Un carcere più aperto per una informazione più onesta Ristretti Orizzonti, 27 ottobre 2012 La Federazione dell’Informazione dal/sul carcere, riunita venerdì 26 ottobre 2012 a Bologna, sottolinea la particolare gravità delle condizioni nelle quali si sconta la pena oggi, che richiedono un ulteriore sforzo di trasparenza e di onestà nell’informare, e chiede: al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria di dare spazio e autonomia alle attività di redazione interne alle carceri, favorendo il confronto con la società libera allo scopo di promuovere un pensiero più maturo e consapevole sul tema della pena. Senza un percorso comune al dentro e al fuori sarà davvero difficile smuovere e far progredire una cultura da troppi anni ferma al “carcere per tutti”; all’Ordine Nazionale dei Giornalisti di approvare con solerzia la “Carta del carcere e della pena” già presentata a Milano lo scorso settembre 2011 e di farne materia di formazione deontologica per i colleghi e materia di esame per gli aspiranti professionisti. Il percorso penale già complesso e molto doloroso non solo per chi ha subito il reato, ma anche per le persone denunciate o condannate e soprattutto per le loro famiglie, richiede attenzione, sobrietà e precisione sui termini per evitare inutili allarmismi e ulteriori fatiche al momento del ritorno alla vita libera; ai giornalisti impegnati nelle redazioni nazionali e locali di tener conto del nostro lavoro e dell’opportunità di considerarci fonti credibili in materia di esecuzione penale. C’è vita oltre le sbarre… un’umanità che comunica e chiede un’informazione corretta di Marta Fallani www.agensir.it, 27 ottobre 2012 Quale valenza educativa hanno le redazioni giornalistiche all’interno delle carceri? Riescono a sensibilizzare il territorio? E come il territorio comunica la realtà detentiva? Sono state queste le domande al centro della “V giornata nazionale dell’informazione dal/sul carcere”, che si è svolta a Bologna il 26 ottobre. Promossa dalla Regione Emilia-Romagna, dalla provincia di Bologna e dalla Conferenza regionale volontariato e giustizia, la giornata rientra nel progetto triennale “Cittadini sempre” avviato dalla Regione, in collaborazione con la Fondazione ordine dei giornalisti dell’Emilia-Romagna, con l’obiettivo di “sostenere e promuovere tutte le iniziative di comunicazione dal carcere, e incentivare il mondo del volontariato ad aprirsi dei canali comunicativi sul territorio”, spiega al Sir la giornalista Carla Chiappini, vicepresidente dell’Ordine dei giornalisti Emilia-Romagna e promotrice della Giornata. Scrivere per ritrovare la dignità. “La redazione in carcere si fonda sugli stessi principi di ogni redazione: la capacità di dire e dare delle informazioni; assumersi la responsabilità di quello che si scrive; partecipare non al progetto di un singolo ma di un gruppo. Questo nella difficoltà di fare informazione in una istituzione totale”, spiega Chiappini che al carcere di Piacenza dirige la rivista “Sosta forzata”. “Crediamo di sapere perché siamo inondati di immagini di carceri, ma in realtà sappiamo poco” prosegue Chiappini raccomandando “ai colleghi giornalisti il massimo scrupolo professionale”. Nella prima parte del convegno si è discusso del valore educativo della scrittura di sé. A proposito è intervenuta Adriana Lorenzi, direttore editoriale di “Alterego” del carcere di Bergamo, che ha parlato della scrittura come “oggetto mediatore” che permette di “avvicinare una ferita senza farsi troppo male”, di “affrontare la rabbia e lo smarrimento”, di “guardare alla propria biografia come inserita in un quadro più ampio”. “Creare qualcosa che non c’era prima - ha precisato Lorenzi - è ciò di cui si ha più bisogno in quanto uomini”: significa ritrovare “la dignità nel raccontare di sé, la più alta forma di libertà”. Col territorio per un’idea diversa di pena. Sul ruolo educativo della scrittura, e in particolare del lavoro giornalistico, si è soffermata anche Ornella Favero, direttrice della rivista “Ristretti orizzonti” di Padova, che ha parlato di una educazione basata sulla reciprocità: “l’idea per cui davanti al detenuto si pensa che solo lui debba essere ri-educato, non è educazione”, ha sentenziato Favero precisando “non c’è educazione se non si crede che la persona che ci sta davanti può insegnarci qualcosa”. Una reciprocità che, ha ribadito la giornalista, “vale anche tra società e detenuti”, perché “il carcere non è un pianeta, è parte della nostra società, della nostra vita”, e dunque, “richiamare alle proprie responsabilità persone che hanno commesso reati significa responsabilizzare anche la società”. Il ruolo delle redazioni in carcere è allora quello di “comunicare con l’esterno”, affinché “si cominci a ragionare col territorio su un’idea diversa di pena”. Opportunità enorme. Lo scorso 24 ottobre la redazione di “Ristretti orizzonti” ha ricevuto, dietro invito, la visita del giornalista Alessandro Sallusti, condannato a 14 mesi di detenzione (ma la pena è stata sospesa) per diffamazione aggravata. Un incontro “importante”, ha commentato al Sir Favero, che sottolinea l’esigenza da parte dei giornalisti di “capire che le parole possono fare molto male”. In questo senso, ha aggiunto, “le redazioni in carcere possono dare un grande contributo”. “Lavorare in una redazione di ristretti è un’opportunità enorme, per quella reciprocità che ritengo fondamentale. Io ho imparato tantissimo - ha ammesso Favero - si impara a vedere in modo diverso anche i conflitti che esistono all’interno della propria famiglia. È un allenamento a pensare, a non essere superficiale, a usare le parole giuste”. Abbattere i pregiudizi. “Di carcere si parla tanto, forse troppo, e sempre più in termini “scandalistici”. Ma solo facendo fede al principio del giornalismo di fare un’informazione corretta in quanto oggettiva, si può ragionare sul cambiamento. Cominciando col chiederci cosa è il carcere per ognuno di noi”. Così Desi Bruno, garante dei diritti dei detenuti dell’Emilia-Romagna, è intervenuta nel corso della seconda parte della giornata, dedicata ai rapporti delle redazioni in carcere con il territorio. “L’augurio” del garante è che “la redazione in carcere non sia una conquista ma la normalità”, affinché si compia “quel passo fondamentale che è atto politico, cioè incidere sul “fuori”, anche denunciando la cattiva informazione”. Il convegno è stata occasione di incontro di alcune tra le oltre 50 realtà giornalistiche presenti all’interno delle carceri italiane. Tra queste, quella della rivista “Io e Caino” dell’istituto detentivo di Ascoli Piceno, che grazie a una comunicazione costante attivata con il territorio, organizza diverse iniziative per coinvolgere i detenuti alla vita civica. “Il confronto con la città è gratificante - ha commentato Altin, redattore della rivista picena - e sentirsi utili aiuta ad abbassare quei muri di gomma creati dal pregiudizio”. Paola Cigarini (Crvg): nel carcere c’è un pezzo di verità, per capire la realtà “Il volontariato deve uscire dalla logica dell’assistenza e attivare un dialogo con chi sta fuori, perché nel carcere c’è un pezzo di verità per capire la realtà. Dobbiamo creare, con il nostro operato, con ogni mezzo, una comunicazione che sia proposta politica per cambiare il mondo di oggi”. Così Paola Cigarini, della Conferenza regionale Volontariato giustizia Emilia-Romagna, è intervenuta in apertura della “V giornata nazionale dell’informazione dal/sul carcere” in corso a Bologna. Promossa dalla Regione Emilia-Romagna, dalla Provincia di Bologna e dalla Conferenza regionale volontariato e giustizia, la giornata intende riflettere sul ruolo delle redazioni giornalistiche all’interno delle carceri, e sulla comunicazione della realtà detentiva nel territorio. Sul valore educativo della scrittura ha parlato Adriana Lorenzi, direttore editoriale di “Alter Ego” del carcere di Bergamo, che si è soffermata sulla narrazione autobiografica come “oggetto mediatore” che permette al detenuto di passare dal “così è stato” al “così ho fatto”. La scrittura, ha ribadito Lorenzi, significa “creare qualcosa che non c’era prima, qualcosa di cui si ha maggiormente bisogno in quanto uomini”; riscoprire “la dignità di raccontare di sé - ha aggiunto - è la più alta forma di libertà”. Bombonato (Odg), il giornalista dà voce a chi voce non ha “Stare davanti a un detenuto e pensare che sia solo lui a dover essere rieducato non è “educazione”. Non esiste educazione senza reciprocità, cioè senza la consapevolezza che la persona che ho davanti può insegnarmi qualcosa”. Lo ha detto Ornella Favero, direttore della rivista “Ristretti Orizzonti” di Padova, che nella sua redazione ha attivato un confronto con le vittime di reato con l’intento ulteriore di “scardinare i luoghi comuni”, perché “l’incontro reciproco può avere effetti straordinari sulle vittime stesse”. Inoltre, ha aggiunto Favero, il confronto periodico con gli studenti “è un regalo che i detenuti fanno ai ragazzi nel loro processo di educazione”, perché incontrano la possibilità che “anche la peggior esperienza della vita può essere spunto per creare qualcosa di utile”. Ha richiamato i giornalisti alla “responsabilità” e alla “attenzione” Gerardo Bombonato, presidente dell’ordine dei giornalisti dell’Emilia-Romagna, riconoscendo che i giornali “si occupano di carcere solo in concomitanza di emergenze” come nel caso dei suicidi, “trasformando la persona in numero”: “il mestiere del giornalista - ha ricordato Bombonato - è dar voce a chi voce non ha”. Sulla necessità di “creare collaborazioni” coi giornalisti di fuori ha parlato Susanna Ripamonti direttore della rivista “Carte Bollate” di Milano ammonendo che “omettere che la percentuale di recidiva scende dal 70% al 19% per chi beneficia di pene detentive, significa dire il falso”. Alessandro Sallusti: l’incontro con i detenuti mi ha cambiato di Silvia Gitalucci Pubblico, 27 ottobre 2012 Non sa ancora se la prospettiva sia una cella di tre metri per quattro da dividere con altre due persone o quattordici mesi chiuso in casa con Daniela Santanché, ma di certo Alessandro Sallusti pensa al carcere. Ancor più dopo che grazie all’invito dei detenuti della redazione di Ristretti Orizzonti della casa di reclusione Due Palazzi di Padova ci è entrato. “La bozza del disegno di legge sulla diffamazione così com’è oggi è un buon testo. Cancella l’infamia della detenzione per il reato di diffamazione e non prevede la radiazione dall’Ordine in caso di condanna. Ma non sono sicuro che verrà approvata in tempi utili per evitarmi il carcere”. Chiavi, sbarre, cancelli, silenzio, divise. Quanto visto all’interno del carcere di Padova ha colpito nel profondo il direttore del Giornale. “È stata un’esperienza nuova. Il carcere visto da dentro fa veramente paura. Tanto più che sono consapevole di essere entrato in una situazione privilegiata”. La redazione di Ristrettì Orizzonti è infatti un’isola felice, un’oasi di libertà, almeno di pensiero. E lo stesso carcere di Padova dove su 900 detenuti 300 possono lavorare è una condizione molto migliore di quella esistente in altri penitenziari. “È stato un po’ come andare in guerra, sul campo di battaglia per partecipare a un pranzo al circolo ufficiali. Però già solo il tragitto che ho fatto per arrivare al circolo ufficiali, le facce delle persone, i rumori e gli odori mi hanno colpito perché sapevano di violenza. È una cosa che ti resta dentro, ti resta appiccicata, soprattutto se non ci sei mai stato prima”. A Sallusti i detenuti hanno ben spiegato che con la sua condanna potrebbe entrare in un girone kafkiano dove sai quando entri ma non quando esci. Gliel’ha detto chiaramente Angelo: “Se ti hanno dato l’articolo 133, la pericolosità sociale, significa che sei un delinquente abituale e il magistrato, a sua completa discrezione, può decidere che a fine pena sei ancora “pericoloso” e inviarti una comunicazione in cui ti informa che anziché uscire sarai destinato alla casa-lavoro. Che poi il lavoro non c’è e quindi si tratta solo di galera. È una norma che risale al codice Rocco, ma ancora in vigore”. Sallusti era rimasto con gli occhi blu sgranati. “Non mi ero immaginato il carcere prima di entrarci, e anche ora non ne ho la più pallida idea. Ho un’idea di che cosa sia il disagio rispetto al vivere civile e borghese perché nella mia vita ho già provato situazioni di questo tipo. Ho un’idea di cosa possa voler dire rinunciare ai privilegi che la libertà incondizionata e l’agio sociale ti permettono. Non mi fa paura perdere quelli, l’ho già provato. Ma ho capito che il carcere è molto di più di questo. Non mi spaventa perdere la libertà fisica, la libertà di dare un senso alla giornata, di condividere spazi e gabinetti, ma ho l’impressione che il carcere aggiunga a questo anche una crudeltà. Un crudeltà della comunità umana che c’è dentro e anche del sistema carcerario”. I detenuti avevano chiesto a Sallusti una visita alla loro redazione sicuri che l’incontro, la condivisione di uno spazio, le loro storie narrate senza desiderio di autoassoluzione non avrebbero potuto lasciarlo indifferente. Così è stato: “Devo ammettere che non mi aspettavo da quelle facce, da quei volti, da quelle storie una profondità di ragionamento, magari espressa con parole inadeguate al lessico universitario ma con una profondità che dà l’idea che dentro a quegli uomini c’è qualcosa, che c’è un travaglio molto profondo. Se addirittura degli analfabeti senza scrupoli riescono a esprimere dei ragionamenti di una tale originalità e profondità vuol dire che insomma… l’uomo c’è ancora”. I detenuti lo hanno invitato a tornare in redazione per altri incontri o per scontare parte dei 14 mesi della sua pena. “Tornerò sicuramente a parlare con loro, ma non nel ruolo di assistente sociale. Non lo sono e non voglio farlo. Non credo di poterli aiutare in alcunché. Il mio desiderio nasce da egoismo, lo farei per me. Ieri ho detto che essere lì è come andare allo zoo a vedere i panda. Questa cosa ha disturbato alcuni dei presenti, ma è proprio così. Per panda non intendo animale, ma una specie rara. Per un uomo che ha il tipo di vita che ho io, il criminale è una specie rara verso cui c’è un misto di curiosità e fascino, una vera e propria calamita”. Sallusti è stato colpito da Luigi, un bel ragazzo con enormi occhi azzurri entrato in carcere a 16 anni per problemi di droga e uscito rapinatore, 15 anni dentro e fuori e tre figli nati tra una detenzione e un’altra. Si tenevano sottobraccio uscendo dalla redazione. È stato allora che il direttore del Giornale gli ha chiesto quando sarebbe uscito. “Non ne ho ancora per tanto, 10 anni, 2022. Ma sono nei termini per i permessi” gli ha detto Luigi. “Quando mi ha detto 10 anni - riflette Sallusti - sembrava quasi contento. Questa cognizione del valore del tempo totalmente diversa dalla nostra che non può che attrarti, affascinarti. Sono uomini che noi non incontriamo mai nella nostra vita. Sono curioso e ho bisogno di capire. Nessun seminario, nessun dibattito potrà darti quel che danno loro”. E qui arriva la domanda che forse è lo scopo di tutta l’iniziativa, partita con una visita in redazione per chiedere ai detenuti che cosa pensavano della condanna di Sallusti e proseguita con l’invito al direttore del Giornale di recarsi di persona a Ristretti Orizzonti: “Ma tu, direttore, pensi che nella tua professione, questo incontro possa aver cambiato il modo in cui tratterai certe notizie?”. La risposta è di quelle che lasciano il segno: “Coi detenuti non ho avuto vergogna di dichiarare che non sono un educatore, che confeziono un prodotto commerciale che per avere successo deve seguire i desideri del mercato, intercettare il sentire della gente che compra. Questo sentire è che all’opinione pubblica non frega nulla dei detenuti e se gliene frega qualcosa è solo per buttar via la chiave. Devo dire però che un problema di coscienza questo incontro me lo ha posto. Non dico che ho cambiato idea, ma un seme, se sia giusto assecondare sempre e comunque l’opinione pubblica per vendere una copia in più o semplicemente per soddisfarla, un dubbio m’è rimasto. E allora credo che su questo dubbio si possa lavorare, senza ovviamente fare sconti a nessuno, perché la violenza è violenza, perché ci sono loro ma anche le loro vittime, i parenti delle loro vittime, i danni fisici e psicologici che hanno provocato alle vittime e alla comunità intera. Sono convinto che la comunità deve essere messa al riparo da chi commette reati. Detto questo però, rispetto al qualunquismo, di cui spesso noi giornalisti restiamo vittime, ecco credo che un seme mi sia rimasto. Credo che d’ora in poi quando dovrò affrontare temi di questo tipo sul giornale farò una riflessione in più che ieri non avrei fatto”. Giustizia: Commissione Diritti Umani Senato; per carceri Italia “sorvegliata speciale” dall’Europa di Luca Attanasio La Repubblica, 27 ottobre 2012 La relazione redatta dalla Commissione Diritti Umani di Palazzo Madama. Presentata dai senatori Pietro Marcenaro e Roberto Di Giovan Paolo, che hanno scelto la Prima Rotonda, al centro di Regina Coeli, il più antico penitenziario della capitale. Dal 2008 a oggi l’ONU ha inviato ben 92 raccomandazioni al nostro Paese riguardo la violazione di diritti umani. Più che evocativa o simbolica, il luogo è semplicemente quello giusto. Per esporre le conclusioni del “Rapporto sullo stato dei diritti umani negli istituti penitenziari e nei centri di accoglienza e trattenimento per migranti in Italia” della Commissione Diritti Umani del Senato, Pietro Marcenario, e Roberto Di Giovan Paolo, hanno scelto la Prima Rotonda, al centro di Regina Coeli, il più antico penitenziario della capitale. Una sala piena di storia. I due senatori, rispettivamente presidente e membro della Commissione, affiancati dal direttore del Carcere Mauro Mariani e dal Provveditore Maria Claudia Di Paolo, hanno voluto discutere dei dati raccolti, nell’atrio che ha visto le storiche visite degli ultimi quattro papi, contiguo alla sezione “politici” dove sono stati rinchiusi Sandro Pertini e Giuliano Vassalli, gremita da un pubblico in gran parte composto da detenuti. “Il nostro non è un studio - ha tenuto subito a precisare Di Giovan Paolo - ma un rapporto, cioè una denuncia del drammatico stato in cui versano le carceri del nostro Paese”. Italia osservata speciale. L’Italia è sotto la lente d’ingrandimento d’Europa e di organismi transnazionali da ormai molti anni. Dal 2008 a oggi l’ONU ha inviato ben 92 raccomandazioni al nostro Paese riguardo la violazione di diritti umani e moltissime di queste concernono gli istituti di pena. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, poi, si è più volte pronunciata sulla situazione delle nostre carceri e sul sovraffollamento arrivando in alcuni casi anche a condannare l’Italia per violazione dell’art. 3 della Convenzione dei Diritti dell’uomo. Non si può certo ascrivere al caso il fatto che delle 186 morti avvenute nei penitenziari italiani nel 2011, 63 erano suicidi e che tra gennaio e luglio del 2012, 31 persone si sono tolte la vita. Diritti umani negati. Il rapporto fotografa una stato permanente di violazione e snocciola una teoria infinita di problemi. Il primo, il sovraffollamento. Secondo i dati aggiornati al febbraio 2012, i detenuti in Italia sono 66.632, ma nei 206 istituti di pena non potrebbero entrarci più di 45.742 persone. Italia criminalificio?. Siamo allora una paese che produce molti più criminali di quanti ne possa gestire? Forse sì, di certo il sistema presenta falle e anomalie uniche al mondo. “I detenuti in via cautelare - spiega preoccupato Di Giovan Paolo - rappresentano il 40% della popolazione carceraria (circa 27.000 imputati e quasi 14.000 in attesa di primo giudizio)”. Negli ultimi anni, poi, a causa di legislazioni come la Fini-Giovanardi o la Bossi-Fini, i detenuti tossicodipendenti o gli imputati o i condannati per reati previsti dalla legge 49/2006 sono molto aumentati rappresentando anch’essi circa il 40% dei reclusi. Senza dimenticare l’impatto sul sovraffollamento causato dalla ex-Cirielli sulla recidiva, che fissa inasprimenti di pena e forti restrizioni nelle possibilità di ottenere misure alternative. Giustizia razzista? Ma c’è un altro dato che oltre a creare allarme, pone dubbi sulle nostre capacità di integrazione e sulle politiche verso l’immigrazione: più di un terzo della popolazione carceraria è composto da stranieri (24.069 su 66.632). Una percentuale senza dubbio troppo alta se si tiene presente che da noi gli immigrati, tra regolari e irregolari, sono meno dell’8 %. Carcere minimo. “Per uscire da questo stato di violazione dei diritti umani - risponde Marcenaro a una della tantissime domande rivolte ai senatori dai detenuti presenti - bisogna ritornare al concetto di “carcere minimo”. La prigione deve essere l’extrema ratio e bisogna fin da subito cambiare le legislazioni che hanno condotto a questo stato di cose”. Ma oltre che una denuncia, il rapporto è proposta: misure alternative per i tossicodipendenti in comunità terapeutiche - “che senso ha stare qui - denuncia un giovane detenuto - se poi quando uscirò sarò ancora dipendente e continuerò a creare problemi a mia moglie e i miei quattro figli”; la possibilità di scontare la pena a casa - una misura che molti non possono permettersi - spiega ancora Marcenaro - perché non hanno un domicilio e sono pochissime le case di accoglienza” -. E, soprattutto, un lavoro immediato per cambiare leggi che evidentemente hanno fallito. Tutti i connotati dell’emergenza. Nel 2011 su un totale di 186 persone decedute nei penitenziari italiani, 63 sono stati suicidi. Già 31 i suicidi tra gennaio e luglio del 2012. Solo la settimana scorsa ancora un suicidio a Poggioreale. Numeri elevati che sono dovuti anche al fatto che l’Italia occupa fra gli ultimi posti in Europa quando si viene al rapporto fra detenuti e posti in carcere. A fine febbraio su una capienza complessiva di 45742 posti, nelle carceri italiane i detenuti erano 66632, di cui solo 38195 con condanna definitiva. Diventa ogni giorno più evidente che la situazione nelle carceri presenta tutte le caratteristiche dell’emergenza e giustifica da parte del governo l’adozione urgente di un decreto legge che intervenga sulle cause che ne sono all’origine. Giustizia: 51 suicidi in carcere da gennaio; lenzuola, sacchetti e fili della Tv per farla finita La Repubblica, 27 ottobre 2012 Gli ultimi due che si sono tolti la vita erano reclusi, rispettivamente a Sollicciano e a Prato. Il primo aveva 47 anni ed aveva problemi psichiatrici, l’altro aveva solo 22 anni, era dentro per rapina e gli mancava solo un anno prima di uscire. La denuncia dei sindacati e del Garante del Lazio. Dall’inizio dell’anno - si apprende da Ristretti Orizzonti - 51 detenuti si sono tolti la vita. Negli ultimi due giorni hanno scelto di morire altre due persone recluse nelle carceri italiane: uno a Sollicciano (periferia sud ovest di Firenze); l’altro, un ventiduenne, in una cella del carcere pratese della “Dogaia”. Ieri mattina, alle 7.30, nel carcere di fiorentino c’è stato il primo suicidio di un uomo che aveva 47 anni, entrato in carcere nel maggio scorso. Attualmente era ospitato nel Centro Clinico, in osservazione psichiatrica. L’altro suicidio è avvenuto martedì nella casa circondariale dell’altro capoluogo toscano. Il 47enne morto a Sollicciano era in attesa del processo e, secondo quanto si è potuto apprendere finora, si sarebbe ucciso impiccandosi con il cavo delle televisione. Quando gli agenti lo hanno trovato, era ormai senza vita Altri cinque tentativi di suicidio. Anche il giovane marocchino è deceduto nell’ospedale di Prato, dopo aver tentato di impiccarsi con un lenzuolo. Aveva ancora poco più di un anno di pena da scontare. Gli agenti lo hanno trovato e subito sono scattati i soccorsi. Ancora in vita è stato portato al pronto soccorso dove però è morto. Era stato arrestato per rapina: doveva scontare una condanna a 3 anni per aver aggredito e sottratto denaro ad un cittadino cinese. Sulla questione è intervenuta la segreteria Funzione Pubblica della Cgil di Prato che, in una nota, ricorda e chiede conto del fatto che alla “Dogaia”, negli ultimi giorni, oltre al detenuto morto suicida, ci sono stati altri cinque tentativi di suicidio ed una rissa tra detenuti. Intanto a Siracusa... Si impicca con sacco della spazzatura legato alle inferriate. Il recluso di nazionalità italiana si è tolto la vita nei locali del Nucleo provinciale traduzione e piantonamenti, utilizzando un sacco della spazzatura legato alle inferriate esterne. Lo ha reso noto il vice segretario generale dell’Osapp 2 (uno dei sindacati della polizia penitenziaria) Mimmo Nicotra. “Non si è potuto contare sul tempestivo intervento della polizia penitenziaria - spiega - perché il detenuto, da circa due mesi, svolgeva attività lavorativa all’esterno delle zone detentive senza la sorveglianza di nessun agente”. Per Nicotra simili episodi sono destinati “inevitabilmente” a ripetersi perché “ormai non c’è più abbastanza personale per assicurare tutti i compiti istituzionali della polizia penitenziaria e la situazione è ancora più drammatica perché mancano circa 1.000 poliziotti penitenziari”. E a Rebibbia si muore sotto i ferri. È morto mentre veniva operato d’urgenza al policlinico Umberto I di Roma, per una colicisti perforante. La notizia è stata resa nota dal Garante dei diritti dei detenuti del Lazio 3, Angiolo Marroni. Si tratta del tredicesimo detenuto morto nel Lazio nel 2012. Stando a quanto si è appreso, l’uomo, Luigi D., 56 anni di Roma, era detenuto nel braccio G 11 del carcere di Rebibbia Nuovo Complesso. Condannato per furto, doveva uscire dal carcere nel 2013. Ricoverato d’urgenza ieri per ittero al policlinico Umberto I, è morto nel corso dell’operazione chirurgica che è stata tentata d’urgenza. Marroni spiega che nel 2012 i detenuti morti per malattia nel Lazio sono stati tre, quelli per suicidio quattro. Un detenuto è morto per overdose mentre per gli altri tre decessi le cause sono ancora in fase di accertamento. Il quadro preoccupante del Lazio. Attualmente nelle carceri della regione sono reclusi 7.136 detenuti a fronte di 4.500 posti disponibili. “Nelle carceri si continua a morire - ha detto il garante - ma il dato che maggiormente impressiona è il numero di decessi per malattia. Negli Istituti sono recluse centinaia di persone con quadri clinici preoccupanti che hanno bisogno di cure ed attenzioni, che il carcere non è in grado di dare. Nel Lazio la situazione della sanità penitenziaria è molto delicata, con emergenze quotidiane causate dalla mancanza di personale medico e paramedico, dalla carenza di fondi, da dotazioni tecnologicamente superate e da strutture fatiscenti. E la situazione - ha concluso - non fa che peggiorare con l’aumento continuo dei detenuti”. Giustizia: intervista al costituzionalista Pugiotto; le carceri italiane oggi sono come quelle fasciste di Chiara Sirianni Tempi, 27 ottobre 2012 Intervista al costituzionalista Andrea Pugiotto: “Intervenire sulle leggi, sul meccanismo della custodia cautelare, sul reato di tortura. Amnistia subito”. È costantemente allarme carceri, una ferita sociale e civile che continua a essere sottovalutata, se non addirittura ignorata, nonostante riguardi non una minoranza, ma almeno un terzo della popolazione: 68.000 detenuti, a fronte di una capienza di 45.000. E se il disastro dell’amministrazione della giustizia pesa sull’intera economia italiana, le conseguenze più drammatiche le vive il mondo penitenziario, una realtà al collasso. Un quadro di sofferenza che non può che incidere sul numero dei morti nelle cosiddette “celle di pernottamento”, in cui in realtà i detenuti passano la quasi totalità della giornata: da inizio anno sono cinquantuno i detenuti che si sono tolti la vita. Come restituire al carcere la sua dimensione autentica, orientata al recupero sociale? Lo abbiamo chiesto ad Andrea Pugiotto, ordinario di diritto costituzionale a Ferrara, che insieme a 136 tra giuristi e garanti dei detenuti ha inviato una lettera sullo stato allarmante della giustizia e delle carceri al capo dello Stato, e che ha curato, assieme a Franco Corleone, un volume (Il delitto della pena: pena di morte ed ergastolo, vittime del reato e del carcere, Ediesse editore) che propone sul tema una riflessione plurale e documentata. Professore, quando la pena diventa un delitto? Quando la detenzione nelle carceri diventa illegale. Quando dico illegale faccio riferimento a tutti i parametri giuridici possibili: costituzionali, della convenzione europea dei diritti dell’uomo, più in generale delle carte sovranazionali dei diritti umani. Costringere il detenuto a vivere in condizioni disumane e degradanti, in celle sovraffollate per 22 ore al giorno, con rischi per la sua salute fisica e mentale, drammaticamente testimoniati dai tanti gesti suicidari. Tutto questo è un “di più” rispetto alla pena a cui quel detenuto è stato condannato dal giudice. È un di più che non ha base legale, perché la pena va scontata nel rispetto dei diritti fondamentali di cui il detenuti resta comunque titolare. Si va in carcere perché si è puniti, non si va in carcere per essere puniti. Il reato di tortura è ancora un tasto dolente per la legislazione italiana. Perché l’introduzione di tale reato nel nostro codice penale è di vitale importanza? Si tratta di un obbligo internazionale, rispetto al quale l’Italia è gravemente inadempiente. Il nostro Paese ha firmato la convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura del 1984, ma non l’ha ancora ratificata e resa esecutiva. E il dibattito che in queste settimane si sta svolgendo in Parlamento si rivela non all’altezza della posta in gioco. Per quale motivo? Abbiamo alcune recenti sentenze che denunciano l’omissione legislativa italiana, e su cui occorrerebbe riflettere. Basti pensare alle violenze della scuola Diaz durante il G8 di Genova. La Corte di Cassazione, nella motivazione, dice testualmente che i fatti accertati al processo sono espressione di “una pura violenza, qualificabile come tortura”. Qualificabile, ma che non può essere giuridicamente considerata tale. Mancando il reato di tortura, i giudici italiani sono costretti a imputare al reo una costellazione di reati minori ancorché gravissimi. Con quali conseguenze? Messi assieme, consentono di punire il comportamento delittuoso. Ma sono prescrittibili, contrariamente a quanto prevede il diritto internazionale per il reato di tortura Ci fa un esempio? Il 30 gennaio 2012 il Tribunale di Asti si è pronunciato sul caso di cinque agenti di polizia penitenziaria, accusati di aggressione e tortura nei confronti di alcuni detenuti. Nessuno degli inquisiti è finito in carcere: uno perché assolto, gli altri a causa della prescrizione del reato contestato, maltrattamenti e lesioni. Nonostante il giudice abbia specificato nella sentenza che “i fatti potrebbero essere agevolmente qualificati come tortura”. Non potendo applicare un reato che non c’è, è andato prescritto. Per questo è necessario che il Parlamento colmi questa grave lacuna ordinamentale. Nel vostro recente volume citate le condizioni delle galere di epoca fascista, con cui si riscontrano profonde e inquietanti analogie. Vuole spiegarci quali? Nel 1949 la rivista mensile di politica e letteratura Il Ponte uscì con un numero monografico, voluto dal suo direttore Piero Calamandrei, grande giurista e padre costituente. Era interamente dedicato alla condizione carceraria dell’epoca, attraverso una trentina di contributi di antifascisti che avevano conosciuto la prigionia durante la dittatura. Un luogo di vendetta sociale, di pena di morte distillata quotidianamente, di violenza nascosta. Oggi siamo egualmente costretti a riconoscere il profondo degrado degli istituti penali. Con una differenza non da poco: se allora si usciva da vent’anni di regime totalitario, che usava il carcere per controllare con la clava penale la società, oggi abbiamo alle spalle oltre sessant’anni di vita democratica e repubblicana. E, nonostante ciò, la situazione carceraria è ancora inumana e degradante, ora come allora. Cosa dovrebbe fare il Parlamento per porre fine a questo stato delle cose? Bisogna intervenire sulle leggi che io chiamo “carcerogene”, cioè produttive di carcere: la legge Bossi-Fini in materia di immigrazione, la legge Fini-Giovanardi in materia di tossico-dipendenza e la legge Cirielli nella parte relativa alla recidiva. Le prime due spalancano le porte del carcere, la terza le chiude a doppia mandata. Inoltre bisogna intervenire sul meccanismo della custodia cautelare, che oggi rappresenta una pena anticipata, per una condanna che non arriverà mai. E prima ancora di questi interventi strutturali? Occorre interrompere l’attuale, flagrante e sistematica illegalità costituzionale delle carceri, attraverso i due strumenti pensati per questo dalla Costituzione: una legge di amnistia e di indulto, opportunamente congeniata. Giustizia: Franco Corleone; carceri fuorilegge, ora prevale il suicidio… ma presto sarà rivolta di Vladimiro Frulletti L’Unità, 27 ottobre 2012 “In galera si entra sani e si esce malati, morti, comunque peggiorati; la funzione costituzionale cui la pena è preposta è una finzione”. Il giudizio, amaro e durissimo, è della Camera penale di Firenze. È di qualche mese fa. Espresso dopo che alcuni detenuti s’erano ammazzati a Sollicciano, al Gozzini e nelle camere di sicurezza della Questura fiorentina. Purtroppo per quel giudizio il tempo non è passato, resta valido il copia-incolla. Martedì nel carcere di Prato s’è ammazzato un 22enne e il giorno dopo a Sollicciano s’è tolto la vita un 47enne. “Le pene - stabilisce la nostra Costituzione -non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Carta straccia. Come emerge dai racconti messi in fila dal convegno organizzato dalla Federazione della Sinistra-Verdi e da varie associazioni e dedicato, non a caso, alla “tortura nelle carceri italiane”. Un reato, quello di tortura, che in Italia non esiste. Però esistono le carceri super-affollate. Celle per una o due persone in cui vivono in quattro o cinque senza acqua calda e carta igienica, fra pulci e piattole. “Lo Stato tiene in carcere persone che hanno violato la legge e viola lui stesso la legge” denuncia il garante dei detenuti di Firenze, Franco Corleone. E le celle sono piene di persone che potrebbero scontare la pena o aspettare il giudizio (quelli in galera in attesa della sentenza definitiva sono il 40% di tutta la popolazione carceraria) in maniera diversa. Magari nelle comunità di recupero per tossicodipendenti visto che a riempire le celle negli ultimi anni ha contribuito in maniera determinante la legge Fini-Giovanardi sulla droga. Prima della legge le persone affidate a misure alternative al carcere erano la maggioranza rispetto a quelle che finivano in galera. Dopo la legge il rapporto s’è completamente invertito. Ampliato poi dalla legge Cirielli sulla recidiva. Il risultato è che i carcerati sono aumentati negli ultimi 10 anni dell’80%, ma le strutture sono rimaste le solite. E i suicidi sono diventati una costante. “Siamo a 2200 morti - denuncia Beppe Battaglia dell’associazione Liberarsi - ma la strage continua”. Da lunedì il garante Corleone ha iniziato uno sciopero della fame a staffetta (altri gli daranno via via il cambio) per richiamare l’attenzione di un governo (assieme al garante toscano Alessandro Margara ha scritto una lettera al ministro Severino) e un Parlamento che faticano a voltarsi dalla parte degli ultimi. E anche il cappellano del carcere fiorentino don Vincenzo Russo chiede uno stop a “questa che oramai è diventata una discarica sociale”. Citando Voltaire (“le carceri sono lo specchio della civiltà di un paese”) don Russo invita tutti a impegnarsi per chiedere alle istituzioni misure alternative “a questa detenzione che di per sè, in queste condizioni a noi tutti note, non può non essere patogena e fonte di sofferenza”. E Corleone dice che non si può continuare a tagliare risorse e a impedire un piano per far uscire di galera i tossicodipendenti. Anzi si continua a chiudere in carcere “persone che hanno compiuto reati di lieve entità per la detenzione di sostanze stupefacenti”. Una situazione esplosiva, avverte, in cui l’alternativa nelle carceri è fra suicidio o rivolta. “Per adesso vince il suicidio, ma fino a quando?” si chiede Corleone. Giustizia: il Governo taglia fondi al piano-carceri, solo 45 milioni contro i 122 previsti dal Cipe di Matteo Mascia www.rinascita.eu, 27 ottobre 2012 La legge di stabilità rischia di perpetuare le problematiche legate al sovraffollamento delle carceri. Il provvedimento di finanza pubblica prevede di realizzare solo una parte degli interventi previsti dal cosiddetto “Piano carceri”. Palazzo Chigi ha messo sul piatto solo 45 milioni di euro, nonostante il Cipe abbia deliberato uno stanziamento complessivo di 122 milioni. Per il 2013 mancherebbero all’appello quasi 71 milioni. Il nostro sistema detentivo continua a essere amministrato in maniera discutibile. A dirlo non sono solo associazioni e politici tradizionalmente vicini alle istanze dei cittadini reclusi. Il Consiglio europeo per la cooperazione nell’esecuzione penale ha rilevato che, per quanto riguarda la capienza regolamentare e le reali presenze, l’Italia è terzultima a livello continentale. Peggio di lei fanno solo Serbia e Bulgaria. Un record negativo a livello di Unione europea favorito dalle leggi sulla tossicodipendenza, da un abuso della custodia cautelare e dalle croniche lacune a livello infrastrutturale. Alfonso Papa, deputato del Pdl ed ex dirigente del ministero della Giustizia, ha presentato una nuova interpellanza urgente sul tema. L’impennata nel numero dei suicidi impone un intervento da parte del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria. “In Italia un detenuto si suicida ogni cinque giorni nella più sordida indifferenza dell’intera classe politica: i partiti di destra e di sinistra, sovrastati dall’esclusiva esigenza di autoconservazione, hanno da tempo rinunciato a occuparsi dei problemi concreti”, ha dichiarato il magistrato eletto nelle liste del Pdl. “Da tempo il nostro Paese si pone al di fuori di ogni parametro di civiltà e legalità, come censurato da diverse giurisdizioni internazionali. Nel frattempo - ha concluso Papa - questo Parlamento si ostina a sottoscrivere ottusamente delle convenzioni, come l’ultima sulla tortura, per poi violarle sistematicamente. In questo modo l’Italia si candida ad essere qualificato dagli organismi internazionali come Stato canaglia”. Intanto, proprio le prerogative di sindacato ispettivo di parlamentari, consiglieri regionali e garanti per i diritti dei detenuti rischiano di essere erose dalla sentenza con cui un Gup di Milano ha condannato il deputato Renato Farina. Giovedì il magistrato ha spiegato che l’ex giornalista abusò del suo ruolo istituzionale “ingannando gli agenti della Penitenziaria”. Farina qualificò come suo collaboratore un amico presente sul posto. Una consuetudine in tantissime ispezioni. Nonostante questo non risultano simili pronunce dei Tribunali. Calabria: l’Assessore Caligiuri; riaprire un carcere all’avanguardia come Laureana di Borrello Adnkronos, 27 ottobre 2012 “Non è possibile che una realtà di eccellenza come quella del carcere di Laureana di Borrello venga cancellata”. È quanto ha dichiarato l’Assessore alla Cultura della Regione Calabria Mario Caligiuri dopo avere visitato questa mattina la casa di reclusione di Laureana di Borrello, in provincia di Reggio Calabria, dove è stato accompagnato dal sindaco Paolo Alvaro e ricevuto dal Comandante della struttura Domenico Paino. “Lo Stato, che ha inaugurato il carcere nel 2004, ha investito milioni di euro per realizzare un’esperienza di eccellenza, studiata anche a livello internazionale e che ha concretamente portato al recupero di centinaia di detenuti, realizzando in pieno il dettato Costituzionale della rieducazione e del reinserimento sociale”. “La Regione Calabria - prosegue Caligiuri - è fortemente impegnata, come dimostrano anche le visite presso la struttura dei consiglieri Giovanni Nucera e Candeloro Imbalzano, a sostenere le esperienze educative, culturali e formative qui offerte”. “Ben due ministri della Giustizia, Roberto Castelli e Angelino Alfano - conclude Caligiuri - hanno potuto toccare con mano i positivi risultati raggiunti e quindi si auspica che a livello nazionale venga presto riconsiderata la riapertura della struttura”. Calabria: carcere Laureana di Borrello; l’opinione di chi ci è passato “riaprite il Luigi Daga” www.strill.it, 27 ottobre 2012 Riceviamo e pubblichiamo la lettera della moglie di un detenuto che era nel carcere di Laureana: “Chi scrive è una moglie, una mamma con il cuore infranto, delusa dalla vita, ma ancor di più delusa dallo Stato, delusa da chi ci governa, da chi promette bene e razzola male, da chi infrange i nostri sogni, da chi distrugge il nostro futuro, da chi toglie la speranza alla felicità ed alla serenità… Sono la moglie di Francesco Gramuglia, un giovane che purtroppo nella vita ha sbagliato e che oggi sta pagando un prezzo altissimo per il suo errore “non ha da anni la libertà”, il dono più importante per noi esseri umani. Tutto ebbe inizio la sera del 10 Maggio 2006 quando a tarda sera venne convocato presso la C.C. di Bagnara Calabra per un semplice interrogatorio, almeno credevo. Dico “semplice” perché incredula di quello che andavo a sentire, da quella sera non furono più ore, giorni o mesi, ma furono anni aspettando che ritornasse a casa a rivedere me e il suo piccoletto, lasciato in fasce e ritrovato un piccolo grande ometto, forse cresciuto troppo in fretta. Fu proprio dopo quella maledetta notte che con il tempo mi resi conto degli ultimi mesi trascorsi accanto a mio marito, una persona splendida, solare ed unica per me! Dal giorno seguente capii che dovevo affrontare una situazione più grande di me, di noi, una vetta altissima da scalare, ma grazie all’aiuto e alla spinta della mia famiglia e alla forza costante di Dio, pian piano intrapresi questo nuovo e duro cammino senza speranze e pieno di ostacoli, un cammino che mi ha insegnato tanto, ma mi ha anche tolto tanto, perché infondo solo dal forte dolore cresci e ti formi e non dall’agio e dalle passerelle televisive. Vedevo mio marito ogni settimana e per questo mi ritengo una delle poche donne fortunate, fu portato subito presso la casa circondariale di Palmi, vicino casa, e lì rimase fino ad aprile del 2009, durato quegli anni per potersi mantenere prestò servizio prima lavorando in cucina, subito dopo come “porta spesa” nelle celle e col tempo, guadagnandosi la fiducia di tutto il personale e delle guardie penitenziarie, presso i conti correnti dello stesso carcere. Ma fu a metà aprile del 2009 che nelle nostre vite, ma soprattutto nella sua vita, arrivò un grande raggio di sole, una luce che scaldò sin da subito i nostri cuori. Da Palmi venne trasferito presso l’istituto penitenziario “Luigi Daga” di Laureana d Borrello; questo istituto ci aveva ridato la speranza, la vita, primo istituto in Italia a sperimentare la custodia attenuata per i giovani detenuti di età compresa tra i 18 e i 34 anni, nato per offrire finalmente ai giovani un cammino di riflessione consapevole, un nuovo percorso detentivo alternativo, un modo migliore per un giusto ritorno in una società civile. In questo istituto Francesco sin da subito lavorò nella piccola ma tanto accogliente fabbrica di ceramiche, anche qui passò in cucina come cuoco e aiutante cuoco, subito dopo ai conti correnti e da qui la sua vita iniziò di nuovo a colorarsi dei mille colori dell’arcobaleno. Nel gennaio 2011 la direttrice del carcere gli propose un lavoro esterno all’istituto suddetto, gli propose di lavorare presso il “mattatoio di Laureana”, 3 giorni a settimana e comportava, l’uscita dall’istituto, il lavoro esterno e la possibilità di recarsi sul luogo con la sua macchina; nel febbraio 2012 la speranze crescevano sempre di più, la luce diventava più intensa e la nostra gioia non aveva limiti, la visione del suo cammino verso la fine della pena stava ormai cambiando, fu mandato a lavorare presso la propria azienda agricola, dal lunedì al sabato rientrando a Laureana solo nel tardo pomeriggio, il nostro futuro iniziava a riprendere forma e il nostro bambino aveva finalmente la tanto desiderata figura paterna, nello stesso tempo iniziò anche a godere dei permessi premio e fu così che con un po’ di ritrovata tranquillità decidemmo di allargare la nostra famiglia, e sotto la guida e la volontà di Dio, mi trovo al 9° mese di gravidanza! Ma le cose belle, a quanto pare, non sono fatte per durare in eterno infatti da poco la nostra gioia si è interrotta con la notizia della chiusura temporanea della casa circondariale “Luigi Daga” Chiude in un batter d’occhio, da sera a mattina, con una banalissima tranquillità, facendo crollare le nostre vite, la nostre speranze e tanto altro, ma la mia grande preoccupazione va verso mio marito che è stato strappato alla sua ritrovata quotidianità e trasferito presso il carcere di Paola (Cs), ed a tutti i detenuti che come lui si sono ritrovati a fare i conti con le condizioni disumane in cui le nostre carceri versano a causa del sovraffollamento di gente, di sogni infranti e di vite spezzate… mi chiedo che ne sarà di loro? Sono pacchi postali o esseri umani? Non potranno più avere la serenità che solo un istituto come quello di Laureana sapeva dare loro? Questo istituto riusciva con serenità a sottrarre i giovani dal marcio, dalla criminalità organizzata, per vivere una nuova vita lontana dal male. E ancora mi chiedo…. Che futuro darò ai miei figli? Quale esempio di rispetto della persona darà lo Stato a queste nuove generazioni? È ciò che di più mi tormenta… gli uomini hanno sempre sbagliato, ma Dio ha lasciato il perdono sperimentando la pace, ricevendo pace. L’amore… solo con l’amore si può pagare, ma chiudendo una realtà così bella per tutti i ragazzi che ne facevano parte, oggi lo Stato ha solo contribuito ad incrementare il male, perché dalla fase di recupero in cui si trovavano, si sono ritrovati nel buio come bestie in gabbia, nel vuoto e nell’angoscia. Voglio menzionare l’articolo 27 della nostra Costituzione che prova a far capire a chi ci governa, che le pene devono tendere a rieducare il condannato in modo da consentire il suo ingresso nella società sia a livello morale che produttivo; durante il periodo di detenzione sono previsti corsi formativi e attività lavorative atte a qualificare professionalmente i detenuti! Mi chiedo quale Istituto di pena o per meglio dire quale carcere attua tutto ciò? Nessuno! Aprite di nuovo il “Luigi Daga” e ridateci la possibilità e la voglia di sorridere ancora, il mondo non può essere solo in mano ai più forti dimenticando i più deboli e chi una vita non ce l’ha. Salerno: overdose in cella; detenuti fuori pericolo, ora disposti accertamenti tossicologici di Luigi Colombo La Città di Salerno, 27 ottobre 2012 Il peggio sembra scongiurato per i due detenuti che l’altra sera sono stati trasferiti d’urgenza al pronto soccorso del “Ruggi” per una presunta overdose. I medici hanno sciolto la prognosi e dimesso già ieri sera il 33enne di Battipaglia che è così rientrato nella sua cella della struttura penitenziaria di Fuorni, tenuto sotto stretta osservazione. È, invece, ancora ricoverato in rianimazione, e con prognosi riservata, il 28enne di Cava dei Tirreni. Le sue condizioni, seppur gravi, da quanto si apprende da fonti mediche, sarebbero comunque in miglioramento. Tant’è che non è più tenuto in coma farmacologico, così com’era stato necessario dal momento del suo arrivo in ospedale. A quanto pare a complicare il suo quadro clinico vi sono anche i problemi respiratori di soffre da tempo. Intanto il direttore del carcere di Fuorni ha avviato un’indagine interna per cercare di fare chiarezza su quanto è accaduto. Inchiesta che si collega a quella aperta anche dal magistrato di turno della procura della Repubblica, presso il tribunale di Salerno. Si attendono, ovviamente, gli esiti degli esami medici e tossicologicici disposti sui due detenuti per accertare con esattezza cosa abbia causato la crisi e la presunta overdose. Ad insospettire è, ovviamente, la contemporaneità dell’accaduto. Oltre ai due detenuti, che da quanto si apprende occupano la stessa cella all’interno della seconda sezione del penitenziario (quella cioè destinata proprio ai tossicodipendenti), anche una terza persona avrebbe accusato malori simili. Al di là della possibile pessima qualità della droga assunta dai tre detenuti, va fatta chiarezza su come sia stato possibile introdurre all’interno del carcere della sostanza stupefacente. Episodi, racconta più di una fonte, che accadono in realtà spesso, ma che restano chiusi fra quelle mura. In estate, inoltre, fu trovata in una cella anche un telefono cellulare. E da Donato Salzano, segretario Radicali Salerno, arriva l’appello al sindaco Vincenzo De Luca, di portare al più presto un Consiglio comunale monotematico e straordinario all’interno delle mura del carcere. “Non soltanto per dare attuazione alla recente istituzione del Garante dei detenuti - dice Salzano - ma per essere proprio in queste ore vicino a tutta la comunità penitenziaria. La tragedia è stata sventata soltanto dall’abnegazione degli agenti di polizia penitenziaria e della direzione del carcere, con il loro tempestivo intervento salvavita. Una brutta pagina per la già la martoriata comunità penitenziaria di Fuorni, colpita da inaudita violenza, per i casi di queste ore, di due forse tre malori contemporanei nella sezione dedicata ai tossicodipendenti, forse gli ennesimi casi di tentativi di suicidi o il durissimo attacco delle narcomafie a questa “Comunità di martiri”, a questi uomini ristretti in quelle che oramai da tempo sono le catacombe del terzo millennio”, conclude il rappresentante dei Radicali. Sassari: detenuto in sciopero della fame per chiedere lavoro, dentro o fuori dal carcere La Nuova Sardegna, 27 ottobre 2012 Aveva interrotto lo sciopero della fame dopo una settimana, a luglio, perché lo avevano rassicurato sulla possibilità di avere un lavoro. Ma l’occupazione - dentro o fuori San Sebastiano - non è arrivata, anche perché molto ambita da tutti i detenuti. E Pasquale Concas, 45 anni, originario di Tortolì, recluso per omicidio, ha smesso di nuovo di mangiare e di bere. La decisione è stata comunicata al suo avvocato, Giuseppe Onorato, e alla direzione del carcere a inizio settimana. Concas chiede di poter ottenere di lavorare all’esterno in virtù di un permesso speciale. A luglio il tribunale di Sorveglianza aveva rigettato la sua richiesta, perché non erano trascorsi tre anni dalla revoca di un precedente permesso, causato da presunte violazioni delle condizioni rilevate dagli assistenti sociali. Ma Concas giura di non aver mai commesso gli errori che gli sono stati attribuiti. La prima protesta, a luglio, era stata interrotta dopo un colloquio con un magistrato e col direttore del carcere, nel quale si erano detti disposti ad aiutarlo, e che si sarebbero impegnati a trovare una soluzione. Ma un lavoro è difficile da trovare. E ora lui chiede un permesso di pochi giorni. Oristano: Ugl; nuovo carcere aperto a discapito personale polizia, molte cose ancora non funzionano Ansa, 27 ottobre 2012 “Il nuovo carcere di Massama è stato aperto all’insegna dell’improvvisazione e a totale discapito del personale di Polizia penitenziaria”. La denuncia porta la firma del segretario regionale dell’Ugl Salvatore Argiolas e del segretario provinciale Fabrizio Piu, che stamattina hanno fatto il punto della situazione nel corso di una conferenza stampa davanti all’ingresso della nuova Casa circondariale. “Nel nuovo carcere - hanno spiegato - molte cose ancora non funzionano come dovrebbero e ai problemi strutturali si aggiungono quelli di organizzazione del lavoro. A mettere in evidenza le carenze strutturali ci ha pensato il nubifragio di ieri, con l’acqua che è arrivata nei corridoi e sui muri delle sezioni”, ma ancora più preoccupante - secondo i sindacalisti dell’Ugl - sono per esempio i ripetuti problemi di funzionamento dei cancelli automatici all’interno delle sezioni e dei nuovi sistemi informatici e persino le difficoltà di comunicazione all’interno della struttura. In gioco, hanno spiegato Argiolas e Piu, non ci sono soltanto le condizioni di lavoro del personale, ma la sicurezza stessa all’interno della struttura penitenziaria. Già compromessa, a loro giudizio, dal numero insufficiente di agenti di polizia penitenziaria. Allo stato attuale sono 165 contro 118 detenuti, ma mentre il numero dei detenuti è sicuramente destinato ad aumentare altrettanto non si può dire per gli agenti di polizia penitenziaria. Secondo Argiolas e Piu c’è il rischio concreto che nel giro di pochi mesi il numero dei detenuti possa arrivare a quota 400, molti dei quali destinati alla sezione di massima sicurezza ancora chiusa. L’Ugl denuncia due livelli di responsabilità. Da una parte quello romano, che ha imposto l’apertura del nuovo carcere senza che la struttura fosse pronta; dall’altra quello locale, con una organizzazione del lavoro che non terrebbe in alcun conto i diritti del personale con soppressione di ferie e riposi, continue richieste di orario straordinario, turni di otto ore non previsti dal contratto, personale di vigilanza armata costretto a lavorare senza alcun riparo dalle intemperie e totale assenza di confronto col sindacato. E al provveditore regionale Gianfranco De Gesù, che continua a ribadire che la situazione non desta preoccupazione, il segretario regionale dell’Ugl suggerisce di verificare personalmente la reale situazione del nuovo carcere di Massama. Benevento: un Convegno sulla “Esecuzione penale partecipata” come opportunità per tutti www.ntr24.tv, 27 ottobre 2012 Se il dibattito moderno parla sempre più di giustizia e certezza della pena, al convegno sulle “Attività di promozione della legalità” tenutosi al seminario arcivescovile di Benevento si è discusso, invece, della rieducazione del detenuto e del suo reintegro nella società. Un argomento che rientra nel concetto più vasto “dell’esecuzione penale partecipata”, un tema che è stato trattato per la prima volta in Regione Campania, dopo l’indulto e i due decreti svuota carceri del 2010 (legge 199/2010) e del 2012 (legge 9/2012). Riflettere sui modi in cui le istituzioni, le associazioni e la società civile possono contribuire al processo di liberazione del reo è stato l’obiettivo dell’incontro promosso dalla Caritas di Benevento in collaborazione con quella di Avellino. “Nella mentalità comune il carcere è concepito solo come un luogo punitivo ed afflittivo - ci spiega Don Nicola De Blasio, responsabile della Caritas di Benevento - “troppo spesso si parla di pena detentiva, ma è necessario puntare sulla rieducazione del detenuto”. Non una società fondata sulla vendetta, dunque, ma sulla cultura della solidarietà e della riconciliazione. “Non è certamente la reclusione e l’allontanamento dalla società di chi ha commesso un reato a garantire la sicurezza - spiega la direttrice del carcere di Benevento Maria Luisa Palma - È importante invece dare un senso alla pena. A questo mirano i progetti, come Libertà Partecipate o Reli, che hanno l’obiettivo del reinserimento lavorativo dei detenuti”. Spesso stigmatizzate e abbandonate, le persone recluse nelle carceri sono anche quelle più sole. Da anni ormai la Caritas si impegna non solo nella difesa della dignità umana dei detenuti, ci spiega Diego Cipriani della Caritas italiana, ma anche ad incentivare le istituzioni a fare della pena uno strumento di rieducazione e reinserimento sociale. Televisione: Speciale Tg1; il documentario “Vale la pena?”, domani alle ore 23.30 su Rai Uno Ansa, 27 ottobre 2012 “Il grado di civiltà di una Nazione si misura sullo stato delle sue prigioni” diceva Voltaire. Il carcere in Italia è contraddizione, drammatici esempi di sovraffollamento e esempi di detenzione produttiva, strutture fatiscenti e edifici modello. Ma in carcere nonostante tutto si continua a morire. Speciale Tg1 il documentario visita i penitenziari di Poggioreale, di San Vittore, dell’isola della Gorgona. Esplora la realtà lavorativa del carcere di Padova, analizza le realtà estere, mostra il ruolo della Chiesa e raccoglie la testimonianza di chi sta scontando un ergastolo ostativo e si definisce “uomo ombra”. Interviste anche ad alcuni detenuti condannati all’ergastolo ostativo come Carmelo Musumeci. “Il grado di civiltà di una Nazione si misura sullo stato delle sue prigioni” diceva Voltaire. Il carcere in Italia è contraddizione, drammatici esempi di sovraffollamento e esempi di detenzione produttiva, strutture fatiscenti e edifici modello. Ma in carcere nonostante tutto si continua a morire. Speciale Tg1 il documentario visita i penitenziari di Poggioreale, di San Vittore, dell’isola della Gorgona. Esplora la realtà lavorativa del carcere di Padova, analizza le realtà estere, mostra il ruolo della Chiesa e raccoglie la testimonianza di chi sta scontando un ergastolo ostativo e si definisce “uomo ombra”. Il programma a cura della redazione Speciali, è stato realizzato da: Gianna Besson, Marco Clementi, Alessandro Gaeta, Amedeo Martorelli, Alberto Romagnoli, Alessandra Rissotto, Mariasilvia Santilli, Anna Testa, Fabio Zavattaro. Repubblica Centrafricana: Nessuno Tocchi Caino; Governo a favore moratoria su pena di morte Il Velino, 27 ottobre 2012 La delegazione del Partito Radicale e di Nessuno Tocchi Caino ha concluso la sua missione nella Repubblica Centraficana incontrando il Primo Ministro Faustin-Archange Touadera. A Sergio D’Elia, Elisabetta Zamparutti e Marco Perduca, il Capo del Governo ha assicurato che, dopo gli impegni presi a livello nazionale coll’adozione del progetto di legge per l’abolizione della pena di morte la Repubblica Centrafricana voterà a favore della Risoluzione sulla Moratoria universale delle esecuzioni che verrà presentata il mese prossimo alle Nazioni Unite a New York. Il Primo ministro ha inoltre espresso la volontà politica di mettere in atto tutti gli strumenti giuridici a disposizione per cancellare la pena di morte, confermando gli impegni presi dal suo governo davanti al Consiglio dei diritti umani dell’Onu relativi alla ratifica del protocollo opzionale al Patto internazionale dei diritti civili e politici, prodromico all’abolizione definitiva della pena di morte, ormai non più applicata nel paese da oltre 30 anni. La delegazione Radicale ha poi visitato due carceri nella capitale Bangui, quello femminile di Bangui-Bimbo e quello maschile di Ngaragba. Nel primo caso si trattava di un piccolo istituto che ospitava 31 donne e tre bambine, in tre cameroni separati. Le celle sono aperte dalle 6 di mattina alle 17.30, ma le condizioni anche delle parti all’aperto dell’istituto sono particolarmente fatiscenti, due terzi delle detenute presenti sono in attesa di giudizio e tra queste molte sono accusate di stregoneria. Il carcere maschile è struttura costruita dai coloni francesi nel 1947 e ospita 328 uomini, di cui due terzi in attesa di giudizio. La struttura, divisa in blocchi per pericolosità e tipo di reato, è sorvegliata da una ventina di soldati. Ogni blocco ha una denominazione diversa: chambre blanche per i detenuti politici oggi riservata alla massima sicurezza, couloir destinato alle stregonerie, Irak per i delitti di sangue e Golo-Waka per furto e consumo di cannabis e DDP per i reati contro la pubblica amministrazione. L’istituto versa in condizioni gravissime con la stragrande maggioranza dei detenuti che dorme direttamente per terra dove non esistono le minime condizioni igieniche e dove il cibo viene preparato e distribuito in locali del tutto inadeguati. Grazie al Ministro della Giustizia, alla delegazione è stato consentito di fotografare le due visite; nelle prossime ore una selezioni delle immagini sarà pubblicata su www.radicalparty.org e www.nessunotocchicaino.it. Russia: capi dell'opposizione arrestati, protestavano a sostegno di attivisti sotto inchiesta Tm News, 27 ottobre 2012 Diversi oppositori russi, tra questi esponenti di punta delle proteste anti-Putin come Sergey Udaltsov, Ilya Yashin e il blogger Alexei Navalny, sono stati arrestati oggi durante un'azione a sostegno di militanti dell'opposzione sotto inchiesta per "organizzazione di disordini di massa". La notizia è arrivata via Twitter dagli stessi attivisti finiti in un cellulare della polizia. Ma subito dopo le agenzie di stampa russe hanno confermato poi almeno due fermi, quello di Navalny e Yashin, precisando che l'azione di protesta non aveva ottenuto la necessaria autorizzazione delle autorità municipali e che gli agenti hanno chiesto agli oppositori - che si erano riuniti a due passi dal Cremlino, e proprio davanti alla sede dei Servizi di sicurezza - di andarsene, prima di caricarli sulle camionette della polizia. "Stavo camminando sul marciapiede. Sono stato fermato senza spiegazione. Sono in un autobus" dalla polizia, ha scritto Sergey Udaltsov, uno degli attivisti dell'opposizione extraparlamentare già incriminato nell'ambito dell'inchiesta su presunti piani per rovesciare il potere in Russia. La portavoce di Navalny ha poi confermato l'arresto a sua volta e secondo l'agenzia Interfax anche Yashin è stato portato via dalle forze dell'ordine.