quelle dei film turchi, per non dover pagare pegno all’opinione pubblica, che quando sente parlare di amnistia o indulto pensa sempre che state facendo una legge per salvare qualcuno di voi. Poi però quando scoppia un caso come quello di Sallusti vi comportate come se aveste passato il tempo a battervi perché simili episodi non debbano mai avvenire. Uno di voi parlamentari soprattutto dovrebbe stare zitto, perché non ha parlato quando doveva: è l’unico che doveva per forza sapere quel che stava accadendo, e quale fosse la diffamazione messa in atto, visto che l’articolo incriminato l’aveva scritto lui. È l’onorevole Renato Farina, che in quel pezzo accusò un magistrato torinese di aver costretto una minore ad abortire, e ci mise argomentazioni e toni obiettivamente insultanti. Solo che non firmò quelle righe, siglate con lo pseudonimo Dreyfus. Non poteva più usare il suo nome, era stato radiato dall’Ordine dei giornalisti, dopo che si era scoperto il suo arruolamento nei servizi segreti. Per stima, pietà o complicità Sallusti (allora direttore di Libero) lo fece continuare a scrivere, violando legge e codice etico: sbagliò, ed è stato mal ripagato, allora e dopo. Perché Farina non si è mai più interessato della vicenda, arrivata al terzo grado di giudizio, ed è stato zitto anche quando Vittorio Feltri ha lanciato il grido d’allarme: “Tra pochi giorni la Cassazione decide, e se conferma la condanna Sallusti va in carcere”. Per decenza avrebbe dovuto prendersi le sue responsabilità: la carica che nel frattempo è andato a ricoprire lo tutela da rischi eccessivi. Invece niente, silenzio fino a quando la condanna definitiva a Sallusti non è stata resa nota: un eroe del nostro tempo. Giustizia: Rapporto Eures; 7 italiani su 10 favorevoli al carcere per gli evasori fiscali Ansa, 3 ottobre 2012 Il 68,7% degli italiani è favorevole a trasformare l’evasione fiscale in reato penale: è quanto emerge dall’ultimo rapporto Eures. Solo il 18,3% sarebbe contrario a tale ipotesi (il 33% tra i lavoratori autonomi). Il 63,3% boccia l’azione del Governo in materia di contrasto all’evasione fiscale. Ancora più alta l’adesione del campione all’ipotesi di sospendere l’abilitazione ai professionisti che non rilasciano regolare fattura/ricevuta, che raccoglie ben l’80,3% dei consensi a fronte di appena il 9,9% di opinioni contrarie (il restante 9,8% si dichiara né favorevole né contrario); anche in questo caso una maggiore intransigenza è espressa dai lavoratori dipendenti, favorevoli con l’87,2% delle adesioni alla proposta, condivisa tuttavia anche dal 69,1% degli autonomi. Allo stesso modo il 76,7% dei cittadini intervistati condivide l’ipotesi di sospendere la licenza ai commercianti che non rilasciano scontrino o ricevuta (i contrari si attestano sull’11,9% e sull’11,4% gli indecisi), con percentuali che raggiungono il valore massimo dell’82,2% tra i lavoratori dipendenti (a fronte del 66,3% tra gli autonomi). Una minore uniformità di vedute si rileva infine sull’ipotesi di premiare i cittadini che denunciano gli evasori, dove le diffuse resistenze emerse sembrano riguardare il rifiuto della delazione, ovvero di una “società del sospetto” in cui i rapporti tra cittadini rischiano di avvitarsi in una pericolosa spirale involutiva; tale ipotesi, che pure riceve la maggioranza assoluta dei consensi (52%), vede infatti rispetto alle altre ipotesi considerate, una più consistente percentuale di contrari (29,2%), così come avviene per gli indecisi (18,8%). Infine Equitalia: il 55% degli intervistati esprime un giudizio negativo sull’operato di Equitalia nel recupero crediti, mentre appena il 21% dichiara di apprezzarlo ed il 24% non esprime un giudizio di valore al riguardo (definendolo né positivo né negativo). Sicilia: il Garante Fleres; gli auspicati provvedimenti di clemenza non sono più rinviabili Ristretti Orizzonti, 3 ottobre 2012 Le condizioni di invivibilità delle carceri italiane sono di molto al di sotto delle regole minime europee e questo, oltre che costituire un elemento di grave inciviltà giuridica e umana, fa correre al nostro Paese il rischio di clamorose e costose condanne da parte del Tribunale europeo per i diritti dell’uomo. Lo ha dichiarato il Sen. Salvo Fleres (Grande Sud) con riferimento al dibattito politico sulla adozione di una legge sull’amnistia in corso da qualche settimana. L’amnistia, ha aggiunto il parlamentare, che è anche Garante dei diritti dei detenuti della Sicilia, insieme al varo della più volte annunciata legge sulle pene alternative, migliorerebbe la situazione evitando che il carcere diventi l’unica pena. Il Garante regionale dei detenuti Sen. Dott. Salvo Fleres Bari: progetto “Reinclusione”, l’idea svuota carceri all’attenzione del governo di Antonello Cassano La Repubblica, 3 ottobre 2012 È di due cugini baresi l’idea che potrebbe diminuire il sovraffollamento delle carceri italiane. Marcello e Christian Signorile due giorni fa hanno presentato nella sala verde di Palazzo Chigi alla presenza del sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Antonio Catricalà, e di alcuni funzionari del ministero della Giustizia, un progetto su alcune misure alternative alla detenzione che si intitola “Reinclusione”. Il percorso dei Signorile parte da Catanzaro dove nel luglio scorso il think-tank ItaliaCamp ha indetto gli Stati generali del Mezzogiorno in Europa selezionando i migliori progetti italiani di business, basati su tematiche economiche, e policy, su problemi sociali. È qui che l’idea dei due baresi è stata giudicata dalla giuria, unica nel settore policy, tra le migliori sedici destinate ad essere presentate al governo. L’idea di Marcello, medico del Tribunale di sorveglianza e del criminologo Christian è semplice, ma possibilmente rivoluzionaria perché, migliorando l’attuale legge Smuraglia, potrebbe contribuire a risolvere il drammatico problema del sovraffollamento delle carceri italiane (68mila detenuti per una capienza di appena 45mila, solo a Bari 500 carcerati a fronte di una capienza di 210 persone). Il progetto consiste nel far espiare parte della pena all’interno di imprese o cooperative sociali convenzionate con il ministero della Giustizia. I beneficiari della misura, selezionati dopo un’osservazione di un anno e in seguito alla detenzione in carcere di almeno un terzo della pena, potrebbero scontare il resto della pena lavorando a retribuzione ridotta (1/5 di quanto previsto dal contratto collettivo nazionale di lavoro) per lo svolgimento di attività rivolte ad amministrazioni locali e cittadinanza. “Per semplificare - dice Marcello - il Comune che vuole costruire una nuova strada e non ha abbastanza fondi per farlo potrebbe rivolgersi a quelle aziende che hanno nella loro forza lavoro questi detenuti, e che per questo potrebbe svolgere il lavoro ad un costo competitivo. In questa maniera - insiste Marcello - ci guadagnano tutti: dal detenuto che acquisisce competenze ed entra nel mercato del lavoro ai Comuni che potrebbero demandare alle cooperative sociali accreditate lo svolgimento di lavori di manutenzione delle infrastrutture. Ma ci guadagna enormemente anche il sistema penitenziario che potrebbe assistere finalmente a una prima misura efficace contro il sovraffollamento”. La particolarità della idea dei due baresi è che mentre la attuale legge Smuraglia, che prevede sgravi fiscali per cooperative che assumono detenuti, può interessare ogni anno solo 2200 carcerati su una popolazione di 66mila perché finanziata da fondi annuali molto limitati, il progetto “Reinclusione”, proprio per le sue caratteristiche, prevedrebbe un numero ben più ampio di detenuti beneficiari, nell’ordine di 15-20mila persone. “Non bisogna dimenticare che riuscire a reimmettere un detenuto nel mondo del lavoro e allontanarlo dalla strada della delinquenza comporta un risparmio enorme per l’intera società” afferma ancora Marcello. Il progetto è piaciuto molto al sottosegretario Catricalà e ora si trova sul tavolo del ministro della Giustizia, Paola Severino, in attesa di essere visionato. Fra poco meno di trenta giorni si terrà a Roma la conferenza stampa di governo nella quale verranno premiate alcune delle sedici idee vincitrici. Il governo si impegnerà a prendere in esame anche l’idea dei Signorile. In caso di esito positivo, dopo una modifica della attuale legge Smuraglia, si potrebbero aprire spiragli per una maggiore vivibilità nelle carceri italiane. Asti: cinque detenuti diffidano Regione e Consiglio regionale “nominate subito un garante” Notizie Radicali, 3 ottobre 2012 Un ufficiale giudiziario ha notificato al Presidente del Consiglio Regionale (Valerio Cattaneo) e della Regione (Roberto Cota) un atto di diffida stragiudiziale con il quale, tramite l’Associazione radicale Adelaide Aglietta, cinque cittadini detenuti nel carcere di Asti diffidano i due presidenti, ciascuno per quanto di propria competenza, a designare e a nominare senza ritardo, e comunque entro 90 giorni dalla ricezione della diffida, il Garante regionale delle carceri piemontesi; il garante, ai sensi della Legge regionale n. 28 del 2 dicembre 2009, avrebbe dovuto essere nominato entro il 5 giugno 2010. La diffida è stata predisposta dall’avvocato radicale Antonio Polito, che rappresenta l’Associazione e, per essa, i cinque detenuti di Asti. Si tratta della prima volta in Italia in cui cittadini detenuti utilizzano lo strumento giuridico della diffida nei confronti dei rappresentanti delle istituzioni regionali. Giulio Manfredi (Direzione Radicali Italiani) e Antonio Polito hanno dichiarato: “È doveroso ricordare il contesto in cui nasce l’iniziativa della diffida. Lo scorso 30 gennaio una sentenza del Tribunale di Asti aveva prosciolto cinque agenti di polizia penitenziaria accusati di violenze contro i detenuti. Nelle motivazioni della sentenza, il giudice Riccardo Crucioli ha precisato che la derubricazione del reato è dovuta esclusivamente al fatto che, per colpevole ritardo del Parlamento, non è stato ancora recepito nell’ordinamento italiano il delitto di tortura. Negli stessi giorni di gennaio, grazie ad una visita ispettiva del senatore radicale Marco Perduca, i detenuti di Asti venivano a conoscenza dell’iniziativa nonviolenta di sciopero della fame dei radicali piemontesi per la nomina del garante regionale delle carceri. 90 detenuti prendevano il testimone e digiunavano a staffetta. 70 detenuti scrivevano al difensore civico regionale, richiedendo un suo intervento per sanare la palese illegalità di un Consiglio Regionale che non rispetta le sue stesse leggi. Ora, l’iniziativa della diffida. Da un mondo che si vuole condannare all’oblio, alla rassegnazione e alla violenza, arriva una risposta di speranza nel diritto e nella forza della legge. Ecco come i cinque detenuti hanno motivato la loro adesione: “Non tutti comprendono che se niente si fa, nulla si muove. Ovviamente sappiamo che alla fin fine il garante può fare ben poco; è una conoscenza che abbiamo vissuto in altre regioni. Il punto non è poi questo, quanto in verità, il rispetto delle regole e delle leggi da parte delle stesse istituzioni che fanno la voce alta quando si tratta di noi”. E questo accade mentre nel carcere di Biella si è verificato l’ennesimo suicidio. È il 118° morto dietro le sbarre dall’inizio del danno, il 41° per suicidio. Amnistia subito, garante regionale subito. Milano: venerdì seduta Consiglio comunale si svolgerà a San Vittore Agi, 3 ottobre 2012 Un consiglio comunale straordinario a San Vittore per discutere una delibera che prevede l’istituzione del Garante dei diritti delle persone private della libertà e del relativo regolamento. L’Aula ‘traslocherà nel carcere cittadino venerdì alle 15.30, per un’iniziativa che, come ha spiegato il presidente della Commissione Sicurezza, Mirko Mazzali, “è un segnale di attenzione nei confronti del mondo carcerario”. “La nuova figura del Garante - ha aggiunto il Presidente della Sottocommissione Carceri Lamberto Bertolè - ha il compito di verificare il rispetto dei diritti per chi si trova limitato nella sua libertà e di promuovere iniziative che contribuiscano a migliorare le condizioni degli istituti di pena della città”. Tempio Pausania: carcere Nuchis operativo, apre un nuovo reparto La Nuova Sardegna, 3 ottobre 2012 La nuova casa circondariale di Nuchis, aperta nel luglio scorso, entra nella piena operatività. Da alcuni giorni, infatti, il carcere gallurese è in grado di accogliere e ospitare i detenuti in quella che in gergo penitenziario è conosciuta come “prima accoglienza”, ovvero il reparto dove vengono destinate le persone arrestate in flagranza di reato. Un settore delicatissimo, quello appena aperto in alta Gallura, che prevede, per ragioni di sicurezza e tutela personale dell’arrestato, la detenzione in celle singole e il controllo costante da parte degli agenti della polizia penitenziaria. L’apertura della “prima accoglienza” è un notevole passo avanti nella procedura di utilizzazione dell’intera struttura penitenziaria, in grado di ospitare, una volta a regime, 150 detenuti in un ambiente modernissimo e dotato di ogni comfort per gli internati e il personale che li deve accudire. L’avvio delle procedure di apertura sono cominciate nel luglio scorso, con l’arrivo a Nuchis dei primi trenta detenuti evacuati da una fatiscente sezione del carcere sassarese di San Sebastiano. Progressivamente i detenuti - si tratta nella stragrande maggioranza di persone in attesa di giudizio o che debbono scontare pochi anni di pena - sono arrivati a settanta, mentre gli arrestati “galluresi”(coloro che debbono essere giudicati, per competenza territoriale, dal tribunale di Tempio) venivano sinora dirottati verso il carcere sassarese di San Sebastiano, il più vicino istituto penitenziario dotato del settore di prima accoglienza. Una situazione, questa, che aveva creato non pochi disagi per detenuti, personale della polizia giudiziaria, avvocati e magistrati, che dovevano spostarsi verso Sassari o far tradurre a Tempio l’arrestato, con dispendio economico e di personale. Ora anche questo ostacolo è stato superato: i “nuovi” arrestati restano a disposizione della magistratura nel carcere di Nuchis (sinora si era sopperito a questa carenza con le celle di sicurezza delle diverse forze dell’ordine), sino al momento dell’udienza di convalida. Poi il loro percorso, a seconda delle decisione del magistrato, varia dalla scarcerazione agli arresti domiciliari, mentre nei casi più gravi c’ è l’internamento nella struttura penitenziaria, stabilita con l’ordinanza di custodia cautelare. Il carcere di Nuchis è la prima delle tre nuove strutture penitenziarie realizzate in Sardegna (le altre due sono a Bancali, Sassari, e Oristano) ad essere entrata in funzione. Al suo interno lavorano, oltre al personale amministrativo, una ottantina di agenti della polizia penitenziaria, organico che dovrebbe lievitare sino al raggiungimento di 120 unità entro il prossimo anno. Pordenone: tangenti a Panama sul progetto del carcere-modello di Stefano Polzot Messaggero Veneto, 3 ottobre 2012 Nella storia senza fine del nuovo carcere di Pordenone un capitolo è stato scritto dal Consorzio Svemark intenzionato a fornire una struttura modulare con celle prefabbricate in acciaio, lo stesso progetto che la medesima azienda voleva realizzare più recentemente a Panama grazie a un giro di mazzette orchestrato da Valter Lavitola, l’ex direttore dell’Avanti e autore della lettera pubblicata recentemente e indirizzata a Silvio Berlusconi, arrestato per corruzione internazionale per presunte tangenti a politici panamensi. Teste chiave dell’accusa Mauro Velocci, ex funzionario del ministero della Giustizia, lo stesso che, da presidente di Svemark, grazie ai buoni uffici che intratteneva in sede romana, si era fatto avanti per realizzare, con lo stesso metodo, il carcere a Pordenone. I destini di Velocci e della struttura penitenziaria pordenonese si sono incrociati nel 2004 quando il dipartimento dell’amministazione penitenziaria pubblicò il bando per l’assegnazione in leasing dei lavori di realizzazione delle carceri di Pordenone e Varese. Era stato l’allora segretario del ministro leghista Roberto Castelli a venire a Pordenone e assicurare con piglio padano che, in questo modo, il carcere si sarebbe fatto in quattro e quattr’otto. La base d’asta era ingente: 32 milioni 462 mila euro per l’istituto penitenziario di Pordenone, 43 milioni 282 mila euro per quello di Varese. Alla preselezione si presentarono in sei: la Banca centrale per il leasing-Italease di Milano; la Opi, banca per la finanza delle opere pubbliche di Roma; Intesa leasing di Milano; Ing Operleasing di Brescia; Bnl Locafit di Milano; la Monte dei Paschi di Siena Leasing & Factoring. Quest’ultima si avvalse della collaborazione del Consorzio Sve, con sede in Veneto, che realizzava celle prefabbricate in acciaio. Venne elaborato il progetto dallo studio di architettura Planarch di Roma con il contributo, per la parte delle celle, per l’appunto, della Sve. A quel punto la vicenda si complicò. L’Assilea, associazione italiana leasing, di cui facevano parte tutte le banche invitate alle due gare per Varese e Pordenone, secondo Sve convocò una riunione al fine di valutare condotte comuni sull’appalto delle due carceri. L’esito è che tutte le società si ritirarono, tranne l’Operleasing, una condotta che per Sve rappresentò una turbativa d’asta. Da qui l’esposto alla magistratura e la richiesta di un risarcimento danni, rivolto allo stesso Monte dei Paschi, per 10 milioni di euro. Esposto poi finito nel nulla visto che la contestazione della Commissione europea sulle procedure di gara portò il nuovo ministro della Giustizia, Clemente Mastella, ad annullare tutto e dirottare i fondi, guarda caso, per il nuovo carcere di Benevento, che insisteva nel suo collegio elettorale. Se l’esposto finì nel cassetto, non altrettanto il progetto delle celle prefabbricate, riciclato in chiave sudamericana a Panama per partecipare all’appalto per la costruzione di 4 carceri del valore di 176 milioni di euro. Un’operazione favorita dall’accordo di cooperazione tra Italia e Pamana, firmato il 30 giugno 2010, che prevedeva, per l’appunto, l’implementazione del sistema carcerario panamense. Secondo le accuse dei magistrati di Napoli, basate sulle dichiarazioni rese proprio da Velocci, l’assegnazione doveva essere “oliata” da Lavitola attraverso la promessa al presidente panamense, al ministro della giustizia Mendez e ad altri esponenti politici di 20 milioni di dollari e un elicottero Eurocopter, con interni in pelle Hermes, da 8 milioni. Il resto è cronaca giudiziaria recente, con un epilogo già scritto: del prefabbricato modulare made in Sve per Pordenone e dei “gemelli” panamensi non c’è traccia, così come, allo stato attuale, di una alternativa certa al castello di piazza della Motta. Prato: sovraffollamento di detenuti e pochi agenti alla Dogaia Il Tirreno, 3 ottobre 2012 Questa l’istantanea scattata venerdì scorso durante la visita ispettiva al carcere pratese della Dogaia dei deputati pratesi Andrea Lulli, Pd e Riccardo Mazzoni, Pdl accompagnati da una delegazione dell’associazione radicale Liber@MentePrato composta da Massimo Taiti, Vittorio Giugni, Rosanna Tasselli e Simone Lappano, promotrice dell’iniziativa. Parlamentari e radicali sono stati ricevuti dal direttore e dal comandante della polizia penitenziaria che li hanno messo al corrente della situazione di sovraffollamento. La Dogaia può ospitare, normalmente, circa 480 detenuti, la capienza tollerabile è di circa 600 persone, detenuti invece ce ne sono 720. In molte celle invece che 2-3 persone ce ne stanno 4-5. “Su oltre 720 detenuti solo 12 svolgono un lavoro esterno - scrive Liber@Mente - e il Comune ha ridotto da 100.000 a 18.000 euro il proprio contributo annuale per l’inserimento lavorativo dei detenuti”. L’unica buona notizia - secondo l’associazione - è l’arrivo, recente, di 30 nuovi agenti di polizia penitenziaria che vanno ad integrare un organico risicatissimo e nel quale mancano altri 80 agenti. Sia il direttore che il comandante del carcere hanno auspicato provvedimenti di clemenza da parte del Parlamento e in specie l’adozione di misure alternative alla carcerazione. Il comandante della polizia penitenziaria ha, infine, proposto l’adozione di un progetto da parte degli enti pubblici locali che permetta ai cittadini che vogliano rendersi conto di poter liberamente accedere al carcere con accompagnatori qualificati”. Larino (Cb): anche i detenuti meritano una chance, Corso con Provincia e Alberghiero www.termolionline.it, 3 ottobre 2012 Professionisti della ristorazione si diventa, anche in carcere. È stato inaugurato ufficialmente ieri mattina il nuovo corso di studi professionali fortemente voluto dalla Preside dalla scuola alberghiera di Termoli Federico di Svevia Maria Chimisso e dalla direttrice della casa circondariale di Larino Rosa La Ginestra e realizzato grazie alla fattiva collaborazione del Provveditore agli studi Giuliana Petta e della Provincia di Campobasso. È stata l’assessore all’istruzione e alle pari opportunità Rita Colaci a rappresentare la Provincia nell’incontro svoltosi con i circa ottanta detenuti che si sono iscritti al nuovo corso di studi. Ottanta detenuti che hanno costituito tre classi prime, che proprio grazie ad un piano studiato ad hoc dal Csa di Campobasso e dalla Ipssar porteranno a termine il biennio a giugno, ovvero due anni di studio in uno solo, un’agevolazione finalizzata a stimolare i detenuti, che dal canto loro hanno mostrato vivo interesse per l’iniziativa. “Voglio partire dall’esempio di Socrate che circa trecento anni prima di Cristo aveva scelto la conoscenza alla vita…l’istruzione offre, infatti, la possibilità di una nuova vita” ha affermato la dirigente dell’Ipssar Maria Chimisso sottolineando l’importanza dell’opportunità che si apre ai detenuti di ottenere una qualifica professionale in due anni ed eventualmente un diploma negli anni a seguire, entrambi titoli spendibili al momento del reintegro sociale. Si è dichiarata pronta seguire da vicino il progetto l’assessore Colaci che si è fatta portavoce anche dell’impegno del presidente Rosario De Matteis. L’assessore è apparsa entusiasta per il progetto, perché convinta della sua importanza. D’altra parte altre carceri più grandi ed importanti del nord e del sud Italia hanno già mostrato che iniziative analoghe possono essere particolarmente fruttuose, come le ormai famose cene galeotte del carcere di Volterra, tant’è che ambiziosi sono anche i progetti che per i detenuti di Larino che “perché no, un domani potrebbero pensare di gestire un ristorante”. Il corso attivato dall’istituto Alberghiero di Termoli offrirà ai detenuti, al pari degli altri studenti della scuola, la possibilità di imparare praticamente e cioè attraverso la didattica nei laboratori il mestiere del barman, del cuoco e del direttore di albergo. La direttrice Rosa La Ginestra, il cui obiettivo è proprio quello di rendere attiva e interessante la vita tra le sbarre, ha infatti provveduto a dotare il penitenziario dei laboratori di sala-bar e cucina, dove i detenuti trascorreranno numerose ore impegnati nelle esercitazioni pratiche. Napoli: progetto teatrale con “Il carcere possibile onlus” La Repubblica, 3 ottobre 2012 Due spettacoli realizzati nell’ambito del progetto “Il carcere possibile”. Teatro, ma non soltanto spettacolo, anche incontro per comprendere e comprendersi. È “Il carcere possibile”, una settimana di spettacoli al Ridotto del Mercadante. Giunta alla sua ottava edizione, la rassegna presenta quest’anno otto spettacoli realizzati all’interno degli istituti di pena della Campania. Poggioreale, Ariano Irpino, Eboli, Airola, Nisida, Aversa, Lauro e Secondigliano per altrettanti incontri di teatro, è la “scena detenuta” con otto compagnie di detenuti/attori: per spettacoli costruiti con pazienza, tra mille sacrifici, “in una trincea che vuole opporsi all’assenza di attività a cui i tagli di fondi costringe un settore delicatissimo della nostra società”, dice Riccardo Polidoro, che da anni organizza con la Camera penale la preziosa iniziativa nata nell’ambito di un progetto di sensibilizzazione e denuncia delle condizioni di vita dei detenuti, sottolineando come siano importanti queste attività che “hanno dato ottimi risultati con spese limitatissime” e grazie al lavoro di gruppi di artisti fortemente impegnati nel sociale. La rassegna è così cresciuta nel tempo. Curata dall’associazione “Il carcere possibile” Onlus e realizzata in collaborazione con il Teatro Stabile di Napoli che l’ospita da sette anni al Mercadante, il Provveditorato della Campania Amm.ne Penitenziaria e il Garante dei diritti dei detenuti della Regione Campania. Dopo il “Pulcinella, con rispetto parlando”, presentato dalla casa circondariale di Poggioreale, liberamente ispiratoa Samuel Beckett, dal Laboratorio diretto da Patrizia Giordano, oggi pomeriggio, alle 18.30, va in scena “Un ragazzo per modello” un omaggio a Peppino De Filippo di sette detenuti/attori dell’istituto di Ariano Irpino, mentre alle 20 va in scena “Un sogno di libertà” dell’Icatt di Eboli, a cura di Gaetano Stella e Elena Parmense. Anche domani saranno due i titoli in programma, alle 18.30 l’istituto minorile di Airola porta in scena frammenti di opere e pensieri di Eduardo De Filippo con “Io vulesse truvà pace”, a cura dell’associazione “I Refrattari” e con la regia di Antimo Nicolò ed Enza Di Caprio; alle 20 saranno i giovani detenuti/attori dell’istituto minorile di Nisida a mettere in scena “Cornice”, a cura di Veria Ponticiello e Pino De Maio e liberamente ispirato a “Cuore nero” di Fortunato Calvino. Giovedì alle 20,è la volta dello spettacolo dell’Opg di Aversa con “Che ne sarà dei fiori”, una “suggestione scenica” tratta dalla “Donna Rosita Nubile” di Garcia Lorca, in scena gli internati del Manicomio Criminale di Aversa. La regia è di Gesualdi/Trono, per interrogarsi su cosa accadrà il 31 marzo del prossimo anno quando è prevista la definitiva chiusura degli Opg. Venerdì mattina la rassegna si sposta all’istituto penale di Secondigliano, dove alle 11 andrà in scena “Becher e Godò”, incontro con un Beckett sconosciuto a cura di Maniphesta Teatro. Alle 20 invece l’ultimo spettacolo in programma, di nuovo al Ridotto del Mercadante, è “Sempre la stessa storia” della compagnia della casa circondariale di Lauro e dal Teatro di Gluck: uno spettacolo curato da Michele Sellitti ed ispirato ad “Esercizi di stile” di Queneau, L’ingresso agli spettacoli è libero fino a esaurimento posti. Per quello all’istituto di Secondigliano è necessario inviare richiesta all’indirizzo email: info @ ilcarcerepossibileonlus.it. Ferrara: con il gruppo Balamòs giornata di riflessione su “Teatro e Carcere oggi in Italia” Comunicato stampa, 3 ottobre 2012 Balamòs Teatro, in collaborazione con il Centro Teatro Universitario di Ferrara, organizzano sabato 6 ottobre 2012, presso il Centro Teatro Universitario di Ferrara (via Savonarola 19), nell’ambito del festival della rivista Internazionale, una giornata su Teatro e Carcere dal titolo “Teatro e Carcere oggi in Italia: esperienze, metodologie, riflessioni”. La giornata comincia alle ore 15.00 con l’inaugurazione della mostra fotografica di Andrea Casari, che documenta il lavoro svolto dal 2006 ad oggi da Michalis Traitsis e i suoi collaboratori del progetto teatrale “Passi Sospesi” negli Istituti Penitenziari di Venezia (Casa Circondariale Maschile di Santa Maria Maggiore di Venezia, Casa Circondariale Sat di Giudecca, Casa di Reclusione Femminile di Giudecca). La mostra fotografica rimarrà aperta anche Domenica 7 Ottobre dalle 10.00 alle 18.00. Si prosegue alle ore 16.00 con un incontro e confronto aperto a tutte le esperienze negli Istituti Penitenziari in Italia con il pubblico del festival, moderato da Valeria Ottolenghi (associazione nazionale critici di teatro) dal titolo: “Teatro e Carcere oggi in Italia: esperienze, metodologie, riflessioni”. Saranno presenti operatori teatrali da alcuni carceri italiane, Vito Minoia (presidente coordinamento nazionale teatro e carcere, C.C. di Pesaro), Gianfranco Pedullà (C.C. di Arezzo e C.C. di Pisa), Livia Gionfrida (C.C. di Prato), Cinzia Zanellato (C.R. di Padova), Claudio Collovà (Istituto Penale Minorile di Palermo), Francesca Paiella e Lara Patrizio (C.C. di Rieti), Donatella Massimilla (C.C. Maschile e Femminile di San Vittore), Giulia Innocenti Malini (C.C. di Brescia), Giovanni Trono (Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Aversa), Lisa Mazoni e Giuseppe Scutellà (Istituto Penale Minorile di Milano), Ivana Trettel (C.R. di Opera, Milano), Michalis Traitsis (C.C. maschile di Santa Maria Maggiore di Venezia, C.R. femminile di Giudecca). Alle ore 18.00 ci sarà la proiezione video di alcune rappresentative esperienze di teatro in carcere, provenienti da un carcere maschile (Casa di Reclusione Maschile di Padova), da uno femminile (Casa di Reclusione Femminile di Giudecca e Casa Circondariale Maschile di Santa Maria Maggiore di Venezia) e da uno minorile (Istituto Penale Minorile “Malaspina” di Palermo). Sarà presentato in prima visione l’ultimo video di Marco Valentini che documenta il progetto teatrale “Passi Sospesi” sin dal 2006, presentato tra l’altro in questi anni anche nell’ambito della Mostra di Venezia. Il video mostra il percorso laboratoriale svolto nel 2011 nella Casa Circondariale Maschile di Santa Maria Maggiore di Venezia e la presentazione dello spettacolo “storie italiane”, un lavoro sull’Italia del secolo scorso visto da “dentro” e “fuori”, che ha visto anche la partecipazione degli allievi attori del Centro Teatro Universitario di Ferrara e il percorso laboratoriale svolto nella Casa di Reclusione Femminile di Giudecca e la presentazione dello spettacolo “Le Troiane”, adattamento libero dall’omonima tragedia di Euripide che è stato presentato anche fuori dall’Istituto Penitenziario Veneziano. Al percorso laboratoriale del 2011, oltre gli allievi del Centro Teatro Universitario di Ferrara ha anche partecipato una classe del Liceo Classico Foscarini di Venezia e Fabio Mangolini, Davide Iodice e Maria Teresa Dal Pero, artisti provenienti dall’esterno con l’obiettivo di intensificare, ampliare e diffondere la cultura teatrale dentro e fuori gli Istituti Penitenziari di Venezia. Michalis Traitsis, Balamòs Teatro Roma: il 4 ottobre concerto Uto Ughi in carcere Rebibbia Ansa, 3 ottobre 2012 Nell’ambito del programma di “Uto Ughi per Roma”, il 4 ottobre il Maestro Ughi suonerà per i detenuti alla presenza del Ministro della Giustizia Paola Severino. Sarà una giornata molto particolare quella di giovedì 4 ottobre nel carcere di Rebibbia: il Maestro Uto Ughi suonerà con la sua orchestra “I Filarmonici di Roma” per un concerto dedicato ai detenuti. Al concerto sarà presente anche il Ministro della Giustizia Paola Severino. “È per me un piacere - dichiara Ughi - poter portare un po’ di sollievo ai detenuti, in un momento in cui da più parti si invocano condizioni più umane per gli istituti penitenziari”. “Con questo concerto - aggiunge - vogliamo regalare un momento di cultura alta a chi normalmente non può usufruirne, perché la musica è capace di toccare l’anima e alleviare le sofferenze”. “Conservo sempre le parole di un detenuto - conclude - che mi disse: “se l’arte è libertà, oggi ce ne avete portata una goccia”. In programma una selezione di brani da “Le quattro stagioni” di Vivaldi, Carmen Fantasy Op. 25 per violino e orchestra di de Sarasate, e musiche di Mendelssohn Bartholdy, Bazzini, Massenet e Piazzolla. L’appuntamento è per le 16 alla Casa circondariale Nuovo complesso di Roma Rebibbia (via Raffaele Majetti 70). Televisione: il “caso Tortora”… giustizia e carceri, vergogna d’Italia di Luca Cavadini www.voceditalia.it, 3 ottobre 2012 Enzo Tortora è riuscito post mortem in un altro miracolo riservato, purtroppo, a pochissimi. Purtroppo perché gli altri miracoli sono riservati ai vari Don Matteo o peggio ancora a quelle serate demenziali di under 12 che cantano. Milioni di spettatori sintonizzati su Rai Uno per assistere ad un dramma. Il merito è sicuramente di Ricky Tognazzi e di tutti gli attori che hanno interpretato lo sceneggiato diviso in due puntate. Ispirati proprio tutti, nessuno escluso a cominciare da una bravissima Guaccero che potrei definire più brava che bella, una bestemmia. I più giovani devono fare lo sforzo di pensare che non si tratta di fiction, i maturi possono limitarsi con tristezza ad annuire e ricordare i giudizi affrettati usciti dalle loro bocche. La storia è maledettamente vera e poco importa sapere se Tortora ha lasciato la vita per il dolore che ha favorito il cancro, vicenda altrettanto drammaticamente vera e già sufficiente per indignarsi. La materia stuprata, svilita, sbeffeggiata e dimenticata è la giustizia. Quando la morale supera i personaggi e la loro storia siamo davanti al dramma, alla verità nuda e cruda, in un certo senso è la fine di tutto. Cosa è cambiato nel 2012. Nulla, assolutamente nulla, se possibile siamo peggiorati e scherniti con duemila sentenze di condanna per violazione della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo siglata a Strasburgo dal Parlamento UE. Qualche dato: a Rebibbia così come in molte altre carceri italiane, è prassi che in una cella di 12 metri quadri stiano cinque e anche sei persone, un carcerato su tre è tossicodipendente, dal 2000 ci sono stati 730 suicidi, il personale carcerario è gravemente sottodimensionato, le condizioni igieniche di molti istituti di pena sono ai limiti dell’umano. In Italia tre processi su quattro vanno abbondantemente oltre il limite imposto dalla UE e dal consiglio d’Europa formato dai 47 ministri degli Esteri dei paesi membri. Fare classifiche in questi casi è deprimente ma è bene sapere che solo Turchia e Serbia riescono a fare peggio di noi. Magari dal film “Fuga di mezzanotte” qualcosa è cambiato in Turchia ma certamente il dato deve muovere più di un pensiero. Ad occuparsi della questione, gli stessi della vicenda Tortora, i Radicali e pochi altri, ancora sugli scudi per sensibilizzare istituzioni e governi alla barbarie perpetrata contro la dignità dell’uomo. A prescindere da tutto, ancora una volta si deve sottolineare che l’indifferenza politica è clamorosamente bipartisan, destra e sinistra unite nella nebbia dalla quale si intravedono volenterose eccezioni. Che qualcuno se ne occupi oppure si abbia il coraggio di affermare che non frega niente a nessuno. Ps. I giornalisti e le relative testate, con rarissimi casi isolati, hanno dilaniato Tortora approfittando con raro squallore della situazione. Qualche scusa postuma sarebbe una gradita novità nel generale e assordante silenzio. Immigrazione: Cie, Cara e Cda... un sistema da ripensare di Vito Salinaro Avvenire, 3 ottobre 2012 Una galassia sempre più in agitazione. Un limbo giuridico e amministrativo sempre più difficile da gestire. È la realtà dei Cie (Centri di identificazione ed espulsione), strutture dislocate in varie parti d’Italia (vedi grafico qui sotto) in grado di ospitare fino a duemila persone e sulle quali più di una volta sono stati sollevati polemiche e interrogativi. I Cie, con il Cara (Centri accoglienza richiedenti asilo) e i Cda (Centri di prima accoglienza) costituiscono la rete dell’”accoglienza” statale per gli immigrati che arrivano nel nostro Paese. Una “camera di compensazione” indispensabile per verifiche e accertamenti, ma che oggi va completamente ripensata. “La denuncia sulle pessime condizioni in cui si trovano i detenuti, gli internati e gli stranieri nei Centri di identificazione ed espulsione (Cie), come nelle carceri, è ormai unanime”. Piero Innocenti ha da poco lasciato la Polizia di Stato, dove ha ricoperto incarichi di alto profilo (questore a Teramo, Piacenza e Bolzano, prima di diventare consulente del capo della Polizia); non ha invece abbandonato la passione per gli studi legati ai flussi migratori, alle moderne forme di schiavitù, alle narcomafie. Il fatto di aver servito lo Stato con incarichi dirigenziali non significa per lui adottare una linea “diplomatica” per giudicare la “carcerazione amministrativa” degli stranieri irregolari. In fondo, “che qualcosa non va nei Cie dove, alla data del 18 settembre 2012, sono trattenuti, in stato di “detenzione amministrativa”, 901 stranieri irregolari (uomini e donne), è sotto gli occhi di tutti”. E in questi primi 9 mesi del 2012 le rivolte e le proteste, talvolta violentissime, sfociate spesso in suicidi e tentati suicidi, si sono susseguite con insolita frequenza rispetto al pur problematico 2011. In tutta la Penisola si contano 13 Cie, per un totale di 1.901 posti, a cui si aggiungono 9 Centri di accoglienza per richiedenti asilo (Cara), strutture che con il villaggio degli immigrati di Mineo, in cui vivono duemila persone, offrono in totale 5.744 posti letto. La situazione di disagio è stata denunciata più volte. Il 17 aprile scorso è stato presentato al ministro della Giustizia, Paola Severino, il “Rapporto sullo stato dei diritti umani negli istituti penitenziari e nei centri di accoglienza e trattenimento per migranti in Italia”. “Il documento - spiega Innocenti - era stato approvato, all’unanimità, il 6 marzo 2012, dalla “Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato”. Nelle 278 pagine del rapporto (sono inclusi anche i disegni di legge presentati nel tempo per introdurre il reato di tortura e il garante nazionale dei detenuti) , c’è la radiografia del sistema carcerario e della penosa situazione in cui si trovano gli oltre 66mila detenuti in strutture da circa 46mila posti”. Ancor prima di quel rapporto, rileva l’ex dirigente della Polizia, “sarebbe stato opportuno (ri)leggersi quello stilato nel 2007 dalla Commissione De Mistura (dal nome dell’ambasciatore Staffan De Mistura che presiedette la commissione) e le raccomandazioni conclusive formulate che “ ancorché possano apparire di complessa attuazione”, avrebbero potuto consentire di affrontare il “problema della irregolarità” degli stranieri in maniera “più creativa ed efficace”. Ma anche in quella occasione, “poco o nulla fu fatto”. Proprio come alcuni anni dopo, nel2010, quando, a seguito di un altro corposo rapporto-denuncia di Medici senza Frontiere (MsF), “la classe politica - dichiara Innocenti - non ebbe il “coraggio” di affrontare i temi delle condizioni socio sanitarie nei centri, lo stato precario delle strutture, le modalità di gestione, il rispetto dei diritti degli immigrati”. Già il primo studio del 2004, “Cpta: anatomia di un fallimento”, sempre curato da MsF, “non aveva lasciato alcun margine di dubbio sul malfunzionamento dei vari centri e sul profondo malessere fra i trattenuti”, evidenziato da gravi episodi: risse, rivolte, autolesionismi, somministrazione di sedativi. Il problema, dice l’ex questore, è che “l’immigrazione irregolare non si può risolvere con norme penali, costruendo “muri” o trattenendo nei Cie persone per una “detenzione” ingiustificata” che può arrivare sino a 18 mesi. “Un tempo di restrizione così prolungato, senza aver commesso alcun reato - aggiunge -, non può non causare conseguenze sulla salute fisica e mentale dei trattenuti”. Nonostante ciò la situazione non è migliorata. Anzi. La Commissione senatoriale che ha stilato il Rapporto 2012, nella parte introduttiva, ricorda che “le condizioni nelle quali sono detenuti molti migranti irregolari nei Centri di identificazione ed espulsione (..) sono molto spesso peggiori di quelle delle carceri”. Turchia: condannati responsabili delle torture mortali contro un detenuto www.italnews.info, 3 ottobre 2012 In Turchia il direttore di un carcere e due guardie penitenziarie sono stati condannati all’ergastolo per aver torturato a morte Engin Ceber, un attivista politico, nell’ottobre 2008. Altri nove funzionari hanno ricevuto pene da cinque mesi a 12 anni e mezzo. Ceber era stato arrestato a Istanbul 12 giorni prima, nel corso di una manifestazione convocata per protestare contro il grave ferimento, un anno prima per mano di un agente, di un altro attivista, che era rimasto paralizzato. Secondo l’accusa, una volta portato nella prigione di Metris, dove rimase 10 giorni, Ceber venne picchiato con ferocia da agenti di polizia e guardie carcerarie. Fu ricoverato in ospedale e morì tre giorni dopo. Nel giugno 2010 un tribunale giudicò colpevoli 19 imputati, quattro dei quali furono condannati all’ergastolo per aver provocato la morte di Ceber mediante tortura. Alla fine del 2011, la Corte d’appello si aggrappò a motivi tecnici per annullare il verdetto di primo grado e ordinare un nuovo processo. Anche se il verdetto emesso oggi può essere ancora contestato in appello, Amnesty International ha dichiarato che si è trattato di una “sentenza storica”. Questo però non significa che la giustizia turca abbia completamente risolto il problema: nonostante l’impegno del governo di Ankara, rimangono molte zone d’ombra, anche all’interno dello stesso sistema istituzionale. All’inizio di quest’anno, l’ufficiale di polizia Sedat Selim Ay è stato nominato vice-capo della polizia di Istanbul, nonostante fosse finito più volte sotto inchiesta per tortura. Recentemente due musiciste del gruppo rock Grup Yorum hanno accusato la polizia di Istanbul di averle torturate dopo una manifestazione dell’estrema sinistra. Secondo l’avvocato delle due giovani, Taylan Tanay, gli agenti dell’antiterrorismo di Istanbul hanno fra l’altro rotto il timpano di un orecchio della cantante del gruppo Selma Altin e rotto il braccio della violinista Ezgi Dilan Balci. Le due donne, ha precisato, sono state ripetutamente percosse e le lesioni sono state procurate loro intenzionalmente. Medio Oriente: Human Rights Watch accusa Hamas; a Gaza torture e processi ingiusti Aki, 3 ottobre 2012 Human Rights Watch (Hrw) accusa i servizi di sicurezza di Hamas, il movimento islamico al potere nella Striscia di Gaza dal 2007, di ampie violazioni dei diritti umani, di casi di tortura, arresti arbitrari e processi ingiusti. Abusi e violenze commesse, secondo l’organizzazione, in un clima di impunità. In un rapporto intitolato “Sistema di abusi: giustizia criminale a Gaza”, Hrw accusa anche i servizi di sicurezza di Hamas di non fornire informazioni ai parenti delle persone arrestate e chiede una “urgente riforma del sistema di giustizia criminale a Gaza”. “Dopo cinque anni con Hamas al potere a Gaza, il suo sistema di giustizia criminale puzza di ingiustizia, di violazioni sistematiche dei diritti dei detenuti e garantisce l’immunità ai servizi di sicurezza responsabili degli abusi - ha affermato il vice direttore di Hrw per il Medio Oriente, Joe Stork - Hamas dovrebbe bloccare questo tipo di abusi per porre fine ai quali egiziani, siriani e altri popoli nella regione hanno rischiato le proprie vite”. “Le autorità di Gaza - ha aggiunto - dovrebbero smettere di ignorare gli abusi e assicurare che la giustizia rispetti i diritti dei palestinesi”. Nel suo rapporto di 43 pagine Hrw afferma di aver intervistato vittime di torture, insieme ai loro parenti e avvocati, oltre a magistrati e gruppi palestinesi di attivisti dei diritti umani. “Testimoni hanno riferito che l’agenzia di sicurezza interna, la sezione antidroga della forza di polizia e i detective di polizia torturano i detenuti”, denuncia Human Rights Watch, secondo cui la Commissione indipendente per i diritti umani (organizzazione palestinese) ha ricevuto 147 denunce di casi di torture da parte di uomini dei servizi di sicurezza di Hamas solo nel 2011. Nel rapporto si criticano anche i processi a civili in tribunali militari. E secondo Hrw, “le esecuzioni di persone le cui confessioni sono state ottenute sotto tortura sono un chiaro segnale del fatto che le autorità devono imporre immediatamente una moratoria, se non abolire, la pena di morte”. Hrw riconosce quindi come Hamas abbia fatto sapere di aver punito centinaia di uomini dei suoi servizi di sicurezza responsabili di abusi, ma critica il movimento per non aver mai diffuso dettagli sugli ufficiali coinvolti o, in alcuni casi, informazioni su abusi e punizioni. Le rivalità interpalestinesi, conclude l’organizzazione, restano un “fattore significativo dietro molti casi di abusi da parte di Hamas contro i detenuti a Gaza”. Anche in Cisgiordania, l’Autorità nazionale palestinese dominata dal rivale Fatah effettua arresti arbitrari di palestinesi, membri o sostenitori di Hamas compresi, e qui - come a Gaza - si registrano casi di torture e abusi ai danni dei detenuti.