Una giornata in carcere per Sallusti: “La prigione non è solo perdita della libertà” Il Mattino di Padova, 29 ottobre 2012 Il direttore del “Il Giornale” ha accolto l’invito della rivista “Ristretti Orizzonti”. I detenuti: “Chieda di convertire la pena in lavori di pubblica utilità e ci aiuti nella nostra redazione”. La redazione di “Ristretti Orizzonti”, il giornale del carcere di Padova, ha lanciato la provocazione. E lui, Alessandro Sallusti direttore de Il Giornale, l’ha accolta a tempo di record. “Venga a scontare la pena di 14 mesi con “lavoro di pubblica utilità” qui in carcere a Padova”, avevano proposto il direttore della rivista Ornella Favero e Luigi Guida un detenuto redattore. “Vengo in carcere ma da uomo libero”, è stata la risposta del giornalista. Detto, fatto. E così mercoledì scorso Alessandro Sallusti ha partecipato all’incontro che si tiene ogni giorno tra i detenuti della redazione di “Ristretti Orizzonti”. Oltre al direttore Ornella Favero erano presenti alcuni volontari della rivista del carcere, tra cui Silvia Giralucci, Francesca Rapanà ed Elton Kalica. Ne è uscito un confronto a tutto campo su vari temi: la condizione delle carceri, la detenzione come strumento unico per l’esecuzione della pena e anche il ruolo dei giornali. Vivere in carcere. “Vi ringrazio per il vostro invito” ha esordito Sallusti, “veramente è una delle cose più importanti che mi sono successe di recente ma lo dico sinceramente, tra l’altro mi vien quasi da ridere perché immagino la sofferenza che ci sia qui dentro nelle vostre storie, e in confronto la mia è una bazzecola. Non mi ero immaginato il carcere prima di entrarci, e anche ora non ne ho la più pallida idea. Ho un’idea di che cosa sia il disagio rispetto al vivere civile e borghese perché nella mia vita ho già provato situazioni di questo tipo. Ho un’idea di cosa possa voler dire rinunciare ai privilegi che la libertà incondizionata e l’agio sociale ti permettono. Non mi fa paura perdere quelli, l’ho già provato. Ma ho capito che il carcere è molto di più di questo. Non mi spaventa perdere la libertà fisica, la libertà di dare un senso alla giornata, di condividere spazi e gabinetti, ma ho l’impressione che il carcere aggiunga a questo anche una crudeltà. Un crudeltà della comunità umana che c’è dentro e anche del sistema carcerario”. I giornali. “C’è troppa aspettativa ed enfasi sui giornali e il ruolo dei giornali, cioè i giornalisti non sono degli educatori, io ho fatto fatica e non so nemmeno se sono riuscito a educare mio figlio, ma mi è bastato, nel senso che non sono attrezzato. Pensare che i giornalisti siano degli educatori, che i giornali siano delle specie di bibbie, delle specie di vangeli, dei sacri testi veramente è inquadrare male il problema. Essere educatore, cercare di analizzare una notizia, un uomo, un personaggio, cercare di capire non è il nostro mestiere, e non sarei preparato a farlo. E non solo non sarei preparato, ma non potrei nemmeno farlo, perché il giornale non è un film, in quanto un film racconta la vita o un fatto dalla nascita alla fine, o la vita di un uomo dalla nascita alla fine, una storia d’amore dalla nascita alla fine, e quindi come dire nel suo sviluppo, nel suo essere work in progress si avvicina alla verità di quello che sta raccontando. Perché la verità non è mai una fotografia, non è mai quello che appare in un istante, perché bisognerebbe vedere cosa c’era l’istante prima e cosa ci sarà l’istante dopo e cosa ci sarà dopo un mese. E questo vale anche per un uomo. Un quotidiano è una fotografia di quello che accade in quel momento, uno schioccare delle dita”. Le riflessioni. “Devo ammettere che non mi aspettavo da quelle facce, quei volti, quelle storie una profondità di ragionamento, magari espressa con parole inadeguate al lessico universitario ma con una profondità che dà l’idea che dentro a quegli uomini c’è qualcosa, un travaglio molto profondo. Se addirittura degli analfabeti senza scrupoli riescono a esprimere dei ragionamenti di una tale originalità e profondità vuol dire che… l’uomo c’è ancora”. Ristretti Orizzonti. “Subito prima di venire a incontrare la redazione il direttore de Il Giornale ha detto “non credo di aver bisogno di essere rieducato”“ scrive la redazione della rivista del carcere. “Noi abbiamo la convinzione che nel nostro Paese di un serio percorso di rieducazione non avrebbero bisogno solo le persone detenute, ma anche uno Stato che non rispetta la legge, mantenendo le carceri in condizioni di totale illegalità, e perché no, anche quei giornalisti che non conoscono la galera e giocano a invocarne sempre di più per gli altri, per “i cattivi”, sentendosi saldamente parte della categoria dei buoni. Lasciamo ai lettori di giudicare se “sfiorare la galera” più da vicino può aver in qualche modo cambiato qualcosa nel modo di pensare di Sallusti”. Lettera di un detenuto al direttore Sallusti Egregio direttore Sallusti, noi siamo certi che un uomo può cambiare, con questa certezza chiediamo a te di lasciare da parte l’orgoglio e accettare che hai infranto una legge, forse sbagliata come tante altre, ma che esiste e stavolta ha toccato te. Quindi ci auguriamo che di questa vicenda tu sappia cogliere anche gli aspetti positivi e che questi ti inducano a riflettere e a fare di te un uomo migliore, noi di certo dopo l’incontro con te ci sentiamo più maturi e se possibile ancora più aperti con le persone che hanno un modello di detenzione diverso dal nostro. E se ci permetti dall’alto della nostra esperienza ti chiediamo di rinunciare al carcere e chiedere una misura alternativa, perché nelle condizioni in cui si trovano oggi, le carceri svolgono solo la funzione di contenitore di carne umana e non di rieducazione e recupero dei rei. Ti chiediamo di rinunciare al carcere e chiedere l’affidamento ai Servizi sociali presso questa redazione, dove ci insegnerai come scrivere degli articoli per far breccia su nuovi lettori e tenerci quelli che ci seguono da sempre. Clirim Bitri Giustizia: l’inganno sugli Opg… più piccoli ma uguali L’Unità, 29 ottobre 2012 Nel marzo del 2013 chiuderanno gli attuali Ospedali Psichiatrici Giudiziari, ma riapriranno strutture del tutto simili sparse nelle Regioni. Una certezza in un mare di dubbi. La certezza è una data fissata per legge: il 31 marzo 2013, giorno in cui dovranno chiudere gli Opg, gli ospedali psichiatrici giudiziari. I dubbi invece sono quelli del mondo del volontariato, dei medici e delle associazioni sul dopo. Un dubbio che diventa anche timore per chi tutti i giorni dedica il suo tempo per cercare di trovare soluzioni al problema delle quasi 1500 persone che vivono nei sei ospedali psichiatrici d’Italia. “Non vorremmo che dagli Opg si passasse ai manicomietti dice Stefano Cecconi, del coordinamento nazionale Stop Opg e dirigente nazionale Cgil perché a oggi non si sa ancora bene cosa possa accadere. Ma soprattutto sembra abbastanza difficile poter attuare la norma del febbraio 2012”. Quella legge varata dopo l’inchiesta portata avanti dalla commissione parlamentare guidata da Ignazio Marino sui sei ospedali psichiastrici d’Italia. Un’indagine che aveva messo a nudo un mondo ai più sconosciuto, ma drammatico. Quello dei cosiddetti “ergastoli bianchi scontati da persone con invalidità o altri problemi che”, usando le parole di Alessio Scandurra, dirigente dell’associazione “Antigone” e componente dell’Osservatorio nazionale, “sarebbero dovute stare altrove”. “Negli Opg abbiamo trovato persone ricoverate da quasi trent’anni spiega Cecconi e succede perché dopo due anni di permanenza in Opg c’è la cosiddetta revisione. Se però non c’è una struttura esterna che si fa carico della persona che finisce dentro, allora si proroga; e di proroga in proroga passano gli anni”. Oggi, a sentire il sindacalista, qualche piccolo movimento sembra esserci stato. “In questo periodo ci sono state alcune dimissioni e qualcosa si è mosso in qualche centro aggiunge ma è sempre poco, troppo poco”. Quanto al futuro: “C’è anche la paura che un’eventuale accelerazione possa portare a un’altra cosa argomenta Cecconi -: la messa a disposizione nelle regioni di piccoli manicomietti destinati a 30, 40 persone, senza pensare invece a soluzioni alternative”. Un problema che Roberto Loddo, portavoce del “Comitato Stop Opg” della Sardegna, ha messo anche nero su bianco in una lettera aperta inviata il 29 settembre alla Regione e agli altri rappresentanti delle Istituzioni. “Gli attuali Opg dovrebbero chiudere entro marzo 2013, ma l’attenzione sembra solo concentrata sull’apertura delle strutture residenziali sanitarie “speciali”, molto simili agli ospedali psichiatrici (mini Opg) scrive : rischiamo di ritrovarci con numerosi piccoli manicomi disseminati nelle diverse regioni, compresa la Sardegna”. Proprio per sensibilizzare l’opinione pubblica e le istituzioni, il “Comitato Stop Opg” Sardegna ha deciso di promuovere dal 10 novembre al 10 dicembre un’iniziativa al giorno. “Ci sarà un appuntamento quotidiano con testimonianze di persone provenienti da tutta l’Italia spiega proprio per far sì che tutti possano conoscere questo mondo, e questi problemi”. Per Luigi Manconi, dell’associazione “A Buon Diritto”, “la norma era indispensabile e indifferibile anche perché lo stato degli Opg era, se possibile, peggiore di quello delle carceri”. Ricordando le difficoltà che si incontrano quando si interviene per visitare strutture come gli Opg, Manconi spiega anche che “come si temeva non è stato fatto quanto necessario perché il trasferimento degli internati in strutture degne potesse avvenire in tempi previsti”. Quindi l’affondo: “Alcune riforme sono costose. Sembra però che quelle che riguardano i gruppi sociali più deboli producano un atteggiamento di avarizia persino più gretto di altre”. Quanto sia faticoso lavorare in questo settore lo sa bene don Giuseppe Inzana, sacerdote e presidente dell’associazione “Casa di solidarietà e accoglienza” a Messina. Nella sua Comunità ospita giovani che sono passati anche all’Opg. Ogni giorno fa la spola dalla Comunità all’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto, dove da quasi trent’anni fa il cappellano. Don Inzana è uno di quelli che hanno aperto le porte ai pazienti degli Opg e spianato la strada per una vita alternativa alle mura di un ospedale psichiatrico giudiziario. “Tempo fa abbiamo seguito il caso di un uomo della Lombardia racconta lo presero perché venne trovato senza carta di identità. È arrivato dentro l’ospedale giudiziario ed è rimasto per un pò di tempo”. Poi? “C’è stata un nostro interessamento con il dipartimento di salute mentale del suo distretto e alla fine siamo riusciti a inserirlo in un progetto individualizzato”. C’è una cosa che non piace a don Inzana, che fa parte del comitato Stop Opg. “Contestiamo la legge che vuole fare le strutture nel bosco. Chiediamo che siano in centro, dove si vive. Pensate che quando accompagnavamo un ragazzo a lavorare alle 4 del mattino avevamo una vicina che ogni giorno si affacciava per salutarlo”. Non è ottimista Patrizio Gonnella, presidente di “Antigone”. “Cosa succederà al 31 marzo? Secondo me in questo momento non lo sa nessuno spiega -, tutto è proceduto con estrema lentezza. Quella era una legge che aveva una minima copertura finanziaria”. E oggi? “Mancano decreti attuattivi. Ci potrebbero poi essere due possibilità: che a gennaio venga prorogato il termine di chiusura oppure, che venga utilizzato per gli Opg il sistema del project financing , per la realizzazione e funzionamento di strutture private”. Emilio Lupo, psichiatra napoletano e responsabile nazionale di “Psichiatria democratica” non usa giri di parole. “Ho grandi preoccupazioni dice -, sono convinto che si arriverà alla fine dell’anno e nel milleproroghe si mette pure questo, ossia si farà ritardare la chiusura degli Opg”. Per l’esponente di “Psichiatria democratica” il problema va affrontato in tempi rapidi e in maniera pragmatica. “Sino a oggi si sono fatti tavoli e tavolini di discussione; ora è necessario agire. Ho fatto anche una proposta che prevede la costituzione di un ufficio di dismissione a tempo e a costo zero con funzionari del ministero della Salute e della Giustizia in cui si coordinano gruppi di lavoro regionalizzati”. Per Emilio Lupo è necessario “pensare alle persone” perché “molto spesso negli Opg ci stanno uomini e donne che dovrebbero stare altrove. Uno che è finito dentro per oltraggi o resistenze dovrebbe andare da un’altra parte. Perché chi entra nell’Opg, spesso, finisce per scontare il cosiddetto ergastolo bianco”. Giustizia: Meloni (Clemenza e Dignità): oltre ad amnistia e indulto… c’è una “terza via” www.imgpress.it, 29 ottobre 2012 I morti e i suicidi nelle carceri si susseguono, e non è più possibile rimanere inerti, non è più possibile perdere dell’ulteriore tempo per intervenire. È quanto afferma in una nota Giuseppe Maria Meloni del Movimento Clemenza e Dignità, che aggiunge: La situazione è esplosiva e il tempo dei provvedimenti palliativi, delle suggestive progettualità sulle pene alternative, su nuovi istituti di diritto processuale, sulle depenalizzazioni, è ormai definitivamente scaduto. Tuttavia, il vero problema è che non sussistono degli strumenti a nostra disposizione che siano al contempo veramente efficaci e facilmente azionabili. In sostanza, - prosegue - nell’attuale situazione vi è la necessità e la massima urgenza di un provvedimento di ampia portata e di natura generale, ma sia che si decida di intervenire con un provvedimento che estingua la pena, oppure che estingua il reato, si è per forza vincolati dall’art. 79 della Costituzione, che prevede la concessione dell’amnistia e dell’indulto, mediante legge deliberata a maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera, in ogni suo articolo e nella votazione finale. Le condizioni politiche - osserva - per determinare una così ampia maggioranza, le condizioni per l’amnistia e l’indulto, non sono mai facili da realizzarsi e nonostante la tragedia in atto e tanta lodevole opera di sensibilizzazione, non sembrano ancora sussistere attualmente. Ugualmente la modifica delle stesse maggioranze richieste dall’art. 79 della Costituzione, rappresenterebbe una impresa a dir poco improba. L’unico modo per cercare di fermare la grande tragedia in corso, - spiega - sarebbe uscire definitivamente dalla logica classica dell’estinzione della pena o del reato, per puntare ad un provvedimento di natura generale adottato dal Parlamento che sospenda in determinati casi, sic et simpliciter l’esecuzione della pena. Il fatto - dice ancora Meloni - che non sussista nel codice penale una tipizzazione di questo provvedimento generale, il fatto che non sussista nella Carta Costituzionale un relativo inquadramento normativo, e il fatto che storicamente nella Repubblica si sia sempre proceduto ad affrontare tali problematiche mediante l’amnistia o l’indulto, non costituiscono dei fattori ostativi all’adozione di questo particolare rimedio, in assenza di espliciti divieti in tal senso della sospensione o di disposizioni con le quali si andrebbero a produrre direttamente o indirettamente delle inconciliabilità. Del resto, sussistono poi evidenti ragioni di urgenza sul piano umanitario ed evidenti ragioni di urgenza sul piano giuridico, determinate dalla persistente violazione di diritti costituzionali, dalla violazione di diritti propriamente dell’uomo e della Convenzione dei suoi diritti, che giustificherebbero pienamente l’adozione di misure anche al di fuori delle prassi più consolidate. Mediante la mera sospensione dell’esecuzione della pena, - continua - si renderebbe molto più agevole l’iter di approvazione parlamentare, si aggirerebbe l’ostacolo della maggioranza dei due terzi, e verosimilmente non si incorrerebbe in alcuna tipologia di conflitto con le previsioni costituzionali. In sostanza, - rileva - per i reati commessi sino ad una certa data da stabilirsi, con esclusione di quelli di maggior allarme sociale quali terrorismo, strage, banda armata, usura, mafia, ecc, e per i condannati che per esempio abbiano già scontato la metà o comunque una parte della loro pena, potrebbe addivenirsi alla sospensione della esecuzione della parte di pena detentiva ancora da scontarsi. In questo caso, - sostiene Meloni - trattandosi di un provvedimento ugualmente di natura generale e al fine di evitare incompatibilità con gli istituti dell’amnistia e dell’indulto compreso quello condizionato, non si produrrebbe però alcuna estinzione del reato o della pena. Il non aver commesso ulteriori reati, il positivo comportamento tenuto dal condannato durante il periodo di sospensione, non produrrebbero l’estinzione della pena o del reato. Si tratterebbe, quindi, - sottolinea - di una sospensione di carattere tendenzialmente permanente nel tempo, nel senso che il complessivo periodo della sospensione non coinciderebbe strettamente con il periodo della rimanente parte di pena ancora da scontarsi o con un diverso termine prestabilito e non produrrebbe quale esito finale l’estinzione del reato o della pena decorso il tempo della restante parte di pena da scontarsi o in un ulteriore e diverso termine”. “In altre parole ed in assenza di futuri provvedimenti applicabili alle casistiche di specie, che estinguano proprio il reato o la pena, si decadrebbe da tale beneficio, ovvero la sospensione cesserebbe, e la rimanente pena da eseguirsi riacquisterebbe piena rilevanza per l’esecuzione, - precisa - solamente nel caso e nel momento della commissione di ulteriori reati, che ipoteticamente potrebbero essere quelli della stessa indole. La cessazione della sospensione, quindi, sarebbe nella prospettata ipotesi, un avvenimento di cui si ignora se avverrà e quando avverrà, quindi, tecnicamente, una condizione e non un termine.” “Naturalmente - espone - sarà necessario esplicitare che durante il periodo di sospensione non trascorra il tempo necessario alla prescrizione della pena, per quanto già nell’art. 172 c.p. e nel richiamo effettuato dall’art. 173 c.p., vi è scritto che: “Se l’esecuzione della pena è subordinata alla scadenza di un termine o al verificarsi di una condizione, il tempo necessario per la estinzione della pena decorre dal giorno in cui il termine è scaduto o la condizione si è verificata.” “Inoltre, in questo caso - commenta - il condannato durante il periodo di sospensione non sarebbe sottoposto ad alcuna misura, trattandosi di un provvedimento di natura generale che coinvolgerebbe innumerevoli persone e che renderebbe di fatto impossibile l’esecuzione di controlli e accertamenti circa delle particolari prescrizioni. In questo caso, non essendo nel mentre il condannato sottoposto a misure di sicurezza, quali la libertà vigilata, e non sopportando, quindi, in concreto alcuna entità afflittiva durante il periodo di sospensione, il complessivo periodo di sospensione sarebbe, poi, ininfluente al fine del calcolo della pena detentiva ancora da espiare, la quale pertanto nel suo profilo temporale e di durata, rimarrebbe del tutto integra. Si verificherebbe, quindi, una volta intervenuta una causa di cessazione della sospensione, un effetto risolutivo ex tunc dello stesso periodo di sospensione. In sostanza, cessata la sospensione a seguito della commissione di ulteriori reati, la stessa identica parte di pena che rimaneva ancora da scontare, deve essere poi in concreto eseguita. Pertanto, - ribadisce - in questo studio, in questa progettualità di specie, l’esecuzione della rimanente parte di pena ancora da scontarsi, rimarrebbe sospesa sino alla commissione di ulteriori delitti o contravvenzioni della stessa indole o comunque volendo anche prospettare una ipotesi più generale, sino a che la condotta del soggetto, in relazione alla condanna subita, appaia incompatibile con il mantenimento del beneficio.” “Si tratterebbe - conclude Meloni - di un provvedimento occasionato dall’urgenza e dall’impossibilità momentanea di adottare gli strumenti dell’amnistia e dell’indulto, ma che conterrebbe rispetto a questi ultimi, anche innumerevoli risvolti positivi. In primo luogo, si potrebbe procedere ad una azione molto più mirata, coinvolgendo solo i soggetti che abbiano già pagato, seppure parzialmente, il loro conto con la giustizia, ed in secondo luogo, non procedendosi mai all’estinzione del reato o della pena, si stimolerebbe in modo straordinario il condannato a tenere una buona condotta, non nell’ambito di limiti prestabiliti di tempo, ma senza alcun limite di tempo”. Giustizia: reato di diffamazione; le regole in Europa, sanzioni in Gb e carcere in Germania Adnkronos, 29 ottobre 2012 Il dibattito sul ddl diffamazione a mezzo stampa, che domani torna all’esame di palazzo Madama, con l’eliminazione del carcere ma l’inasprimento delle pene pecuniarie, è stato accompagnato spesso da riferimenti alla disciplina prevista nei Paesi europei più vicini all’Italia. Ed ecco qual è la situazione in alcuni Stati, sulla base di quanto documenta un dossier del servizio studi del Senato. Pene severe in Germania e Francia, carcere in casi limite in Spagna (ma finora, dal ritorno alla democrazia, non è mai accaduto), depenalizzazione in Inghilterra. FRANCIA. La diffamazione a mezzo stampa è regolata dalla legge del 29 luglio 1881, più volte modificata, relativa alla libertà di stampa, alle cui disposizioni particolari il codice penale rimanda espressamente. L’articolo 29 della legge citata definisce la diffamazione come l’affermazione o l’attribuzione di un fatto che lede l’onore o la considerazione della persona cui il fatto è attribuito. La diffamazione può essere a seconda dei casi un delitto (se la diffamazione è pubblica) o una contravvenzione (se riguarda una persona fisica e non ha carattere pubblico). Se la diffamazione ha carattere pubblico, le pene variano in base alla qualità della vittima del reato. Le pene sono più gravi e possono essere anche di natura detentiva se la persona offesa appartiene ad una delle categorie citate espressamente negli articoli 30 e 31 della legge sulla libertà di stampa, che si riferiscono generalmente a persone fisiche, morali o gruppi di persone che svolgono funzioni pubbliche, ivi compresi i membri del governo, i parlamentari, i corpi militari, le corti e i tribunali: per questi, l’ammenda prevista è di 45.000 euro. Se la persona offesa è una persona fisica o morale non appartenente ad una delle categorie citate la pena consiste in un’ammenda di 12.000 euro. Sono poi previste delle aggravanti se la diffamazione è rivolta verso una persona o un gruppo di persone in ragione della loro origine, etnia, razza, religione, sesso, orientamento o identità sessuale e handicap: in questi casi la pena è determinata in un anno di reclusione e di 45.000 euro di ammenda (pene anche alternative). In merito al diritto di rettifica, il direttore della pubblicazione è tenuto a pubblicare gratuitamente, in evidenza sul numero successivo del giornale o del periodico, ogni rettifica proveniente da un’autorità pubblica, purché tale rettifica non sia più grande del doppio dell’articolo a cui risponde: in caso di mancato rispetto della previsione, il direttore può essere punito con un’ammenda di 3.750 euro. Il diritto di rettifica è a carico del direttore, obbligato, a pubblicare entro tre giorni dal ricevimento, ogni rettifica proveniente da persona citata, pena 3.750 euro di ammenda. Tale rettifica deve essere pubblicata nello stesso posto e con lo stesso rilievo dell’articolo che la ha provocata: sarà della stessa lunghezza, ma non inferiore a cinquanta righe e non superiore a duecento. In caso di rifiuto della pubblicazione, si innesca una procedura giudiziaria esecutiva e se la vicenda si situa in un periodo elettorale i termini di pubblicazione della rettifica sono più stringenti: 24 ore. Inoltre, se il direttore viene meno a quanto giudicato, è passibile della pena di tre mesi di detenzione e di 3.750 euro di ammenda. GERMANIA. Ancor più severo è il sistema tedesco, che sanziona la diffamazione sia a norma dello Strafgesetzbuch (codice penale), sia sulla base delle leggi sulla stampa dei Laender. Il Codice penale distingue tre fattispecie di diffamazione: 1) quella per cui “chiunque, riferendosi ad un’altra persona, afferma o divulga un fatto idoneo a denigrarla o svalutarla di fronte all’opinione pubblica”; in questo caso, se il fatto non è provato essere vero, il responsabile “è punito con la pena detentiva fino ad un anno o con la pena pecuniaria, e, se l’offesa è commessa pubblicamente, in una riunione o tramite la diffusione di scritti, l’agente è punto con la pena detentiva non superiore a due anni o con pena pecuniaria”. 2) La diffamazione intenzionale, per cui chiunque, riferendosi ad altra persona, afferma o divulga “in mala fede un fatto non vero idoneo a denigrarla od a svalutarla di fronte all’opinione pubblica o a mettere in pericolo la sua reputazione”, è punito con la pena detentiva non superiore a due anni o alla pena pecuniaria e, se l’azione è commessa pubblicamente, in una riunione o tramite la diffusione di scritti, l’agente è punito con la pena detentiva non superiore a cinque anni o con pena pecuniaria”. 3) C’è il caso, poi, della diffamazione contro persone partecipanti alla vita pubblica: “Se pubblicamente, in una riunione o tramite la diffusione di scritti, viene diffamata una persona impegnata nella vita politica del popolo, per scopi connessi alla posizione dell’offeso nella vita pubblica, e l’azione è idonea a pregiudicare in maniera rilevante l’agire pubblico, è prevista la pena detentiva da tre mesi a cinque anni. È punita con la pena detentiva da sei mesi a cinque anni la menzogna diffamatoria quando sussistono gli stessi presupposti”. SPAGNA. La diffamazione a mezzo stampa è inserita tra i “reati contro l’onore” e la cornice normativa di riferimento è costituita, inoltre, dall’art. 20 della Costituzione sulla libertà di espressione, che prevede altresì dei limiti del rispetto dei diritti all’onore, l’intimità, l’immagine, e i diritti dei minori. Nel Paese iberico, che pure è estende senza troppa difficoltà al web le norme relative alla stampa, c’è un regime ancora caratterizzato da una certa tolleranza, come reazione al ferreo controllo statale dei tempi del franchismo. A rispondere della diffamazione, comunque, sono chiamati, in un sistema detto “a cascata”: gli autori, i direttori della pubblicazione, i direttori della casa editrice, i direttori dell’impresa di riproduzione o tipografia. Finora nessun giornalista è stato condannato a scontare una pena detentiva. I reati che si imputano con maggior frequenza alla stampa sono la calunnia e l’ingiuria, fattispecie entrambe riconducibili in via generica alla diffamazione. La calunnia, consiste nell’attribuire falsamente a qualcuno la commissione di un reato. Quando ciò avviene pubblicamente, cioè attraverso la stampa, la radiodiffusione o mediante un altro mezzo di efficacia similare, il codice prevede una pena detentiva compresa tra i 6 mesi e i 2 anni oppure, in alternativa, una sanzione pecuniaria tra i 6 e i 24 mesi (nel sistema spagnolo esistono i cosiddetti “giorni di multa” e ogni giorno varia da 1.20 a 300.50 euro). L’aggravante è legata alla diffusione del mezzo, ma anche contano età e precedenti. L’ingiuria a mezzo stampa è punita con la multa da 6 a 14 mesi). Il codice prevede la diffamazione a seguito di ottenimento di denaro o altro vantaggio e c’è la pena accessoria dell’inabilitazione professionale da sei mesi a due anni. A differenza del diritto di replica legato alla protezione del diritto all’onore, all’intimità personale e familiare e alla propria immagine, il diritto di rettifica non è utilizzabile di fronte a opinioni, giudizi o considerazioni soggettive, ma solo per l’esercizio inadeguato delle libertà di cui all’art. 20 della Costituzione. L’articolo 1 della Legge Organica 2/1984, stabilisce, infatti, che ogni persona, fisica o giuridica, ha diritto a rettificare l’informazione diffusa, utilizzando qualunque mezzo di comunicazione sociale, con riferimento ai fatti che la riguardino, che ritenga inesatti e la cui divulgazione possa arrecarle pregiudizio. Al direttore del mezzo di comunicazione verrà inviato uno scritto di rettifica entro sette giorni dalla pubblicazione o diffusione dell’informazione pregiudizievole. La rettifica dovrà limitarsi ai fatti dell’informazione da correggere e non dovrà eccedere la sua estensione. Inoltre, sarà pubblicata senza commenti nè postille. INGHILTERRA. Nel sistema giuridico inglese, la disciplina applicabile alla diffamazione (la cosiddetta law of defamation) è definita in parte dal diritto di matrice giurisprudenziale (common law) ed in parte dal diritto legislativo. È una fattispecie che costituisce essenzialmente un illecito civile (tort), e produce un’azione di risarcimento. Soltanto in modo residuale si configura come un reato (offence). Le sanzioni sono ormai essenzialmente legate alla riparazione economica dell’offesa. La diffamazione a mezzo stampa, infatti, è stata definitivamente depenalizzata nel 2009 e la normativa inglese non contempla una esplicita definizione della diffamazione, ma fa capo alla circostanza che una dichiarazione pubblicata o esplicitata possa incidere negativamente sulla reputazione e l’onore di una persona identificabile fra i membri di una determinata società di individui. La diffamazione nell’ordinamento inglese si articola nelle due figure del libel e dello slander, a seconda che la lesione alla reputazione ed all’onore venga perpetrata mediante lo scritto, la stampa o - in base alla interpretazione evolutiva del concetto di publication - la radiodiffusione televisiva, oppure oralmente, mediante epiteti ingiuriosi od offensivi. La diffamazione intesa come “libel”, ossia tramite pubblicazione, legittima la parte lesa ad agire in giudizio per ottenere provvedimenti inibitori (injunction) idonei ad interrompere il comportamento lesivo e per richiedere il risarcimento del danno, liquidabile in misura ingente qualora oltre alla compensazione per la lesione patita siano considerate, per i casi più gravi, anche funzioni di deterrenza (exemplary damages). L’uso di uno pseudonimo qualora non utilizzato per motivi di sicurezza, può essere considerato un’aggravante. Lo “slander”, invece, è un’offesa orale e può dar luogo ad un’azione di risarcimento soltanto se la diffamazione od ingiuria consistano nell’attribuzione di un fatto delittuoso, o se la vittima provi di aver subito un danno materiale. Giustizia: se il rock finisce al fresco… di Andrea Laffranchi Corriere della Sera, 29 ottobre 2012 Dai 10 arresti di Morrison all’ultimo (ieri) di Glitter Eccessi ed errori. Vecchioni ci scrisse una canzone. Sesso, droga e rock’n’roll. Quello che non vi raccontano è che spesso il filotto si completa con un ultimo elemento, il carcere. Oltre a quelli dei grandi fotografi, negli album dei ricordi delle star ci sono anche i ritratti, fronte e profilo, scattati da anonimi agenti nelle stazioni di polizia. Lo raccontano in Jailhouse Rock Patrizio Gonnella e Susanna Marietti, esperti di giustizia per Antigone, associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale, e appassionati di musica. Hanno raccolto le storie di artisti che prima o poi hanno conosciuto la prigione e ne hanno fatto un programma per Radio Popolare, in onda la domenica sera, e un libro edito da Giunti. “Se fai parte del mondo del rock sei paradigmaticamente un trasgressore e, altrettanto paradigmaticamente scatta la repressione. Ma se questi personaggi vengono bacchettati, la bacchettata raramente è dolorosa”, dicono i due. Il recordman è Jim Morrison: nel suo faldone ci sono 10 arresti. Quello più famoso risale al ‘69 quando, durante un concerto coi Doors a Miami, minacciò di mostrarsi come mamma l’aveva fatto. Se poi abbia veramente esibito i gioielli non è mai stato chiarito, fatto sta che venne condannato a 6 mesi per oltraggio al pudore, turpiloquio e ubriachezza. Un altro episodio che ha contribuito a formare l’epica rock è la retata della polizia inglese a un festino dei Rolling Stones nel 1967: più che per la droga trovata (costò una giornata al fresco a Jagger e Richards) la si ricorda per Marianne Faithfull ritrovata con un tappeto di pelliccia addosso e un mai confermato ufficialmente Mars fra le gambe. Keith di problemi, sempre per droga, ne ha avuti altri, ma non è che i Beatles siano stati da meno. John Lennon, Paul McCartney e George Harrison sono stati arrestati, in occasioni diverse, per possesso di marijuana e hashish. Ringo è l’unico ad avere la fedina pulita. Nel 1976 sempre l’erba ha regalato una notte in cella a David Bowie: la foto segnaletica che lo ritrae elegantissimo è stata scattata giorni dopo al processo. Più lunga la carriera “criminale” di Jimi Hendrix: due auto rubate in gioventù, una stanza d’albergo devastata a Stoccolma nel ‘68 e della droga in valigia all’aeroporto di Toronto nel ‘69. Negli anni Sessanta il rock era guardato con sospetto e molte star erano controllate dall’Fbi come sovversivi. Bastava poco per finire nei guai. Nel ‘69 Janis Joplin venne fermata, processata e condannata a 200 dollari di multa per aver insultato i poliziotti che a Tampa interruppero un suo show per le intemperanze del pubblico. Ci sono anche storie italiane. Chet Baker che passò 4 mesi nel penitenziario di Lucca dopo essere stato trovato con una siringa nel braccio, i due arresti per droga per il “solito sospetto” Vasco Rossi, Roberto Murolo accusato (e assolto) di molestie. E il carcere per spaccio per Roberto Vecchioni. Un ragazzo lo aveva denunciato accusandolo di avergli passato uno spinello, ma quando aveva ritrattato le accuse il giudice era in vacanza e Vecchioni rimase in cella 4 giorni. Gli venne l’ispirazione per “Signor Giudice”. Anche George Michael ha sfruttato artisticamente l’esperienza. L’indimenticabile arresto per le avances in un bagno pubblico a un poliziotto in borghese è finito nel video di “Outside”. Sempre una clip ha messo nei guai Erikah Badu: condannata a 6 mesi (con la condizionale) nel 2010 per essersi spogliata in strada durante le riprese di “Window Seat”. Il sesso è la causa numero 2. Ci sono le orrende accuse di pedofilia per star come Gary Glitter, più volte nei guai in passato, arrestato e rilasciato su cauzione proprio ieri per lo scandalo Savile, il presentatore della Bbc accusato di oltre 300 casi di abusi e molestie. Ma anche l’adulterio, nel 1938 era reato, di cui dovette rispondere un giovane Frank Sinatra, mai finito invece a giudizio per le sue sospette amicizie mafiose. Più gravi i fatti che nel 2004 fecero condannare Bertrand Cantat a 8 anni di carcere in Lituania: l’omicidio della fidanzata Marie Trintignant, finita in coma dopo una lite violenta in cui aveva sbattuto la testa. Scatta il sorriso a pensare ad Ozzy Osbourne in manette per aver fatto pipì sull’Alamo, monumento nazionale texano. Ma c’è anche chi ha pagato per le proprie idee con la reclusione. Come le Pussy Riot, condannate per le loro critiche a Putin, o Caetano Veloso e Gilberto Gil che nel 1968 passarono due mesi in carcere prima di autoesiliarsi dal Brasile. Fu un’altra dittatura, quella di Pinochet, a uccidere Victor Jara. Il giorno del golpe contro Allende il cantautore venne deportato con altre 5 mila persone nello stadio di Santiago dove morì per le torture. Il regime cileno vietò la trasmissione e la vendita della sua musica e distrusse i master delle sue registrazioni. Solo alcune sono state salvate dalla moglie. Perché la musica vola sempre oltre le sbarre. Lettere: A chi giova un nuovo indulto? di Giulio Catuogno (Segretario Generale Coisp) www.universy.it, 29 ottobre 2012 Alimentare discussioni sull’affollamento, al solo fine di pretendere che il Parlamento voti una ennesima legge svuota carceri, appare molto strumentale. La notizia del suicidio di due detenuti negli istituti di pena di Firenze e Prato ha riportato alla ribalta della cronaca e all’attenzione dell’opinione pubblica il problema del sovraffollamento delle carceri. “L’accostamento dei fatti di ieri al problema sovraffollamento appare alquanto strumentale” afferma Giulio Catuogno, Segretario Generale del sindacato di polizia Coisp - il Coordinamento per l’indipendenza sindacale delle forze di polizia. E continua: “Alcuni personaggi non perdono l’occasione per far cadere il discorso laddove vogliono, non fermandosi neanche di fronte al dovuto rispetto per un gesto, come il suicidio, che pretende solo silenzio. Il detenuto quarantanovenne che ha deciso di togliersi la vita ieri era già assistito da psicologi e il suo gesto nulla c’entra con il problema affollamento che, senz’altro, merita attenzione e pretende una risoluzione. Ma partire dal quel suicidio per alimentare discussioni sull’affollamento, al solo fine di pretendere che il Parlamento voti una ennesima legge svuota carceri, appare veramente molto strumentale”. “Che lo facciano determinati individui - afferma Catuogno - lo si può anche mettere in conto. Ma che ad auspicare un nuovo indulto siano alcune alte cariche istituzionali, allora non è accettabile. Una pena detentiva presuppone una rieducazione. E a che servirebbe amnistiare adesso un detenuto senza che si sia compiuta quella rieducazione auspicata dal legislatore? Significherebbe solamente, in un periodo di crisi come quello attuale, costringer chi non ha né arte né parte a delinquere nuovamente”. “Ci auguriamo - conclude il Segretario Generale del Coisp partenopeo - che non venga partorito un ulteriore ‘mostrò, com’ è stato l’ultimo decreto svuota carceri, solo per dare a chi, in questo preciso momento storico, cerca di conquistarsi il proprio pacchetto di consensi”. Basilicata: Radicali e Chiesa uniti per l’amnistia, la giustizia e la libertà di Maurizio Bolognetti (Radicali Italiani) Notizie Radicali, 29 ottobre 2012 Grato a Monsignor Agostino Superbo che ha voluto ribadire che “l’impegno per l’amnistia, la Giustizia e la libertà rappresenta un fatto che va nella direzione di una possibile e necessaria riconciliazione”. Mentre sulla questione giustizia e carceri, in queste ore, prende corpo e forza l’iniziativa nonviolenta, rilanciata da Rita Bernardini e Irene Testa, per richiamare una volta di più le nostre istituzioni ad agire per interrompere “la flagranza di reato contro i diritti umani e la Costituzione”, Monsignor Agostino Superbo ancora una volta non ha voluto far mancare la sua voce, ribadendo che “la Chiesa sente che l’impegno per l’amnistia, la giustizia, la libertà rappresenta un fatto che va nella direzione di una possibile e necessaria riconciliazione”. Per parte mia, intendo rispondere e corrispondere all’attenzione di Monsignor Superbo affermando che le sue parole confortano la determinazione di tutti coloro che hanno compreso che occorre rimettere il nostro Stato sui binari di una legalità da troppo tempo negata e che si traduce, per dirla con Marco Pannella, in “strage di popoli”. Rita Bernardini e Irene Testa, nell’annunciare l’inizio di un dialogo nonviolento rivolto a chi si spera saprà almeno questa volta ascoltare, hanno affermato che occorre agire per richiamare il nostro Stato a rispettare la sua propria legalità. Agire per non peccare di ignavia, agire per ricordare ai tanti Ponzio Pilato che il provvedimento di amnistia che invochiamo da tempo è amnistia per una Repubblica incapace di onorare le sue leggi e le convezioni internazionali a tutela dei diritti umani, che pure abbiamo recepito e ratificato. Servono opere e non omissioni e occorre, per dirla con i direttori del Sidipe, che uno Stato assurto al ruolo di delinquente professionale “mantenga fede agli impegni e alle promesse celebrate nelle sue leggi”. E occorre anche che la voce dei senza voce, delle centinaia di caduti sul campo dell’assenza di legalità e Stato di diritto, finalmente possa essere ascoltata. Perché i morti parlano. Occorre che il dibattito negato sulla bancarotta della giustizia finalmente viva ed esploda, perché la questione giustizia è davvero la più grande questione sociale che c’è in questo Paese. Riconciliazione è una bella parola e davvero occorre riconciliare e sintonizzare il nostro Stato sulle frequenze dello Stato di diritto. Milioni di persone oggi nei panni di vittime e imputati pagano dazio e attendono invano giustizia. Da qualche ora ho iniziato uno sciopero della fame, perché non voglio e non posso rassegnarmi, perché sapendo - per dirla con le mie compagne Rita e Irene - non posso girare la testa dall’altra parte. Con Rita, con Irene, con Maurizio, con Valter, con Carlo, con i miei compagni radicali, con chi ha fede, con tutti coloro che credono in quello che fanno e - mi sia consentito - con Marco Pannella, che ogni giorno ci indica una rotta difficile ma che è l’unica possibile per chi ha deciso di battersi “per la vita del diritto e il diritto alla vita”, ripeto amnistia, amnistia, amnistia per la Repubblica! La lettera di monsignor Agostino Superbo Sono in piena sintonia con quanto dichiarato da Mons. Domenico Pompili. Nella sua quotidiana missione di testimonianza del Vangelo la Chiesa sente che l’impegno per l’amnistia, la giustizia, la libertà rappresenta un fatto che va nella direzione di una possibile e necessaria riconciliazione. Con i miei confratelli vescovi di Basilicata ricordavamo qualche mese fa che l’attenzione verso i carcerati si concretizza attraverso la quotidiana vicinanza dei cappellani e dei volontari ai drammi e ai percorsi di recupero di ciascuno nella convinzione che se lo Stato deve tutelare la società dalla minaccia dei criminali, deve pure, in pari tempo, reintegrare chi ha sbagliato senza calpestarne la dignità. Fa parte di questa sensibilità anche l’attenzione al mai risolto problema del sovraffollamento e del degrado delle carceri che attende di essere definitivamente affrontato. Fermo restando l’attuazione effettiva della giustizia, che va sempre assicurata in considerazione del doveroso rispetto verso le vittime e i loro familiari, l’auspicio è che si punti a promuovere uno sviluppo del sistema carcerario capace di adeguarsi alle esigenze della dignità umana, anche attraverso il ricorso a pene non detentive o a diverse modalità di detenzione. Anche per questo appare valido anche il ricorso ad una decisione del governo che renda possibile l’amnistia. Come Chiesa locale, il giorno 6 Ottobre u.s., per la prima volta nel carcere di Potenza, cinque detenuti, ben preparati, hanno ricevuto il Sacramento della Confermazione (Cresima). Ciò è stato possibile, grazie al lavoro del Cappellano, alla disponibilità della Direzione ed alla presenza discreta e attiva dei volontari. I neo-cresimati, accogliendo il dono dello Spirito Santo, si sono impegnati a rafforzare il cammino, già iniziato, di purificazione e di fede, per poter essere testimoni di Gesù Cristo, nel duro e doloroso ambiente del carcere. Calabria: Pd; no a chiusura carcere Laureana di Borrello, utilizzare al meglio struttura Adnkronos, 29 ottobre 2012 “La casa di reclusione di Laureana di Borrello va utilizzata al meglio e non chiusa. Abbiamo posto con forza il tema all’attenzione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e del ministro della Giustizia e non ci tranquillizzano le precisazioni offerte dal Dap sulla chiusura temporanea dell’istituto”. Lo affermano Andrea Orlando, responsabile Giustizia del Pd e Doris Lo Moro, parlamentare del Pd. “Siamo intervenuti tempestivamente sull’argomento anche in sede parlamentare per evitare che della gravità della scelta del Dap ci si rendesse conto dopo lo smantellamento della struttura la quale nel sistema penitenziario italiano è, allo stato, l’unico istituto sperimentale a custodia attenuata per giovani alla prima pena -sostengono i parlamentari- Siamo consapevoli dei problemi che il Dap si trova ad affrontare e della scarsità di risorse, ma anche del fatto che il problema del sovraffollamento si affronta utilizzando al massimo le strutture esistenti e investendo su scelte sperimentali e innovative”. “I risultati finora ottenuti, con la forte riduzione delle recidive e la circostanza che sono state alimentate speranze e percorsi di riscatto per giovani detenuti che non possono essere disattese, ci portano ad affermare che la decisione di chiudere, anche solo temporaneamente, la struttura è un errore a cui porre rimedio. Ci aspettiamo in tempi brevi una presa di posizione del ministro Severino e contiamo sull’attenzione che ha dimostrato sin dal suo insediamento rispetto al tema delle carceri”, concludeono Orlando e Lo Moro. Castelli (Lega): razionalizzare sistema anche se c’è indotto economico “Il sistema va razionalizzato, ma è un tema delicato, perché in molte zone sul territorio il carcere costituisce un fattore importante per l’economia locale”. Il senatore Roberto Castelli (Lega) commenta così all’Adnkronos le dichiarazioni dell’Assessore alla Cultura della Regione Calabria Mario Caligiuri, che ha auspicato la riapertura del carcere di Laureana di Borrello (Reggio Calabria). “Non mi esprimo in particolare sul carcere di Laureana di Borrello, dico solo che in generale bisogna mantenere solo le strutture d’eccellenza, andando ad incidere su situazioni in cui magari ci sono più agenti di polizia penitenziaria che detenuti. È chiaro -spiega- che in certe zone gli istituti penitenziari garantiscono un certo tipo di indotto e sono il motore per le economie locali, ma il messaggio principale deve essere l’esigenza di rivedere il sistema sotto il profilo dell’efficienza”. Osapp: Dap ignora situazione calabrese “È ormai da diverso tempo che la questione penitenziaria calabrese fornisce ogni giorno fatti che riempiono le testate giornalistiche ma il Dap, più volte sollecitato per la questione di assenza di personale, ad oggi non ha posto in essere quasi nessun concreto provvedimento per l’invio tramite nuovo personale di linfa vitale per le carceri calabresi”. Lo afferma Mimmo Nicotra, vicesegretario generale dell’Osapp, sindacato autonomo di polizia penitenziaria. Dopo che ieri pomeriggio un detenuto extracomunitario, in carcere per il reato di tentata rapina, è evaso dalla casa circondariale di Crotone. “La polizia penitenziaria calabrese - continua - ha già avviato le ricerche per la cattura dell’evaso facendo fondo alle poche risorse umane a disposizione. “È impensabile chiudere, come del resto ha fatto il Dap, la casa circondariale di Laureana di Borrello per recuperare forse una ventina di unità quando in occasione dei nuovi corsi si pensa solo ed esclusivamente a inviare personale negli istituti del nord Italia. questo trend non finirà se non verranno assegnate nuove unità di polizia penitenziaria - conclude Nicotra, tutti gli istituti della Calabria e della Sicilia saranno sempre più oggetto di eventi critici come quello recente di Crotone”. Firenze: l’allarme del Garante dei detenuti Corleone “nelle carceri condizioni disumane” www.ilsitodifirenze.it, 29 ottobre 2012 Trasformare il detenuto che sconta una doverosa pena in una vittima maltratta dello Stato che quando esce è più pericolosa di quando è entrata. Ecco quello che succede se non si mette un freno alla situazione esplosiva di Sollicciano e di molte altre carceri. Nel dettaglio delle pessime condizioni igieniche del carcere (lenzuola nei letti cambiate anche ogni 40 giorni), della mancanza dei beni di prima necessità per la pulizia personale, è entrato stamani il garante dei detenuti Franco Corleone durante l’audizione in commissione Diritti umani. “Come istituzioni - hanno detto la presidente Susanna Agostini e il consigliere Stefano Di Puccio che sta partecipando allo sciopero della fame a staffetta- siamo responsabili di trasformare il detenuto che sconta la doverosa pena giudiziaria in una vittima maltrattata dallo Stato. Le persone che escono dopo aver scontato una pena, non solo hanno sofferto di condizioni antigieniche e di disagio umano, ma hanno maturato un concetto di esclusione sociale”. Durante l’audizione di stamattina è stata discussa la mozione presentata dal collega Stefano di Puccio che ripropone una sede per i detenuti in semilibertà . In questo modo si potrebbe dare sollievo sia alla struttura del Gozzini, sia alle persone, in questo momento una trentina, aventi diritto al regime di semilibertà. In questa direzione andava anche la mozione del capogruppo dell’IdV Giuseppe Scola già votata all’unanimità in commissione e in cui si identificava nella struttura Santa Teresa (via della Mattonaia), il contenitore adeguato. “I detenuti in queste condizioni non possono uscire persone migliori di come sono entrate in carcere” ha sostenuto questa mattina il garante dei detenuti Franco Corleone che ha ripercorso le tappe che mettono in evidenza quanto, a fronte di un forte dichiarato impegno politiche delle istituzioni, non ci sono dati che possano rassicurare verso un cambiamento totale del consumare la pena carceraria. Corleone ha chiesto di condividere con la Regione una nuova iniziativa di cura e prevenzione per quando riguarda la tutela della salute sia in carcere che della comunità tutta, quando i detenuti ritornano liberi. “La situazione esplosiva e disumana che sta vivendo tutta la popolazione carceraria - ha aggiunto Agostini - ci costringere a incrementare l’impegno assunto durante il consiglio a Sollicciano e nei tanti atti di consiglio comunale che abbiamo approvato. Non possiamo restare insensibili alle statistiche di suicidi giornalieri, che come iceberg segnano il disagio del sistema carcerario. Il Ministro ha più volte sollecitato le parti interessate ad accelerare un processo di umanizzazione nelle strutture di detenzione. Gli insufficienti organici, il sovraffollamento, i detenuti in attesa di giudizio, la casa di cura e tutela per le donne, i minori che condividono gli angusti luoghi delle madri, sono i temi emergenti che portano al disagio fino all’autodistruzione di persone che avrebbero il dovere di scontare una pena” Napoli: l’Ucpi domani in visita al carcere di Poggioreale, dopo Saluzzo e Ferrara Adnkronos, 29 ottobre 2012 Una delegazione dell’Unione camere penali sarà in visita domani al carcere napoletano di Poggioreale, dopo i sopralluoghi effettuati nei giorni scorsi nei penitenziari di Saluzzo e di Ferrara. Nella casa di reclusione piemontese, seppure “non abbia punte di sovraffollamento come altri istituti in Piemonte, vi è una cronica carenza di personale, di agenti, educatori e assistenti sociali che sono la metà di quelli previsti in pianta organica”. La capienza regolamentare è di 262 unità, la tollerabile di 465, gli occupanti sono invece 415, il 20% in stato di custodia cautelare, 176 stranieri. “I detenuti vivono in celle di dimensioni pari a 9,25 mq originariamente per una persona, dal 2009 occupate in alcune sezioni fino a tre - riferisce l’Ucpi - Ed è prossimo ad essere utilizzato, entro un anno, un nuovo padiglione in grado di ospitare 197 detenuti. Mancano le prospettive di lavoro futuro e poche sono le risorse anche per le attività e la scuola, dove i detenuti che frequentano il liceo artistico sono costretti a comprarsi i libri e il materiale”. A Ferrara, i penalisti hanno potuto verificare che “in occasione del terremoto del maggio scorso, vi è stato uno sfollamento per motivi di sicurezza che ha portato il numero dei detenuti, che si aggirava sui 500, a circa 250, oggi già aumentato a 309. I detenuti trasferiti erano soprattutto stranieri e definitivi. Oggi ci sono 105 stranieri, 178 italiani comuni e 24 collaboratori; 194 i definitivi, 50 in attesa di giudizio, 34 appellanti, 7 ricorrenti, 2 semiliberi. I tossicodipendenti sono 83, gli agenti sono 170”. La delegazione Ucpi confessa di “avere avuto l’impressione di un carcere duro”. Crotone: detenuto evade dal carcere, si ferisce, va in ospedale e scappa di nuovo Agi, 29 ottobre 2012 Un detenuto è evaso nel primo pomeriggio di oggi dal carcere di Crotone in circostanze ancora tutte da chiarire. Si tratta di Mabrouk Akremi, tunisino di 26 anni, che era stato arrestato lo scorso 8 ottobre insieme ad un crotonese di 43 anni, perché ritenuto autore della rapina compiuta ai danni di un portavalori di una ditta di autotrasporti; il colpo, avvenuto il precedente 3 ottobre, aveva fruttato 23 mila euro, mentre il portavalori era stato selvaggiamente colpito con il calcio di una pistola. Da quanto è stato possibile apprendere, il tunisino, durante l’ora d’aria nella casa circondariale di Crotone, che in questo periodo è interessata da lavori di ristrutturazione, sarebbe riuscito a scavalcare un muro di recinzione, quindi, con l’aiuto di una sbarra di ferro reperita nel cortile, avrebbe scavalcato anche l’alta cancellata del carcere allontanandosi dall’istituto penitenziario che è ubicato ad alcuni chilometri dalla città, lungo la strada statale 106. Durante la fuga Mabrouk Akremi si è ferito con un vetro appuntito ad un piede per cui l’uomo ha deciso di raggiungere l’ospedale civile di Crotone, ubicato nel centro della città, dove i sanitari gli hanno praticato alcuni punti di sutura. Al momento di essere ricoverato, tuttavia, il tunisino ha fatto perdere di nuovo le tracce. Attualmente è ricercato in tutta la città dalla quale difficilmente potrebbe essersi allontanato. Sappe: ecco come e perché è evaso “Ancora un grave evento critico in Calabria, una regione ormai allo sbando. L’evasione di ieri, di un detenuto di origine tunisina, avvenuta nel carcere di Crotone, dovrebbe far riflettere i vertici dell’Amministrazione penitenziaria e il ministro della Giustizia”. È quanto affermano Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe e Damiano Bellucci, segretario nazionale dello stesso sindacato dei baschi azzurri. “Non ci sorprende molto quanto avvenuto a Crotone - spiegano i sindacalisti - né le modalità con cui l’evento si è verificato: l’uomo è riuscito a scavalcare tutti i muri di recinzione, senza che nessuno se ne accorgesse, perché l’istituto è stato sguarnito e reso vulnerabile dal punto di vista della sicurezza proprio a causa delle decisioni poste in essere, negli ultimi tempi, dai vertici nazionali e regionali dell’amministrazione penitenziaria che dovrebbero prenderne atto e trarre le dovute conseguenze: diversamente sarebbe opportuno che intervenisse il ministro”. “Ieri pomeriggio - segnalano gli esponenti del Sappe - nel carcere di Crotone c’era un solo agente nella sezione detentiva e, complessivamente, nel carcere ce n’erano quattro. La maggior parte degli agenti vengono quotidianamente inviati in missione in altri istituti della regione, in barba anche alle regole contrattate con le organizzazioni sindacali, senza tenere conto delle esigenze dell’istituto di Crotone. Sembra addirittura che i vertici locali stiano per distaccare anche il comandante al Provveditorato. Se ciò fosse vero - concludono Durante e Bellucci - sarebbe un ulteriore, gravissimo atto, considerato anche ciò che è avvenuto ieri”. Oristano: Ugl; nuovo carcere allagato e invaso di topi, telefoni bloccati e problemi sicurezza L’Unione Sarda, 29 ottobre 2012 Salvatore Argiolas, segretario regionale Ugl, denuncia condizioni di lavoro disumane. “Il rischio è che a breve i detenuti arrivino a 400, molti di massima sicurezza”. Un colosso verde nelle campagne di Massama. Visto dall’esterno il nuovo carcere sembra la struttura moderna e d’avanguardia tanto decantata. Ma le bandiere dell’Ugl all’ingresso raccontano un’altra storia: “Topi che scorrazzano nello spaccio, infiltrazioni d’acqua piovana, sistemi elettronici e informatici in tilt. Una totale improvvisazione”. Ieri è stato il giorno della protesta della polizia penitenziaria con la denuncia di “condizioni di lavoro disumane”. La lista nera della nuova casa circondariale è lunga. “È bastato l’acquazzone di ieri per vedere l’acqua filtrare sui muri delle celle - spiega Salvatore Argiolas, segretario regionale dell’Ugl - Due giorni fa l’addetto dello spaccio stava inseguendo un topo”. L’analisi è attenta e dettagliata: “Ci sono problemi anche gli impianti elettronici per il funzionamento dei cancelli automatici nelle sezioni” aggiunge il segretario locale Fabrizio Piu. Difficoltà nei sistemi informatici. “Siamo rimasti più di dieci giorni senza telefono e linea internet, spesso è necessario l’intervento dei tecnici: stiamo lavorando in un cantiere”. Nei primi dieci giorni dopo il trasferimento niente sapone e carta igienica nei bagni, problemi con la lavanderia e la cucina, non si poteva bere nemmeno un caffè: “I distributori automatici erano rimasti in piazza Manno”. A preoccupare sono i numeri: dei rinforzi (80 agenti previsti), al momento sono arrivati 56. “In gioco non ci sono soltanto le condizioni di lavoro del personale, ma la sicurezza all’interno del carcere: noi oggi non siamo in grado di garantirla”. Gli agenti sono 165, i detenuti 118. “Il numero dei carcerati è destinato ad aumentare, non si può dire altrettanto per gli agenti di polizia penitenziaria - vanno avanti Argiolas e Piu. C’è il rischio concreto che nel giro di pochi mesi i detenuti arrivino a 400, molti della sezione di massima sicurezza”. L’Ugl non fa sconti e denuncia la fretta del Ministero “nell’aprire una struttura che ancora non era pronta. Comprendiamo la necessità di soddisfare le esigenze dei detenuti che a Massama stanno meglio, ma non si può improvvisare su tutto il resto”. Poi l’affondo verso la direzione che nell’organizzazione del lavoro “non presta la dovuta attenzione ai diritti del personale con soppressione di ferie e riposi, continue richieste di straordinari, turni di otto ore non previsti dal contratto” ribadisce Argiolas. “La vigilanza armata viene fatta all’aperto, senza alcun riparo dalle intemperie”. Diretto l’appello al direttore Pierluigi Farci: “Ci auguriamo che inizi a collaborare e a confrontarsi con i sindacati, non si può continuare a lavorare con questi problemi”. Al provveditore regionale Gianfranco De Ge-su che dipinge una situazione non preoccupante, l’Ugl suggerisce di fare una visita al carcere di Massama. Bergamo: con la cooperativa Areté il carcere ha il pollice verde di Diana Noris L’Eco di Bergamo, 29 ottobre 2012 La cooperativa sociale specializzata nel biologico ha avviato un orto dentro le mura di via Gleno. Coinvolti tre detenuti, altri dieci in attività esterne. Prossimo obiettivo: la costruzione di una serra. Nel carcere di Bergamo, dietro alle mura invalicabili e alle reti metalliche, si nasconde un angolo speciale. Lì, in un fazzoletto di terra, invece del cemento sbocciano i fiori e crescono gli ortaggi. I detenuti vivono il contatto con la terra, osservando il cielo e le meraviglie della natura. Da circa cinque mesi, grazie all’associazione Amici di Aretè e all’omonima cooperativa con sede a Torre Boldone, è stato creato un orto. Uno spazio di circa mille metri quadri ricavati da un angolo abbandonato del carcere di via Gleno, un’area attigua all’edificio principale che durante la sua costruzione era stata utilizzata per il deposito dei materiali edili. Grazie alla sinergia tra l’associazione, la cooperativa Aretè e il comitato Carcere e Territorio, da quell’appezzamento incolto è nata un’opportunità educativa e riabilitativa. La scorsa estate sono stati tre i detenuti che hanno lavorato l’orto, producendo un raccolto che è stato utilizzato nelle tre cucine del carcere. Per ora si tratta di un laboratorio, ma in futuro i frutti del lavoro dei detenuti potrebbero essere inseriti nella rete commerciale, grazie anche al sostegno della cooperativa Aretè. “Mi piace definire l’orto un laboratorio - spiega Claudio Bonfanti, presidente dell’associazione Amici di Aretè. È stato utilizzato non tanto dal punto di vista commerciale, quanto per la didattica e siamo rimasti sorpresi positivamente dall’esperienza. I detenuti hanno messo a dimora le piantine e hanno utilizzato anche i semi. Hanno tenuto anche un quaderno di campagna, per segnare tutti i passaggi dell’orto, coltivato molte qualità, pomodori, insalate, peperoni, carote, erbe aromatiche”. La maggior parte dei lavori si sono concentrati sulla bonifica del terreno. Il prossimo passo è la realizzazione di una serra e di un impianto di irrigazione: “Per avviare l’orto ci sono voluti 10 mila euro e non solo per la parte strutturale. Il terreno era in cattive condizioni, c’era del materiale edile che risaliva all’epoca della costruzione del carcere - spiega Bonfanti -. Per l’anno prossimo vorremmo realizzare una serra, in modo da allungare i tempi della coltivazione anche d’inverno, e un impianto di irrigazione. Saranno i detenuti stessi a dare una mano”. L’orto e l’agricoltura sono entrati in carcere grazie all’attività di Aretè con il progetto “Costruire un’impresa agricola con finalità sociali” realizzato in collaborazione con la Casa circondariale e finanziato dalla Cassa delle ammende, ente del ministero della Giustizia. Il progetto della durata biennale è in via di conclusione ed ha coinvolto una decina di detenuti nei campi di Areté a Torre Boldone: “Il progetto, della durata di 300 ore, si è sviluppato in due moduli, uno teorico di 130 ore e uno pratico, presso Aretè, di 170 ore - spiega Oliviero Arzuffi responsabile del progetto. Sono state coinvolte 15 persone e dopo una selezione, in dieci hanno concluso il percorso, suddiviso in tre scaglioni e sviluppato su 24 mesi”. L’esperienza pilota a livello nazionale è in attesa di un rinnovo: “Il ruolo storico di Aretè è di fare da ponte, aiutando le persone in difficoltà, sia detenuti che malati psichici, ad entrare nel mondo del lavoro. L’obiettivo del progetto è che diventi un’esperienza strutturale - spiega Arzuffi - e come cooperativa ci impegniamo a fare da tramite con le realtà cui siamo in contatto per inserire gli ex detenuti. Cercheremo di riportare a casa le stesse risorse dal ministero”. E infine una provocazione: “I cittadini devono farsi carico del loro carcere - sottolinea Arzuf-fi -. Iniziare a chiedersi chi sta in carcere e perché. Voglio lanciare un appello a tutti i bergamaschi: chiedetevi il perché delle devianze e fatevene carico”. Alla base della filosofia Aretè, il valore del lavoro come riabilitazione e reinserimento sociale: “È fondamentale far lavorare i detenuti - afferma Monica Peri, presidente Aretè -. Non si può lasciare queste persone in carcere senza fare nulla. Per la riabilitazione l’attività lavorativa ricopre un ruolo fondamentale, perché è anche un modo per essere visibili sul territorio. Se i detenuti producono prodotti, come quelli dell’orto, si fanno conoscere dai cittadini”. Il valore dell’attività lavorativa è riconosciuta e promossa dall’istituzione carcere: “È importante impiegare il tempo in carcere - spiega Anna Maioli, responsabile referente dei progetti educativi della Casa Circondariale di Bergamo. Soprattutto con un’attività di questo tipo, dove si vedono i risultati, un orto che dà dei frutti è una bella gratificazione. Alcuni detenuti sono stati contenti di riprendere un’attività già fatta negli anni scorsi, perché già si occupavano di un piccolo orto. Inoltre sono contenti di poter svolgere un’attività a cielo aperto”. L’obiettivo è rendere la sperimentazione una realtà strutturale all’interno del carcere: “Il fatto critico di queste belle iniziative è la tenuta nel tempo - sottolinea Maioli. Si dovrà cercare di far entrare la produzione dell’orto in un ciclo produttivo. Dalla vendita si potrebbero avere le risorse per pagare le borse lavoro ai detenuti, perché è giusto che sia dato loro un compenso economico”. Cagliari: Socialismo Diritti Riforme; nuovo carcere sarà operativo soltanto nel 2014 Ansa, 29 ottobre 2012 “La data di consegna del nuovo carcere di Cagliari, prevista a dicembre 2013, significa che l’entrata a regime dell’Istituto di Uta avverrà nell’anno successivo. Un tempo infinito per chi vive in condizioni di sovraffollamento e con la prospettiva di continuare a trascorrere 22 ore chiuso in una gabbia”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme” avendo appreso che nella relazione alla Presidenza della Repubblica dell’Ufficio Tecnico per l’Edilizia Penitenziaria “la nuova Casa Circondariale del capoluogo di regione sarà l’ultima, tra le quattro previste in Sardegna, ad essere consegnata dal Ministero delle Infrastrutture a quello della Giustizia”. “Di norma - sottolinea Caligaris - dalla consegna dell’edificio alla sua effettiva operatività trascorre circa un altro anno. È vero che è possibile ridurre i tempi razionalizzando le operazioni di allestimento ma purtroppo, come insegna l’esperienza di Oristano-Massama, affrettare troppo i lavori comporta poi spesso il dover affrontare e risolvere altri problemi quali quelli della viabilità e dei collegamenti. Per la struttura di Uta, come l’associazione Sdr ha sottolineato più volte, occorre agire da subito con una conferenza dei servizi. Il nuovo Istituto cagliaritano infatti è destinato ad accogliere un numero di cittadini ristretti superiore di circa 200 unità rispetto al vecchio Buoncammino. Sono infatti previsti 550 posti mentre nell’ottocentesco istituto, nel rispetto della quota regolamentare stabilita dal Dipartimento, potevano essere recluse 345 persone”. “La questione non è trascurabile - evidenzia la presidente di Sdr - perché occorre adeguare il personale. Il tema della sicurezza solo in parte può essere risolto con l’uso delle cellule fotoelettriche, delle telecamere e dell’informatica. Gli Agenti di Polizia penitenziaria in servizio non possono essere trasformati in tastieristi ma ciò che emerge è l’impossibilità per gli educatori, gli psicologi e i diversi operatori penitenziari di poter far fronte con l’attuale contingente alle necessità dei reclusi. È noto infine che un numero così elevato di persone ristrette, con un’alta percentuale di anziani, non può essere affidato solo ai sanitari dell’annesso centro clinico. La dislocazione dell’Istituto richiede particolare attenzione per i tempi di percorrenza verso un ospedale in caso di emergenza”. “Forse è stato scongiurato il pericolo di un’incompiuta, ma per com’è nato e cresciuto - conclude Caligaris - il carcere di Uta appare ancora oggi un concentrato di questioni irrisolte. Terni: progetto per un canile nel carcere, vanificato un finanziamento da mezzo milione di Nicoletta Gigli Il Messaggero, 29 ottobre 2012 Il progetto finanziato ministero della Giustizia è rimasto bloccato per troppo tempo in Comune. Un canile dentro al carcere di Sabbione per tenere impegnati i detenuti e favorire il loro reinserimento sociale e lavorativo. Ma anche per alleggerire la struttura comunale, da anni afflitta dal sovraffollamento di cani. “La casa di fido” era un progetto destinato a fare scuola a livello nazionale, forte della collaborazione tra dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, associazioni di volontariato, comune e azienda sanitaria locale. Ma a Sabbione il canile non ci sarà perché il progetto è rimasto per troppo tempo nel cassetto di qualche ufficio comunale. Impastoiato in un iter burocratico lunghissimo che ha spinto il ministero della Giustizia a riprendersi i soldi del consistente finanziamento stanziato per “La casa di fido”. I ritardi nel via libera all’ambizioso progetto esecutivo ma anche la crisi economica hanno spinto il dicastero di via Arenula a risparmiare quei 445mila euro che dovevano servire per realizzare il canile all’interno del penitenziario ternano e ad usarli per ristrutturare le carceri. Il progetto presentato a giugno del 2007 era davvero ambizioso. Prevedeva dentro la casa circondariale una nuova struttura che avrebbe ospitato una cinquantina di animali provenienti dal canile di Colleluna. Oltre alla realizzazione di una struttura per l’accudimento e la cura dei cani, nel carcere di Sabbione era prevista anche la collocazione del canile sanitario per migliorare le condizioni di vita degli animali e la loro tutela sanitaria. Ai detenuti il compito di costruire l’edificio e le cinquanta gabbie, di accudire gli animali e di gestire la pensione stagionale per cani, che avrebbe costituito la parte economicamente produttiva per il parziale autosostentamento del progetto. L’obiettivo era quello di far compiere un’esperienza lavorativa spendibile poi anche nel mercato del lavoro, ma anche di sperimentare gli aspetti affettivi ed educativi legati al rapporto con gli animali nell’ottica della risocializzazione dei detenuti. Il progetto aveva anche una valenza più ampia perché sarebbe andato ad alleggerire il canile comunale di Colleluna e avrebbe consentito consistenti risparmi in un settore da anni al centro di tante polemiche. “Avevamo definito un percorso all’avanguardia che andava oltre quello che si può immaginare in un ambiente particolare come quello del carcere. L’impegno messo per realizzare un bellissimo progetto avrebbe meritato una conclusione più dignitosa” - dice l’ex direttore del carcere, Francesco Dell’Aira, che coordinò i lavori di quella che è rimasta solo un’idea. Un progetto che prevedeva anche un laghetto dotato di alghe particolari per depurare le acque reflue e piante frangi suono per abbattere il rumore prodotto dall’abbaiare dei cani. Ora si scopre che il canile nel carcere resta un sogno nel cassetto perché, dopo una lunga attesa di un progetto dimenticato negli uffici, il ministero ha deciso che ormai era troppo tardi. E che quegli oltre quattrocentomila euro li avrebbe utilizzati per mettere mano alla disastrata edilizia penitenziaria. Sassari: il carcere di diventa protagonista alla Fiera del libro La Nuova Sardegna, 29 ottobre 2012 Sassari e il carcere di San Sebastiano è stato ieri il tema centrale della sessione “Diversi approcci”, il secondo incontro con gli autori promosso dall’Associazione editori sardi nell’ambito della XII Mostra del Libro in Sardegna organizzata dal comune di Macomer con l’Aes e l’Alsi. Il lavoro di Cecilia Sechi, ricercatrice da anni impegnata nel sociale, già assessore ai Servizi sociali del Comune di Sassari e attualmente garante dei detenuti nel carcere di San Sebastiano, è il risultato di un progetto realizzato nell’istituto penitenziario. All’incontro, moderato dal giornalista Rai, Gianni Garrucciu, ha partecipato l’editore Salvatore Fozzi che, in assenza dell’autrice Maria Pia Lai Guaita, ha presentato il volume “Le donne e la droga”. Sala gremita, soprattutto di studenti delle superiori, visto il tema accattivante e ricco di spunti per eventuali approfondimenti in classe. La fiera del libro di Macomer, che quest’anno si svolge nel segno della bibliodiversità, prosegue oggi con un incontro con la regista Wilma Labate, che terrà una lezione di cinema agli studenti delle superiori e in serata ricorderà lo scrittore Stefano Tassinari, scomparso a maggio. Salvatore Tola presenterà le 377 guide tascabili dei centri dell’isola, edizioni Delfino. Seguirà Giovanni Fancello con un saggio storico-gastronomico dal titolo: Pasta, storia e avventure di un cibo tra Sardegna e Mediterraneo. Per gli autori locali, di grande interesse l’appuntamento con Salvatorangelo Murgia, poeta macomerese pluripremiato, il quale alle ore 19 converserà con Salvatore Sechi per parlare della sua ultima raccolta di poesie “Umbras e lughes”. Negli stand, dove sono proposti oltre 4 mila libri tra editoria isolana e nazionale, espongono il meglio della loro produzione 37 editori sardi, 28 dei quali aderenti all’Aes. Cagliari: Fns-Cisl; agente aggredito nel carcere minorile, situazione intollerabile L’Unione Sarda, 29 ottobre 2012 Un detenuto del carcere minorile di Quartucciu ha aggredito un agente della polizia penitenziaria. La denuncia arriva dal segretario regionale aggiunto della Fns Cisl. Ancora violenza tra le mura del carcere minorile di Quartucciu. Un giovane detenuto ha picchiato un agente di custodia. “Non avremmo mai voluto ripeterci con documenti sindacali riguardanti aggressioni ai nostri colleghi - dice Giovanni Villa - ma purtroppo così non è. Lo scorso 25 ottobre un agente è stato aggredito”. Il precedente è di quindici giorni fa. Allora i poliziotti furono presi a calci e pugni e tenuti in ostaggio da 5 detenuti. Un altro episodio a settembre. “Si enfatizza il trattamento del detenuto minore e del suo recupero sociale - aggiunge Villa - ma mai si parla o mai si spende una parola o meglio si investe per migliorare le condizioni lavorative dei nostri colleghi”. Il documento, che segue a quelli già inoltrati, è indirizzato a Caterina Chinnici, capo del dipartimento della Giustizia minorile. Si chiede in particolare di risolvere la grave emergenza e, di fronte al persistere della condizione di scarsa sicurezza, si sollecitano “le dimissioni di tutti quei personaggi che sono incapaci di dare risposte adeguate a problemi che da anni stanno creando una situazione psicologica tale da far credere ai nostri colleghi di essere figli di un Dio minore e di non credere più nelle istituzioni, tanto meno nell’Amministrazione penitenziaria”. Torino: Ipm Ferrante Aporti; il 12 novembre protesta della Polizia penitenziaria Ansa, 29 ottobre 2012 Quattro sigle sindacali della polizia penitenziaria, Sappe, Osapp, Sinappe e Ugl, hanno annunciato un sit-in di protesta davanti al carcere minorile Ferranti Aporti di Torino. La manifestazione, in programma il 12 novembre, coinvolgerà il personale attivo in Piemonte e Valle d’Aosta con le rispettive famiglie. Obiettivo, spiegano i sindacati in una nota, rimarcare “il clima di forte disagio e malessere diffuso tra il personale del Corpo di Polizia Penitenziaria” “Turni di lavoro massacranti, mancata osservanza degli accordi sindacali, episodi di violenza trattati con leggerezza, visite fiscali in odio di chi soffre patologie dipendenti da causa di servizio, mancanza di equità nelle turnazioni, tensioni e conflitti” e perfino “utilizzo improprio delle telecamere per controllare il personale”: questa, affermano i sindacati, “è la quotidianità del Ferrante Aporti”. “Occorre estrarre dal Ferrante Aporti - sottolineano Sappe, Osapp, Sinappe e Ugl - il cancro dell’illiceità e dell’ingiustizia. Per questo chiediamo l’immediato avvicendamento del dirigente del centro, del direttore del direttore del Ferrante Aporti, del comandante di reparto e del suo sostituto, che non mostrano rispetto e interesse alcuno verso gli appartenenti al corpo della Polizia Penitenziaria, che non sono responsabili, come si vorrebbe far ritenere, dello stato di disagio in cui versa l’Istituto”. Saluzzo (Cn): nel salone convegni del convento di San Giovanni si discute di carcere La Stampa, 29 ottobre 2012 Lunedì prossimo, 5 novembre, alle 20,45 presso il Salone Convegni del Convento di San Giovanni, in via San Giovanni 9 a Saluzzo si discute della situazione penitenziaria italiana, nell’ambito delle iniziative di sensibilizzazione e di contrasto culturale alla violenza e alle discriminazioni intitolate: “Vincere la paura, ricostruire la speranza”. La serata - promossa dal Comune di Saluzzo in collaborazione con l’Associazione radicale Adelaide Aglietta - è aperta a tutta la cittadinanza e sarà introdotta dalla proiezione della video-inchiesta “Giustamente - viaggio nelle carceri italiane”. Si tratta di un prezioso ed efficace documentario su 8 diverse strutture detentive di varie regioni d’Italia: Palermo, Brescia, Milano, Favignana (Trapani), Sassari, Napoli, Messina. Un lavoro giornalistico di inchiesta e di documentazione realizzato da due giovani giornalisti, Valentina Ascione Simone Sapienza per il sito www.fainotizia.it di Radio Radicale. Il confronto vedrà la partecipazione Valentina Ascione, co-autrice della video-inchiesta, del professor Marco Pelissero, docente di Diritto Penale presso le facoltà di Giurisprudenza delle Università di Genova e di Torino, Davide Sannazzaro, educatore responsabile dell’equipe trattamentale della Casa di Reclusione “Giorgio Morandi” di Saluzzo, l’Assessore comunale Marcella Risso e Bruno Mellano, già consigliere regionale e deputato radicale, candidato a Garante dei detenuti della Regione Piemonte. Bruno Mellano, dirigente del Partito Radicale, ha dichiarato: “È stato lo stesso Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, a denunciare lo stato di crisi della giustizia italiana, parlando di “punto critico insostenibile cui è giunta la questione, sotto il profilo della giustizia ritardata e negata […] e sotto il profilo dei principi costituzionali e dei diritti umani negati per le persone ristrette in carcere, private della libertà per fini o precetti di sicurezza e di giustizia”, intervenendo ad un convegno promosso dal Partito Radicale presso il Senato della Repubblica. Più di recente, è stata la seconda carica dello Stato, il Presidente del Senato, a fare eco alla denuncia scrivendo pubblicamente - a nome della Istituzione che rappresenta - di una “tragedia senza fine delle carceri italiane” che “rappresentano anche un atto di accusa, inquietante e insopprimibile, per tutta la classe dirigente e per tutte le istituzioni democratiche” accomunate nella categoria di “traditori di un precetto sacro e inviolabile” qual è l’art. 27, 3° comma, della Costituzione italiana. Il Presidente Napolitano aveva poi aggiunto, “è una realtà che ci umilia in Europa e ci allarma, per la sofferenza quotidiana - fino all’impulso a togliersi la vita - di migliaia di esseri umani chiusi in carceri che definire sovraffollate è quasi un eufemismo, per non parlare dell’estremo orrore dei residui ospedali psichiatrici giudiziari, inconcepibili in qualsiasi paese appena appena civile”. Noi radicali crediamo che occorra affrontare la questione, con quella “prepotente urgenza” ha detto il Presidente delle Repubblica: la serata a San Giovanni può essere un piccolo passo nella direzione giusta”. Lodi: teatro e solidarietà, il secolo del carcere della Cagnola narrato dai detenuti Il Cittadino, 29 ottobre 2012 “Tieni il tempo” è il titolo dello spettacolo che venerdì sera ha entusiasmato la platea dell’auditorium Bpl, ripercorrendo i cento anni di storia del carcere di Lodi, a ritmo di musica, danza e dialoghi teatrali.Una serata benefica, per ricordare quel lontano 11 dicembre 1912 in cui la casa circondariale di via Cagnola apriva i battenti in sordina “come s’addiceva all’indole e alla natura dell’ambiente, fatto per la tristezza e il dolore”. Così scriveva il medico Alfredo Maggi, in un saggio dell’epoca. Sono trascorsi cento anni da allora e il carcere, pur rimanendo un luogo amaro in cui manca la libertà, si è ben inserito nel tessuto della città e ne ha respirato le trasformazioni, “tenendo il tempo”. Numerose le autorità intervenute per testimoniare con la loro presenza la forza e la valenza positiva di quest’istituzione, parte integrante della comunità lodigiana. Tra i tanti, il sindaco di Lodi, Lorenzo Guerini, il presidente della Provincia, Pietro Foroni, il vescovo di Lodi, monsignor Giuseppe Merisi, il cappellano del carcere, don Luigi Gatti, il prefetto Pasquale Gioffrè, il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Aldo Favozzi, il comandante del reparto di polizia penitenziaria, Nicola Colucci, i vertici delle forze dell’ordine locali. È bastato un attimo per attraversare le mura del carcere e ritrovarsi al suo interno, grazie all’audiovisivo di Adriano Carafòli, autore di una carrellata di immagini sulla vita quotidiana degli ospiti di via Cagnola. Una proiezione dal carattere quasi intimo che ha introdotto la platea nel vivo dello spettacolo portato in scena da attori d’eccezione: cinque detenuti, diretti dal regista Antonio Zanoletti, nella lettura di alcuni articoli della Costituzione e di racconti di carattere metaforico sulle condizioni dei carcerati. Uomini che all’inizio del secolo erano chiamati con un numero e indossavano una divisa, oggi sono persone a cui l’articolo 3 riconosce “pari dignità sociale”. Dall’abolizione della pena di morte nel 1948 alla riforma penitenziaria del 1975: un viaggio fatto non solo di parole, ma anche di musica, grazie alle composizioni e agli arrangiamenti del pianista Antonio Zambrini, accompagnato da un sestetto jazz appositamente ideato. Note che si sono ispirate a un secolo intero, partendo da inizio del ‘900 con Debussy, Mahler, Schoenberg e Alban Berg, passando per la tradizione delle grandi orchestre degli anni ‘40, per arrivare agli anni ‘70 con Joni Mitchell, omaggiata sul palco dell’auditorium dalla splendida voce di Martha J., celebre vocalist di jazz. Anche la danza, ha fatto irruzione sulla scena, grazie ai ballerini de “Il Ramo” capaci di interpretare mirabilmente le suggestioni scaturite dalle musiche, seguendo le coreografie ideate da Sabrina Pedrazzini, responsabile del corso di danza del carcere. Magistrale anche il prezzo di breakdance proposto da uno dei detenuti.A chiusura delle performance, la lettura di una poesia di Stefano Benni, sulle gioie delle piccole cose, di cui bisogna imparare a godere, e un breve sipario dedicato al burattino Pinocchio, pieno di tutti i “difetti di questo mondo”, ma incapace di “reggere il sacco alla gente disonesta”. Un’emozionatissima Stefania Mussio, direttrice della casa circondariale, salendo sul palco tra scrosci di applausi al termine dell’esibizione, ha ringraziato commossa tutti coloro che hanno creduto nell’idea di un carcere in cui il recupero è possibile: dal comune, alla provincia, alla Fondazione Bpl con il suo presidente Duccio Castellotti. Un’iniziativa che è stata davvero molto partecipata, con il pubblico che ha riempito l’auditorium della Banca Popolare di Lodi, vicino alla stazione ferroviaria. Il ricavato della serata andrà a beneficio delle tre mense dei poveri di Lodi, del “Progetto insieme” di Caritas Lodigiana, della Casa di accoglienza San Francesco e dell’Istituto delle Figlie di Sant’Anna. A. R. Firenze: “Le carceri. Un problema solo italiano?”, domani un incontro sul tema In Toscana, 29 ottobre 2012 “Le carceri. Un problema solo italiano?”, è il tema che sarà affrontato nell’incontro promosso dal Robert F. Kennedy Center in programma martedì 30 ottobre alle 18 al Caffè Letterario ospitato, come gli uffici del Rfk Center, proprio nell’ex struttura carceraria delle Murate (Piazza Le Murate a Firenze). L’iniziativa, inserita nel calendario di “Human Rights Tuesday Night”, sarà dedicata alla situazione del sistema carcerario italiano e all’attività della defender del Rfk Center Senal Saharian, che da sempre si batte per il riconoscimento dei diritti politici dei cittadini turchi. A discuterne insieme agli esperti del Robert F. Kennedy Center for Justice and Human Rights, Giuseppe Caputo, membro de “L’altro diritto, Centro di documentazione su Carcere, Marginalità e Devianza”, la scrittrice Susanna Marietti, autrice con Patrizio Gonnella di “Il carcere spiegato ai ragazzi”(Ed. Il Manifesto Libri, 2010) e Antonietta Fiorillo, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze. La serata, condotta da Raffaele Palumbo, sarà trasmessa in diretta da Controradio (FM 93.6/98.9). Alessandria: festa per le tele del carcere dipinte da detenuti e bambini La Stampa, 29 ottobre 2012 È stata prorogata fino al 10 novembre la mostra allestita al Palazzo del Monferrato con le tele realizzate dai ragazzi delle elementari e dai detenuti di San Michele. Il committente è la Curia e i dipinti saranno collocati nella chiesa del carcere. È il frutto del lavoro svolto con passione e perizia dal maestro Pietro Sacchi: a bambini liberi e uomini dietro le sbarre ha insegnato per davvero come si fa in una bottega reale a creare, colorare, dipingere. Ne sono nati capolavori dettati da religioni diverse. In mostra ci sono le prime tele che sono affiancate da un’altra mostra: quella degli ulivi del Salento. Alberi dove ognuno facendo ricorso alla propria immaginazione può vedere animali, persone, paesaggi. Un lavoro così andava festeggiato. E allora domenica pomeriggio è stata fatta festa. Il coro delle Voci Bianche del Conservatorio ha allietato il pomeriggio, la merenda è stata preparata dai ragazzi del corso di ristorazione dell’Enaip. C’è stata una conferenza, moderata da Maria Paola Minetti, dirigente del Galilei, alla quale hanno partecipato la direttrice del carcere di San Michele Elena Lombardi Vallauri, Santina Gemelli direttore dell’ufficio Esecuzione penale esterna; il maestro Pietro Sacchi; l’educatore Piero Valentini. Milano: la Pietà Rondanini trasloca in carcere, da aprile sarà esposta a San Vittore La Repubblica, 29 ottobre 2012 Una scelta fortemente simbolica e che durerà il tempo necessario per trovare una nuova e definitiva sistemazione a uno dei gioielli artistici più preziosi di Milano. La Pietà Rondanini trasloca: dal Castello Sforzesco, dove arrivò nel 1952, andrà a San Vittore. In carcere, su un basamento collocato al centro della Rotonda, ovvero lo spazio da cui si dipartono i sei raggi delle celle: prima volta assoluta per un’opera d’arte della fama del gruppo scultoreo di Michelangelo Buonarroti. La decisione è presa, e da qualche settimana Comune, Sovrintendenza alle Belle Arti, Provveditorato regionale delle carceri, ministeri stanno lavorando per risolvere tutti gli aspetti burocratici della questione, che non sono pochi né di poco conto: la sfida, infatti, sarà quella di rendere visitabile la Pietà senza abbassare il livello di sicurezza necessario per un carcere. L’estate scorsa era stato l’assessore alla Cultura Stefano Boeri, dopo un post su Facebook, a lanciare la proposta, scrivendo: “Oggi sono tornato a visitarla, racchiusa dietro una quinta di pietra serena sul fondo della Sala degli Scarlioni. E ogni volta, di fronte a quest’opera programmaticamente incompiuta, su cui Michelangelo lavorò per trent’anni e fino a tre ore prima della morte, mi chiedo se non sia venuto il momento di offrirle una nuova visibilità, liberandola da quella elegante nicchia”. L’elegante nicchia in questione è l’allestimento creato nel 1956 dal gruppo Bbpr (Banfi, Barbiano, Peressutti, Rogers), negli anni diventato il centro di polemiche infinite, con ipotesi via via affacciate, come quella di Arnaldo Pomodoro, nel 2003, che scrisse all’allora ministro della Cultura Urbani per chiedere di “liberare” la Pietà, mentre nel 2009 l’assessore Finazzer Flory ripropose un’idea di Emilio Tadini, portare la scultura all’esterno del Castello, sotto una campana di vetro. In più, molte erano le lamentele per la scarsa accessibilità di quella sala, non solo per i disabili ma anche per gli anziani. Sempre Boeri, al Moma di New York, a maggio, aveva quindi aperto le speranze: “Mi piacerebbe che dall’aprile del 2013 la Pietà Rondanini possa tornare a vivere e a chiamare attorno a sé l’attenzione del mondo intero”. Un auspicio che, proprio da aprile, dovrebbe diventare realtà: l’opera verrà trasferita a San Vittore, negli spazi dove il Fai sta raccogliendo i fondi per un progetto di recupero architettonico. Le visite guidate saranno, ovviamente, strettamente su prenotazione, perché sarà necessario che ogni visitatore fornisca i suoi dati anagrafici: ma di certo ci saranno, e in diversi giorni della settimana, proprio perché l’idea è quella di concentrare l’attenzione sull’opera, sul contesto, e sul significato profondo che la parola pietà può assumere in un luogo di detenzione. In piazza Filangieri la Pietà potrebbe restarci per diversi mesi, in attesa che venga definita la sua nuova collocazione - probabile, ma non sicuro, che torni al Castello - e un nuovo, più leggero allestimento. Droghe: la legge Fini-Giovanardi è incostituzionale? di Roberto Spagnoli Notizie Radicali, 29 ottobre 2012 In un procedimento penale relativo ad una ipotesi di reato non ancora ben definita, oscillante tra la coltivazione e la detenzione ai fini di spaccio, la difesa ha presentato una questione di legittimità costituzionale relativa legge sulle droghe attualmente in vigore, quella conosciuta abitualmente come legge Fini-Giovanardi. La questione è stata sollevata dall’avvocato Fabio Valcanover, penalista trentino, militante radicale di lungo corso, particolarmente impegnato anche professionalmente sui temi della politica delle droghe e della legislazione proibizionista. La questione è molto interessante. Cerchiamo di sintetizzarla riprendendo quanto spiegato dallo stesso avvocato Valcanover nel Notiziario Droghe del sito dell’Aduc (droghe.aduc.it). La legge sulle droghe in vigore risulta dalla conversione in legge del decreto legge che fu emanato dal governo Berlusconi nelle ultime settimane della legislatura in occasione delle Olimpiadi invernali di Torino del 2006. La questione di legittimità costituzionale riguarda l’articolo 4 bis del decreto legge 272 del 2005 come introdotto in sede di conversione dalla legge 49 del 2006, nonché lo stesso decreto. Il dubbio si basa su quanto stabilito dalla Corte Costituzionale nella sentenza 22 del 2012 in materia di decretazione d’urgenza. I giudici hanno stabilito con particolare chiarezza il principio dell’omogeneità che deve avere un decreto legge, affinché sia rispettato il dettato dell’articolo 77 della Costituzione. Il principio, tra l’altro, era già stato ribadito dai giudici costituzionali in altre sentenze nel 1995 e nel 2010, ma anche nel 2007 e nel 2008, anche se non con questa chiarezza. In pratica, la Corte Costituzionale ha ribadito che un decreto legge deve essere considerato un tutto unitario e che le disposizioni contenute nel provvedimento devono avere una loro intrinseca coerenza e omogeneità sia dal punto di vista della materia del decreto, sia per quanto riguarda il fine per cui il decreto è stato emanato. È importante notare che non c’è il divieto di inserire delle nuove disposizioni nella fase di conversione del decreto. Questo, anzi, potrebbe rispondere ad esigenze di economicità sempre auspicabili. L’operazione, come fa notare l’avvocato Valcanover, non è però priva di limiti. Ovvero è legittima solo se non interrompe il legame logico-giuridico tra il caso straordinario che giustifica il decreto e il decreto stesso. Non è necessario essere degli antiproibizionisti inveterati, dei trinariciuti anti-berlusconiani o avere uno spiccato pregiudizio verso l’ex sottosegretario Giovanardi per pensare che è assai bizzarro che in un provvedimento riguardante le Olimpiadi invernali di Torino ci fosse l’urgenza di inserire norme che cambiavano la normativa sugli stupefacenti, per di più inasprendo le pene. I dubbi, tra l’altro, riguardano anche la compatibilità del decreto legge con disposizioni dell’Unione Europea sulla definizione dei reati e delle sanzioni applicabili al traffico illecito di stupefacenti e anche con il principio di proporzionalità delle pene. A chi scrive, che non è un esperto di diritto, ma un cittadino che si pone dei problemi circa le leggi del Paese in cui vive, paiono questioni assai fondate. Vedremo che esito avrà la questione di legittimità posta dall’avvocato Valcanover. In ogni caso, qualunque sarà la decisione della Corte Costituzionale, resta la realtà di una normativa approvata nelle ultime settimane della legislatura, imposta dal governo alla sua maggioranza, senza nessuna seria discussione, né prima, né durante il dibattito parlamentare. Una normativa che da sette anni sta producendo danni, senza intaccare il traffico illegale di droghe e ccontribuendo a determinare l’attuale sovraffollamento carcerario. Intanto in Francia, la scorsa settimana, il ministro della Salute, Marisol Touraine, ha dichiarato che spera di poter lanciare l’esperimento delle sale di autoconsumo entro la fine dell’anno, precisando che diversi comuni, “di destra come di sinistra”, sono già pronti per accogliere questo tipo di strutture che permetterebbero ai tossicodipendenti di consumare i propri prodotti in buone condizioni igieniche e in presenza di personale sanitario. Attualmente questo tipo di strutture sono illegali in Francia ma il ministro si è detta favorevole a rivedere le condizioni grazie alle quali si possano organizzare, come già avviene in Svizzera, in Germania, in Spagna ed in altri Paesi. Il dibattito sulle sale di autoconsumo era stato rilanciato la scorsa estate dal vice-Sindaco socialista di Parigi Jean-Marie Le Guen, che aveva chiesto al Governo di autorizzarle “per far fronte all’aumento dei consumi di eroina”. Médecins du Monde e l’associazione Gaia-Paris hanno già presentato un progetto in attesa del via libera da parte del Governo. Ovviamente l’opposizione di centro-destra è contraria e l’UMP, il partito dell’ex presidente Sarkozy, non si tratta di una forma di lotta contro le droghe, ma “della banalizzazione del consumo e della legalizzazione delle droghe più pesanti con i soldi dei contribuenti”. Il ministro della Salute si è però premurato di precisare che la posizione proibizionista del Governo non cambia e resta contro l’ipotesi di depenalizzazione della cannabis di cui si parla in queste settimane Oltralpe. In Francia, comunque, il dibattito è aperto e il governo si muove quanto meno sul piano delle misure sanitarie. In Italia, invece, ci teniamo la Fini-Giovanardi. Droghe: il Ministro Riccardi “San Patrignano è un’oasi di speranza” Vita, 29 ottobre 2012 Non è da tutti visitare una comunità e sentirsi a proprio agio con i ragazzi in percorso. Spesso è ancora più difficile se chi fa la visita è un politico distante dai problemi veri della società. Un problema e una situazione in cui invece si è trovato più che a suo agio il ministro per l’Integrazione e la Cooperazione Internazionale Andrea Riccardi, in visita a San Patrignano per conoscere da vicino comunità. Forte della sua esperienza alla comunità di Sant’Egidio, di cui è il fondatore, nella sua visita fra i settori si è fermato a chiacchierare prima con i bambini dell’asilo della comunità, poi con i ragazzi del centro minori, del centro studi e della cucina. Una visita più che interessata per il Ministro, che ha più volte chiesto informazioni sull’impegno di Vincenzo Muccioli e che ha guardato con grande interesse all’oggi della struttura: “Sono rimasto impressionato da San Patrignano per il grande coinvolgimento e la grande passione messa da tutti per offrire una vita migliore ai ragazzi presenti. Siamo una società a coriandolo, dove ognuno cerca di cavarsela da solo. A Sanpa invece si vive un sogno iniziato nel 1978 e che non si è mai spento. È un’oasi di speranza”. Il Ministro non si è poi tirato indietro quando ha dovuto analizzare alcune criticità della legge di stabilità, ad iniziare dal possibile aumento dell’Iva dal 4 al 10% per le cooperative: “Questo tema riguarda più la “scooperazione” che la cooperazione di cui mi occupo io. Premesso che condivido a fondo l’impianto della legge di stabilità, ora dobbiamo essere in grado di aggiustarla perché resti contatto con la realtà, vicina agli attori della vita sociale e alle persone che vivono questo momento di congiuntura difficile. A Sanpa ho constatato tre o quattro cose che dobbiamo a mettere a posto”. Fra queste anche l’ipotesi di dimezzare il numero degli insegnanti comandati dal ministero dell’Istruzione in forza a realtà sociali come San Patrignano: “A riguardo ho già inviato nei giorni scorsi un messaggio a Profumo per presentargli questa difficoltà. Si tratta di insegnanti necessari per queste realtà anche perché sono qualcosa di più di un insegnante. Con questo provvedimento si mettono in difficoltà giovani che già vivono situazioni particolari. Credo che vada rivisto”. Prima di lasciare la comunità c’è stato anche tempo per affrontare il problema dei tanti tossicodipendenti presenti nelle carceri italiane: “È un problema che conosco e di cui ho già parlato con Severino, ministro di Grazia e Giustizia. È una situazione difficile, ma da risolvere al più presto. Tenere un tossicodipendente in carcere è un’azione grave e non va nella direzione del recupero. Dobbiamo affidarci di più a strutture come queste comunità, che hanno un’esperienza consolidata, ma dobbiamo sostenerle in questo sforzo”. Siria: rilasciati 279 detenuti per l’amnistia, esclusi “colpevoli di azioni di terrorismo” Ansa, 29 ottobre 2012 Le autorità siriane hanno rilasciato 279 detenuti nella città nord-orientale di Dayr az Zor in base ad un’amnistia concessa il 23 ottobre scorso dal presidente Bashar al Assad a tutti i detenuti, “non colpevoli di azioni di terrorismo”, che abbiano commesso reati fino al 22 ottobre. Ne dà notizia la televisione di Stato di Damasco. Il regime definisce generalmente “terroristi” i ribelli armati. Iran: l’avvocatessa Nasrin Sotoudeh in carcere a Teheran, un’intervista al marito di Viviana Mazza Corriere della Sera, 29 ottobre 2012 “La decisione del Parlamento Europeo di conferire il premio Sakharov a mia moglie Nasrin Sotoudeh equivale per noi a ricevere un messaggio che dice: “Abbiamo sentito la vostra voce”“. Parla Reza Khandan, marito quarantanovenne che da oltre due anni si batte ogni giorno per denunciare la detenzione della compagna, avvocata reclusa nella famigerata prigione iraniana di Evin. E, intanto, si prende cura dei loro due figli, Mehrave di 12 anni e Nima di cinque. Sotoudeh, arrestata nel settembre 2010 e condannata nel gennaio 2011 a 11 anni di carcere, ridotti a 6 in appello, per “azioni contro la sicurezza nazionale e propaganda contro il regime”, è stata scelta l’altro ieri, insieme al regista dissidente (e connazionale) Jafar Panahi, per ricevere il prestigioso premio Sakharov per la libertà di pensiero. Una delegazione di parlamentari europei attesa oggi a Teheran aveva chiesto di poter incontrare i due vincitori: al rifiuto delle autorità, hanno cancellato l’intera visita. “Questo premio costituisce una forma di pressione sulle autorità iraniane, anche se non lo vogliono ammettere”, continua Khandan, che parla da Teheran. Fa da interprete un’attivista della campagna iraniana “Un milione di firme” (per i diritti delle donne), Sabri Najafi. Poco dopo la condanna di sua moglie, lei mi disse che “Nasrin non conosce il significato della parola “paura”. Dopo due anni e due mesi in carcere, è ancora così? “Nei momenti difficili e rischiosi, quel che succede è che più passa il tempo, più si perde la paura”. Nasrin Sotoudeh ha annunciato uno sciopero della fame il 17 ottobre. Non è la prima volta negli ultimi due anni. Quali sono le sue condizioni fisiche? “Questa è la quinta volta che Nasrin fa lo sciopero della fame. Nei primi giorni, subito dopo l’arresto, l’ha fatto perché avevano confiscato oggetti del mio studio - io di mestiere faccio il grafico. La seconda volta perché voleva vedere regolarmente i suoi figli e poter chiamare la famiglia minimo ogni 4 giorni. La terza volta perché l’esame del suo caso non procedeva in modo legale. La quarta per la cancellazione di tutte le condanne ingiuste dopo le elezioni del 2009. E stavolta per opporsi alle pressioni sulla nostra famiglia, in particolare su di me e su nostra figlia Mehrave, che ha 12 anni e le hanno vietato l’espatrio, e perché le permettessero di ricevere visite faccia a faccia. Le avevano permesso di vederci solo attraverso una parete di vetro e impedito anche di fare telefonate, per esercitare su di lei una pressione psicologica. Purtroppo, in Iran i diritti dei prigionieri vengono usati per far pressione su di loro e sulle famiglie. Già prima di quest’ultimo sciopero della fame, Nasrin era molto debole e magra, perché le manca il contatto con i figli, le manca la loro voce. Ora la sua situazione è peggiorata: abbiamo saputo che hanno dovuto portarla nell’infermeria della prigione”. A vostra figlia è stato vietato l’espatrio: perché? “Non l’hanno detto. Forse perché, se lascia l’Iran, potrebbe andare a prendere il premio destinato a sua madre”. Come stanno reagendo i bambini all’incarcerazione della madre? “Con due figli di quell’età lontani dalla madre per due anni, normalmente tutto andrebbe a rotoli. Ma mia figlia è cosi forte che io e sua madre riceviamo energia da lei. Siamo tranquilli per Mehrave, ma nostro figlio Nima ha avuto problemi. Abbiamo fatto di tutto, ora non è più sotto l’osservazione dello psicologo, ma cerchiamo di mantenere una buona atmosfera in casa, di non lasciare soli i bambini, di farli giocare. Penso che, per quanto possibile, ci siamo riusciti”. Sua moglie è stata condannata per “propaganda contro lo Stato e minaccia alla sicurezza nazionale”. È successo perché ha concesso interviste ai media stranieri, difeso detenuti politici e lavorato per il premio Nobel Shirin Ebadi? “Tutti questi motivi erano indicati nel file relativo al suo caso. E le autorità avevano incluso anche un messaggio di Nasrin diretto all’Organizzazione “Human Rights International” in Italia (che le aveva conferito un premio) in cui mia moglie diceva: “Vorrei che la società civile italiana fosse per l’Iran un modello per i diritti umani”.