Giustizia: l’inferno delle carceri e la soluzione indulto di Massimo Solani L’Unità, 2 ottobre 2012 Dopo il monito di Napolitano. Riccardi: “Istituti di pena italiani in condizioni disumane”. Trattamenti inumani e degradanti”. Con queste parole la Corte Europea dei diritti dell’uomo, nell’agosto del 2009, condannò l’Italia a risarcire un detenuto bosniaco costretto a vivere in cella in uno spazio di circa 2,7 metri quadrati contro i 7 stabiliti dal Comitato per la prevenzione della tortura come spazio minimo sostenibile. C’è da sperare che gli esperti della Corte non mettano mai piede a Napoli, nel carcere di Poggioreale, dove in stanzoni di 25-30 metri quadrati convivono fra le 15 e le 20 persone, con uno spazio a disposizione non superiore al metro e mezzo, bagno compreso. Un caso isolato? Tutt’altro, diciamo piuttosto la normalità visto che ormai il terzo piano dei letti a castello nelle celle è prassi comune e addirittura nel carcere romano di Regina Coeli, prima dell’estate, mancavano anche i materassi e i detenuti erano costretti a dormire in terra. Gli istituti di pena sono sul punto di esplodere e allora si è costantemente alla ricerca di spazi utilizzabili: a Rebibbia, per esempio, la sala ricreativa è stata già trasformata in dormitorio e a Spoleto la sezione degli ergastolani è stata chiusa, e gli “ospiti” trasferiti altrove per poter così utilizzare a pieno le celle altrimenti destinate ad uso singole. Clamoroso, poi, è il dato relativo alla casa circondariale di Latina dove, per una capienza di 86 persone, a fine agosto erano rinchiusi 170 detenuti. E il risultato, testimonia l’associazione “Antigone”, è che “la mancanza di spazi lede i livelli di vivibilità, per cui si verificano emergenze continue di detenuti in crisi di astinenza o episodi di autolesionismo, due o tre al mese, prevalentemente tagli o ingestione di oggetti”. Un disagio comune alla stragrande maggioranza degli istituti dove, dall’inizio dell’anno, si sono registrati 41 casi di suicidio. L’ultimo a Secondigliano dove domenica un detenuto di 50 anni si è impiccato con le lenzuola mentre era in isolamento”. Perché aldilà dei numeri, sono le storie di ordinaria disperazione a raccontare meglio di qualsiasi altra cosa che cos’è oggi in Italia il pianeta carceri. Un inferno popolato da più di 66mila invisibili per una capienza “ufficiale” di poco superiore alle 45mila unità. Ufficiale, però, perché la realtà è profondamente diversa e i numeri decisamente più bassi se solo si tiene conto di quanti padiglioni, in giro per l’Italia, sono chiusi per manutenzione: a Livorno, per esempio, più della metà degli spazi al momento è inutilizzabile e soltanto nel carcere romano di Regina Coeli sono ben due le sezioni fuori uso. “Nelle carceri italiane si vive ormai in condizioni disumane”, commentava ieri il ministro della Cooperazione e della Integrazione Andrea Riccardi. Una situazione troppo spesso ignorata che neanche le interrogazioni parlamentari e le denunce pubbliche (meritorie quelle fatte dai Radicali in questi anni) sono riuscite a cambiare. Una situazione su cui il monito del presidente della Repubblica Napolitano ha riacceso i riflettori dopo anni di silenzio. Sei sono infatti quelli passati dall’indulto varato dal governo Prodi dopo l’accorato invito dell’allora Pontefice Giovanni Paolo II Ma il venticinquesimo provvedimento simile dal dopoguerra ad oggi portò fuori dal carcere, soltanto nell’agosto del 2006, circa 25mila detenuti scatenando polemiche basate, il più delle volte, sull’ipotizzato aumento dei reati e della pericolosità delle strade italiane. “Tutti i ladri liberi”, infatti, divenne ben presto una delle accuse a cui il governo Prodi si trovò a dover ribattere. La realtà, però, è ben diversa e il tempo galantuomo si è affrettato a dimostrare, invece, il contrario: perché delle decine di migliaia di persone tornate in libertà dopo l’indulto “soltanto” il 33,92% è poi tornato in carcere nell’arco dei 5 anni successivi (12.462 in totale). Una percentuale che sembra alta, ma che certo non lo è se paragonata a quella della recidiva “normale” che si assesta intorno 68,45% nell’arco dei sette anni successivi alla scarcerazione. Il che significa, detto più semplicemente, che chi è uscito dalle sbarre per l’ultimo indulto è tornato a delinquere con minor frequenza rispetto a chi invece ha scontato per intero la pena. Altro dato di solito ignorato, invece, è quello relativo alla nazionalità dei recidivi: fra i beneficiari dell’indulto, infatti, la recidiva degli italiani è infatti di ben 13 punti percentuali inferiore rispetto a quella dei cittadini stranieri. Decisamente più bassa, invece, è la recidiva fra coloro che hanno beneficiato dell’indulto trovandosi in una condizione di misura alternativa (soprattutto domiciliari), una percentuale che si assesta attorno al 22%. Sicurezza a parte, però, è l’evidenza del sovraffollamento carcerario a rendere non più procrastinabile la necessità di un intervento. “Uno spettacolo indegno che non fa onore all’Italia e ne ferisce la credibilità internazionale”, ha tuonato il presidente Napolitano. “È sacrosanto che oggi si torni a parlare di provvedimenti urgenti - commenta Patrizio Gonnella, presidente di “Antigone” - Perché il sovraffollamento non è una calamità naturale, bensì la conseguenza di leggi ingiuste e repressive”. Ma a sperare che l’invito di Napolitano non resti lettera morta ci sono soprattutto i Radicali: “Sarebbe l’unico modo per porre rimedio all’attuale situazione di illegalità - commenta Rita Bernardini. Oggi il soggiorno nelle carceri è sempre più un trattamento disumano e degradante, e non si può accettare che sia lo stato a violare le leggi e i principi costituzionali”. Giustizia: un’altra idea del carcere… Ristretti Orizzonti, 2 ottobre 2012 Aveva diciannove anni. Era cileno. È morto il 10 settembre 2009 a Castrovillari. In carcere, suicida. Aveva già tentato di farla finita, pochi giorni prima. A Lodi, in carcere. Di qui era stato trasferito: quasi fosse un rifiuto da smaltire, il più rapidamente possibile, da una discarica all’altra. Mandato a morire da un’altra parte. Nessuno ne racconterà la storia, nessuno - o quasi - ne conosce il nome. È il numero 64 (su un totale di 72) dell’elenco dei “Morti di carcere” nel 2009 (contabilità dolorosa consultabile sul sito di “Ristretti Orizzonti”). Il tasso dei suicidi “dentro” è nettamente superiore rispetto a quello che si registra “fuori”. Perché in carcere si sta male, anche nel carcere definito “hotel” o “collegio”. Si tenta il suicidio (spesso lo si agisce) e si compiono atti di autolesionismo (ferite e mutilazioni: grida di dolore inascoltate). Ma nulla trapela. Il carcere non si apre all’esterno, neppure quando accoglie visitatori: rende visibile soltanto la parte di sé decisa dall’istituzione totale. Il carcere fagocita persone e idee, mutandone natura e identità: educa non alla responsabilità, ma all’ossequio. Finché sei “dentro”. Quando esci “fuori”, sei peggio di prima. L’alto tasso di recidiva di chi sconta interamente la pena in penitenziario lo dimostra. Il degrado delle carceri italiane è “una questione di prepotente urgenza sul piano costituzionale e civile”. Parola del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, il 28 luglio 2011. Inascoltato pure lui. Il carcere in Italia è illegale. Per l’alto numero di morti: 118 dall’inizio del 2012, di cui 41 suicidi, una percentuale circa sette volte superiore a quella che si registra fuori di prigione. Per il sovraffollamento: sono ancora quasi 67.000, a fronte di una capienza regolamentare di circa 45.000 posti, le persone detenute nei penitenziari italiani (a titolo di esempio: sei persone convivono in uno spazio di undici metri quadrati, anche in via Cagnola, anche nella Casa circondariale di Lodi). Per la mancanza di risorse, umane e materiali. Lo Stato italiano sorveglia e punisce chi viola la legge, ma, al tempo stesso, “fugge, come un latitante qualunque, dalle proprie responsabilità” (www.blogdellagiustizia.it, 6.09.2012). La questione, che “non fa onore al nostro Paese, ma anzi ne ferisce la credibilità internazionale e il rapporto con le istituzioni europee” (ancora il Presidente della Repubblica, il 27 settembre 2012), non è più differibile. Laura Coci, Grazia Grena, Michela Sfondrini, Francesca Riboni, Andrea Ferrari, Tiziana Bassani, Patrizia Faraoni, Laura Steffenoni, Olga Varalli, Donatella Tresoldi, Danila Baldo, Ombretta Maiocchi, Simonetta Pozzoli, Maria Grazia Borla, Lele Maffi, Giorgio Vicari, Maddalena Biancardi, Alda Carisio, Simona Bernasconi, Alberto Buonvento, Roberto Vho, Giuseppe Lacchini, Giustizia: troppi nelle celle, ma il parlamento non decide di Giovanni Scaglioni La Gazzetta di Mantova, 2 ottobre 2012 Dal 2000 ad oggi sono state 2.051 le persone morte in carcere di cui 733 per suicidio. Nelle celle dei nostri istituti di pena, che potrebbero ospitare al massimo 45.500 detenuti, sono attualmente ristrette in vergognose condizioni di sovraffollamento ben 66.300 persone. Nel gennaio 2010 l’allora ministro della Giustizia Alfano annunciò di avere a disposizione 600 milioni di euro per la realizzazione di un grande piano di edilizia carceraria; non era vero niente; le solite bugie della politica berlusconiana: annunci e zero fatti. Dal dopoguerra ad oggi l’edilizia carceraria non è stata adeguata nemmeno al naturale incremento della popolazione. Ora il presidente della Repubblica, in relazione alla situazione di massima emergenza in cui si trovano le nostre carceri, rivolge una forte sollecitazione al Parlamento perché adotti misure di clemenza (amnistia e indulto) e pene alternative al carcere. Dal 1948 al 2006 sono stati oltre una trentina i provvedimenti clemenziali: in media uno ogni due anni. I dati statistici pongono in evidenza che gli effetti negativi di queste misure sono di gran lunga superiori a quelli positivi limitati allo svuotamento delle carceri: è irrefutabilmente dimostrato che gli effetti deflattivi vengono vanificati nel giro di un paio d’anni. Per di più amnistia ed indulto hanno rappresentato e continuano a rappresentare un alibi per la classe politica, che è indotta costantemente a rimandare l’obbligo di riformare strutturalmente il sistema della giustizia penale e dell’istituzione carceraria. Infatti la reiterazione al ricorso dei provvedimenti di clemenza rende evidente che essi, in fondo, rappresentano una scelta ordinaria del legislatore, che fa perdurare una situazione di emergenza, omettendo colpevolmente di adottare riforme sostanziali, anche per rimuovere o far diminuire rilevanti cause delle condotte delinquenziali come la mancanza di lavoro, la miseria, l’emarginazione, lo sfruttamento e l’ingiustizia. Così, ancora una volta, per evitare gravissime situazioni di disperazione, sarà inevitabile ricorrere alle abusate misure per ridurre il sovraffollamento carcerario, che, in parte, può essere ottenuto anche con l’ampliamento delle pene alternative, certamente meno dannose per l’ordine pubblico e la sicurezza. Giustizia: Associazioni lanciano manifesto-appello per l’abolizione dell’ergastolo Ansa, 2 ottobre 2012 A giugno di quest’anno i condannati all’ergastolo erano 1.546; venti anni fa, quando la Camera approvò una mozione rimasta inattuata per l’abolizione della pena perpetua, i condannati erano 408. Il dato è emerso in una giornata di dibattito su “Ergastolo e democrazia”, organizzata dall’associazione Antigone e dalla “Comunità papa Giovanni XXIII”. “È come se oggi in carcere - spiega Stefano Anastasia di Antigone - avessimo 120.000 mila persone, cioè che i 30 mila detenuti di inizio anni 90 si fossero quadruplicati invece che solo raddoppiati: è una pena in crescita. Una pena che è “effettiva” per almeno 700 persone che sono sottoposte all’ergastolo ostativo e non possono fare affidamento nemmeno sulla liberazione condizionale dopo i 26 anni di carcere”. L’ergastolo ostativo, quello che si riassume con la formula “fine pena mai”, significa che al condannato non è consentito sperare che la pena carceraria finisca o possa essere convertita in una pena alternativa, salvo il caso in cui collabori con la giustizia facendo i nomi degli altri colpevoli. Sul tema del carcere a vita, rilanciato anche sui giornali da Adriano Sofri e da Umberto Veronesi, si è costituito un Comitato per l’abrogazione dell’ergastolo, che ha lanciato un manifesto-appello. “Il fine pena mai viola l’articolo 27 della Costituzione che prevede il fine rieducativo della pena”, dice Paolo Ramonda, presidente della Comunità papa Giovanni XXIII. “L’ergastolo ostativo - aggiunge Luciano Eusebi dell’Università Cattolica - non riconosce nessuna valenza al percorso rieducativo. Si punisce la non collaborazione privando il condannato del regime ordinario: un danno rispetto a un comportamento successivo ai fatti di reato. “Vivere in un Paese dove non c’è l’ergastolo” piacerebbe invece ad Agnese Moro e anche all’ex magistrato di Mani Pulite Gherardo Colombo, per il quale bisognerebbe aprire un dibattito su quali sono le ragioni dell’esistenza della pena a vita. “La pena è la privazione della libertà, non della speranza, né della dignità” secondo la leader Radicale Emma Bonino, che chiede che di questo tema si occupi anche il servizio pubblico. Giustizia: Corte dei conti; in 10 anni spesi 81 milioni di € per 14 “braccialetti elettronici” di Antonio G. Paladino Italia Oggi, 2 ottobre 2012 In dieci anni, dal 2001 al 2011, lo Stato ha speso poco più di 81 milioni di euro per l’utilizzo di circa 14 braccialetti elettronici. È quanto ha messo nero su bianco dalla Corte dei conti, Sezione centrale di controllo sulla gestione delle Amministrazioni dello Stato, nel testo della deliberazione numero 11 resa nota ieri, emanata in relazione a diverse situazioni di criticità che oggi gravitano attorno al pianeta carcere. E, tra queste, la magistratura contabile ha dedicato un apposito capitolo all’utilizzo del braccialetto elettronico. Nell’ambito delle misure alternative all’arresto o alla detenzione in carcere è stata prevista dal 2001 (ex art.16 DL n. 341/2000) la possibilità di controllare a distanza e senza oneri diretti di sorveglianza il soggetto arrestato e/o detenuto nel domicilio, attraverso l’applicazione, al polso o alla caviglia, di un “braccialetto elettronico” realizzato in modo tale da segnalarne gli spostamenti dai limiti del domicilio (Italia Oggi del 20 agosto e 30 novembre 2011). L’analisi della Corte, pertanto, richiama l’attenzione sulle circostanze dell’introduzione di tali sistemi, sul contratto di fornitura e sui livelli di spesa complessiva sostenuti “al solo fine di poter esprimere una valutazione sulla redditività ed opportunità gestionale e di ottenere conferme, correzioni o cessazioni dell’impiego di tali strumenti”. La Corte ha rilevato che la convenzione stipulata con Telecom, prevede, oltre il noleggio e la manutenzione, anche la gestione operativa della piattaforma tecnologica, che rappresenta la componente finanziariamente più onerosa. Nel periodo di vigenza della convenzione (scaduta il 31 dicembre dello scorso anno), il costo del sistema ha superato i 10 milioni annui. In particolare, l’Amministrazione dell’Interno ha convenuto con Telecom un importo, una tantum, di 8,64 milioni di euro (Iva esclusa) per l’attivazione del servizio ed un compenso annuo di 9,083 mln di euro (sempre Iva esclusa), in rate semestrali, pari, per 8 anni, a 72.664.000,00. In totale, ha messo nero su bianco dalla magistratura contabile, sono stati spesi 81,3 milioni di euro. Nonostante lo stesso Viminale avesse sollevato dubbi per lo scarso utilizzo del braccialetto elettronico e il relativo elevato costo, la Corte ha rimarcato che il contratto con la Telecom è stato rinnovato, migliorato tecnologicamente e prevedendo un aumento del numero di dispositivi utilizzabili (da 400 a 2.000), in relazione a un potenziale incremento delle richieste da parte dell’Autorità giudiziaria connesse a misure collegate con il decreto svuota carceri. Al di là dei profili di merito, quello che la Corte dei conti ha voluto sottolineare è un dato di fatto “incontestabile”. Ovvero, la spesa di oltre 10 milioni all’anno sostenuta durante la vigenza del contratto 2001-2011 che si è rilevata elevatissima a fronte dell’esiguo numero dei braccialetti utilizzati (solo 14). Ora, reiterare una convenzione significa proseguire una spesa “antieconomica ed inefficace”, che, a detta della stessa Corte, avrebbe dovuto essere oggetto, almeno prima della nuova stipula, di un approfondito esame anche da parte del Ministero della Giustizia. Giustizia: il ministro Riccardi; nelle carceri condizioni disumane, serve un’amnistia Agi, 2 ottobre 2012 Nelle carceri italiane si vive ormai in condizioni disumane, è urgente intervenire a cominciare da provvedimenti di clemenza, amnistia e indulto, come sollecitato dal Capo dello Stato. Ne è convinto il ministro della Cooperazione e della Integrazione Andrea Riccardi. “Ho sempre seguito con molto interesse e con amicizia le iniziative di Marco Pannella, specialmente su temi come la pena di morte e le carceri - ha spiegato dai microfoni di Radio Radicale - Il mondo carcerario italiano è in condizioni di disumanità. Servono provvedimenti di clemenza, ce lo ha ricordato il Presidente della Repubblica”. “Pensiamo ai tossicodipendenti: misure alternative per loro - ha sottolineato Riccardi - sono importanti per il loro recupero, per il sovraffollamento delle carceri, per il loro profilo di detenuti. E io credo che provvedimenti di clemenza, attenzione al problema dei tossicodipendenti, misure alternative, tutto questo potrebbe rendere meno disumano l’universo carcerario”. “Quando ho detto ‘noi non dobbiamo lasciare al Capo dello Stato la responsabilità di questi interventì, - ha aggiunto - intendevo dire che su alcuni temi il governo può fare qualcosa, ma so anche che il governo non può intervenire su tutto. Il Presidente ha detto spesso cose che noi, intendo dire noi italiani, sentiamo: pensiamo alla cittadinanza per i bambini stranieri, o alla legge elettorale. Su questi temi c’è una responsabilità dei partiti politici. E dunque bisogna avere attenzione, non solo alla personalità dell’uomo Napolitano ma al fatto che il Presidente sente ed esprime quel che gli italiani sentono su alcuni temi. E tante volte quasi tutti i partiti rischiano di essere indietro”, ha concluso Riccardi. Giustizia: Radicali; su Twitter nasce un osservatorio sulle morti dietro le sbarre Dire, 2 ottobre 2012 Un hashtag, #DetenutoIgnoto (che riprende il nome dell’Associazione Radicale impegnata da anni per il rispetto dei diritti umani e la riforma del sistema giudiziario) con l’obiettivo di tenere al corrente la pubblica opinione sulla drammatica situazione nelle carceri italiane. In particolare l’hashtag diffonde, in tempo reale e sotto forma di tweet, notizie relative alle morti nelle carceri. Basandosi sul bollettino elettronico della rivista Ristretti Orizzonti, che copre la situazione carceraria italiana dal 2002, i tweet trasmettono i casi di decesso riportando la data, il luogo, l’identità e la causa di morte. Come ad esempio il tweet del 5/8/2012, che riporta il record di “Di Nunzio Valentino, 28 anni, muore nel carcere di Teramo. Causa: suicidio”, o quello del 20/8/2012: “Hudorovich Matteo, 28 anni, muore nel carcere di Udine. Causa: Da accertare”. In questo modo @Fai_Notizia apre una finestra nelle case circondariali e di reclusione italiane, fornendo un’immagine costantemente aggiornata sul numero e l’entità delle vite che si disperdono nel silenzio. Ma oltre alle notizie dei singoli decessi l’osservatorio dirama, a cadenza regolare, varie statistiche che interessano lo stato delle prigioni italiane. Aggregando ed elaborando quotidianamente i dati del dossier Ristretti, l’osservatorio diffonde resoconti “allarmanti”. Altri tweet contano il numero degli omicidi e delle overdosi consumatesi dietro le sbarre. Il twitter-osservatorio visibile sull’account twitter di FaiNotizia.it il format d’inchieste partecipative di Radio Radicale, intende mostrare il fenomeno da una prospettiva reale, facendo emergere dall’anonima natura delle cifre l’identità delle persone morte dietro le sbarre, ma anche fornendo dati utili a fotografare la situazione globalmente. Con l’aggiunta funzionalità di promemoria “costante e infaticabile su quella che è una tragedia troppo spesso taciuta”. Giustizia: carceri illegali, avvocati verso lo sciopero di Dimitri Buffa L’Opinione, 2 ottobre 2012 “Una prepotente urgenza”. Umanitaria, costituzionale, di sopravvivenza. Dopo i 112 morti del 2012, le carceri italiane sono diventate questo. E meritano non solo le esternazioni, sia pure non rituali, come si ostina a rilevare Marco Pannella, del capo dello Stato, che preferisce i discorsi pubblici ai messaggi alle due Camere in materia di amnistia e dintorni, ma anche una giornata di sciopero che l’Unione delle camere penali, in una delle mozioni approvate al congresso di Trieste chiusosi domenica con la riconferma a presidente dell’avvocato Valerio Spigarelli, deciderà come e quando indire. La mozione in questione in realtà era stata proposta dalla camera penale di Napoli, e approvata poi all’unanimità da tutte le altre. In essa si ricordavano dapprima i numeri più o meno aggiornati del sovraffollamento penitenziario: 66.973 presenze a fronte delle poco più di 45 mila tollerabili, con un sovraffollamento dichiarato di 21.688 unità su tutto il territorio italiano. Di questi detenuti circa il 40 per cento, pari a 25.827 persone, sono in attesa di giudizio. Più precisamente 13.854 in attesa del primo grado, 7.343 dell’appello e 4.630 della Cassazione. Poi veniva sottolineata la mancata funzione rieducativa delle patrie galere bellamente data per scontata da tutti alla faccia della Costituzione e del suo articolo 27: la media è un educatore ogni mille detenuti. Cioè una cosa ridicola. Solo che adesso è in gioco un altro più importante diritto costituzionale per il quale stiamo diventando il condannato numero uno d’Europa, un vero e proprio paese pluripregiudicato del reato di tortura, ancorché da noi finora prudentemente non adottato: il diritto alla salute del cittadino. Detenuto o libero che sia. La situazione descritta è questa: i detenuti vivono in spazi che non corrispondono a quelli minimi vitali, con una riduzione della mobilità che è causa di patologie specifiche. In alcuni istituti, si dorme su letti a castello a tre ed anche a quattro piani e spesso manca lo spazio materiale per scendere dal letto, vi è spesso un bagno comune, nella stessa cella, sprovvisto di porta, a volte i detenuti dormono a terra, perché non vi sono più letti. Proprio ieri, guarda caso, a proposito dell’amnistia che i radicali di Pannella e Bernardini chiedono con forza e senza infingimenti e calcoli preelettorali, si è pronunziato persino il ministro Andrea Riccardi, strigliando e sollecitando i propri colleghi di governo ad assumersi la responsabilità di dare corpo loro stessi a un progetto di legge di clemenza invece che di rifugiarsi sempre dietro le gonnelle del capo dello stato e le sue iniziative. Come si diceva nelle carceri c’è una sorta di pena di morte indiretta data dal fatto solo di transitarvi e senza distinzione di reati e di gravità degli stessi: l’indice di mortalità è da alcuni anni impressionante, con un decesso ogni due giorni. Al 10 settembre 2012 ci sono stati 112 morti. E i suicidi, che non si contano più, si sono allargati “per simpatia”, cioè quel principio per cui due corde di uno strumento finiscono per suonare assieme, agli agenti di custodia e al personale direttivo dei penitenziari. La perdita di dignità è la causa principale dei suicidi che, dall’inizio dell’anno, sono stati 40 (dato al 10 settembre), con una media di un suicidio ogni 5 giorni. Gli atti di autolesionismo registrati sono stati migliaia e almeno ogni mese gli agenti di custodia sventano una cinquantina di altri possibili suicidi. Inoltre i rapporti tra i detenuti e la famiglia sono, di fatto, annullati. Un’ora di colloquio a settimana, svolto spesso in condizioni tali da non consentire una relazione affettiva. Da ultimo, ma non per ultimo, il principio della territorialità della pena è spesso ignorato, impedendo, di fatto, ogni rapporto proprio con la famiglia. Oramai una persona incarcerata a Roma può venire sbattuta a Udine o viceversa solo per esigenze di capienza numerica. Rispetto a ciò che ha fatto la politica? Da gennaio 2010, cioè da circa tre anni, è stato proclamato lo “stato di emergenza” per il sistema penitenziario, senza che siano stati emanati significativi e concreti provvedimenti affinché tale stato cessasse. Ora con il governo tecnico il problema si ripete. Infatti, ancora una volta la discussione in Parlamento del disegno di legge su messa alla prova e misure alternative al carcere, prevista nei giorni scorsi, è stata rinviata a data da destinarsi. Tutto ciò spiega perché nel congresso dell’Unione delle Camere penali appena conclusosi a Trieste, anche se si è parlato di moltissimi altri problemi, come la terzietà del giudice, la separazione delle carriere, il problema della depenalizzazione dei reati minori, la follia della legge ex Cirielli sulla recidiva e di quelle sull’immigrazione e sulla droga, nonché di intercettazioni, responsabilità civile del magistrato e del troppo protagonismo politico di alcuni soggetti della pubblica accusa, tutti temi puntualmente sottolineati nella relazione di Spigarelli, la parte del leone del “cahier de doleances” non poteva che essere riservato alle carceri. C’è stata anche una specie di performance teatrale in cui alcuni avvocati sono stati volontariamente dento una gabbia di due metri per tre per simulare la vita in una cella 24 ore su 24. Non è mancata un’appassionata arringa di Marco Pannella, tutta volta a rilanciare la parola dell’amnistia subito e dell’appello al capo dello stato perché metta nero su bianco il tutto in un messaggio alle camere così come previsto dalla Costituzione, visto che nella funzione presidenziale è valido più che mai il motto latino “scripta manent” contrapposto all’altro stra noto “verba volant”. Per questo le Camere Penali, constatato che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo continua a stigmatizzare i trattamenti disumani e degradanti a cui sono sottoposti i detenuti in Italia, hanno deciso di cavalcare la situazione carceraria come pietra dello scandalo di una protesta che porterà all’astensione delle udienze. La politica italiana, divisa tra scandali, corruzione e legge sulla stessa, soldi pubblici fagocitati e timore di finire in galera, continua a fare orecchie da mercante. A qualcuno viene pure in mente che non si vogliano svuotare le galere dai tanti poveri cristi che vi alloggiano per timore che si crei spazio per accogliere i grassatori del denaro pubblico. Regionale, provinciale, comunale o statale che sia. Giustizia: Spigarelli (Ucpi); numeri falsati su capienza reale delle carceri Il Velino, 2 ottobre 2012 “I numeri del sovraffollamento stanno facendo deflagrare la situazione”. Così il presidente dell’Unione Camere Penali Valerio Spigarelli, ospite della trasmissione “Uno Mattina”, ha parlato dell’emergenza carceri che, ha ricordato, “è già stata al centro dell’astensione dei penalisti avvenuta dal 17 al 21 settembre scorsi”, e che sarà ancora “motivo di protesta”. Dal XIV Congresso delle Camere Penali a Trieste conclusosi domenica scorsa, è stata infatti approvata una mozione che impegna l’Ucpi a portare avanti la battaglia sulle carceri. Ci sono “soluzioni allo studio del Parlamento - ha detto Spigarelli - ma ci vuole la volontà politica per intervenire. Il Capo dello Stato, parlando di amnistia, ha fatto notare che serve una maggioranza qualificata”. Il leader dei penalisti, reduce da un tour di visite nei penitenziari del Paese, ha poi sottolineato come i numeri relativi ai posti disponibili, oltre 45mila, (superati di oltre 21mila unità per arrivare a sfiorare i 67mila) siano “falsati: in realtà la capienza reale - ha aggiunto Spigarelli - è assai più ridotta, perché ci sono interi reparti, spesso inutilizzabili. Lo spazio a disposizione dei detenuti è assai ridotto, tanto che la Corte Ue ha condannato l’Italia per questo”. Infine il presidente dell’Ucpi ha puntato l’indice contro i troppi rinvii processuali: “Nel 95% dei casi, come ha rilevato una statistica dell’Unione Camere Penali, il rinvio non viene chiesto né dall’imputato né dall’avvocato, ma dipende da una cattiva amministrazione della macchina giudiziaria: errori di notifiche, testimoni assenti o il giudice che cambia nelle varie fasi processuali”. E “le dichiarazioni propagandistiche di alcuni Procuratori della Repubblica che schizofrenicamente invocano l’allungamento dei tempi di prescrizione per risolvere il problema della ragionevole durata - conclude - che sarebbe come a dire alziamo i parametri dell’inquinamento, così mettiamo mano al problema della contaminazione delle acque, certo non aiutano a risolvere la questione”. Giustizia: alla Camera attesi rapidi sviluppi per ddl su pene alternative Asca, 2 ottobre 2012 La Commissione Giustizia continua ad avere in primo piano il Ddl 4041 contenente le misure di depenalizzazione e pene alternative alla detenzione per attenuare il sovraffollamento carcerario. In merito alla gravità ed urgenza del problema è tornato recentemente a farsi sentire il Capo dello Stato sottolineando che dalla emergenza in atto deriva un danno alla immagine del Paese e che sono indispensabili interventi per dare ‘strutturalè soluzione al problema. Il primo obiettivo è proprio quello di puntare sulle misure alternative al carcere. Il Ministro della Giustizia ha più volte sottolineato la necessità ed urgenza di questo provvedimento e per accelerare l’iter l’Esecutivo è disponibile a stralciare la parte dell’articolato riguardante la depenalizzazione (sulla quale si concentrano le maggiori riserve) in modo da agevolare l’esame degli altri articoli riguardanti l’affidamento in prova e le pene alternative alla detenzione. Giustizia: la tortura infinita della legge che non c’è di Lorenzo Guadagnucci (Comitato Verità e Giustizia per Genova) Il Manifesto, 2 ottobre 2012 Senato. Sono le camere a “vigilare” sulla polizia oppure accade il contrario? Le preoccupazioni infondate degli apparati di sicurezza insabbiano il divieto e impongono il dietrofront ai partiti. L’unanimità raggiunta dai gruppi in commissione dura pochi giorni, l’aula di Palazzo Madama ci ripensa e chiede più tempo per il nuovo reato. Basta con un’ipocrisia che dura da decenni. Si ha un bel dire che l’introduzione del reato di tortura è una questione di civiltà: viviamo in un paese nel quale il parlamento gioca da anni a rimpiattino e non si vergogna d’apparire sia impotente che meschino. Impotente, perché la discussione va avanti da più legislature e ogni passo avanti verso l’approvazione di una legge viene rapidamente azzerato con astute operazioni dell’ultimo minuto. Meschino, perché la questione di civiltà viene smontata con un argomento così becero da non sembrare vero: “Dobbiamo tutelare le forze dell’ordine”, dicono gli avversari della legge, come se la punizione della tortura - ahinoi documentata in questi anni numerose volte - fosse una vessazione per chi veste una divisa e non un sacrosanto principio di giustizia e di tutela di beni primari come la dignità delle persone e la credibilità dello stato. È successo anche stavolta. Non si è fatto in tempo ad annunciare l’approvazione all’unanimità in commissione giustizia al senato di un nuovo testo di legge (peraltro tutt’altro che ottimale, a mio modesto giudizio), che è arrivata la marcia indietro. Il testo torna in commissione e andrà rivisto, perché un gruppo di parlamentari (di centro e centrodestra) teme che il testo così com’è, anzi com’era, potrebbe essere usato “strumentalmente a danno delle forze dell’ordine” (Gasparri dixit). La verità è che abbiamo un parlamento così debole, così lontano da una cultura autenticamente democratica e costituzionale, che forse è meglio lasciar perdere e rinviare tutto a tempi migliori: in queste condizioni, nella migliore delle ipotesi, avremmo una mediocre e alla fine inutile legge sulla tortura. L’impegno tradito Mancano le condizioni, in questo scorcio di legislatura e più in generale in questo contesto politico, per approvare riforme davvero democratiche. E dovremmo chiederci perché lo spauracchio della minaccia alla operatività delle forze dell’ordine sia agitato con tanta disinvoltura e tanta efficacia. La risposta è che tale perversa diffidenza verso il principio di lealtà e responsabilità istituzionale di fronte alla legge e ai diritti dei cittadini, riflette la distorsione del rapporto fra apparati di sicurezza e organi elettivi. I secondi dovrebbero esercitare sui primi un legittimo quanto necessario “controllo democratico”, ma da anni avviene semmai l’opposto, con i vertici degli apparati che tengono sotto scacco parlamenti e governi. Non è un caso che le obiezioni al testo di legge uscito dalla commissione siano state sostenute soprattutto da due parlamentari che provengono dalla polizia di stato: Achille Serra, a lungo questore e prefetto, oggi deputato Udc (ma eletto nelle file del Pd), e Filippo Saltamartini, segretario nazionale del sindacato di polizia Sap prima d’essere eletto senatore dal Pdl. Entrambi hanno contestato sia alcuni dettagli del testo di legge, in particolare le parti sulla tortura psicologica, sia la necessità tout court di introdurre nell’ordinamento il reato di tortura, poiché il codice conterrebbe già le sanzioni necessarie. È una tesi risibile e basterebbe ricordare ciò che hanno scritto i giudici del tribunale di Genova nella sentenza che ha inflitto decine di condanne (quasi tutte cadute in prescizione) per gli abusi sui detenuti nella caserma di Bolzaneto durante il G8 del 2001. Hanno scritto che il processo è stato ostacolato da una precisa lacuna dell’ordinamento: la mancanza di uno specifico reato di tortura. Un reato specifico è necessario La legge sulla tortura, in questo frangente storico, ha sia una dimensione pratica - quella indicata dai giudici del processo Bolzaneto -, sia una dimensione politico-istituzionale: si tratta di stabilire se vogliamo o no affrontare la crisi economica e istituzionale in corso, che è anche una crisi di legittimità democratica, mantenendo dritta la barra dei diritti. Dobbiamo domandarci se è ancora possibile accettare che diritti fondamentali e garanzie stabilite a livello internazionale siano trascurabili e quindi rinviabili sine die perché le forze di polizia si sentirebbero minacciate da una loro formale tutela. Dobbiamo chiederci se è possibile accettare la chiusura corporativa delle forze di sicurezza, che proprio in questi mesi, di fronte ai clamorosi e umilianti esiti dei processi seguiti al G8 del 2001, con condanne senza precedenti e l’estromissione per via giudiziaria di altissimi dirigenti di polizia, hanno reagito con un misto di viltà e arroganza. Il capo della polizia è rimasto al suo posto senza dare il minimo segnale di consapevolezza della gravità dei comportamenti tenuti dai suoi uomini a Genova e durante il processo Diaz, il sottosegretario Gianni De Gennaro è arrivato a esprimere solidarietà con i condannati. A fronte di tutto ciò, le forze parlamentari sembrano inermi e prive di argomenti. Non osano agire e quando agiscono stentano ad andare fino in fondo. Lo stesso testo sulla tortura approvato in commissione è una dimostrazione di debolezza della cultura democratica nel nostro paese. Tre critiche al testo Pur di raggiungere l’unanimità, si è accettato di cambiare il testo originario in tre punti fondamentali. 1) È caduto il principio - che altrove è pacifico - secondo il quale la tortura è un reato specifico del funzionario pubblico (si temeva, ancora, che i vertici di polizia si sentissero minacciati...); 2) È stata cassata la norma che istituiva un fondo per la tutela delle vittime: norma sacrosanta, se pensiamo a quanto sono gravi e durature le menomazioni che colpiscono chi subisce tortura; 3) Non è stato introdotto il principio che la tortura è un reato che non può mai andare in prescrizione. Il testo uscito dalla commissione era quindi tutt’altro che perfetto. Ma era “il massimo che si poteva ottenere”, hanno osservato i senatori del Pd. È sicuramente così, ma si è subito visto quanto fosse fragile la mediazione. Vista la materia, visti i precedenti (anni e anni di fallimenti) e considerata la delicatezza della questione, che investe i rapporti fra cittadini e istituzioni, il livello di tutela dei diritti fondamentali, la trasparenza e la responsabilità delle forze di sicurezza, credo si possa arrivare a una conclusione: non è più tempo di affrontare temi del genere nel chiuso delle aule parlamentari. Tutta la discussione è avvenuta in commissione al senato, senza il coinvolgimento non tanto dei cittadini ma nemmeno delle maggiori forze politiche, che in nessun momento hanno avvertito la necessità di rendere pubblico il dibattito in corso, gli ostacoli esistenti, le mediazioni in itinere. Serve una mobilitazione vasta Una discussione pubblica non potrebbe che aiutare l’approvazione di una buona legge contro la tortura. E di una buona legge, accompagnata da una discussione trasparente e approfondita, hanno bisogno le nostre istituzioni e in particolare le forze dell’ordine, che con il silenzio, le mediazioni al ribasso, l’accettazione di condotte proterve, stiamo spingendo verso una pericolosa zona di opacità. Una democrazia in crisi, qual è la nostra, ha bisogno di più democrazia. Forze di polizia soffocate da decenni di corporativismo e autoreferenzialità hanno bisogno di una riforma democratica. In attesa di un parlamento migliore di questo, è necessario fare cultura, preparare progetti, stimolare partecipazione. Non ci sono scorciatoie. A questo servirà, anche, il convegno convocato venerdì prossimo a Firenze. Venerdì un convegno alle “Leopoldine” Venerdì 5 ottobre a Firenze (Sala delle Leopoldine, piazza Tasso 1, ore 17,30) parleremo di tortura con Turi Palidda, uno dei pochi seri studiosi delle forze di polizia, Riccardo Noury di Amnesty International, Patrizio Gonnella di Antigone. Il convegno si intitola “I diritti prima di tutto” ed è significativo che fra i promotori - con il Comitato Verità e Giustizia per Genova, il Centro documentazione Carlo Giuliani, l’associazione Tatawelo, Arci e Libera Firenze - figurino l’Anpi e il Coordinamento antifascista fiorentino. In fondo, nella “Repubblica nata dalla Resistenza”, è proprio di questo che stiamo parlando: che cosa intendiamo, concretamente, per antifascismo. Giustizia: Enzo Tortora, vittima di giudici e stampa di Vittorio Roidi Il Manifesto, 2 ottobre 2012 Ricordando Enzo Tortora la giustizia italiana fa i conti con i propri orrori. Perché quello di Tortora, non fu un errore, ma un orrore, una storia di malagiustizia, una vergogna. È straordinario scoprire che i pubblici ministeri, a quei tempi incaricati di svolgere la parte dell’accusa, abbiano poi fatto carriera. Altro che responsabilità dei giudici: sono stati generosamente premiati. Nonostante le sviste, l’omonimia, lo spirito persecutorio nei confronti del popolare presentatore. Tortora era il pesce grosso, finito dentro la loro inchiesta sui traffici di droga. Non volevano farselo scappare. Per questo presero per oro colato qualsiasi pentito (perfino Barra!). Per questo non controllarono neppure il nome e il numero, su quell’agendina telefonica, salvo poi accorgersi che non si trattava di Tortora ma di Tortona. Questa vicenda fu una delle pagine più oscure della nostra storia giudiziaria. Giusto raccontarla, come fa la fiction della Rai, a chi per ragioni di età, non l’ha potuta conoscere. Ma c’è un secondo aspetto, al quale in trenta anni si è sempre dedicata minore attenzione. E sono le vergogne che riguardarono il nostro mestiere, che coinvolgono anche vasti settori del giornalismo. I giornali riportarono le notizie che uscivano dall’inchiesta? No, non è così. Ci furono articoli, titoli, commenti, velenosi, odiosi, che coprirono Enzo Tortora di disprezzo, che lo condannarono subito, dipingendolo come un bellimbusto, famoso e camorrista. Quegli articoli e quei titoli vennero subito dimenticati, perfino quando Tortora (in appello) fu poi assolto. Perfino quando morì di cancro dopo aver vinto la sua battaglia ed essere tornato in tv, la sera del famoso: “Dove eravamo rimasti?”. Uno dei pochi aspetti positivi di quel dramma fu la decisione di non pubblicare più foto di persone arrestate con le manette ai polsi. I giornalisti ammisero che era un’umiliazione intollerabile per chi non era stato ancora giudicato (e forse anche per un essere umano condannato). Ma per i giornalisti italiani discutere di Tortora, seriamente, significa oggi discutere del modo di fare cronaca. È forse cambiato? O è lo stesso? Dopo tanti anni, se uno legge e ascolta i resoconti della maggior parte dei cronisti trova una tecnica giornalistica non molto distante. Si prendono per buone le accuse; si fanno titoli nei quali l’accusato sembra colpevole; si dimentica che la giustizia, di fronte a quell’essere umano caduto in trappola, deve ancora fare il proprio corso. È vero. In mezzo c’è stata una riforma del codice di procedura penale che offre maggiori strumenti alla difesa. Ma i pubblici ministeri sono ancora le fonti principali dei giornali e la presunzione di innocenza è solo un principio scritto solennemente nella Costituzione. I giornalisti si sono dati alcune regole deontologiche, ma è altrettanto evidente che le cronache di oggi somigliano ancora troppo a quelle di allora. Per questo dobbiamo e vogliamo ricordare Enzo Tortora. Giustizia: il carcere può cambiare musica sull’onda di “Jailhouse Rock” di Patrizio Gonnella e Susanna Marietti Il Manifesto, 2 ottobre 2012 Da Bollate e Rebibbia canzoni e “Gr” fatti dai detenuti. Ogni puntata su un musicista dietro le sbarre, da Jimi Hendrix alle Pussy Riot. “Jailhouse Rock ha dettato il nostro orologio con un ticchettio di note musicali che hanno scandito le nostre giornate, il nostro tempo, le nostre emozioni. Ci avete aiutato a far scorrere il tempo, perché l’appuntamento delle registrazioni era diventato uno spezzare la settimana, il lavoro, le prove e la fine settimana insieme in studio a registrare le cover da inviarvi. siamo la voce del mondo detentivo”. Jailhouse Rock è una trasmissione - oltre che da qualche giorno anche un libro uscito per Arcana edizioni - che va in onda su Radio Popolare tutte le domeniche dalle 21. Ha un sottotitolo emblematico, “Suoni, suonatori e suonati dal mondo delle prigioni”. Perché purtroppo a volte qualcuno in carcere capita anche che venga suonato. Ogni puntata è dedicata a un musicista finito dietro le sbarre. Viene raccontata la sua storia. Vengono ascoltate le sue canzoni. La prima puntata, andata in onda domenica sera, era dedicata alle Pussy Riot, ancora ingiustamente rinchiuse in un carcere russo per avere cantato una preghiera punk in una chiesa ortodossa. Il virgolettato in apertura è invece del gruppo di detenuti del carcere di Bollate a Milano, che tutte le settimane, senza saltarne mai una, collaborano alla trasmissione con un contributo musicale. Alcuni di loro erano musicisti già prima di entrare in carcere, altri lo sono invece divenuti in galera: lì a Bollate c’è uno studio di prova e registrazione. Hanno suonato di tutto: rock, punk, country, rap, soul. Da Jimi Hendrix a Roberto Murolo. Qualche mese fa gli si era rotto un mixer. Ha sentito il loro disperato appello dalla radio Pino Insegno. E il mixer è arrivato. Se non ci fosse un poliziotto dal grande cuore rock, Francesco Mondello, nulla sarebbe possibile. Tutte le settimane fa uscire dalla prigione i file audio e ce li manda. La trasmissione dà voce diretta ai detenuti. E non solo con chitarre e percussioni. Un’altra grandiosa collaborazione delle nostre carceri con Jailhouse rock è quella che dà vita al Grc, il Giornale radio dal carcere. Da Bollate, ma anche dal carcere romano di Rebibbia, altri due gruppi di detenuti organizzati in due redazioni curano con grande professionalità il Grc. In piena autonomia e senza censure, scelgono le notizie, le elaborano e conducono in prima persona il radiogiornale. Sono aiutati da Valentina Calderone, Maria Itri, Tilde Napoleone e Susanna Ripamonti. Alcune puntate erano così belle che Radio Rai ha voluto trasmetterle. Ospiti fissi della trasmissione sono Carmelo Cantone, provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria in Toscana, don Sandro Spriano, cappellano a Rebibbia, Lucia Pistella con le sue barzellette su guardie e carceri e Mirko Mazzali con i suoi consigli da avvocato. Bollate e Rebibbia non sono tuttavia realtà rappresentative del pianeta carcerario italiano. A Bollate i detenuti vivono in un regime aperto. La vita quotidiana è scandita da impegni e attività. Rebibbia, pur con tutti i gravi problemi di un grande carcere, è stato lo scenario di quello splendido film che è “Cesare deve morire” dei fratelli Taviani, ora anche candidato all’Oscar. In buona parte delle galere italiane i detenuti sono costretti a oziare rinchiusi nelle celle per venti ore al giorno. Non fanno vita comune. Non vanno a scuola. Non lavorano. Non fanno nulla. Altro che giornale radio e cover. Eppure non è scritto in alcuna norma dell’ordinamento penitenziario che la detenzione debba avvenire in questo modo, fortemente lesivo della dignità umana nonché inutile rispetto a ogni ipotesi di reintegrazione sociale. Il modello di carcere aperto di Bollate dovrebbe essere la norma, non l’eccezione. Quando recentemente l’amministrazione penitenziaria, per volontà di Giovanni Tamburino e Luigi Pagano, ha diramato una circolare che andava in questa direzione, il Sappe (Sindacato autonomo della polizia penitenziaria) e il senatore Belisario dell’Idv hanno gridato all’autogestione. Eppure era solo una circolare di buon senso, fatta nella consapevolezza che il sovraffollamento - 22mila persone in più rispetto ai posti letto regolamentari - ha ulteriormente deteriorato le condizioni di vita dei detenuti. L’esperienza di Bollate deve moltiplicarsi. Nel nome del carcere della responsabilità contro il carcere dell’umiliazione. Un obiettivo che sarà raggiunto quando vi sarà un’opinione pubblica sempre meno ruvida e vendicativa. Toscana: chiusura degli Opg, dalla Regione massimo sostegno all’iniziativa nazionale www.marketpress.info, 2 ottobre 2012 Piena condivisione dell’obiettivo di fondo della giornata di mobilitazione nazionale per la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. L’assessore al welfare Salvatore Allocca ha inviato una lettera all’organizzazione dell’iniziativa toscana, che si è tenuta stamattina nella Sala Giglio del Foligno a Firenze, impossibilitato a parteciparvi a causa della contemporanea convocazione della giunta regionale straordinaria. “Condivido l’obiettivo di fondo della concreta attuazione di quanto sancito dalla legge 9 del 2012 - scrive Allocca - circa la chiusura degli Opg nei tempi stabiliti e con le risorse previste necessarie ed utili per attivare quel percorso chiaro, funzionale, articolato e sostenibile che può consentire sul serio una vera svolta nella presa in carico, da parte della comunità toscana nel suo insieme e dei Servizi sociosanitari regionali, dei cittadini toscani portatori di disagio psichico ed autori di reato”. L’assessore, dopo aver ricordato il ruolo di traino svolto in questi anni dalla Toscana in tutto il percorso nazionale, sottolinea che la stessa “intende rispettare quanto previsto dalla legge 9/12 non solo per il dovuto rispetto legislativo ma anche, e soprattutto, per convinzione e condivisione. Stiamo infatti lavorando in questa direzione sia per quanto riguarda l’organizzazione delle necessarie azioni regionali che per il coordinamento del Bacino interregionale di competenza territoriale (Sardegna, Liguria ed Umbria). L’intenzione è giungere ad un unico Piano di bacino che, se interattivo e sinergico, può diventare più concreto ed incisivo”. Allocca elenca quindi le azioni da compiere a livello regionale. Anzitutto rivedere sia la delibera approvata dalla Regione ad inizio ottobre 2011, contenente le “Linee di indirizzo per il superamento dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Montelupo Fiorentino” perché nel frattempo è stata emanata la legge 9/12, che la parte specifica contenuta nella Bozza del Piano Socio Sanitario Integrato Regionale. Quindi formulare ed attivare in tempi brevissimi un Piano regionale per la chiusura di Montelupo che preveda anche il rilancio ed il forte coordinamento delle funzioni dei Dipartimenti di Salute Mentale regionali per promuovere e favorire la presa in carico dei pazienti riconosciuti dimissibili sul territorio e nelle comunità oppure, eventualmente, in strutture residenziali esclusivamente a gestione sanitarie (una per Area Vasta) eventualmente con protezione perimetrale se necessario e come previsto. Inoltre attivare prontamente un flusso costante e periodico, tra Asl 11 e Regione, di dati sulle presenze dei pazienti a Montelupo (condizione clinica, posizione giuridica, residenza ecc.), definire una conduzione regionale chiara del percorso (responsabilità, risorse, organizzazione) in modo da poter verificare costantemente l’iter, creare un comitato consultivo tecnico non istituzionale in appoggio al Settore regionale competente, rilanciare i lavori del Coordinamento del Bacino Interregionale assegnato alla Toscana. L’assessore conclude la lettera annunciando l’incontro, nei prossimi giorni, con il nuovo provveditore dell’Amministrazione penitenziaria, Carmelo Cantone, con l’obiettivo di riprendere il discorso complessivo sul versante carcerario toscano. Reggio Emilia: morto internato nell’Opg, era ricoverato in uno dei reparti “sanitarizzati” Ansa, 2 ottobre 2012 Questa mattina un uomo italiano internato nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia è stato trovato morto. A dirlo Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe, che ha spiegato che l’uomo era ricoverato in uno dei reparti così detti “sanitarizzati”, cioè gestiti esclusivamente da personale medico e paramedico. La morte, scrive il Sappe “sarebbe avvenuta per arresto cardio-circolatorio”. “Ricordiamo che gli ospedali psichiatrici giudiziari dovrebbero essere chiusi entro marzo 2013 e la gestione affidata integralmente alle regioni e, quindi, al personale medico e paramedico - ha detto Durante - Tale possibilità è al momento remota, considerato che ogni ospedale psichiatrico giudiziario ha una competenza extraregionale e tutte le regioni dovrebbero organizzarsi per accogliere i malati residenti nel proprio territorio. Peraltro, la sperimentazione in atto dei reparti sanitarizzati dimostra come il problema delle morti non sia al momento risolvibile, soprattutto con soggetti affetti da patologie molto gravi. Ci preoccupa molto, invece, anche come cittadini, l’eventualità che dopo la chiusura venga a mancare un adeguato controllo dei soggetti particolarmente pericolosi”. Reggio Emilia: vietate le proteste pacifiche in carcere… anzi no di Daniele Biella Vita, 2 ottobre 2012 Un avviso interno intima ai detenuti la cessazione di ogni reclamo. “Ma riguardava una situazione specifica che si è già risolta, nessun divieto al dissenso nonviolento”, rivela Pietro Buffa, capo del Prap dell’Emilia Romagna “Quella di vietare le proteste pacifiche nel carcere di Reggio Emilia è una decisione assurda e illegittima”. Non usa mezzi toni Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone, nel condannare il contenuto dell’avviso pubblicato a fine settembre su varie bacheche interne all’istituto di pena emiliano. Si avvisa la popolazione detenuta di tutti i reparti detentivi che, dalla data odierna non sarà più tollerata alcuna forma di protesta anche se pacifica. Qualsiasi violazione alla presente disposizione sarà oggetto di rilievi disciplinari anche collettivi: questo il testo affisso, a firma del direttore del carcere, che ha “bucato” le strette maglie del mondo inframurario perché alcuni detenuti l’hanno staccato e spedito via posta al conduttore della trasmissione “Radio carcere”. “Chiediamo all’Amministrazione penitenziaria di rivedere questa decisione”, ha poi specificato Gonnella, senza sapere che tale richiesta proprio in quelle ore era già arrivata sul tavolo di Pietro Buffa, dal 21 agosto scorso Provveditore regionale dell’Emilia Romagna (prima era direttore della Casa circondariale Lorusso e Cotugno di Torino): era lui che doveva decidere la legittimità o meno di tale avviso. Vita.it l’ha raggiunto al telefono in esclusiva. Provveditore Buffa, l’avviso che vieta le proteste pacifiche non va contro i diritti dei detenuti? Direi che il problema non si pone, perché la situazione si è risolta nel giro di poco tempo, e senza che sia stato necessario il mio intervento. Mi spiego meglio: è chiaro che non si possono vietare le forme nonviolente di protesta, esiste il diritto al dissenso e va tutelato. Nel caso in questione, tutto è nato al termine della “Battitura della speranza”, iniziativa promossa dal Partito Radicale che tramite pentole sbattute contro le inferriate ha voluto (riscuotendo un’alta adesione: almeno 100 su 208 carceri hanno visto aderire decine di detenuti, ndr) richiamare l’attenzione sui problemi odierni del carcere, sovraffollamento in primis. Il fatto è che in coda a questa protesta del tutto idonea, alcuni gruppi di detenuti hanno continuato nei giorni successivi a fare rumore con le pentole, in modo del tutto strumentale dal nostro punto di vista. L’avviso era quindi per questi detenuti “rumorosi”? Sì, la loro era un’azione non organizzata, eccessiva, anche perché recavano disturbo a tutti, altri reclusi compresi. Da quando è comparso il foglio in bacheca, la cosa si è risolta, ma in modo improprio l’avviso è rimasto appeso ancora per i giorni successivi, fino a quando è stato reso pubblico. Lei ha preso da poco più di un mese le redini del Prap, Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria dell’Emilia Romagna dopo aver guidato per anni il carcere di Torino. Cosa ha trovato sulla sua nuova scrivania? È un bel salto passare da direttore di un istituto a Provveditore regionale. Sto cercando in questi primi tempi di dare un senso al mio lavoro, tra tante questioni aperte e un mondo come quello del carcere che necessita di una svolta, in particolare per quanto riguarda i circuiti penitenziari, ovvero le modalità di espiazione di una pena, gli arresti domiciliari, l’accesso all’esecuzione penale esterna, al lavoro durante il periodo di reclusione. Cagliari: Sdr; deputati chiedano Commissione parlamentare inchiesta su nuovo carcere Ristretti Orizzonti, 2 ottobre 2012 “Lavori assegnati poco meno di 7 anni fa senza bando pubblico e secretati. Quasi 60 milioni di euro spesi. Diritti dei lavoratori costantemente violati. Fine dei lavori misteriosa. I Deputati sardi devono sollecitare una Commissione Parlamentare d’inchiesta. L’impresa Opere Pubbliche non può godere di altre immunità sta producendo pericolose incertezze”. Lo sostiene Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, con riferimento alla nuova clamorosa presa di posizione degli operai del cantiere nel territorio dove sta sorgendo il nuovo carcere di Cagliari. “Per quale ragione - chiede Caligaris - l’impresa “Opere Pubbliche” non è riuscita finora a rispettare gli impegni, non paga regolarmente i lavoratori e non indica nel cartello del cantiere la data di ultimazione della struttura? Perché si continuano ad assegnare importanti finanziamenti senza che si facciano verifiche sulla capacità reale di portare a compimento i lavori? Sono domande a cui è opportuno rispondere e può farlo una Commissione Parlamentare con funzioni ispettive e di controllo”. “Anche l’attenzione manifestata dalla Ministra della Giustizia Paola Severino - sottolinea la presidente di Sdr - è naufragata dinnanzi alla manifesta non volontà dell’impresa di operare secondo criteri condivisibili. Si è generata un’indifferenza del Governo a cui è necessario contrapporre un’azione forte del Parlamento altrimenti davvero si corre il rischio di un’incompiuta costata troppo ai cittadini. Un’impresa scarsamente rispettosa dei diritti non merita di occupare un così importante ruolo nel Paese. Fare chiarezza è dunque un imperativo proprio in nome di quella sicurezza che gli allora Ministri delle Infrastrutture Pietro Lunardi e della Giustizia Roberto Castelli intendevano garantire”. “Mentre Opere Pubbliche gioca a nascondino - conclude Caligaris - i cittadini privati della libertà, che sono reclusi negli Istituti sardi, vivono condizioni igieniche e logistiche inaccettabili e con loro innanzitutto gli Agenti di Polizia Penitenziaria e i diversi operatori delle carceri ma anche i familiari. L’inchiesta potrebbe chiarire anche altri aspetti di un progetto per edificare 4 Istituti di Pena in Sardegna sostenuto con 160 milioni di euro”. Reggio Calabria: Pd; riaprire il carcere di Laureana, per far rivivere una speranza Ristretti Orizzonti, 2 ottobre 2012 Nota del Pd (Rc): La decisione di chiudere la Casa circondariale a custodia attenuata di Laureana di Borrello da parte del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria è una scelta miope ed incomprensibile. Nella giornata di sabato scorso circa trenta detenuti sono stati improvvisamente trasferiti in altri carceri calabresi e fuori della Calabria, mentre il personale è stato ridislocato, senza interlocuzione alcuna, presso altri Istituti della regione. Le motivazioni addotte a supporto di tale scelta non contengono alcun elemento di plausibilità o di fondata giustificazione. La carenza di organici esistente negli Istituti di pena della nostra regione non può essere certo colmata attraverso la chiusura di una delle poche strutture di eccellenza esistenti nel panorama carcerario italiano. L’Istituto di Laureana, difatti, è considerato unanimemente come una vera e propria eccellenza del sistema penitenziario italiano ed ha fornito nel corso di questi anni a decine di giovani detenuti nelle carceri calabresi l’opportunità di impegnarsi in un percorso di risocializzazione che li portasse fuori dai circuiti della criminalità organizzata. Con l’interruzione di questa esperienza si lancia un pessimo messaggio e si mette in discussione il reale proposito di voler effettivamente investire sul recupero e l’inclusione lavorativa e sociale dei detenuti ed in particolare di quelli più giovani. A fronte di un quadro della situazione carceraria italiana e calabrese caratterizzato da sovraffollamento, carenza di servizi e condizioni umane indicibili, l’esperienza modello di Laureana ha rappresentato in maniera efficace un esempio coerente di applicazione del dettato costituzionale, della pena intesa come momento di riabilitazione della persona. Il Partito Democratico reggino chiede pertanto che venga riconsiderata tale decisione, venga riaperto l’Istituto di Laureana e con la riapertura possa essere rilanciato il progetto che ha consentito a tanti giovani di uscire dal tunnel della devianza e della ‘ndrangheta coltivando una rinnovata speranza di vita dentro le regole e nella legalità. A tale scopo ha già impegnato i propri rappresentanti parlamentari nazionali affinché si facciano promotori di un intervento nei confronti del governo per la riapertura della Casa circondariale “Luigi Daga”, così da ripristinare un positivo percorso di rieducazione e risocializzazione dei detenuti e far rivivere nella Piana di Gioia Tauro un’esperienza modello qual è stata fin dalla sua creazione, nel 2004, quella di Laureana. Napoli (Fli): chiusa struttura modello Con un’interrogazione al ministro della Giustizia la deputata di Fli Angela Napoli interviene in merito alla recente chiusura del carcere di Laureana di Borrello, nel reggino. Napoli sottolinea che l’Istituto penitenziario “Luigi Daga” di Laureana di Borrello era una struttura “modello” e sperimentale in grado di ospitare 68 detenuti, per lo più giovani, tra i 18 e i 34 anni di età, ai quali era garantito un percorso di detenzione associato a un’adeguata attività di laboratorio: tre serre, una falegnameria e un laboratorio di ceramica. “Nel corso dell’anno - aggiunge - la falegnameria pur lavorando a singhiozzo a causa dei tagli di bilancio, è riuscita, grazie al lavoro di 4 detenuti, a fornire tutto il mobilio per arredare il carcere di Crotone. Due giorni fa i 29 detenuti (incomprensibile il numero di presenti a fronte dei 68 posti previsti) sono stati improvvisamente trasferiti, contribuendo così - dice Napoli - all’aumento del già presente sovraffollamento negli altri Istituti e il personale di Polizia Penitenziaria, tutto distaccato, rientrerà nelle sedi di provenienza, mentre quello appartenente al Comparto Ministeri, effettivamente assegnato all’Istituto, senza essere interpellato e senza consultazione delle organizzazioni sindacali, è stato già dislocato presso tutti gli Istituti della Calabria”. La deputata ritiene inopportuno “chiudere una struttura carceraria così importante e rieducativa per i giovani detenuti, facendola, peraltro, diventare abbandonata pur di fronte alla nota necessità” e chiede “quali urgenti iniziative intenda assumere perché venga riaperto l’Istituto penitenziario “Luigi Daga” di Laureana di Borrello e perché si possa così garantire la detenzione rieducativa ai giovani detenuti”. Bergamo: il carcere è stracolmo, ma i detenuti lavorano bene di Michele Andreucci Il Giorno, 2 ottobre 2012 I tempi in cui veniva chiamato “l’Hilton” delle carceri italiane, sono lontani. Tuttavia, la casa circondariale di via Gleno rappresenta un caso positivo in una condizione generale assai problematica, soprattutto per quel che riguarda le condizioni di cronico sovraffollamento: attualmente i detenuti sono 537, contro una capienza prevista di 355; il 63% sono stranieri, soprattutto provenienti dal Nord Africa. È quanto emerso dalla visita effettuata ieri dai consiglieri regionali del Partito democratico, Maurizio Martina, Mario Barboni, Gianni Girelli e Fabio Pizzul che, accompagnati dal direttore Antonino Porcino, si sono intrattenuti per oltre due ore con le guardie carcerarie, gli operatori sanitari e i volontari delle varie associazioni che lavorano all’interno del carcere bergamasco. “È stata una visita molto utile - hanno sottolineato, dopo la visita, gli esponenti del Pd -. Abbiamo constatato che, seppur con le difficoltà proprie di tutti gli istituti di pena italiani, la casa circondariale di Bergamo funziona bene. Soprattutto per quel che riguarda il lavoro dei detenuti, che dispongono di strutture adeguate e di persone preparate che si occupano di loro. Abbiamo parlato a lungo anche con le guardie, ascoltando i loro problemi e i racconti della vita quotidiana all’interno dell’istituto. Sono persone molto disponibili, alle prese con un lavoro difficile che cercano di gestire al meglio, innanzitutto per quel che riguarda i rapporti con i detenuti. Adesso porteremo i risultati di questa visita in sede regionale, all’attenzione della Commissione carcere, che è stata attivata ad hoc da qualche settimana proprio per capire quel è la situazione degli istituti di pena lombardi. Il nostro obiettivo è di consolidare quanto di buono esiste all’interno della struttura e di apportare delle modifiche dove ce n’è più bisogno. Anche aumentando gli strumenti da mettere a disposizione dei volontari”. Nuoro: il Garante Oppo; riportate “a casa” i nostri detenuti di Giovanni Bua La Nuova Sardegna, 2 ottobre 2012 “Il caso di Marcello Dell’Anna? Uno dei tanti che quotidianamente seguiamo. E per i quali cerchiamo delle soluzioni. Uno di quelli che martedì prossimo porteremo a Roma, in un incontro con il numero due del Dap Luigi Pagano. Incontro al quale saranno presenti garanti per i detenuti da tutta Italia, e che verterà inevitabilmente su uno dei temi che a noi sta più a cuore, quello della territorialità della pena”. Non è uno che si accalora facilmente Gianfranco Oppo, né che facilmente rilascia dichiarazioni. Il suo ruolo di garante dei detenuti comunale infatti è delicato, ed è fatto di un paziente lavoro di tessitura tra la città e Badu ‘e Carros. Per il quale più che denunce e accuse è importante collaborazione e ascolto. E presenza praticamente quotidiana tra le mura del carcere cittadino. Sulla territorialità della pena però non è disposto a sconti: “Ho letto l’appello di Dell’Anna - spiega - e conoscevo già la sua situazione. In casi come il suo il Dap deve curarsi almeno che il carcere in cui è destinato sia sede universitaria, deve poter proseguire i suoi studi. C’è però un particolare esemplare nelle sue parole: quando dice che essere mandato a Nuoro, lontano da tutto, è come essere rimandato indietro di 20 anni. Ecco, il problema non è Badu e Carros in sé, che anzi è una struttura in costante miglioramento, sempre più aperta alla città, dove proseguono progetti, iniziative, laboratori, percorsi culturali. Il problema è la Sardegna, l’isola, il mare. E se Dell’Anna si sente isolato, così si trovano anche le decine e decine di detenuti sardi che sono nella penisola. Per loro ogni posto diverso dalla Sardegna è un’isola. Irraggiungibile per i parenti, per gli avvocati. Per loro essere lontani da casa è una pena supplementare, maggiore che per altri reclusi di altre regioni. Capisco Dell’Anna, e mi batterò per lui. Ma vorrei che il suo caso aiutasse a parlare dei nostri detenuti. A riportarli a casa”. Emblematico il caso dell’arzanese Mario Trudu, ergastolano di 62 anni detenuto a Spoleto, che da anni combatte per tornare a casa. “Nel caso di trudu - spiega Oppo - c’è una recente pronuncia della Dda di Cagliari che ritiene che ci sia il pericolo che continui ad avere collegamenti con la criminalità organizzata. Non voglio entrare nei dettagli di pronunce di questo tipo. Ma mi rivolgo, e ci rivolgeremo, al Dap per tutti quei casi un cui questi problemi non ci sono. Oltre tutto per la Sardegna il problema di contatto con la criminalità organizzata è ben minore di altre regioni meridionali, dove c’è la mafia, la camorra, la ‘ndrangheta. La nostra isola è immune da infiltrazioni di questo tipo. O almeno così ci dicono quando trasferiscono detenuti ad alata sicurezza nelle nostre carceri”. E, parlando di territorialità della pena, ci sono altri che una “pena” (per condizioni di lavoro e cronica carenza di personale) scontano. I poliziotti penitenziari, in gran numero sardi, ma quasi tutti a lavoro nella penisola. “Dovrebbero tornare. La vicinanza culturale, linguistica, è fondamentale nelle carceri. Lo è per i detenuti stranieri, per gli islamici. Ma in un carcere come Badu ‘e Carros un agente del posto può fare la differenza. Io sogno un carcere dove ci siano detenuti sardi controllati da agenti sardi. Situazione ideale per iniziare un sereno e condiviso percorso di riabilitazione. Più che un sogno è una speranza, e comunque una battaglia che porterò avanti, sicuro di non essere solo”. Como: detenuto incendia cella al Bassone, era nella sezione di “Osservazione” Agi, 2 ottobre 2012 Incendio nella tarda serata di ieri nel carcere del Bassone di Como-Albate: un detenuto che si trovava nella sezione “Osservazione” è riuscito ad appiccare il fuoco alla cella dove era recluso per motivi non ancora chiariti. Il denso fumo ha ben presto invaso il locale tanto che l’uomo è stato poi portato all’ospedale Sant’Anna di San Fermo della Battaglia per un principio di intossicazione. Nessuno si è subito reso conto di quanto stava accadendo e l’incendio ha lambito anche il piano superiore. È a questo punto che gli agenti della Polizia Penitenziaria si sono resi conto del pericolo e hanno provveduto a trasferire in altri locali alcuni detenuti. Secondo una nota della Cisl di Como il detenuto avrebbe già compiuto analoghi gesti nel recente passato. Pavia: passava pizzini tra boss in carcere, chiesti sei anni di condanna per agente Il Giorno, 2 ottobre 2012 Fissava l’appuntamento via sms, incontrava l’affiliato della ‘ndrina all’esterno del carcere e gli consegnava i “pizzini” per conto dei due boss detenuti. Il pubblico ministero della Dda milanese, Paola Biondolillo, ha chiesto la condanna a 6 anni di carcere per Claudio Carlo Gallo, 45enne agente infedele della Polizia Penitenziaria, addetto alla sezione Alta Sicurezza della casa circondariale di Pavia, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. Come ricostruito dall’accusa, l’agente riceveva i “pizzini” dai due detenuti, Luigi Mancuso e Nicodemo Filippelli, esponenti di spicco della Locale di Legnano coinvolti nelle operazioni “Infinito” e “Bad Boys”, e li consegnava al 30enne Alessandro Magaraci, affiliato all’organizzazione già arrestato per associazione a delinquere di stampo mafioso, dietro appuntamento all’esterno del penitenziario. Nel corso delle indagini è stato documentato che in un’occasione Gallo, sollecitato da Mancuso a consegnare con la massima urgenza un “pizzino” a Magaraci, aveva addirittura scannerizzato il messaggio per inviarlo al complice tramite posta elettronica. “Fai subito 6.000 in vaglia online, oggi subito a mio fratello”, si legge nel “pizzino” girato via email dall’agente infedele il 31 marzo 2011. “Velocissimo, oggi”, aveva scritto il detenuto alla fine del messaggio, tanto da spingere Gallo a commettere l’errore di trasformare il foglio di carta in formato digitale, tanto per accelerare i tempi. Tra Gallo e Magaraci sono stati registrati 208 contatti telefonici e un fitto scambio di email, che garantivano di fatto la circolazione di informazioni e direttive dentro e fuori dalla casa circondariale. L’agente si trova al momento in carcere, in attesa della sentenza con rito abbreviato che il gup, Maria Grazia Domanico, ha fissato il 9 gennaio. Cinema: i fratelli Taviani a New York “grazie da parte dei detenuti” Il Piccolo, 2 ottobre 2012 “Speriamo che questo film vi piaccia anche per loro: i nostri terribili, magnifici interpreti”. Paolo e Vittorio Taviani sono a New York, nella grande Alice Tully Hall del Lincoln Center, per presentare al New York Film Festival “Cesare deve morire”, il film girato interamente a Rebibbia quasi tutto in bianco e nero che l’Italia ha candidato all’Oscar per il miglior film straniero. Sala gremita, ripetuti applausi per i registi toscani che il Film Festival ha “letteralmente adottato” (così il Wall Street Journal) anche perché il loro “Cesare”, girato tra assassini, narcotrafficanti, camorristi e mafiosi, è l’unico film italiano di una rassegna che include altri due titoli in corsa per gli Academy Awards: l’israeliano “Fill the Void” e “No” del Cile con Gael Garcia Bernal. I Taviani sono arrivati al festival del cinema newyorchese per la prima volta nel 1977 con Padre Padrone e da allora hanno presentato ,con l’imprimatur del direttore storico Richard Pena (che proprio l’altro giorno ha annunciato il suo ritiro), ben cinque film. “Con Padre Padrone eravamo ansiosi. Non eravamo sicuri di come gli americani avrebbero accolto un film così strano”, ha detto Paolo. Roberto Rossellini aveva rassicurato i fratelli: “Li conosco abbastanza questi americani, andrà bene”. E il film andò bene, ma prima dell’applauso ci fu un gran silenzio: “Mi dissi, non è piaciuto”, racconta Paolo: “Invece fu un successo, e poi siamo tornati”. 81 anni Paolo, 83 Vittorio, i Taviani sono a New York nel lungo viaggio che precede la corsa agli Oscar dopo l’Orso d’oro a Berlino. “Cesare” è un film difficile per il pubblico americano anche perché i sottotitoli aderiscono al testo di Shakespeare e non “traducono” la potenza dei dialetti con cui recitano i carcerati di Rebibbia. Ed ecco dunque che i registi spiegano cosa li ha portati a filmare dentro le mura dell’ala di massima sicurezza: dopo aver visto e sentito un detenuto che recitava Dante in dialetto napoletano e poi spiegava “il dolore” di Paolo e Francesca separati dalla persona amata, loro, toscani, hanno avuto uno shock: “Una delle più grandi emozioni della nostra vita”. Vaticano: ex maggiordomo denuncia “condizione disumana in carcere” Agi, 2 ottobre 2012 Nel corso di una drammatica udienza del processo che lo vede imputato per furto aggravato, il maggiordomo infedele del Papa, Paolo Gabriele, ha denunciato di aver subito condizioni inumane di carcerazione nella Caserma della Gendarmeria Vaticana, soprattutto nei primi giorni seguiti all’arresto. “La cella era talmente stretta che non potevo aprire le braccia, la luce era tenuta accesa 24 ore su 24 e mi è stato negato anche un cuscino”, ha dichiarato ai giudici. Il presidente del Tribunale, Giuseppe dalla Torre, ha chiesto al promotore di giustizia Nicola Picardi di aprire un fascicolo su tali circostanze. Accogliendo l’invito del presidente, il pm ha voluto però precisare che “è stato fatto il possibile per organizzare una cella più adeguata, che all’inizio non c’era nella caserma, anche perché i fermati erano due, Gabriele e Sciarpelletti”. Picardi ha aggiunto che la situazione si è protratta “per meno di 20 giorni” e che i pasti venivano serviti al detenuto non attraverso lo spioncino. Quanto alla luce accesa 24 ore su 24 (misura che presa nelle carceri quando un detenuto è considerato a rischio di suicidarsi) Paolo Gabriele ha fatto mettere a verbale che ciò gli ha provocato un abbassamento della vista. Gendarmeria: celle conformi a standard internazionali “Paolo Gabriele al momento del suo arresto è stato custodito in una cella di isolamento presso la Caserma della Gendarmeria Vaticana. Detta cella di custodia segue gli standard di detenzione previsti anche per altri Paesi, per situazioni analoghe”. Lo precisa un comunicato della Gendarmeria Vaticana. “Circa l’asserita presenza di luce nelle ventiquattro ore, si rappresenta - afferma la nota - che la stessa è rimasta accesa per evitare eventuali atti autolesionistici dell’imputato e per esigenze di sicurezza. Lo stesso detenuto, nei giorni a venire, ha chiesto che la medesima luce rimanesse accesa durante la notte perché la riteneva di compagnia”. “Allo stesso detenuto - inoltre - sin dall’inizio è stata fornita anche una mascherina notturna che gli consentisse il più completo oscuramento”. Antigone: luce sempre accesa in cella è tortura “Le dichiarazioni di Paolo Gabriele sulla sua condizione di detenzione sono sorprendenti. L’impedimento del sonno causato dalla luce tenuta accesa 24 ore su 24 è considerato da tutti gli organismi internazionali una classica pratica di tortura, così come l’isolamento prolungato del detenuto”. A sottolinearlo è Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone che si batte per i diritti nelle carceri. “Esistono poi - aggiunge - degli standard per i luoghi di detenzione, fissati dalla commissione europea per la prevenzione della tortura sotto ai quali scatta la condanna della Corte europea dei diritti umani: 4 metri quadri per ogni detenuto in cella multipla e 7 in cella singola”. “In ogni caso la reclusione in uno spazio angusto, sotto i tre metri quadrati - dice ancora Gonnella - secondo la giurisprudenza consolidata della Corte dei diritti umani è considerata tortura a tutti gli effetti. Se fosse accertato ciò che Gabriele ha dichiarato, anche riguardo al suo isolamento prolungato nel tempo - conclude - è sperabile che lo Stato del Vaticano si adegui ai trattati internazionali al più presto”. Arabia Saudita: cittadino siriano giustiziato per traffico di droga Aki, 2 ottobre 2012 Un cittadino siriano, accusato di traffico di droga, è stato giustiziato tramite decapitazione in Arabia Saudita. Lo ha riferito il ministero dell’Interno di Riad con un comunicato citato dall’agenzia d’informazione Spa. Abdulrahman al-Sweidan, questo il nome del detenuto giustiziato, era stato “arrestato mentre tentava di contrabbandare nel regno di re Abdullah una grande quantità di narcotici”, ha sottolineato la Spa, precisando che la condanna a morte è stata eseguita a Jawf, nel nord del Paese. Sono oltre 60 le condanne a morte eseguite in Arabia Saudita da inizio anno, stando alle note pubblicate dagli organi di stampa ufficiali della monarchia del Golfo. Secondo Amnesty International, 79 persone sono state giustiziate lo scorso anno per reati che vanno dallo stupro all’omicidio, dall’apostasia al traffico di droga.