Giustizia: 3 suicidi a Firenze, Prato, Siracusa e a Roma un detenuto muore “sotto i ferri” Ristretti Orizzonti, 24 ottobre 2012 Da inizio anno 51 detenuti si sono tolti la vita. Franco Corleone: il Governo tace e in carcere si continua a morire. Questa mattina alle 7,30 nel carcere di Sollicciano un nuovo suicidio. Un detenuto nato nel 1965 e entrato in carcere nel maggio di questo anno, si è suicidato. Era ospitato nel reparto assistiti, cioè nel Centro Clinico. Era una persona in osservazione psichiatrica e anche ieri era stato visitato da uno psichiatra. Ieri c’è stato anche un altro suicidio nel carcere di Prato. Franco Corleone ha dichiarato: “sono sgomento per questa catena di tragedie che si ripetono in modo ineluttabile. Di fronte a questo, la richiesta di misure radicali e strutturali per affrontare la situazione insostenibile determinata dal sovraffollamento, si dimostra ancora più urgente. La ministra Severino non può accontentarsi di palliativi. È urgente un decreto legge subito”. Prato: suicida aveva 22 anni, in carcere per rapina (Agi) È un giovane di origine marocchine, 22 anni, il detenuto del carcere pratese della “Dogaia” morto ieri: doveva scontare una condanna a 3 anni per una rapina compiuta ai danni di un cittadino cinese. Sulla questione è intervenuta la segreteria Funzione Pubblica della Cgil di Prato che, in una nota, afferma che alla Dogaia negli ultimi giorni, oltre al detenuto morto suicida, ci sono stati altri cinque tentativi di suicidio ed una rissa tra detenuti. “Cos’altro deve succedere ancora prima che siano presi seri provvedimenti sulla vivibilità delle carceri e, in particolare, sulla situazione della Casa Circondariale di Prato? Non più di una settimana fa - denuncia il sindacato - il direttore dell’istituto penitenziario pratese evidenziava il problema dei tagli alle risorse, del sovraffollamento e della carenza di personale. Tutti i giorni gli operatori, agenti di polizia penitenziaria e personale amministrativo, evidenziano che la struttura sta esplodendo”. Firenze: si uccide impiccandosi con il cavo della televisione (Ansa) Il 47enne morto a Sollicciano, secondo quanto si apprende, si è ucciso impiccandosi stamani, intorno alle 7,30, con il cavo delle televisione. Quando gli agenti lo hanno trovato l’uomo, in attesa di processo, era ormai senza vita. È morto nell’ospedale di Prato, invece, il giovane marocchino che aveva cercato di impiccarsi con un lenzuolo lunedì sera nel carcere della Dogaia a Prato. Aveva ancora poco più di un anno di pena da scontare. Gli agenti lo hanno trovato e subito sono scattati i soccorsi. Ancora in vita è stato trasferito all’ospedale dove, però, è morto ieri. Siracusa: si impicca con sacco della spazzatura legato alle inferriate (Adnkronos) Ancora un detenuto suicida in carcere. Questa volta è accaduto a Siracusa, dove il recluso di nazionalità italiana si è tolto la vita, poco dopo le 14 nei locali del Nucleo provinciale traduzione e piantonamenti, utilizzando un sacco della spazzatura legato alle inferriate esterne. A renderlo noto è il vice segretario generale dell’Osapp Mimmo Nicotra. “Non si è potuto contare sul tempestivo intervento della polizia penitenziaria - spiega - perché il detenuto, da circa due mesi, svolgeva attività lavorativa all’esterno delle zone detentive senza la sorveglianza di nessun agente”. Per Nicotra simili episodi sono destinati “inevitabilmente” a ripetersi perché “ormai non c’è più abbastanza personale per assicurare tutti i compiti istituzionali della polizia penitenziaria e la situazione è ancora più drammatica perché mancano circa 1.000 poliziotti penitenziari”. Roma: detenuto Rebibbia morto sotto i ferri (Dire) È morto “sotto i ferri, mentre veniva operato d’urgenza al policlinico Umberto I di Roma, per una colicisti perforante”. La notizia “dell’ennesima morte” di un uomo recluso nel Lazio è stata resa nota dal garante dei diritti dei detenuti, Angiolo Marroni. Si tratta del tredicesimo detenuto morto nel Lazio nel 2012. A quanto si appreso l’uomo, Luigi D., 56 anni di Roma, era detenuto nel braccio G 11 del carcere di Rebibbia Nuovo Complesso. Condannato per furto, doveva uscire dal carcere nel 2013. Ricoverato d’urgenza ieri per ittero al policlinico Umberto I, è morto nel corso dell’operazione chirurgica che è stata tentata d’urgenza. Marroni spiega che nel 2012 i detenuti morti per malattia nel Lazio sono stati tre, quelli per suicidio quattro. Un detenuto è morto per overdose mentre per gli altri tre decessi le cause sono ancora in fase di accertamento. Attualmente nelle carceri della regione sono reclusi 7.136 detenuti a fronte di 4.500 posti disponibili. “Nelle carceri si continua a morire - ha detto il garante - ma il dato che maggiormente impressiona è il numero di decessi per malattia. Negli Istituti sono recluse centinaia di persone con quadri clinici estremamente preoccupanti che hanno bisogno di cure ed attenzioni che il carcere non è in grado di dare. Nel Lazio la situazione della sanità penitenziaria è molto delicata, con emergenze quotidiane causate dalla mancanza di personale medico e paramedico, dalla carenza di fondi, da dotazioni tecnologicamente superate e da strutture fatiscenti. E la situazione - ha concluso - non fa che peggiorare con l’aumento continuo dei detenuti”. Cantone (Prap Toscana): nelle carceri c’è problema qualità vita (Ansa) I due suicidi avvenuti in meno di 24 ore nei carceri di Firenze e Prato, “sono successi negli istituti più grandi della Toscana: a Sollicciano ci sono tra i 950 e gli oltre 1.000 reclusi, mentre alla Dogaia di Prato i detenuti difficilmente sono meno di 750 e spesso 850”. È quanto dice Carmelo Cantone, dall’agosto scorso Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria della Toscana. In entrambi i carceri la capienza prevista sarebbe circa la metà. “C’è tanto da fare” dice Cantone esprimendo tutto il suo dispiacere e il suo cordoglio. “Purtroppo all’interno degli istituti c’è un problema di qualità della vita - prosegue il Provveditore - causato dal sovraffollamento, che non è un problema solo toscano, così come non solo nostra è la carenza di personale”. Oltre il 50% dei detenuti, soprattutto a Firenze e Prato, è di origine straniera. E anche questo comporta altri problemi perché “il loro vissuto, le loro abitudini - prosegue Cantone - non consentono loro di ambientarsi, di accettare certe regole. Tutto questo fa venir fuori crisi personali. E non sempre basta la sorveglianza”. Ferrante (Pd): anche oggi due suicidi, si impone intervento Governo (9Colonne) “Quella dei suicidi in carcere è davvero una lugubre contabilità che vorremmo non dover più tenere. E anche oggi due suicidi lasciano davvero senza parole, specie nella giornata in cui pure la Conferenza Episcopale italiana ha richiamato alla necessità di assumere provvedimenti d’urgenza, come l’amnistia, per garantire condizioni finalmente civili di vita nei penitenziari italiani”. Lo dice il senatore del Pd Francesco Ferrante. “È chiaro - prosegue Ferrante - che ci troviamo ormai da tempo fuori dalla Costituzione e che un intervento si impone al governo e al Parlamento”. Radicali Firenze: servono indulto e amnistia (Adnkronos) “La drammatica notizia dei due suicidi, nel carcere di Sollicciano a Firenze e in quello di Prato, evidenziano la prepotente urgenza di attuare i provvedimenti di amnistia e indulto”. Queste le prime dichiarazioni di Maurizio Buzzegoli, segretario dell’associazione radicale fiorentina Andrea Tamburi, a seguito della notizia dei due detenuti che si sono tolti la vita. “È deleterio continuare a tergiversare su una realtà giunta da tempo al collasso. La ministra Severino ed il Parlamento - aggiunge Buzzegoli - vista l’inutilità dei rimedi finora applicati, si trovano in uno stato inerziale per quanto riguarda l’iter riformatore di civilizzazione della giustizia e della sua appendice ultima delle carceri; uno stato d’immobilità che rende loro indirettamente i responsabili di questa strage di detenuti”. Sgherri (Fds): suicidi tragica conferma dramma sovraffollamento (Adnkronos) “La situazione carceraria riflette un vero e proprio dramma sociale e un degrado montante a causa del sovraffollamento degli istituti di pena; per questo c’è la straordinaria urgenza di interventi, in primis da parte di Governo e parlamento. Drammatica conferma si trova nella notizia degli ulteriori due suicidi che si sono avuti oggi nel carcere fiorentino di Sollicciano e ieri in quello di Prato. Bisogna che il tema sovraffollamento e degrado carcerario diventi con estrema urgenza una vera priorità da affrontare, non possiamo rimanere infatti inermi di fronte all’incrementarsi di questo tragico bilanciò. Lo afferma Monica Sgherri, capogruppo di Federazione della Sinistra - Verdi in Consiglio regionale della Toscana. Al tempo stesso, Sgherri è intervenuta sullo sciopero della fame dei garanti dei detenuti. “Esprimo la mia vicinanza e solidarietà ai garanti dei detenuti che hanno iniziato - a quanto appreso proprio da Firenze - uno sciopero della fame a staffetta per chiedere misure urgenti contro il sovraffollamento delle carceri. Una situazione sempre più grave ed insostenibile - come ripetutamente denunciato anche da noi - che impone misure urgenti, a cominciare dalla depenalizzazione dei reati lievi, così come quelli legati alla tossicodipendenza e all’immigrazione, il potenziamento delle misure alternative al carcere”, ha aggiunto Sgherri. “Condivisibili anche le altre proposte avanzate dai garanti quali l’introduzione del reato di tortura, una legge per l’affettività in carcere, il rifinanziamento dei fondi per la formazione scolastica e lavorativa, ecc. Questione che rappresenta - ha sottolineato Sgherri - sempre più un vero e proprio dramma sociale e che però vede un silenzio assordante dalla gran parte delle forze politiche. Un dramma sociale che ha nei sempre più frequenti suicidi in carcere, anche di detenuti per pene lievi, l’elemento chiave, più lampante e drammatico del degrado carcerario, con causa principale il sovraffollamento. A tutto ciò si aggiunga che la scure cieca e sorda della spending review nazionale ha colpito anche questo comparto, rendendo ancora più difficile la situazione carceraria sotto molti aspetti”. Domani, giovedì 25 ottobre, proprio su questi temi si terrà il convegno “La tortura nelle carceri italiane” (dalle ore 9,30) presso Sala Affreschi del Consiglio Regionale (via Cavour, 4, Firenze), organizzato dall’Associazione Liberarsi e col patrocinio, fra gli altri del gruppo consiliare Fds - Verdi. “Un occasione per confrontarsi e contribuire a dare risalto a questioni non più rinviabili in un paese che si voglia ancora dire civile”, ha concluso Sgherri. Idv Toscana: urgente una riforma dell’intero sistema (Adnkronos) “Due suicidi in due giorni. Gli ultimi casi di cronaca, in ordine cronologico, di una tragedia che si consuma lentamente nelle carceri toscane, strutture sovraffollate, per niente umane”. Questo il commento dei consiglieri regionali dell’Italia dei Valori alla notizia dei due suicidi avvenuti a Firenze e a Prato. “Le carceri che abbiamo imparato a conoscere nelle tante visite effettuate dal nostro Gruppo in tutta la regione - hanno proseguito gli esponenti dell’Idv, guidati dal capogruppo Marta Gazzarri - poco hanno a che fare con la rieducazione alla pena. Sembrano discariche umane degradanti. Ora più che mai, dopo che il carcere ha portato via altre due vite, una a Sollicciano e l’altra a Prato, dobbiamo batterci concretamente per porre fine ad una situazione emergenziale insostenibile. Ciò che serve è una riforma generale del sistema carceri che preveda pene alternative e riduca la presenza nelle celle. In totale accordo con il Garante dei detenuti Franco Corleone, chiediamo che venga fatto al più presto un decreto legge”. Brogi (Pd): basta attendere, morti insopportabili (Adnkronos) “Non possiamo più attendere, siamo oramai al monitoraggio costante di una strage che avviene col silenzio colpevole dei più. Il sovraffollamento, l’inoperosità e una inadeguata detenzione di numerosi tossicodipendenti, sono spesso la causa dei suicidi. Troppi, insopportabili per un Paese che si definisce democratico e moderno”. Lo dice Enzo Brogi, consigliere regionale del Pd, commentando la notizia dei due suicidi avvenuti negli istituti di Prato e Firenze, carceri che lo stesso Brogi ha visitato più volte. “Due giorni, due morti. I carceri Toscani sono in perfetta sintonia con il drammatico trend nazionale - spiega Brogi. Oggi a Firenze, ieri a Prato si muore nelle sovraffollate carceri italiane, si allunga con impressionante cadenza la conta dei carcerati che si suicidano. Nonostante le insistenti azioni intraprese, le visite nelle carceri e le numerose interrogazioni parlamentari del Pd, tutte senza risposta”. “Nelle carceri - prosegue Brogi - mancano tantissimi agenti, cosa che costringe il personale che c’è ad un lavoro durissimo. Ma occorrono anche educatori e assistenti sociali, categorie indispensabili per assicurare la funzione rieducativa della pena prevista dall’art. 27 della Costituzione. Tra le misure da assumere, un governo maturo - conclude il consigliere - dovrebbe attivare una seria politica di rivalutazione delle misure alternative al carcere, l’inserimento in comunità dei tossicodipendenti e l’occupazione a partire dai servizi civili”. Sappe: tre suicidi fra detenuti in 24 ore, è inaccettabile (Il Velino) Tre detenuti si sono suicidati in carcere nelle ultime ventiquattro ore. Lo denuncia il Sappe (Sindacato autonomo di polizia penitenziaria). L'ultimo caso a Siracusa. "Era - spiega una nota - un detenuto ammesso a lavorare all'esterno in regime di articolo 21, era stato condannato per violenze alla figlia ma si proclamava innocente. Si è ucciso, tramite impiccamento, alle inferriate della finestra del Nucleo Traduzioni del carcere di Siracusa". "Non posso - dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato autonomo polizia penitenziaria Sappe - che giudicare con estrema preoccupazione la grave situazione penitenziaria italiana, che si aggrava ogni giorno di più. Nelle ultime 24 ore registriamo infatti il suicidio di tre detenuti (a Siracusa, Firenze e Prato). Le carceri italiane sono sovraffollate di oltre 66mila e 700 detenuti. Non è più il tempo delle parole, è il momento di agire concretamente. Da mesi denunciamo che quasi tutte le Regioni italiane sono 'fuori leggè, ospitano cioè un numero di persone superiore al limite 'tollerabilè delle strutture carcerarie. Tutto questo è gravissimo ed inaccettabile. Le istituzioni e il mondo della politica non possono più restare inermi e devono agire concretamente. C'è bisogno di una nuova politica dell'esecuzione della pena, che ripensi il sistema sanzionatorio. Bisogna arrivare a definire, come sosteniamo da tempo, circuiti penitenziari differenziati in relazione alla gravità dei reati commessi, con particolare riferimento al bisogno di destinare, a soggetti di scarsa pericolosità o che necessitano di un percorso carcerario differenziato (come i detenuti con problemi sanitari e psichiatrici), specifici circuiti di custodia attenuata anche potenziando il ricorso alle misure alternative alla detenzione per la punibilità dei fatti che non manifestano pericolosità sociale e l'espulsione dei detenuti stranieri in Italia". "Anche gli ultimi episodi violenti di aggressione ai nostri agenti (a Lucca, Sanremo e Cuneo) - continua il segretario generale del Sappe - sono la risultanza tra il crescente sovraffollamento penitenziario, le gravi carenze organiche del Corpo di Polizia penitenziaria, che ha ben settemila agenti in meno, e la mancanza di provvedimenti concreti delle Direzioni penitenziarie a tutela delle donne e degli uomini della Penitenziaria, che lavorano nella prima linea delle sezioni detentive completamente disarmati e spesso senza tutela alcuna. Invito la Ministro della Giustizia Severino a fare provvedimenti concreti per consentire ai poliziotti penitenziari di lavorare in condizioni più degne di un Paese civile e ai detenuti condizioni igienico-sanitarie più umane e soprattutto un massiccio impiego in attività lavorative in carcere". Giustizia: offendere dignità dei detenuti che hanno commesso reato è, a sua volta, un reato di Ishmael Beah (Human Rights Watch) Italia Oggi, 24 ottobre 2012 Stracolme, invivibili, dantesche, le galere italiane sono una vergogna per il paese che le ospita e che, da una parola in su, un timbro, una firma, appioppa ai disperati, per lo più extracomunitari, senza badare a dove finiranno e che fine vi faranno, carcerazioni preventive e cautelative, condanne esemplari, umiliazioni e brutalità, traumi senza ritorno, spaventi metafisici. “La popolazione carceraria è in crescita esponenziale”, scrivono Franco Corleone e Andrea Pugiotto nella prefazione a Il delitto della pena. Pena di morte ed ergastolo, vittime del reato e del carcere, Ediesse, pp. 284, 15,00 euro. “In poco più di venti anni le presenze dietro le sbarre sono più che raddoppiate, passando da 25.804 (al 31 dicembre 1990) a 66.487 (al 31 maggio 2012). Sono cifre che vanno commisurate ad una capienza regolamentare negli istituti penitenziari stimata in 45.558 posti. Il numero delle morti in carcere per suicidio ha raggiunto, nel 2011, il record assoluto di 66 decessi, a fronte dei 64 registratisi nel 2010. Nell’anno in corso, alla data del 3 agosto, già si contano 33 casi accertati di suicidio: circa uno ogni 6 giorni e mezzo. Con questo ritmo, il 2012 rischia seriamente di scalare la vetta di tale dolentissima graduatoria. E ciò senza tener conto, ovviamente, dei detenuti deceduti “per cause naturali” (cioè, in assenza di indagini più approfondite, per arresto cardiaco) o “per cause ancora da accertare”: in tal caso le morti in carcere complessivamente salirebbero a 184 nel 2010, 186 nel 2011, 84 finora nell’anno in corso (ma non dobbiamo disperare, perché c’è ancora tempo per risalire in classifica). Questi numeri e le condizioni esistenziali che lasciano tragicamente intravedere vengono riassunti in una espressione, sovraffollamento carcerario, che - com’è stato notato - è il superlativo di un superlativo”. Un tempo, per condannare gli orrori del sistema carcerario, dalla pena di morte all’indifferenza e al disumanesimo di chi promulga (e applica) le leggi, si ricorreva sempre allo stesso argomento: e se poi capitasse di condannare a morte, all’ergastolo o anche solo a qualche anno o mese di carcere preventivo un innocente? Bè, gli orrori carcerari, oltre che (com’è ovvio) agl’innocenti, vanno evitati anche ai colpevoli. Così come la pena di morte non è da abolire perché potrebbe toccare, vedi mai, a qualche innocente ingiustamente condannato ma perché tu non devi uccidere, allo stesso modo vanno evitati alle nazioni i superlativi dei superlativi: il sovraffollamento delle carceri, la pena apocalittica detta eufemisticamente esemplare, l’idea che offendere la dignità dei detenuti che hanno commesso un reato (o forse no) non sia a sua volta un reato. Giustizia: amnistia; Radicali in sciopero della fame e della sete di fronte a resa dello Stato Agenparl, 24 ottobre 2012 “Dalla mezzanotte di oggi la deputata radicale Rita Bernardini e la segretaria dell’associazione radicale Il Detenuto Ignoto Irene Testa hanno iniziato uno sciopero della fame che alterneranno allo sciopero della sete per ribadire la necessità di un provvedimento di amnistia, per porre subito fine all’illegalità in cui versa la giustizia italiana e la sua appendice carceraria. Una azione nonviolenta che proseguirà a oltranza, in risposta alla “resa dallo Stato” di fronte alla bancarotta del sistema giustizia e alla mancanza di Stato di diritto cui si assiste quotidiana mente in quelle moderne catacombe che sono diventate le prigioni italiane: “per non doverci sentire come quando c’era chi non voleva vedere i campi di sterminio e girava la testa dall’altra parte”, come afferma Marco Pannella e come ha ricordato ieri in Aula la deputata radicale durante il dibattito sul ddl delega in materia detenzione domiciliare, messa alla prova e irreperibili. Un provvedimento che non sarà in grado di rispondere in nessun modo “al persistente stato di violazione della nostra Costituzione, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, della Dichiarazione universale Onu dei diritti umani” che vede il nostro Paese condannato da anni in sede europea. Il ddl, così formulato, invece di “salvare” le carceri rischia infatti di salvare la loro illegalità. Per questa ragione Rita Bernardini e Irene Testa hanno deciso di intraprendere un’azione nonviolenta dura e ferma come forma di dialogo nei riguardi dello Stato e delle sue istituzioni. E anche nei confronti del Presidente della Repubblica, garante supremo della Costituzione, che ha denunciato la violazione della Carta, ma non ha poi ritenuto di inviare un messaggio al Parlamento o convocare in seduta straordinaria il Parlamento. L’amnistia, per la quale Marco Pannella e i Radicali si battono da tempo al fianco della comunità penitenziaria umiliata e sofferente, si conferma il solo strumento in grado di ripristinare legalità e Stato di diritto: una necessità che “si impone per affrontare il problema del sovraffollamento nelle carceri e anche per superare le condizioni ambientali spesso insostenibili”, come ha dichiarato ieri ai microfoni di Radio radicale il sottosegretario e portavoce della Cei Monsignor Domenico Pompili. Di seguito l’intervento integrale di Rita Bernardini “Signor Presidente, signora Ministra, consentitemi di manifestare subito il mio disagio nel momento in cui ci troviamo nella discussione generale di questo disegno di legge delega al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e invece di disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili. “Disagio”, perché immagino coloro che da Radio Radicale nelle carceri o perché conoscono, o perché vivono alcuni momenti, spesso molto lunghi, con turni massacranti, nellecarceri, stanno ascoltando questo nostro dibattito. Allora, mi chiedo, da cittadina democratica che, essendo anche radicale, cerca di corrispondere alle esigenze di giustizia e di rispetto delle regole con la nonviolenza, cosa debba fare io, debbano fare i miei amici e compagni radicali, debba fare Marco Pannella nelle prossime ore. Vedete, come già si è capito dal dibattito e dai primi interventi che ci sono stati, qui si spaccia il provvedimento in esame come un testo che possa in qualche modo intervenire sulla illegalità e sulla mancanza di Stato di diritto nelle nostre carceri e nella giustizia per come viene amministrata, e come un provvedimento unito a quello che lei, signora Ministra, ha voluto definire “salva carceri” e che io mi sono permessa di definire “salva carceri illegali”. Allora, cosa fare nelle prossime ore, di fronte ad un dibattito così lunare? Già l’onorevole Paolini, ma anche l’onorevole Contento, ed alcuni che sono intervenuti, sembra che vogliano alzare le barricate di fronte a questo disegno di legge che viene definito “salva delinquenti”. Allora, una qualche verità l’ha detta lo stesso onorevole Paolini: ma di cosa stiamo parlando? Quando si parla di delega al Governo in materia di pene detentive non carcerarie questo significa che il Governo si è dato un anno - perché c’è scritto un anno - di tempo per poter poi dare attuazione a questa delega, ma sappiamo tutti che mancano quattro mesi allo scioglimento delle Camere e sei mesi al voto. Quindi questa parte già la dobbiamo mettere da una parte, così come abbiamo messo da una parte, in un altro binario che mi sembra sempre più morto, la parte riguardante le depenalizzazioni. Ma la verità di cui parlava Paolini chi riguarda? Quando parliamo di pena massima edittale di quattro anni, riferendoci per esempio alle persone che sono in questo momento in carcere, parliamo di non più di mille persone. Di cosa stiamo parlando rispetto a un problema così grave, per il quale siamo costantemente condannati in sede europea? La Corte europea dei diritti dell’uomo ha evidenziato come l’articolo 3 della Convenzione impone allo Stato di assicurare che tutti i carcerati siano detenuti in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana, che le modalità di esecuzione del provvedimento non provochino all’interessato uno sconforto e un malessere di intensità tale da eccedere l’inevitabile livello di sofferenza legato alla detenzione e che, tenuto conto delle necessità pratiche della reclusione, la salute e il benessere del detenuto siano assicurati in modo adeguato. Ecco che mi viene in mente, non posso non dirlo in questa sede, che nei quattro anni, come pena massima edittale, non è compresa quella percentuale altissima, che si avvicina al 40 per cento, di coloro che sono tossicodipendenti detenuti nelle nostre carceri. Allora, penso a quel sms, che mi è arrivato l’altra notte, di una ragazzina, di una minorenne che mi dice: mio padre ha paura perché è andato a trovare mio fratello di 22 anni, tossicodipendente in carcere, e l’ha trovato molto dimagrito, con i pantaloni che gli cadevano, però al posto della cinta aveva una corda. Pensando ai quarantotto che già si sono suicidati nelle carceri italiane, quella ragazzina mi mandava l’sms di notte per paura che suo fratello si impiccasse. Questa è la realtà delle nostre carceri. Con questo provvedimento - voi lo sapete benissimo - non riusciremo a rispondere minimamente al persistente stato di violazione della Costituzione italiana, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, della Dichiarazione universale Onu dei diritti umani. Certo, noi diciamo parole gravi, ma ditemi se non corrispondono alla realtà dei fatti, voi tutti che le avete visitate le nostre carceri, che siete andati, forse raccogliendo un nostro invito, negli istituti penitenziari: abbiamo uno Stato criminale. Stiamo ai fatti, perché citerò dei numeri. Dal 1959 al 2010 la Corte europea dei diritti umani ha condannato l’Italia 2.121 volte per violazioni della Convenzione. Siamo al secondo posto, ma in fondo alla classifica, su 47 Stati membri e siamo dietro la Turchia. Allora, mi riferisco anche al Presidente della Repubblica, lui che è il garante della Costituzione - è questo il punto di vista che non volete accettare - e che ha denunciato la violazione della Carta costituzionale, ma che non ha ritenuto, non ha sentito la necessità di inviare un messaggio al Parlamento oppure di convocare in seduta straordinaria il Parlamento di fronte a questa grave violazione che persiste da anni. E non è solamente il carcere, è anche l’irragionevole durata dei processi alla quale non stiamo dando alcuna risposta. Evidentemente sì, c’è un abisso che separa la realtà carceraria di oggi dal dettato costituzionale, ma che separa anche la giustizia, per come viene amministrata, dal dettato costituzionale. Allora, per non doverci sentire nello stesso modo come quando c’era chi non voleva vedere i campi di sterminio e girava la testa dall’altra parte, un cittadino democratico, un cittadino non violento, un leader politico come Marco Pannella, ma in questo momento parlo per me, che cosa deve fare di fronte a questa resa dello Stato? La resa dello Stato sta nel non rispettare le sue stesse regole! Questa è la resa dello Stato! Per questo, inizierò un’azione non violenta. La comunicherò nelle prossime ore e sarà molto dura e molto ferma. Ma non dovete prenderla - perché spesso la prendete così - come un ricatto. Ma, vedete, stiamo con i cappellani, con i detenuti, con quella comunità penitenziaria, con gli agenti che stanno soffrendo e che oggi manifestavano qui davanti e vogliamo dialogare con voi per quanto voi intendiate accettare questa forma di dialogo”. Radicali lucani aderiscono a sciopero fame per amnistia Il segretario dei Radicali Lucani, Maurizio Bolognetti, ha annunciato l’inizio dello sciopero della fame ad oltranza dalla mezzanotte di oggi per sostenere l’iniziativa delle Radicali Rita Bernardini, deputata, e Irene Testa, segretaria associazione “Il detenuto ignoto”, che sono in sciopero della fame e della sete dalla mezzanotte passata per chiedere l’amnistia nelle carceri. Le Radicali hanno deciso di intraprendere questa azione nonviolenta, dura e ferma, come “forma di dialogo nei riguardi dello Stato e delle sue istituzioni” sul tema delle carceri. I Radicali ritengono l’amnistia “il solo strumento in grado di ripristinare legalità e Stato di diritto” per affrontare il problema del sovraffollamento e superare le condizioni ambientali spesso insostenibili. Bolognetti ha ricordato anche il messaggio dei vescovi lucani e di monsignor Agostino Superbo, arcivescovo di Potenza, in occasione della II Marcia per l’Amnistia, la giustizia e la libertà. “Nella sua quotidiana missione di testimonianza del Vangelo la Chiesa sente che l’impegno per l’amnistia, la giustizia, la libertà rappresenta un fatto che va nella direzione di una possibile e necessaria riconciliazione”, scrissero i vescovi lucani. Giustizia: Cei; Parlamento si faccia carico del problema delle carceri, amnistia opportuna Tm News, 24 ottobre 2012 “L’auspicio è che il Parlamento si faccia carico del problema giustizia e carceri, probabilmente non più rinviabile”. Lo ha detto monsignor Domenico Pompili, portavoce della Conferenza episcopale italiana, intervistato nel corso della trasmissione Radio Carcere, che va in onda ogni martedì da Radio Radicale. “Di amnistia si parla da diverso tempo, e più di recente la questione è stata sollevata dallo stesso Presidente della Repubblica”, ha detto Pompili. “Senza dubbio la necessità di una amnistia si impone per affrontare il sovraffollamento delle carceri e per affrontare situazioni ambientali spesso insostenibili. Lo Stato certamente deve continuare ad esercitare la giustizia garantendo il bene comune dei cittadini, a cominciare dalla loro sicurezza e incolumità; però, come ricordava il cardinal Bagnasco, la vita dei carcerati non è mai una vita a perdere. Di qui la necessità di affrontate il nodo la giustizia in modo che la pena possa assolvere al compito medicinale che le è proprio e a garantire i cittadini. Come spesso mi è dato di conoscere anche attraverso i cappellani delle carceri, le persone che sono in carcere restano uomini, che valgono sempre di più rispetto alle azioni di cui si sarebbero, e si sono, macchiati. Così la società dimostra di essere umana”, ha detto Pompili. Alla domanda “la Conferenza episcopale italiana ritiene auspicabile un intervento del Parlamento per l’amnistia e l’indulto?, Pompili ha risposto: “Mi pare che già da tempo, addirittura dai tempi di Giovanni Paolo II e più di recente attraverso le parole del Papa Benedetto XVI a Rebibbia questa questione sia stata interpretata adeguatamente. L’auspicio è che ci si faccia carico di questo problema, che è un problema certamente complesso ma probabilmente non rinviabile”. Di Giovan Paolo (Pd): ok Cei, ora misure alternative “Ringraziamo la Cei per l’attenzione al mondo delle carceri. Importante sarebbe comunque approvare entro pochi giorni il ddl sulle misure alternative, che permetterebbe a un numero consistente di detenuti di scontare la pena fuori dal carcere. Circa il 30% dei detenuti potrebbe farne richiesta”. Lo afferma il senatore del Pd Roberto Di Giovan Paolo, segretario della Commissione Affari Europei. “Si può intervenire non solo con l’amnistia, ma anche rivedendo la Fini-Giovanardi, la Bossi-Fini e soprattutto introducendo le misure alternative alla detenzione in carcere” conclude Di Giovan Paolo. Giustizia: Osapp; oltre 21.000 detenuti in più nelle carceri, utilizzare Sezioni di semilibertà Ansa, 24 ottobre 2012 “Dopo il palese fallimento del cosiddetto Piano Carceri, tanto decantato dalla politica degli ultimi 4 anni, ed il probabile blocco del disegno di legge della Guardasigilli Severino sulla misure alternative alla detenzione, stanti le recenti dichiarazioni della Presidente della Commissione Giustizia della Camera Giulia Bongiorno, esiste l’esigenza urgente di reperire posti aggiuntivi per fronteggiare l’inarrestabile sovraffollamento penitenziario”, è quanto si legge in una nota dell’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria) a firma del Seg. Gen. Leo Beneduci è indirizzata ai Capigruppo della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica. “Dal mese di settembre ad oggi - prosegue il sindacalista - i dati in nostro possesso danno un incremento delle presenze detentive di circa 800 unità, mentre i 66.721 detenuti allocati nelle carceri italiane avrebbero a loro disposizione solo 45.680 posti, ovvero oltre 21.000 in meno del necessario”. “Peraltro - prosegue il leader dell’Osapp - le punte di massimo sovraffollamento e, quindi, di maggiore e grave rischio, riguardano le cosiddette Sezioni ordinarie e non le oltre 100 sezioni-articolazioni destinate ai 1.435 detenuti in regime di semilibertà. Tali detenuti, che rientrano nelle carceri solo per trascorrervi le ore notturne, potrebbero alloggiare presso le proprie abitazioni, con controlli a cura della Polizia Penitenziaria e in un regime custodiale analogo a quello dei cosiddetti arresti domiciliari”. “Il recupero di 1.435 posti letto, pari circa alla capienza di un istituto delle dimensioni di quello di Roma-Rebibbia - conclude Beneduci - dopo le palesi incertezze sul carcere della politica e del Parlamento, appare uno dei pochi provvedimenti attuabili in questo momento”. Giustizia: Opg non chiudono; il Governo ha tolto soldi e il Ministro non ha firmato Decreti di Giacomo Russo Spena L’Espresso, 24 ottobre 2012 Dopo il video denuncia di Ignazio Marino, più di un anno fa, si era deciso di chiudere i sei ospedali psichiatrici giudiziari italiani entro il marzo del 2013. Ma poi il governo ha tolto i soldi e il ministro non ha firmato i decreti. Il 31 marzo 2013 è la data fissata per la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg). Ma questa vergogna italiana è ben lontana dall’essere risolta. Nel 2011 una commissione d’inchiesta sul Servizio Sanitario Nazionale, composta da venti senatori e capeggiata dal medico Pd Ignazio Marino, denunciava con una video inchiesta la condizione incivile negli Opg. I nuovi manicomi criminali. Sei i centri presenti nel Paese: Aversa, Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), Napoli, Montelupo Fiorentino (Firenze), Reggio Emilia e Castiglione delle Stiviere (Mantova). Erano 1.500 i cosiddetti “sofferenti psichici autori di reato” rinchiusi. “Una realtà in cui si dovrebbe curare l’infermità mentale, ma l’assistenza medica viene garantita da un infermiere ogni 25-30 internati e l’assistenza psichiatrica è assicurata per trenta minuti al mese; dove stanze da quattro ospitano nove internati su letti a castello, condizione che è stata definita tortura dal Consiglio d’Europa”, denuncia Marino. A parte Castiglione, la commissione aveva osservato strutture vecchie, inadeguate ed in condizioni igieniche precarie. Con la vivibilità interna al collasso. La disperazione aveva portato ad atti di autolesionismo e tentati suicidi. Poi lo scandalo della “contenzione fisica”: internati con mani e piedi legati al letto con una cinghia di cuoio. Al centro una fessura per i bisogni. Così per ore, a volte per giorni. Lo scorso febbraio, l’approvazione di una legge per il “superamento degli Opg”. Un provvedimento - inserito nel decreto carceri - che ha fissato la chiusura entro il 31 marzo 2013 degli attuali sei centri e l’apertura di mini strutture regionali da 20 posti letto dotate dell’attrezzatura necessaria per l’assistenza ai pazienti, con infermieri, medici, psichiatri ed esperti di riabilitazione. Una riforma - si legge nella legge 9/2012 - che ha stanziato 180 milioni per la costruzione delle nuove strutture e 38 milioni nel 2012 e 55 milioni dal 2013 per l’assistenza alternativa all’Opg. Un modo per far uscire quei “ristretti” a vita: quasi 400 i detenuti non considerati più socialmente pericolosi ma rinchiusi per la mancanza di strutture di sostegno all’esterno. Una sorta, per loro, di ergastolo bianco. A otto mesi dalla legge, poco è stato fatto. Il numero degli internati rimane invariato e nelle strutture si continua a morire: l’ultimo caso lo scorso 2 ottobre a Reggio Emilia. Una rete di associazioni - da Antigone a Cgil, Psichiatria democratica e molte altre, ha lanciato la campagna Stop Opg per denunciare la mancata applicazione del provvedimento, fino a paventare il rischio dell’apertura di “nuovi manicomi”. Tanti i nodi sospesi. A partire dalla mancata copertura finanziaria. La legge 9/2012 si basa sul principio della detenzione come extrema ratio (come stabilito da due sentenze della Corte Costituzionale) e su un progetto di vera assistenza medica regionale capace di supportare (ed reinserire) i soggetti ritenuti socialmente pericolosi. Al momento i fondi non sono disponibili perché il ministro della Sanità, Renato Balduzzi, nonostante i proclami per la chiusura degli Opg, non ha ancora firmato i decreti attuativi. Se i decreti non vedessero la luce entro il 31 dicembre 2012, i fondi stanziati ritornerebbero in bilancio. Un timore percepito dalla stessa commissione che ha inviato una lettera al presidente Mario Monti per chiedere di sbloccare l’impasse. Pochissime inoltre le Regioni che si stanno adoperando per la nuova mini struttura regionale: al Lazio della ormai ex governatrice Renata Polverini la maglia nera. Per lo psichiatra Giuseppe Nese ormai rispettare il termine del 31 marzo 2013 è “impossibile”. Qualche caso positivo c’è (nell’Opg di Aversa, ad esempio, si è passati da 320 a 169 internati, quasi la metà inserita in percorsi terapeutici del Ssn) ma in altre strutture si è addirittura peggiorato, come a Barcellona Pozzo di Gotto. Spiega Dario Stefano Dell’Aquila, autore di un libro inchiesta sugli Opg, che il sistema delle strutture residenziali per sofferenti psichici è in larga parte del Paese affidato a gestori privati. “Le tariffe corrisposte”, dice, “superano i 100 euro al giorno per paziente, insomma c’è il serio rischio che chi entra in questi posti non ne esca più perché si trasforma in una facile rendita”. Altra questione irrisolta: mentre in carcere la pena è certa e ha un termine, la detenzione negli Opg è prorogabile. Sta alla magistratura di sorveglianza giudicare, in base alle perizie dei medici, la riabilitazione dell’internato. La commissione parlamentare sta lavorando per una legge ispirata al modello spagnolo: il trattenimento negli Opg non può superare la pena prevista per la stessa violazione in carcere. Difficile però che passi (siamo a fine legislatura) così come è del tutto improbabile che si arrivi davvero al “superamento” degli Opg. Giustizia: la “strana coppia” Papa-Mora che si batte per dare lavoro ai detenuti 9Colonne, 24 ottobre 2012 Promuovere la raccolta differenziata nelle carceri, trasformare gli spazi esterni alle case circondariali in orti e creare nei punti vendita della grande distribuzione un “angolo del detenuto” per la vendita dei prodotti made in jail, dall’abbigliamento all’agroalimentare. Sono i “format” illustrati, in una conferenza stampa alla Camera, dall’ex agente dei vip Gabriele Mora (non più Lele, per sua scelta) e dal deputato del Pdl Alfonso Papa, accomunati, per motivi diversi, da un’esperienza in carcere. Insieme alla “strana coppia”, secondo la definizione che ne darà un’intervista doppia in uscita domani su Panorama, anche l’ex brigatista Vittorio Antonini, condannato all’ergastolo nel 1985 e oggi coordinatore dell’associazione di detenuti Papillon-Rebibbia, e Claudio Marcantoni, presidente della stessa associazione a Rimini. “Ai cittadini italiani può non interessare nulla di me - ha detto Papa nel corso della conferenza stampa - ma per il tipo di esperienza che ho avuto ritengo doveroso denunciare che non siamo in un paese civile, metà dei detenuti per carcerazione preventiva vengono assolti: costringiamo migliaia di persone a perdere pezzi della loro vita”. Papa ha ricordato che la sua proposta di legge per la limitazione della carcerazione preventiva giace in Commissione Giustizia dove “non riesce a camminare e ad andare avanti” a causa “dell’indifferenza della politica”. Il deputato del Pdl ha concluso il suo intervento appellandosi al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano affinché rinnovi alle Camere l’invito a valutare misure in favore dell’amnistia. Giustizia: uccise a coltellate l’ex marito stalker, assolta di Federica Angeli ed Emilio Radice La Repubblica, 24 ottobre 2012 Roma, il corpo gettato nel Tevere. Il pm aveva chiesto l’ergastolo. La corte: legittima difesa. Il pubblico ministero, una donna, allo stalking non aveva dato molto peso e aveva chiesto l’ergastolo per omicidio premeditato. La III Corte d’Assise di Roma, presieduta da un altro magistrato donna, invece allo stalking ha creduto e ha emesso una sentenza di assoluzione “per avere agito in stato di legittima difesa”. Il nero e il bianco. Una pronuncia importante quella di ieri nell’aula bunker del carcere di Rebibbia, che arriva a pochi giorni dall’ennesimo omicidio, a Palermo, per un amore “malato”. Ad essere assolta è stata una donna romana che per anni aveva subito angherie di ogni sorta dall’ex marito e che in occasione di un’ultima lite lo aveva ucciso. I fatti risalgono al 24 febbraio 2004. Luciana Cristallo, l’imputata, era accusata di essere la fredda artefice di un omicidio in cui lo stalking era letto come una causa di odio più che come un motivo di terrore. Un disegno criminale, secondo il pubblico ministero Elisabetta Ceniccola, ordito dalla donna assieme al suo nuovo compagno, il commercialista Fabrizio Rubini, e che prevedeva prima un perfido invito a cena, a casa della donna, e poi l’aggressione del marito - che da persecutore diventava vittima - a colpi di coltello. In effetti i colpi di coltello ci furono, dodici, di cui quattro più gravi. E a terra cadde Domenico Bruno, un imprenditore calabrese di 45 anni, che Luciana Cristallo aveva sposato ventidue anni prima e dal quale aveva avuto quattro figli. Ma la dinamica raccontata dalla difesa è stata differente: lui quella sera di otto anni fa, le stringeva le mani al collo; lo aveva già fatto alcuni mesi prima, di tentare di soffocarla, tanto che lei fu ricoverata in ospedale per “schiacciamento delle vertebre cervicali anteriori”, fu scritto nel referto. Anche quella sera voleva ammazzarla, dopo averle reso la vita impossibile per anni, dopo averla psicologicamente annullata con pedinamenti, botte, con quel suo amore ossessivo e malato che non accettava la fine del rapporto e le impediva di ricostruirsi una vita. A casa della donna si era presentato per chiederle di ritirare l’ultima querela che lei aveva sporto contro di lui e che lo vedeva indagato per lesioni e percosse. Altre volte l’ex moglie aveva ritirato le denunce, per amore dei figli. Quella sera disse no. E mentre lui tentava di soffocarla Luciana Cristalli è riuscita ad afferrare un coltello (“peraltro il più piccolo che era in cucina” ha ribadito ieri nella sua arringa in aula il difensore dell’imputata, V avvocato Giovanni Sabatelli “montando così la tesi della premeditazione) e lo ha colpito, fino a farlo morire. Poi ha chiamato Fabrizio Rubini (pure lui ieri assolto “per non aver commesso il fatto”), hanno avvolto il cadavere in un tappeto e insieme lo hanno gettato nel Tevere, zavorrandolo con due pesi da sub. La corrente ha trascinato il corpo di Bruno fino al bagnasciuga di una spiaggia di Ostia, era il 27 febbraio del 2004, tre giorni dopo il delitto. I Carabinieri iniziarono le indagini che potarono in capo a due mesi alla verità e che ieri ha avuto il suggello della Corte d’assise con l’assoluzione. Lettere: Lodi; 100 anni di solitudini in Via Cagnola… celebrazione o doloroso ricordo? Ristretti Orizzonti, 24 ottobre 2012 Abbiamo appreso, nei giorni scorsi, grazie a un’ampia rassegna stampa, dell’iniziativa che si terrà in città per “festeggiare” il centenario dell’apertura dell’attuale carcere di Lodi. Abbiamo confidato potesse trattarsi di una preziosa occasione di presa di coscienza di ciò che l’istituto dovrebbe rappresentare - come strumento di rieducazione, considerato indispensabile nell’impianto della nostra Costituzione - e di ciò che realmente è per coloro che ad esso sono condannati a scontarvi una pena. Ma pare che la riflessione avrà ben poco spazio in questo contesto e che l’appuntamento rischi di trasformarsi in un’ennesima manifestazione di folklore istituzionale proprio mentre l’illegalità delle condizioni di detenzione e dei trattamenti carcerari sono, ad ogni livello, denunciati e hanno determinato, da parte della Corte Internazionale di Giustizia, continue condanne a sanzionare la colpevole disapplicazione dei diritti umani nelle prassi penitenziarie del nostro Paese. Cesare Beccaria, da sempre considerato, grazie al suo “Dei delitti e delle pene” uno dei più fulgidi esempi dell’apporto di civiltà dell’illuminismo europeo, oggi impallidirebbe di fronte all’ “esibizione” dei residenti di Via Cagnola, ospiti oscurati della nostra città, cui si offrono un paio di ore d’aria eccezionali in luogo di quelle loro dovute (ma troppo spesso negate) in un tempo di carenza di dignità e di vera speranza per tutti i detenuti, innocenti o colpevoli che siano. Dove trovare, tutti quanti noi, i motivi per festeggiare questi cento anni di carcere? E dove trovare, altrettanti motivi, da parte di chi in carcere sopravvive ogni giorno? Un sistema carcerario al collasso come quello italiano, e non rileva che ci si trovi a Lodi anziché a Opera, a Parma, a Napoli, a Cagliari, non ha davvero nulla da festeggiare di fronte a “numeri” che fanno paura: dall’inizio dell’anno si sono verificati 47 suicidi, la capienza dei 207 istituti di pena italiani è di 45.849 posti ma la popolazione carceraria al 30 settembre scorso era di 66.568 persone (la fonte è il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, riportato dalla rivista Ristretti Orizzonti), di cui imputati, cioè in attesa di giudizio, ben 26.780. Contro l’Italia pendono, di fronte alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, centinaia di ricorsi per violazione dell’art. 3 della Convenzione in relazione alle condizioni di sovraffollamento in cui i detenuti sono costretti a vivere in uno spazio ben al di sotto della superficie minima individuata in 7 metri quadrati per ognuno così come fissato dalla Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura. E, allora, di fronte a tutto questo, che almeno il “festeggiamento” diventi l’opportunità per questi concittadini detenuti, e perciò ignoti e ignorati, di tornare per un istante visibili agli occhi desueti di questo Paese per lanciare un invito rivolto a tutti quanti noi, spettatori reali o solo potenziali: la conquista di record diversi e meno vergognosi da quelli del numero di detenuti per metro quadrato ristretti in celle dove devono a volte restare sino a 22 ore giornaliere o di morti e di suicidi in carcere. Il tutto nel puntuale e continuo spregio della nostra Costituzione che, inascoltata, continua a parlare chiaro se solo volessimo davvero intendere. Guido Biancardi, esponente Radicali del Lodigiano Aderiscono: Danila Baldo, Tiziana Bassani, Maddalena Biancardi, Maria Grazia Borla, Alda Carisio, Laura Coci, Patrizia Faraoni, Andrea Ferrari, Mauro Giavarini, Grazia Grena, Giuseppe Lacchini, Maria Luisa Maiocchi, Francesca Riboni, Michela Sfondrini, Laura Steffenoni, Eugenio Trentin, Donatella Tresoldi Lettere: Roma…. storia da un carcere di Rosa Ana De Santis www.altrenotizie.org, 24 ottobre 2012 La scorsa settimana, la lettera di una giovane donna pubblicata sul sito online del Corriere della sera, ha raccontato di un arresto per detenzione di stupefacenti: cannabis preferita a Toradol e Valium. Le medicine che la giovane protagonista di questa storia è costretta a prendere da troppi anni per placare i dolori che le procura la neoplasia scheletrica che la affligge da quando era piccola e che l’ha resa ormai invalida. Il trattamento subìto dalla giovane donna malata é stato semplicemente disumano: le sono state tolte le stampelle e i lacci alle scarpe ed è stato un miracolo riuscire ad ottenere un water normale invece del bagno alla turca che le era stato imposto, difficilmente utilizzabile da una persona che da sola non può deambulare. Nessuna attenzione alla sua condizione di disabilità: la stessa latrina maleodorante riservata a tutti coloro che sono di passaggio per i più disparati reati. Non c’è stato lo scalpore che ci saremmo aspettati da una vicenda tanto scandalosa, se non l’estemporaneo tam tam che viaggia sul web. Eppure il trattamento offertole, invece che umano e relazionato con le sue condizioni, è stato caratterizzato da insensibilità, disprezzo per il suo stato e accanimento vero e proprio, al limite del sadismo. Le richieste di aiuto sono state ignorate durante tutta la notte della detenzione e la mattina seguente, durante il processo per direttissima, le denigrazioni sarebbero proseguite fino a rivendicare in aula la correttezza del trattamento impostole. Se non fosse stata colpevole di un reato non le sarebbe toccata la sorte che ha avuto, pensa il pm e gli addetti delle forze dell’ordine presenti. Pensare che il reato contestato non venga contestualizzato nella storia di questa disabile è non solo atroce sul piano umano, ma anche su quello strettamente tecnico-legale. Non serve chissà quale competenza tecnico-legale per cogliere le differenze tra un malato cronico che usa cannabis per lenire i dolori ed evitare un’intossicazione da farmaci allopatici e lo spacciatore o il consumatore abituale, verso i quali la normativa vigente vorrebbe porre l’azione repressiva. In Italia sono tante e in aumento le persone, tra cui i pazienti oncologici in fase terminale, che ricorrono ai benefici palliativi di questa sostanza (difficilissimo però ottenere i farmaci derivati dalla cannabis, come il nabilone per i malati di sclerosi multipla) e la sentenza di Reggio Calabria del 2002 per un uomo di 46 anni sieropositivo con marjuana e hashish ha in certa e ridotta misura fatto scuola nel merito. Moltissimi sono infatti i paesi che si sono adeguati a questa necessità terapeutica con appositi dispensari ospedalieri di cannabis per situazioni sotto stretto controllo medico. La denuncia di questa ragazza non è in ogni caso legata al reato contestatole, ma alle condizioni degradanti della sua detenzione che sono ingiuste in ogni caso, anche per i consumatori, e ancor più insopportabili per una persona afflitta da un handicap tanto grave. Basta questa notte, insieme ai tanti tragici epiloghi di molti detenuti, a capire bene in quale stato versino le carceri italiane. Non per tutti ovviamente. Come se il degrado umano fosse la prova di un regime di detenzione duro ed efficiente. Forse l’unica arma mediatica in mano ad un paese in cui l’impunità regna sovrana. Dove le condanne per reati minori non vengono trasformate in pene alternativa e rieducative. Come se la facile prigionia per uno spinello in più ci facesse sembrare un paese con il polso di ferro verso i colpevoli. Due detenuti su 3 sono malati nelle carceri dell’Emilia Romagna e sul resto del territorio le cose non vanno meglio. Sovraffollamento, water a vista, in 13 in una cella, malati compresi. Tra questi molti quelli in attesa di giudizio o messi dentro per reati minori con percentuali terribilmente in alto rispetto ai numeri dei paesi europei. Carceri da paesi in via di sviluppo e imperdonabile silenzio sull’urgenza di una riforma della Giustizia: invocata da tutti, ma mai messa in opera. È in questo limbo che la lentezza di un sistema poco efficiente garantisce all’Italia un buon primato sull’impunità. L’81% dei delitti denunciati rimane senza colpevole, il 96% dei furti altrettanto per non parlare della giustizia civile, o della corruzione o dei grandi reati di mafia e terrorismo. Bisognerebbe ripartire da qui e non rivendicare con orgoglio che una cella sia una latrina, che una prigioniera per giunta disabile sia umiliata per la sua disabilità. Mancano solo i ceppi di ferro alle caviglie dei prigionieri (tutti, quale che sia l’accusa) a renderci un paese pre illuministico. Dovrebbe insegnarci qualcosa la vicenda giudiziaria norvegese sul killer di Utoya o un po’ di scuola su qualche pagina sul valore rieducativo della pena. Non è una disabile lasciata senza stampelle o la colonna vertebrale rotta di Stefano Cucchi, per venire ad un’altra triste pagina della cronaca giudiziaria, a renderci un paese dall’ efficiente sistema giudiziario. Lo stesso paese che elogia e premia sui giornali l’atleta malato Oscar Pistorius, affetto dalla stessa patologia di questa detenuta, e che in un carcere ne umilia un’altra e arriva ad approfittare della sua vulnerabilità fisica solo perché accusata e condannata per un reato. Quando la giustizia si avvale di categorie primitive come questa allora essa è estinta, è caricaturale, è invertita. E non merita di essere annoverata nel sistema di civiltà che ha fatto grande la storia del diritto moderno europeo. Nuoro: Commissione Diritti umani del Senato a Badu e Carros “non può ospitare i 41bis” di Luciano Piras La Nuova Sardegna, 24 ottobre 2012 No: ora come ora non c’è alcuna possibilità che Badu e Carros diventi ancora una volta la Cayenna italiana. Antonio Iovine O Ninno, il boss dei Casalesi, resta l’unico caso di 41 bis in cella a Nuoro. Il penitenziario barbaricino non è idoneo né attrezzato ad accogliere detenuti sottoposti al regime di carcere duro. Tant’è che lo stesso camorrista è rinchiuso nella “ex porcilaia”, il vecchio “braccetto della morte” che nei primi anni Ottanta ha ospitato i padri dell Br, da Valerio Morucci ad Alberto Franceschini e Roberto Ognibene. “Il problema sono i detenuti della sezione AS1, ossia dell’Alta sicurezza” dice il parlamentare Silvestro Ladu (Pdl) all’uscita dal penitenziario nuorese, ieri mattina subito dopo la visita al carcere con la Commissione straordinaria del Senato per la tutela e la promozione dei diritti umani. Presente anche il presidente Pietro Marcenaro (Pd), due funzionari di Palazzo Madama, Giampaolo Cassitta in rappresentanza del provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Gianfranco De Gesu e il garante dei detenuti del Comune di Nuoro Gianfranco Oppo. Una visita, la loro, voluta e sollecitata dal senatore bittese-siniscolese, dopo il rincorrersi di voci, notizie e smentite sul futuro delle carceri isolane, di Badu ‘e Carros come del nuovissimo istituto di Tempio-Nuchis. “Abbiamo visto cose peggiori” sintetizza Marcenaro, per dire che tutto sommato la situazione di Nuoro è “abbastanza tranquilla”. “Il problema di Badu ‘e Carros - sottolinea - è che qui i detenuti ci stanno tutta la vita”. Pene a lungo termine, quelle da scontare nel vecchio supercarcere, pene pesantissime, e non soltanto come quelle sul groppone di Iovine. “Un uomo intelligente, uno che ha messo in conto tutto” dice Marcenaro, che ieri a Nuoro ha visto dritto negli occhi il boss della camorra. Sorvegliato a vista 24 ore su 24, super controllato, in una sezione, l’ex porcilaia, un paio di celle disponibili, dove anche il direttore del carcere Patrizia Incollu deve sottostare a verifiche e regole rigidissime. “Su 200-210 detenuti - va avanti Silvestro Ladu -, 22 sono considerati di alta pericolosità, AS1. Sono ex 41 bis, in sostanza. Tra questi ci sono anche studenti universitari che qui a Nuoro non possono certo portare a termine il corso di laurea. Sono tutti detenuti che arrivano da fuori, non sardi. È qui che sta la questione: perché e con quali criteri vengono spediti qui in Sardegna?”. Nel caso degli universitari, “hanno dovuto interrompere gli studi, e così, oggettivamente, gli stai facendo un danno, contro lo spirito della legge di riforma del sistema penitenziario” dice ancora Ladu. Che parla, ancora una volta, della territorializzazione della pena: a Badu ‘e Carros, i detenuti sardi sono appena il 40 per cento del totale dei reclusi. “È un problema che non riguarda soltanto i sardi” spiega il senatore. Basti pensare a quale odissea deve attraversare la mamma di un detenuto pugliese per arrivare a Nuoro e poter scambiare due parole con il figlio recluso. Stesso discorso, naturalmente, vale per i tanti sardi detenuti nella penisola, con un danno e un imbarbarimento a tutto svantaggio delle famiglie. “Lo stesso discorso si può fare per gli agenti di polizia penitenziaria” sottolinea Ladu. “A Nuoro, per esempio, l’organico è sotto di almeno 60 unità. Perché allora non riportare in Sardegna quegli agenti (e di conseguenza anche le loro famiglie) che altrimenti rischiano di invecchiare fuori dall’isola?”. Un cavallo di battaglia che ora passa al vaglio della Commissione diritti umani, chiamata a discutere di carceri sarde, comprese le questioni del personale civile sempre meno presente e di lavoro per i detenuti sempre più ridotto. Russo (Ugl): drammatiche le carenze di organico “Badu e Carros? Una volta il fiore all’occhiello dell’amministrazione penitenziaria. Ora una struttura in totale abbandono. Dove la polizia penitenziaria, a causa delle note e gravi carenze di organico, lavora in situazioni spesso oltre ogni limite di tollerabilità”. Così il segretario provinciale dell’Ugl Polizia penitenziaria Libero Russo (in servizio proprio a Badu e Carros), che ha accolto ieri con “soddisfazione e fiducia, ma anche delusione” la visita della commissione straordinaria del Senato nel carcere barbaricino. Soddisfazione per il fatto che da Roma si interessino ai problemi della struttura nuorese. E delusione: “nell’apprendere che la visita, programmata da una così autorevole commissione non si siano invitate le organizzazioni sindacali”. Motivo per cui Russo ha consegnato nelle mani del presidente una dura nota. “Nella visita che ha effettuato nella struttura che negli anni 80 ha ospitato i padri delle Brigate rosse - scrive Russo nel documento - avrà sicuramente notato lo stato in cui versa la struttura allo stato attuale, nonostante la pericolosità dei detenuti ospitati As1 e As3, certamente non siano da meno. La cosa che maggiormente ci preoccupa è la forte carenza d’organico che costringe questa direzione, a operare quasi sempre sotto la soglia minima di sicurezza”. “Certamente non ci rassicurano i tagli praticati da questo governo - spiega il segretario Ugl, che più di una volta ha denunciato le drammatiche carenze di personale, soprattutto nel braccio femminile -, soprattutto nel blocco del turn-over, anche in vista dell’apertura del nuovo padiglione dove non si conosce ne lo stato d’uso ne la tipologia di detenuti che ne dovrà ospitare”. Diritti umani, visita di due senatori al carcere di Nuchis Il presidente della commissione parlamentare per i diritti umani, Pietro Marcenaro (senatore del Pd) e il relatore Silvestro Ladu (senatore nuorese del Pdl), hanno effettuato, nel pomeriggio di ieri, una ispezione nel nuovo supercarcere di Nuchis. “La nostra commissione - ha spiegato Silvestro Ladu - ha programmato una serie di visite nelle carceri italiane per valutare lo stato di detenzione degli internati e verificare di persona le condizioni di lavoro da parte della polizia penitenziaria. Nuchis, ultima struttura aperta nel panorama carcerario nazionale, soffre di una scarsa presenza di agenti e quadri intermedi, mancano le strutture di ricreazione e, inoltre, è carente sotto il profilo del reinserimento. La presenza nel carcere di detenuti ad alta pericolosità è uno dei punti da noi preso in considerazione, anche perché dobbiamo ancora interpretare quale disegno è nelle menti dei responsabili del Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria”. La commissione, ieri mattina, aveva visitato anche il carcere nuorese di Badu è Carros. A Tempio i due senatori hanno incontrato i dirigenti della struttura penitenziaria e il rappresentante dell’Osapp , Giulio Santoru, segretario provinciale dell’organizzazione sindacale. Il quale ha messo in evidenza la carenza, nelle carceri di Nuchis e Sassari, di agenti della polizia penitenziaria, sottufficiali e ispettori. “Una situazione che, sinora - ha spiegato ai due parlamentari Giulio Santoru -, è stata sottovalutata dalla dirigenza regionale e nazionale. Per svolgere il nostro servizio dobbiamo effettuare turni massacranti, rinunciando a ferie e riposi”. I due parlamentari stanno predisponendo un dossier da inviare al ministero della Giustizia. Salerno: istituito Garante dei detenuti, Consiglio comunale ha approvato modifica statuto La Città, 24 ottobre 2012 Questa mattina il consiglio comunale ha approvato all’unanimità la modifica dello statuto comunale che prevede l’istituzione del “Garante dei detenuti”. Il Comune ha preso spunto da Bologna e dal suo statuto comunale, tra i più avanzati in Europa per quanto concerne i diritti delle persona ed in particolare delle persone private della libertà personale. La figura istituzionale del “garante dei diritti delle persone private della libertà personale”, va ad interagire istituzionalmente in primis con il sindaco, il consiglio e la giunta, su un piano di pesi e contrappesi tra le istituzioni. Salerno si mette dunque nella scia di Bologna e Pistoia, unici esempi in Italia che prevedano tale figura negli statuti comunali. Catania: Ugl; personale costretto a lavorare in condizioni di assoluto degrado e precarietà La Sicilia, 24 ottobre 2012 “Il personale di polizia penitenziaria, costretto a lavorare in condizioni di assoluto degrado e precarietà, è al collasso. Nella casa circondariale di contrada Noce, a Caltagirone, siamo ormai a un punto di non ritorno”. A lanciare l’Sos è l’Ugl-Polizia penitenziaria, con il suo segretario regionale Francesco D’Antoni. “Fare fronte a turni con sole tre unità in servizio, a fronte di 260/270 detenuti e sei reparti detentivi, ha dell’inverosimile. Agli agenti viene assegnata la vigilanza e l’osservazione di più piani che, per come sono strutturati, non possono essere controllati da un solo addetto. Spesso essi sono costretti a espletare funzioni di qualifiche inferiori per garantire una sorta di continuità nel reparto di prima accoglienza-accettazione. Senza dimenticare l’accumulo di pratiche arretrate negli uffici e la pesante situazione di sotto organico della sezione distaccata del nucleo”. D’Antoni si rivolge ai vertici regionali dell’Amministrazione penitenziaria: “L’apertura di Gela, struttura voluta all’interno del piano svuota-carceri, ma al di là di ogni sana logica di assegnazione bilanciata di personale, ha determinato l’implosione degli istituti vicini come Caltagirone e Piazza Armerina, dove i problemi di carenza organica si sono accentuati”. Dieci i problemi sollevati dall’Ugl-Polizia penitenziaria e posti all’attenzione delle autorità competenti: “Oltre alla carenza di personale - afferma il segretario regionale del sindacato - per la quale si sta cercando una soluzione, stigmatizziamo il mancato rientro dei “distaccati”, l’inefficienza dei sistemi di videosorveglianza, allarme antintrusione e anti scavalcamento, l’impossibilità di organizzare una pur minima sorveglianza esterna, l’insufficiente illuminazione interna ed esterna, l’interruzione dei collegamenti telefonici, le infiltrazioni d’acqua piovana, con la conseguenza che è sufficiente una pioggerellina perché il carcere diventi un colabrodo, l’assenza di tettoia all’ingresso dell’istituto, il cattivo funzionamento della cucina dei detenuti e il mancato pagamento degli straordinari al personale, a cui si aggiunge l’insufficiente monte ore assegnato quando invece si sapeva che, da gennaio 2012, si effettua a tutto regime il terzo turno”. Sin qui le dichiarazioni di Francesco D’Antoni, che individua una parziale soluzione nella sostituzione, all’interno delle carceri (fra cui quello di Caltagirone) che ne sono rimasti sforniti, dei 46 agenti approdati in via straordinaria nel nuovo carcere di Gela. “Si tratta di problemi sotto gli occhi di tutti - afferma sull’argomento il direttore dell’istituto calatino, Valerio Pappalardo - che ho più volte segnalato. Certo che, in un quadro già difficile e complesso, gli ulteriori tagli al sistema penitenziario rendono ancora più grave la situazione”. Bologna: Coro detenuti porta città dentro la Dozza, il 10 novembre prima esibizione Redattore Sociale, 24 ottobre 2012 Si svolgerà nella Chiesa Nuova della Casa circondariale bolognese il primo concerto pubblico del Coro Papageno, costituito da detenuti e creato dall’Orchestra Mozart. Portare i valori intrinseci del canto corale, come l’ascolto reciproco, lo stare insieme, la condivisione, all’interno del carcere. Questi gli scopi del Progetto Papageno, nato nell’ottobre del 2011 all’interno della Casa Circondariale Dozza. Il coro Papageno, costituito dai detenuti della Dozza, diretto da Michele Napolitano, e arricchito dai 30 volontari dei cori amatoriali Mikrokosmos e Ad Maiora, si esibirà per la prima volta in pubblico in un concerto che si terrà sabato 10 novembre, alle ore 15, all’interno del carcere bolognese. Il concerto vedrà la partecipazione di un quartetto d’archi formato dai giovani musicisti dell’Orchestra Mozart, e saranno eseguite musiche di Bach, Mozart e una selezione di canti tradizionali. “Quando si è cominciato a parlare di questo progetto l’idea è piaciuta subito, e da subito si è riconosciuto il suo valore educativo - dice la direttrice del carcere Ione Toccafondi - Sicuramente iniziative come questa sono possibili anche grazie a un netto miglioramento delle condizioni di sovraffollamento all’interno della struttura. Finalmente possiamo mostrare alla città di Bologna cosa siamo in grado di produrre”. A ottobre, infatti, i detenuti presenti alla Dozza erano 880, per una capienza di 473 posti, contro gli oltre 1.000 di qualche mese fa. I detenuti che hanno aderito al Progetto Papageno, 37 in tutto (di cui 25 uomini e 12 donne totalmente digiuni di teoria musicale), si ritrovano settimanalmente nella cappella della sezione penale maschile e nella chiesa di quella femminile, per seguire le lezioni di Michele Napolitano. I partecipanti sono quindi coinvolti in maniera attiva e articolata attraverso un percorso educativo e formativo. I detenuti hanno presto dimostrato una convinta partecipazione, animata dalla volontà di prendere parte a un’attività che richiede impegno, costanza e concentrazione. “Prima d’ora, non mi sono mai interessato alla musica - dice F., detenuto - non lo so quanto sono bravo, ma so dire che mi piace tanto. Aspetto con molto piacere il mercoledì per stare tutti assieme, cantare ed esprimere assieme a voi la mia voce che non conoscevo”. “Ho notato in questo anno di vita del progetto un grande impegno da parte dei detenuti al confronto e all’ascolto - continua Toccafondi. La compresenza di uomini e donne ha portato delle difficoltà di gestione interna, ma è stata comunque un’esperienza esaltante, che i detenuti hanno molto apprezzato”. Un aspetto innovativo di questa iniziativa è la possibilità di unire i gruppi maschili e femminili in occasione delle prove mensili del sabato mattina, alle quali partecipano anche i coristi volontari esterni. Inoltre, il concerto del 10 novembre sarà il primo a pagamento (20 euro il prezzo del biglietto, disponibile presso Bologna Welcome) a svolgersi pubblicamente all’interno di un carcere. “Ho assistito al primo concerto del Coro Papageno, che si è tenuto a giugno alla presenza solo del personale carcerario - dice Amelia Frascaroli, Assessore ai Servizi Sociali del Comune di Bologna - È stata un’esperienza straordinaria, non si capiva chi stava dentro e chi fuori. Ho avuto modo di assistere a diversità che si mischiano all’interno di quello che non è solo un evento, ma un vero e proprio percorso di ascolto reciproco, sintonia e recupero delle relazioni umane. L’amministrazione farà di tutto per dare visibilità al progetto, perché spesso luoghi difficili come il carcere non creano solo difficoltà, ma sanno esprimere anche ricchezze nascoste”. Lanciano (Ch): mostra di graffiti nel carcere… se l’arte riaccende la speranza di Francesco Lo Piccolo (Direttore di “Voci di dentro”) www.huffingtonpost.it, 24 ottobre 2012 “L’arte riaccende la speranza” è il titolo di una bella mostra di graffiti presentata qualche giorno fa nel carcere di Lanciano: otto murales realizzati da un gruppo di artisti, un assistente di polizia e da tre detenuti che hanno trasformato corridoi e mura in un pezzo di paesaggio urbano fatto di palazzi, gru, arcobaleni, mongolfiere, aerei, la statua della Libertà, un suonatore di sax davanti a un cielo in fiamme... Un paesaggio immaginario costruito anche con tag e stencil che ha rotto lo spazio finito e sempre uguale fatto di cubi e segmenti chiusi e mostrato lo spazio aperto, un mondo a colori, l’orizzonte. Insomma la speranza, ben visibile - oltre che nei temi scelti e negli spiragli dei cieli stellati - negli occhi dei pittori-detenuti che hanno partecipato alla manifestazione. La stessa speranza che ritrovi in ogni carcere e in ogni persona che sta facendo qualcosa: la puoi trovare nelle persone che fanno teatro e l’ho vista con i miei occhi nel sorriso di Giovanni, Nicola, Angela, Cristian; nei testi o nelle poesie dei tanti che si dedicano alla scrittura (e qui penso a Giuseppe, Antonio, Sonia, Sandrina); negli adulti con le stigmate del galeotto che ritornano in un’aula scolastica per la licenza media o elementare; tra chi ha un lavoro vero che non sia lo scopino o lo spesino. La speranza che ho visto nelle lacrime di un’ educatrice di Teramo durante la cerimonia di premiazione di alcuni detenuti poeti. La speranza perché non sei un numero, ma una persona. Ma... è una speranza che dentro le carceri italiane resta circoscritta a pochi: come ha rivelato Nicola Boscoletto (consorzio Rebus) al convegno di Padova col ministro Severino, sono solo 901 su un totale di 66.897 quelli che lavorano per conto di imprese o coop esterne assunti grazie agli incentivi della legge Smuraglia (516 euro di credito d’imposta per ogni detenuto e riduzione dell’80 per cento dei contributi); ed ancora: sono stati solo 3.864 (dati 2009, fonte Ministero della Giustizia) quelli che in carcere si sono iscritti a un corso professionale... e non tutti l’hanno concluso. Per il resto, a parte il lavoro dei volontari per altro limitato a pochi mesi all’anno e poche ore al giorno e non tutti i giorni, la gran parte dei detenuti vive nell’ozio, indigenti, alcuni (soprattutto stranieri) in magliette estive e infradito anche quando fuori c’è la neve. Un esercito di poveri, meridionali, moltissimi figli e parenti di detenuti, che non possono fare altro che sognare ad occhi aperti in branda con gli occhi al soffitto o alla rete metallica che gli sta sopra e sulla quale un altro uguale sta facendo la stessa cosa. Perché il carcere è strapieno di gente che va ed esce anche per pochi giorni; perché non ci sono soldi, o meglio perché i soldi sono stati spesi male visto che per 14 braccialetti elettronici sono stati pagati 100 milioni come se fossero gioielli di Bulgari o Cartier; perché gli agenti impegnati nella sorveglianza sono sempre meno e costretti a turni massacranti; perché ogni giorno si gettano migliaia di euro tra spese di trasferte, carburante e altro per portare i detenuti da una città all’altra per partecipare ai processi che poi magari vengono rinviati. Immigrazione: reclusi e dimenticati nell’inferno di via Corelli di Giuseppe Vespo L’Unità, 24 ottobre 2012 Le condizioni di vita nel Cie milanese raccontate dai testimoni al processo per i disordini. Là tv e il distributore di snack della “sala Benessere” sono protetti da reti metalliche, così come le finestre delle stanze che hanno le sbarre. I cortili non hanno alberi né panchine, solo cemento, ed è impossibile vedere fuori. L’edificio è di un piano: all’ingresso un corridoio porta agli uffici della Croce Rossa, seguiti dall’infermeria e da alcune stanze utilizzate per le procedure d’ingresso dei trattenuti. Dal corridoio centrale si accede ai raggi: cinque sezioni separate tra loro da porte in ferro. “Forse la parte migliore” è la sala colloqui, arredata con un banco, un tavolo e alcune sedie. La peggiore sono i bagni: perdite d’acqua e toilette senza tazza. “E una delle cose che più mi hanno colpita, anche perché io sono abituata a vedere le carceri e non ho mai visto bagni del genere”. A parlare è Chiara Cremonesi, consigliera regionale lombarda di Sel. Descrive lo stato del Cie, il Centro di identificazione ed espulsione, di via Corelli a Milano ma lo fa sotto giuramento, come testimone della difesa in un processo che si è concluso il 18 luglio e le cui motivazioni sono state appena depositate. Il 15 gennaio dal Centro di via Corelli si sono levate le fiamme di un incendio. In otto sono stati accusati di devastazione, danneggiamento e incendio, reati poi riqualificati nei soli danneggiamenti, per i quali sette degli otto tunisini imputati, assistiti dai legali Eugenio Losco e Mauro Straini, sono stati condannati. Ma sono comunque fortunati: con l’accusa di devastazione rischiavano una pena massima fino a 15 anni. Al di là delle responsabilità accertate dal collegio dei giudici, presieduto da Ilio Mannucci, le motivazioni alla sentenza per la prima volta ricostruiscono pezzi di vita all’interno del Cie. In via Corelli, a differenza di quanto avviene nelle carceri, i parlamentari e i consiglieri regionali devono annunciare la propria visita: l’accesso, dice Cremonesi, “prevede una sorta di autorizzazione da parte della Prefettura”. La consigliera di Sel non è l’unica a raccontare ciò che ha visto. Ilaria Silvia Scovazzi fa parte di un’associazione che si occupa di diritti degli immigrati. Nella sua testimonianza ricorda: “Altri ragazzi portavano segni di tentativi di impiccagione, e quindi segni visibili sul collo di corde o cinture, che hanno utilizzato per richiamare l’attenzione sulla propria situazione”. Alessandra Naldi, di Antigone Lombardia, chiamata a testimoniare, parla della “totale assenza di cura e attenzione alla persona”: “in carcere - dice Naldi ai giudici -qualcosa si fa, c’è l’attesa dei colloqui, lì la sensazione che tutto al di là di quelle sbarre fosse abbandonato a se stesso (...) che la vita di quelle persone fosse lasciata al loro destino, senza regole, senza un ritmo che scandisse la giornata, senza controlli, senza contatti con l’esterno”. Dalle motivazioni alla sentenza è emerso inoltre che i trattenuti all’interno del Cie dall’ottobre del 2010 per ordine prefettizio non possono tenere e usare telefoni cellulari. Regola che, stavolta secondo i giudici di Milano, “ha determinato una consistente contrazione della libertà di comunicazione senza che appaiano evidenti le ragioni della sua utilità e ragionevolezza”. Nel caso dei danneggiamenti al Centro di via Corelli, i magistrati fanno notare che “la reazione messa in atto dagli imputati” è “caratterizzata da significativa gravità”, ma allo stesso tempo il “contesto”, ossia le condizioni in cui si trovano nel Cie, è “oggettivamente caratterizzato da consistenti limitazioni della libertà personale e come tale vissuto dagli imputati”. Gran Bretagna: rapporto choc; in 10 anni 191 “under 25” si sono suicidati nelle carceri di Francesca Marretta www.globalist.it, 24 ottobre 2012 Centonovantuno giovani sotto i venticinque anni, molti dei quali minori, si sono suicidati nelle carceri del Regno Unito negli ultimi dieci anni per pura negligenza delle istituzioni. Un rapporto appena pubblicato dalla Onlus “Prison Reform Trust” denuncia il “fallimento sistematico” delle istituzioni nel prevenire le morti nei penitenziari. La stragrande maggioranza dei giovani e giovanissimi suicidi proviene da ambienti difficili. Ragazzi con problemi psicologici accertati da assistenti sociali. Lo studio parla di responsabilità precise dei sistemi carcerario, giudiziario e assistenziale per la mancata prevenzione delle morti giovanili nelle carceri. Se lo stesso numero di suicidi avvenisse nelle università o a scuola, sdegno e preoccupazione collettiva solleverebbero un caso nazionale. I morti in carcere se ne sono invece andati senza lasciare traccia, nell’indifferenza generale, cosa che amplifica il dolore di genitori, fratelli e amici di chi si suicida. Yvonne Bailey, madre di Joseph Scholes impiccatosi a 16 anni il 24 marzo del 2002, chiede un’inchiesta pubblica su questa situazione, certo scomoda per il governo di Londra. Al momento del suicidio Joseph Sholes era in carcere da nove giorni per furto, con una sentenza di due anni. A dieci anni dalla scomparsa di suo figlio, Yvonne Bailey si dice “intristita e perplessa dal continuo e ripetuto rifiuto di indagare sulle circostanze che hanno portato al suicidio di detenuti bambini da parte dei governi che si sono succeduti”. Joseph, racconta sua madre, è morto solo e impaurito, penzolando da una finestra della sua cella. Una portavoce del Ministero della Giustizia, commentando la situazione illustrata dal rapporto, ha dichiarato: “Ogni morte in carcere è una tragedia per famiglie e amici e ha un effetto profondo sul personale carcerario e gli altri detenuti. I giovani in custodia sono tra i più vulnerabili della società e la loro sicurezza è la nostra maggiore priorità”. Ma l’inchiesta di “Prison Reform Trust” dice il contrario. Afferma che la sicurezza dei ragazzini vulnerabili al punto da togliersi la vita non è stata una priorità delle istituzioni di questo paese. Lo dice da dieci anni anche la mamma di Joseph Scholes. Sarà ora di mettere mano a questa situazione? Siamo, dopotutto, in uno dei paesi più civili al mondo. Siria: detenuti politici in rivolta nel carcere di Homs, protestano perché esclusi da amnistia Aki, 24 ottobre 2012 Nel carcere centrale di Homs è in corso una rivolta dei detenuti politici, che sono circa 1.700. Lo riferiscono attivisti e oppositori politici siriani, secondo cui all’origine della sollevazione vi è il fatto di essere stati esclusi dall’amnistia generale annunciata ieri dal presidente siriano Bashar al-Assad. Stando agli attivisti, i detenuti hanno preso il controllo totale del penitenziario e della sua radio, ma si teme che le autorità siriane possano commettere una strage per sedare la rivolta. Le fonti riferiscono che i detenuti hanno intrapreso uno sciopero generale della fame dopo la notizia dell’amnistia che include i criminali e i narcotrafficanti, ma non i prigionieri politici. Altri hanno preso d’assalto le porte interne del carcere e si sono riversati nei cortili per poi prendere il controllo delle altre sezioni dell’edificio, compresa la radio, e tutto questo senza fare ricorso alla violenza. Come spiega Naji Tayyara, membro del Consiglio nazionale siriano (Cns), uno dei principali raggruppamenti dell’opposizione siriana, “i detenuti politici nel carcere di Homs sono circa 1.700, con oscillazioni di 200 prigionieri al giorno circa a causa dei trasferimenti”. Quanto ai motivi dello sciopero della fame, Tayyara sottolinea che “la direzione del carcere trasmette i dossier dei detenuti al nuovo tribunale per il terrorismo creato di recente a Damasco, senza che questi possano incontrare un giudice e difendersi dalle accuse”. Inoltre, gli internati chiedono “un miglioramento delle condizioni di detenzione, che sono pessime e disumane”. Basti pensare che “i feriti e i malati vengono abbandonati a se stessi e lasciati senza cure”, oltre alle “torture, alle percosse e al sequestro di tutto ciò che le famiglie inviano loro”. Questa mattina “le guardie carcerarie hanno cercato di indurre alcuni detenuti per crimini a scontrarsi con quelli politici, ma i comitati interni dei carcerati si sono coordinati in modo tale da prendere il controllo totale del carcere con una mobilitazione pacifica”, racconta Tayyara. Allo stesso tempo, le guardie “hanno accerchiato il cortile esterno che dà sull’ingresso principale del carcere e sparano”. L’oppositore precisa che “nel carcere vi sono oltre 80 persone in età avanzata e più di 100 donne” e che la recente amnistia del presidente “non include nessuno di questi 1.700 detenuti d’opinione”. Al momento “non vi sono notizie di eventuali morti o feriti”, conclude. Questa è almeno la quarta rivolta cui si assiste nel carcere di Homs. Ogni volta l’insurrezione è stata placata tramite negoziati tra detenuti e una commissione politica, militare o di sicurezza, che faceva promesse senza mai mantenerle. Turchia: prigionieri kurdi in sciopero fame, per colloquio tra Ocalan e suo avvocato Tm News, 24 ottobre 2012 Centinaia di prigionieri sono in sciopero della fame, alcuni sin dal 12 settembre, in decine di carceri della Turchia. I detenuti protestano contro il rifiuto delle autorità di Ankara di autorizzare colloqui tra Abdullah Ocalan, leader del Partito dei lavoratori del Kurdistan, e il suo avvocato. Chiedono inoltre di poter usare la loro madrelingua curda nella sfera pubblica e nel campo dell’istruzione. Lo sciopero della fame è una protesta pacifica e le autorità della Turchia hanno il dovere di rispettare il diritto alla libertà d’espressione dei prigionieri, compreso il diritto a protestare in tale forma. Amnesty International si è detta preoccupata per le notizie secondo le quali prigionieri in sciopero della fame nelle carceri di Silivri e Sakran sono stati posti in isolamento e che in quella di Tekirdag le guardie carcerarie hanno sottoposto a maltrattamenti chi sta prendendo parte alla protesta. Le autorità penitenziarie avrebbero inoltre, in alcuni casi, limitato l’accesso ad acqua, zucchero, sale, vitamine e altre sostanze che vengono aggiunte all’acqua assunta dai prigionieri in sciopero della fame. Amnesty International ha sollecitato le autorità turche a garantire che non saranno prese misure punitive nei confronti dei prigionieri in sciopero della fame e che sia rispettato il divieto assoluto di tortura e di altri maltrattamenti. Ha inoltre chiesto che i prigionieri in sciopero della fame abbiano adeguato accesso a personale medico qualificato e a ogni trattamento di cui abbiano bisogno. Infine, ha preteso l’avvio di indagini immediate, approfondite, imparziali ed efficaci su tutte le denunce di punizioni e maltrattamenti inflitti a detenuti in sciopero della fame. Sciopero della fame anche dei rifugiati kurdi a Roma L’azione è stata decisa per sostenere la protesta dei detenuti politici in atto da più di 40 giorni all´interno delle carceri turche. Qui centinaia di detenuti, per la maggior parte kurdi, hanno dato inizio il 12 settembre 2012 ad uno sciopero della fame a tempo indeterminato per chiedere l´eliminazione degli ostacoli riguardanti l´istruzione scolastica e la possibilità di difesa durante i processi nella propria lingua madre, il rispetto dei diritti democratici della popolazione kurda e la libertà del loro leader, Abdullah Öcalan, come percorso verso una soluzione pacifica della questione kurda in Turchia. Gli aderenti alla protesta stanno rapidamente aumentando, prendendo così parte all’azione numericamente più grande della storia di questo paese. Le loro condizioni di salute si stanno rapidamente deteriorando ed attualmente sfiorano il punto di non-ritorno, nell’assordante silenzio dei mass-media e dell’opinione pubblica internazionale. La chiusura al negoziato decisa dal governo ha causato una profonda crisi. Le migliaia di arresti di rappresentanti kurdi, inclusi parlamentari, sindaci, membri dei consigli cittadini, giornalisti, sindacalisti, studenti e molti altri attivisti della società civile si sono tramutate in un vero e proprio massacro politico. A nulla sono valsi finora gli appelli per i negoziati finalizzati alla soluzione della questione kurda, che deve imprescindibilmente includere Abdullah Öcalan, detenuto da tredici anni sull’isola-prigione di Imral e da quindici mesi in completo isolamento. I rifugiati kurdi a Roma intendono, tramite questa azione di sostegno simbolica, sensibilizzare l’opinione pubblica ed invitarla ad esprimere il proprio sostegno alle richieste degli scioperanti. E´ compito di qualsiasi essere umano non rimanere in silenzio riguardo allo sciopero della fame in corso. Il 23 e 24 ottobre, in Largo S. Giovanni de Matha (Roma, zona Trastevere) dalle ore 9.00 alle 13.00 si terranno degli incontri informativi e una raccolta firme a sostegno dei prigionieri politici kurdi rinchiusi nelle carceri turche. Serbia: ministro Giustizia, no ad amnistia per reati più gravi Nova, 24 ottobre 2012 La Serbia ha bisogno di un’amnistia per ridurre il sovraffollamento delle carceri ormai diventato insopportabile, ma il provvedimento non andrebbe comunque applicato ai reati più gravi. Lo ha dichiarato il ministro della Giustizia serbo, Nikola Selakovic, nel corso della seduta parlamentare odierna in cui l’assemblea chiamata a valutare la proposta di amnistia preparata dal ministero di Grazia e Giustizia. Se il provvedimento venisse approvato, ha osservato Selakovic, a beneficiarne sarebbero 3600 carcerati, e per 1100 di questi scatterebbe il rilascio immediato. Il budget dello stato, ha proseguito il ministro, vedrebbe contemporaneamente una riduzione delle spese di circa 127 milioni di dinari (pari a 1,134 milioni di euro), che in una previsione a lungo termine diventerebbe di 800 milioni di dinari (7,143 milioni di euro). “Le soluzioni proposte - ha aggiunto - cambiano lo status dei carcerati, perché sono cambiate anche le condizioni del contesto sociale. Ecco perché chiediamo un’amnistia”. Tra i casi che non verrebbero beneficiati, ha precisato infine Selakovic, ci sono i crimini contro l’umanità, i casi più gravi di violenza domestica, il narcotraffico e il crimine organizzato. Birmania: James MacKay fotografa detenuti politici usciti dalle prigioni www.ilpost.it, 24 ottobre 2012 Negli ultimi mesi il governo della Birmania, guidato dal presidente Thein Sein, ha concesso l’amnistia a migliaia di persone detenute, e tra queste molte erano rinchiuse per motivi politici. Queste decisioni, parte di un grande e sorprendente processo di trasformazione della Birmania, stanno portando alla luce le storie di numerosi ex prigionieri politici, tra cui monaci, studenti, giornalisti, avvocati, membri del parlamento e del partito di opposizione guidato da Aung San Suu Kyi, la Lega nazionale per la democrazia. Il fotografo britannico James MacKay, che vive tra la Birmania e il Regno Unito, dal 2009 racconta le storie di queste persone attraverso dei particolari ritratti fotografici. Il progetto si chiama Abhaya: Burmàs Fearlessness e l’idea è che i soggetti diventino fisicamente portatori di un messaggio di pace e resistenza: sono rivolti verso la macchina fotografica e sulla loro mano è scritto il nome di un altro detenuto politico, in nome della solidarietà che li unisce. Il gesto - la mano con il palmo steso e rivolto verso l’obiettivo - viene chiamato Mudra e in varie religioni viene usato per ottenere benefici sul piano fisico, energetico e spirituale. In questo caso la posa della mano rappresenta la posizione Abhaya, che significa coraggio. James MacKay lavora come fotografo soprattutto nel sud est asiatico. Sul suo sito si possono vedere molti suoi reportage. Negli anni ha pubblicato le sue foto su diversi giornali e magazine come Time, Newsweek, New York Times, Independent, Le Monde, Guardian, The Bangkok Post, The Irrawaddy, Vogue Japan, Vogue Uk e Dazed & Confused. Le sue foto sono state pubblicate anche nei materiali di Human Rights Watch e Amnesty International. Il progetto Abhaya: Burmàs Fearlessness nel 2011 è diventato un libro che raccoglie le fotografie migliori e che contiene una prefazione scritta da Aung San Suu Kyi.