Giustizia: carceri e suicidi… i carnefici consapevoli di Maurizio Vecchio www.agoravox.it, 19 ottobre 2012 Un atto come quello del suicidio è spesso l’epilogo di una ferita alla dignità dell’individuo. L’ultimo suicidio in ordine di tempo è accaduto a Poggioreale. I compagni di cella hanno riferito di locali pieni di formiche e blatte. Ma la stessa disperazione è uguale a molti altri casi. Seppure l’amnistia è diventata necessaria ed irrinunciabile (preso atto del livello di emergenza) è precisa responsabilità di tutti gli operatori ricercare una soluzione stabile nel tempo al sovraffollamento delle carceri. Esiste la soluzione, ma viene ignorata: probabilmente per convenienza. Il suicidio è il gesto estremo di un individuo. Declina la parola “fine” in tutti i suoi possibili significati e non lascia spazio ad ambiguità. Ma pure la “reazione al suicidio” è altrettanto estrema: lo rifiutiamo. O meglio rifiutiamo di condurre a razionalità un evento che irrazionalmente “non vogliamo conoscere”. Ciò che le neuroscienze classifica come Tabù. Ma questa è solo la comprensibile reazione istintuale dell’uomo-animale, non certo quella che dovrebbe essere propria di una “specie” che evolve verso la conoscenza. Diversamente ci saremmo arresi alla natura soprannaturale del fulmine. Di fronte ad un suicidio la nostra immediata considerazione suona sempre in questi termini: “Chi lo può dire cos’è successo, può essere stato un raptus, un momento di totale perdita del controllo. Una fatalità”. Il raptus è certamente un evento che la scienza psichiatrica prende in seria considerazione, ma nella nostra “ignoranza” scientifica pretendiamo che esso sia sempre una parentesi, autonoma, che chiude una vita “normale e patologica” per aprire la porta della morte. Ecco un ulteriore segnale dell’irrazionale “Rifiuto” all’evento, piuttosto che un ragionamento coerente alla realtà. Il tema è motivo di riflessione perché è ormai cronaca quotidiana il suicidio dell’imprenditore, come quello dell’operaio disoccupato o del clochard “suo malgrado” (posto che possano esistere consapevoli scelte di emarginazione). Così come ormai è entrata nel novero dell’ordinario il suicidio quasi quotidiano dentro le mura di un carcere. Limitandoci a grattare solo il primo strato di crosta possiamo scoprire che per queste persone, evidentemente, il valore della loro dignità persa e calpestata è certamente maggiore del denaro e della loro stessa sopravvivenza. Ma questo è solo il primo strato di ruggine che si è formato tra la realtà e le coscienze di ciascuno. La dignità è un bene, un valore che appartiene all’essere stesso del soggetto, tutelato dalla Costituzione e delle Convenzioni Internazionali. Ledere la dignità di una donna o di un uomo equivale, come effetto, ad un colpo di pistola o ad una coltellata. L’unica differenza è la parte che subisce la ferita: in un caso la sfera psichica; nell’altro quella fisica. Per qualcuno, poi, quella lesione alla sfera psichica può essere così devastante, magari per una predisposizione genetica o altri fattori concomitanti, da condurlo al suicidio. Chi si è trovato un tumore al polmone per aver respirato dall’età quindici anni polvere di amianto è stato considerato vittima di un reato anche se fumava e conduceva una vita scarsamente sana. Si chiama “nesso di causalità” ed è scritto nel nostro codice penale: “Le cause preesistenti, simultanee e sopravvenute… non escludono il nesso di causalità fra omissione ed evento”. Ma a guardare la cronaca giudiziaria - come pure le statistiche giudiziarie - non sembra proprio che quei soggetti privati di ogni dignità abbiano diritto di avere un colpevole per la ferita ricevuta. Non mi sorprenderei se qualcuno affermasse: “Ma non possiamo mica pensare che Equitalia sia responsabile della morte di un imprenditore che si è tolto la vita”. Per la verità qualcosa di contrario l’ha proprio detto il più alto dirigente dell’Agenzia delle Entrate: “Dobbiamo fare attenzione ed ascoltare”. La migliore traduzione per la coscienza dovrebbe avere un altro suono: se le nostre azioni sono responsabili potremmo evitare certi fatti. Ma se si intende realmente comprendere la gravità della situazione e cosa vuol dire “suicidio” è necessario “scendere” verso gli inferi. Nel mondo dove la dignità non abita e non ha mai abitato: il Carcere. L’ultimo suicidio, in ordine di tempo, è avvenuto a Poggioreale. I quotidiani on line hanno raccontato le condizioni di detenzione di quell’uomo: una cella di sedici metri quadrati per nove persone, un unico gabinetto dietro un muretto dove ci si andava con un ombrello per evitare che in testa cadesse l’acqua che perdeva dall’alto ed i relativi calcinacci. Tale perdita allagava completamente il pavimento e quindi la cella doveva essere condivisa con formiche e blatte, costringendo i “delinquenti” a prepararsi e scaldarsi il cibo sul letto. In molte carceri italiane un momento di conforto ai detenuti è dato dai gatti. Si infilano agevolmente tra le sbarre e, soprattutto, tengono lontani i topi. “Attenzione”, “cura” e “responsabilità” dovrebbero contraddistinguere l’attività di coloro che per legge assumono un dovere di tutela e non si tratta di un significato etico, ma di un concreto valore giuridico. L’elenco delle disattenzione, dell’incuria e dell’irresponsabilità è infinito. Esiste un Ministero della Giustizia che è organizzato in Dipartimenti che specificatamente si occupano dei profili di organizzazione e gestione delle Carceri. I dirigenti responsabili sono perfettamente consapevoli della situazione e loro, o i soggetti a ciò delegati, avrebbero il dovere di intervenire affinché le condizioni di vita dentro gli Istituti siano rispettose della salute e dell’igiene delle persone ivi rinchiuse. Ancora prima della loro dignità. Queste persone sono consapevoli che l’intero personale degli agenti di custodia è insufficiente ed inadeguato. E sono altrettanto consapevoli che turni massacranti e stressanti logorano le capacità psichiche di “tenuta” con tutte le conseguenze che ne possono derivare. Una conoscenza, altrettanto completa, è propria dei Direttori delle Carceri e dei Magistrati di Sorveglianza (le cui funzioni sono di evidenza nel nome stesso). È doveroso pretendere, in capo al soggetto che assume di aver fatto tutto ciò che era nelle sue possibilità, un gesto di precisa e concreta “dissociazione” di fronte alle morti che quelle situazioni determinano. Mai nessuno si è, però, dimesso per questi motivi. Non minori le responsabilità della politica. Quella di oggi come l’azione della precedente. L’irresponsabilità è, in questo caso, assoluta. Una tale emergenza si deve affrontare con un provvedimento di amnistia ed indulto. Ma non basta! Tra pochi anni sarà necessario un altro provvedimento di clemenza. Naturalmente un tale argomento è ignorato dal Parlamento ed a maggior ragione è escluso dal novero delle “promesse elettorali”. Sarebbe impopolare! O meglio: rischia di spostare le intenzioni di voto! Ed intanto qualcuno si impicca tra blatte e formiche. Affinché venisse deciso l’ultimo provvedimento di indulto (2006) fu necessario l’intervento, davanti alle Camere riunite, di un Capo di Stato Estero: il Papa. Se lo chiede il Papa nessun potenziale elettorale può assegnare colpe e far perdere voti. Lo stesso vale per ciò che è necessario fare per evitare il ripetersi di tale insostenibile situazione. Anzi peggio, perché nemmeno il Padre Eterno riuscirebbe a convincere la nomenclatura politica a riformare giustizia e sistema penitenziario. La legalizzazione o somministrazione controllata delle droghe pesanti avrebbe, ad esempio, numerosi vantaggi. Innanzitutto un duro colpo al mercato illegale in mano alle organizzazioni criminali. In secondo luogo una drastica contrazione di tutti quei reati legati alla tossicodipendenza: furti, scippi, rapine. Non ultimo la correlativa liberazione di risorse nella Giustizia che risulterebbe meno gravata di lavoro. Sono però più numerosi gli svantaggi. Tutti i politici, amministratori locali e dirigenti pubblici in qualche modo onerati di un debito di riconoscenza verso le organizzazioni criminali, ne patirebbero un ingente danno. Immaginate una cosa simile a Catanzaro prima del commissariamento. Poi tutti coloro - tra i quali comprendere oltre uomini politici anche ministri di culto - che ritengono inammissibile lo “stato spacciatore” che incentiva l’uso della “droga tra i giovani”. Al di là del merito della questione (l’Olanda e gli altri Stati che agiscono in tale direzione hanno ottenuto risultati opposti) viene naturale chiedersi come mai questi personaggi non abbiano nulla da dire - ed anzi sono concorsi alla loro approvazione - sulle norme che prevedono uno “Stato biscazziere/casino”, che non vieta la vendita delle sigarette, che non interviene per decenni su industrie che hanno inquinato e seminato morti atroci. Ciò senza considerare che il mantenimento di una normativa, come quella attuale in materia di droga, è fonte di guadagno, lecito, per un numero elevato di persone. Le Comunità Terapeutiche organizzate come vere e proprie multinazionali (che dovrebbero essere, invece, drasticamente ridotte a seguito di un intervento di legalizzazione); il numero elevatissimo di avvocati ai quali si è consentito l’accesso alla professione che, correttamente, assumono la difesa di persone prive di reddito ed i cui costi sono, quindi, sostenuti dallo Stato. Oltre ad una macchina amministrativa, intrisa di burocrazia, che entra in azione allorché il tossicodipendente viene fermato con una dose personale e non penalmente rilevante. Un tale provvedimento, ben più di una amnistia, consentirebbe un rapido calo del numero dei detenuti che non avrebbero, inoltre, necessità di tornare a delinquere per procurarsi la sostanza stupefacente. Forse sarebbe anche opportuno ripensare alla funzione della pena detentiva ed alla sua concreta efficacia. Questo soprattutto nel rispetto delle vittime dei reati che nella maggioranza dei casi lo sono due volte: oltre ad aver subito il danno sono pure abbandonate dallo Stato. Il carcere deve essere riservato ai fatti più gravi, lesivi della collettività ed idonei a determinare pregiudizi irreparabili. Per le ipotesi meno gravi è necessario comprendere - in termini rigorosamente laici - che ad un male cagionato è indispensabile rispondere con atti di riparazione. Il risarcimento che attende chi ha subito un reato (ovviamente non tra quelli gravi ) ha una natura più morale che economica. L’ordinamento dovrebbe poter rispondere in maniera coerente a tale esigenza. In ultimo rimane il tema della rieducazione o riabilitazione: inesistente. Le risorse per i doveri sociali dello Stato sono da tempo esaurite anche per i cittadini meno abbienti, per gli emarginati; figuriamoci per i detenuti. Ma il tema delle “responsabilità” non si cancella. Molto più spesso di quanto si possa immaginare, chi ha deciso di fare a meno della vita, si è determinato ad un tale gesto perché chi aveva il dovere di garantirgli un diritto non se ne è preoccupato. È rimasto indifferente, non se ne è “curato” od è stato irresponsabile. Il codice penale è chiaro: Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo. Giustizia: le carceri sono un inferno… e Grillo le chiama “beauty farm”! di Valentina Ascione Gli Altri, 19 ottobre 2012 Proprio nei giorni in cui Beppe Grillo paragonava le nostre galere a delle “beauty farm”, nelle quali Totò Cuffaro e Lele Mora hanno potuto perdere peso a spese dei contribuenti, dietro le sbarre di questi esclusivi centri benessere si ammazzavano almeno altri quattro detenuti. Il primo a Belluno, dove Mounir Bachtragga, tunisino di 23 anni, era stato da poco trasferito. Non è stato semplice conoscere il suo nome, del resto è già tanto che si sia venuto a sapere del suo decesso, visto che ci son voluti quattro giorni perché la notizia trapelasse dalle fitte maglie del silenzio che avvolge la vita e la morte in carcere. Nel primo pomeriggio, approfittando dell’assenza dei compagni, ha preso la cintura dell’accappatoio (qualcuno dica a Grillo che i detenuti non lo usano dopo l’hammam ma per la doccia, che in molti casi fanno fredda e nemmeno tutti i giorni) l’ha fissata alle grate e si è impiccato. L’allarme è scattato quando era ormai troppo tardi e il medico non ha potuto far altro che dichiararlo morto. La notte successiva ci ha provato il compagno di cella, anch’egli di origini maghrebine, fortunatamente però nel suo caso gli agenti di polizia sono riusciti a intervenire e a salvargli la vita. Così non è stato per un altro tunisino di 31 anni, recluso nel carcere di Busto Arsizio, del quale non conosciamo ancora l’identità ma tutti i dettagli della sua morte. Perfino i più macabri, come quello del collo spezzato con tanta violenza da lasciarlo quasi decapitato. Accade così quando la corda è troppo lunga. E accade anche che quando un detenuto - depresso come lui, imbottito di farmaci e con atteggiamenti autolesionisti - ripete per giorni di volersi uccidere, prima o poi ci provi. Ed è molto probabile che ci riesca, in una struttura dove 432 persone si dividono spazi sufficienti per appena 167 e i poliziotti sono uomini e non supereroi. Sarebbe tornato in libertà a giugno prossimo. Mentre Pietro Carlo Raciti, 60 enne originario di Siracusa che si è ammazzato 24 ore dopo nel carcere di Carinola, aveva da scontare un ergastolo (la pena che secondo Beppe Grillo servirebbe a Fiorito per dimagrire). Antonio Sorrentino di anni ne aveva 26 e si è tolto la vita nel reparto “Avellino” di Poggioreale: la “beauty farm” più grande e più affollata d’Europa. Quattro suicidi in cella in soli dieci giorni. Mentre è imprecisato il numero di quelli che ci hanno provato. Forse delusi dai risultati della cura dimagrante. Giustizia: Tortorella (Si.Di.Pe.); le battutacce di Grillo sul carcere sono insopportabili… di Chiara Sirianni Tempi, 19 ottobre 2012 “Sono dimagriti. Vanno nelle beauty farm e le paghiamo noi”, ha detto il comico che non fa più ridere. Il commento del segretario nazionale dei direttori penitenziari. “Totò Cuffaro è uscito dal carcere che è una meraviglia di persona, così come quell’altro, Lele Mora, anche lui dimagritissimo. Vanno nelle beauty farm e le paghiamo noi. Batman per farlo dimagrire ci vuole l’ergastolo”. Lo ha detto Beppe Grillo parlando con i giornalisti a Messina, appena giunto a nuoto dopo l’attraversata dello Stretto. Il comico-politico si riferiva al permesso concordato due giorni fa dai giudici all’ex governatore siciliano Salvatore Cuffaro, che sta scontando una pena definitiva a 7 anni di carcere. Parole che Rosario Tortorella, segretario nazionale del Si.Di.Pe. (Sindacato Direttori Penitenziari) giudica “tristemente fuori luogo”. Per quale motivo? È insopportabile che si parli di carcere solo quando riguarda personaggi noti, e in questi termini. Io capisco che nel momento in cui alcuni soggetti politici approfittano del loro ruolo per avvantaggiarsene economicamente, questo susciti un sentimento di repulsione e sdegno. La giustizia deve fare il suo corso, e questo è auspicabile. Altro è banalizzare in questo modo i problemi del mondo carcerario, che coinvolge decine di migliaia di persone, molte delle quali in attesa di giudizio, è una realtà drammatica. Perché l’idea di carcere come strumento di vendetta è sbagliata? La privazione della libertà individuale costituisce di per sé un fatto grave, nella vita di una persona. Il sovraffollamento non può che renderlo più tragico. Per questo, quando si parla di carcere, occorre essere molto prudenti. Le condizioni, come non da oggi denunciamo, non sono assolutamente delle migliori. Tanto è vero che il nostro Paese è stato condannato, per questo, dalla Corte di Giustizia Europea. Inoltre spesso ci si dimentica un concetto fondamentale: si è innocenti fino a quando non si ha una sentenza definitiva di condanna. Ritiene che il populismo sia dannoso, da questo punto di vista? Ritengo che il problema del carcere in Italia meriti di essere trattato in modo serio, di certo non cavalcando in questo modo la tigre della popolarità. Di carcere bisognerebbe parlarne ordinariamente, perché si tratta di una realtà che interessa tutti i cittadini. Tutti dovremmo pretendere un sistema processuale che conduca in tempi rapidi alla definizione del procedimento penale. Tutti dovremmo pretendere che la persona sconti la pena nel rispetto dei principi del nostro ordinamento. Quindi nel rispetto della persona, perché il carcere, per Costituzione, ha funzione soprattutto rieducativa. Una funzione che va applicata, come è proprio di un Paese che vuole dirsi civile. Cosa chiedete al governo? Denunciamo la grave carenza di personale penitenziario di tutti i profili professionali e, in particolare l’irrisorietà di funzionari giuridico-pedagogici, la quasi sparizione dei funzionari di servizio sociale, la carenza di organico, pari a circa 7000 unità, del personale di polizia penitenziaria. Questo è il quadro di un’emergenza penitenziaria mai vista prima e per la cui quotidiana gestione, perché siano contenuti i danni, sono chiamati ad operare i dirigenti penitenziari. Ed è su questa emergenziale situazione che si sta abbattendo lo tsunami della spending review che finirà con il privare ogni carcere del suo direttore. La situazione è gravissima, perché il direttore è il primo garante dei principi di legalità nell’esecuzione penale. Il 7 agosto scorso, nell’ambito della provvedimento sulla spending review, è stato accolto dal Governo un ordine del giorno che riguarda i dirigenti penitenziari e tutto il personale amministrativo, quello civile, educatori e psicologi, affinché siano esclusi dai tagli che sono previsti dal provvedimento. Chiediamo di sapere a che punto si trovi l’attuazione di questo ordine del giorno. Come direttori penitenziari chiediamo, e come cittadini pretendiamo, coerenza. Per questo, desideriamo confidare ancora che il ministro della Giustizia Severino vorrà intervenire con l’urgenza e la decisione che la situazione impone, perché non si vorrebbe che proprio su questo Governo tecnico, sul quale sono state riposte da tutti grandi speranze, ricadesse la responsabilità di una esplosione del sistema penitenziario. Giustizia: per Padova servono scelte di prevenzione integrata di Giuseppe Mosconi (Associazione Antigone) Il Mattino di Padova, 19 ottobre 2012 Il Prefetto ha pubblicato i dati comunicati relativi ai successi dell’intervento delle forze dell’ordine nel contrasto all’uso di sostanze stupefacenti. Il Portello “ripulito”, con 249 arresti, 49 clandestini espulsi, 62 multe contro acquirenti di sostanze. A ciò si associa il progetto di una più stretta sorveglianza nei parchi, da parte dei “baschi verdi” della finanza, così come all’uscita dalle scuole e nei quartieri a rischio; così come il progetto di un potenziamento del servizio di videosorveglianza. A ciò si aggiunge l’ordinanza del sindaco che prevede l’irrogazione di una maximulta di 500 euro a chi fa uso di droga in spazi pubblici, nonché il progetto di misure restrittive contro alcool utenti, accattoni e autori di comportamenti incivili. Prese nel loro insieme queste notizie sembrano un bollettino di guerra, proveniente da una città in stato d’assedio. Le cose non stanno proprio così. È necessario porsi delle domande. Quante delle persone arrestate saranno gravate di indizi così consistenti, da mantenerle in stato di reclusione? Quanto la procedura che si occuperà di loro, anche in assenza di consistenti elementi a carico, verrà a intasare un sistema giudiziario già sovraccarico? Quanto questo massiccio incremento di arresti verrà a gravare sulla già drammatica situazione di sovraffollamento delle carceri? Come usciranno queste persone dall’esperienza detentiva, e quanto verrà rafforzata la loro condizione di marginalità ed estraneità sociale? E il fenomeno dello spaccio, bandito dal Portello, dove si sposterà? E quanto le misure adottate saranno in grado di diffondere un reale senso di sicurezza, senza materializzare la dimensione di un più diffuso allarme sociale? Per andare più a fondo in questa necessaria attenzione, ci limitiamo a richiamare almeno alcuni aspetti problematici. La multa di 500 euro per chi è sorpreso a far uso di sostanze stupefacenti in luoghi pubblici appare destinata a drammatizzare gli aspetti più negativi del proibizionismo in tema di droghe, che molti studiosi e addetti ai lavori da diversi decenni hanno messo in luce. Basti pensare che, se la sanzione viene a colpire chi versa in stato di reale dipendenza, essa lo spinge verso attività illegali, incluso lo spaccio, per far fronte ai maggiori costi della sua condizione, nonché verso una maggiore emarginazione e clandestinità. Né sarà la riduzione ai 50 euro a convincerlo a rivolgersi ai servizi, misura già imposta per altra via dalla legislazione vigente. Se invece si tratta di un consumatore occasionale, l’intervento dei servizi sarà sostanzialmente sovradimensionato e rituale, funzionale solo a ridurre il peso della sanzione. Per non dire dei dubbi di costituzionalità del provvedimento, dato che la Corte ha abrogato la disposizione del decreto Maroni del 2008, che conferiva ai sindaci il potere di ordinanza in tema di sicurezza e ordine pubblico. Si rivela qui il nodo cruciale della compatibilità di politiche da “tolerance”, di mera repressione e controllo, che risultano ispirare tutti i provvedimenti, e gli interventi di solidarietà, a sostegno del disagio, cui pure il Sindaco fa cenno. È ovvio che, se i primi assumono una funzione diffusa e preminente, ai secondi non resta che uno spazio residuale e irrilevante, sostanzialmente inefficace. Date le note incompatibilità che si sono da tempo rivelate nei cosiddetti modelli di “prevenzione integrata” in tema di sicurezza, si tratta di operare una scelta di campo, e di perseguirla con coerenza, nella prospettiva della “prevenzione sociale”, e cioè degli interventi partecipativi e solidaristici, a tutela dell’intera collettività. Giustizia: la medicina penitenziaria tra tagli e riforme incompiute e il detenuto resta solo di Livia Parisi Il Salvagente, 19 ottobre 2012 In materia di prevenzione, diagnosi e cura, il detenuto ha lo stesso diritto del cittadino libero, ma il diritto alla salute, garantito costituzionalmente a ogni cittadino della Repubblica, è uno fra i più violati in carcere. Innanzitutto perché la limitazione della libertà comporta l’impossibilità di scegliere le migliori cure disponibili o il proprio medico di fiducia. Poi perché, nel passaggio della medicina penitenziaria al Servizio sanitario nazionale, previsto dal Dpcm del 1° aprile 2008, più di qualcosa sta sfuggendo dalle mani degli amministratori. “Questa è una riforma all’avanguardia che pone al centro della programmazione la persona e la domanda di salute. L’utilizzo delle strutture, la gestione del personale, competenze e responsabilità, sono passate alle Asl”, spiega Fabio Gui segretario del “Forum nazionale per il diritto alla salute delle persone private della libertà personale”, organismo che unisce operatori della sanità pubblica, della giustizia, volontari, sindacalisti. “Il decreto legislativo a cui si ispira, 230/99 - prosegue Gui - prevede un percorso per assicurare livelli essenziali di salute omogenei ma la riforma eredita un sistema sanitario penitenziario a macchia di leopardo, con eccellenze e criticità dipendenti dalle disponibilità economiche dell’amministrazione penitenziaria o dalle relazioni avviate con le singole aziende sanitarie territoriali”. Attualmente, le Regioni a statuto speciale non hanno ancora avviato il passaggio di competenze mentre quelle sottoposte a piano di rientro attuano la riforma con i problemi legati al commissariamento: blocco del turn over e mancanza di medici, infermieri, personale dei Sert e dei dipartimenti di Salute mentale. “A tutt’oggi non si dispone di una rilevazione nazionale sulle condizioni di salute dei detenuti e non esiste un censimento delle emergenze sanitarie, le Asl non sanno con chi e con quanti pazienti detenuti devono lavorare”, sottolinea Roberto Di Giovan Paolo, senatore Pd e presidente del Forum. Quello che è certo è che la spesa sanitaria media per detenuto è molto bassa, 5,51 euro al giorno. Anche perché alla base c’è che il budget economico disponibile è calcolato sulla presenza dei detenuti nel periodo dell’indulto (circa 40mila), mentre attualmente sono oltre 67mila. Il diritto alla Salute? Dietro le sbarre resta un’utopia Tubercolosi, scabbia, epatite, sifilide, depressione: sono molte e si diffondono facilmente in ambienti malsani e promiscui. Sono le patologie che maggiormente colpiscono i detenuti nei penitenziari italiani. Si dice che il sistema carcerario sia lo specchio dei mali di un paese, perché se ci sono incongruenze, lì vengono a galla. E l’Italia lo conferma. Basta guardare la situazione della sanità in carcere per avere uno specchio di quello che è la sanità fuori dal carcere: un servizio garantito a macchia di leopardo, in mano alle Regioni che non hanno una lira da investirci e molto poco da guadagnarci. Il risultato? I casi di epatite C tra i detenuti raggiungono il 40%, quelli di epatite B il 6,7%, quelli di Hiv il 2,6%, mentre i casi di Tbc fanno registrare il 12,6%, secondo i dati. Sono tutti disagi che, una volta scontata la pena, escono dai penitenziari insieme a chi torna in libertà. Ridurne l’impatto significa ridurre il rischio che si trasmettano al resto della comunità. Il “caso” Lazio A Frosinone è rinchiuso Leonardo, operato all’ospedale Cardarelli di Napoli il 28 marzo 2011 per la riduzione di una frattura a tibia e perone. Attende da oltre un anno e mezzo la rimozione di chiodo e placche, malgrado tre visite di controllo abbiano evidenziato la necessità di un rapido intervento di rimozione. Paolo, che sta scontando una pena definitiva, è affetto da diverse patologie tra le quali la più grave è una osteomielite che lo costringe su una sedia a rotelle. Da tempo ha fatto richiesta di ricovero in 3 ospedali di Roma, ma ancora non riesce a essere trasferito. Nel nuovo carcere di Rieti, durante la notte gli oltre 300 detenuti presenti sono privi di assistenza sanitaria al punto che agenti e operatori sono costretti, nei casi di necessità, a ricorrere alla guardia medica o al 118. A Cassino, oltre trecento detenuti da 14 mesi sono privi di assistenza odontoiatrica. E cosa dire delle condizioni del Centro diagnostico e terapeutico di Regina Coeli, le cui gravi carenze di carattere strutturale, igienico e sanitario, quest’estate, hanno portato all’insediamento, in fretta e furia, di una commissione tecnica tra la Regione Lazio e il ministero di Giustizia? Queste situazioni sono l’emblema delle condizioni della sanità penitenziaria, in particolare in alcune Regioni, come il Lazio, sottoposte a Piano di rientro dal disavanzo sanitario. “Mesi di attesa per interventi chirurgici e controlli, macchinari nuovi e mai utilizzati per mancanza di tecnici, specialisti presenti una volta a settimana che devono far fronte a centinaia pazienti”, è il quadro che tratteggia il Garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni. E poi, c’è il problema delle “traduzioni”. “Da Rebibbia Femminile a Regina Coeli - spiega Marroni - da Latina a Cassino: decine di appuntamenti diagnostici fuori dal carcere prenotati da mesi saltano per mancanza di scorta. Così la cronica insufficienza degli organici della polizia penitenziaria si traduce in mancanza di percorsi terapeutici esterni agli istituti penitenziari”. Il ritorno della Tbc Carenze di risorse finanziarie e di personale si sommano al sovraffollamento e alla mancanza di prevenzione per malattie sessualmente trasmissibili (in carcere è vietato l’uso di profilattici). A questo si aggiunge l’elevato turn-over della popolazione e la non obbligatorietà dell’offerta dei test di screening per le patologie di facile diffusione. Un mix pericoloso. “In Europa la diffusione dell’Hiv e dell’epatite è tra le 10 e le 20 volte superiore nella popolazione carceraria rispetto alla popolazione libera”, spiega il direttore dell’Istituto nazionale per la promozione della salute delle popolazioni migranti. Il progetto senza barriere Se gli italiani trovano difficoltà a curarsi in carcere, ancor di più ne trovano gli stranieri, per motivi linguistici e di carenza di conoscenze del sistema. È pensato per far fronte a questo problema il progetto Salute senza barriere finanziato dal Fondo europeo per l’integrazione dei cittadini dei paesi terzi e attuato dal ministero della Salute insieme con l’Istituto nazionale per la promozione della salute delle popolazioni migranti e il contrasto delle malattie della povertà. Il progetto mira a promuovere, attraverso il pieno accesso al Servizio sanitario nazionale, l’integrazione sanitaria degli stranieri detenuti, che sono oltre un terzo del totale. Giustizia: tossicodipendenti e carcere; interrogazione dei Radicali e risposta del Governo Notiziario Aduc, 19 ottobre 2012 In Italia ci sono circa 24mila detenuti tossicodipendenti, a fronte di 4 istituti ad hoc (Icatt-Istituti a custodia attenuata per il trattamento dei tossicodipendenti) e 13 sezioni a custodia attenuata, che ‘ospitano’ in tutto 657 persone. I dati sono emersi durante l’ultima seduta in commissione Giustizia alla Camera, dopo la presentazione di un’interrogazione dei radicali (prima firmataria Rita Bernardini, eletta nelle fila del Pd). “Nonostante l’Italia sia un Paese il cui ordinamento è caratterizzato da una legislazione all’avanguardia - si legge nell’interrogazione - per quanto riguarda la possibilità che i tossicodipendenti possano scontare la pena all’esterno, i drogati detenuti in carcere sono tantissimi. La legge prevede che i condannati a pene fino a sei anni di reclusione, quattro anni per coloro che si sono resi responsabili di reati particolarmente gravi, possano essere ammessi a scontare la pena all’esterno, presso strutture pubbliche o private, dopo aver superato positivamente o intrapreso un programma di recupero sociale”. “Eppure - aggiungono i radicali - queste persone continuano a rimanere in carcere. Noi riteniamo sia invece preferibile che i detenuti tossicodipendenti, spesso condannati per spaccio di lieve entità, scontino la pena fuori dal carcere, nelle comunità di recupero [...] I detenuti tossicodipendenti sono persone che commetto reati in relazione allo stato di malattia e quindi hanno bisogno di cure piuttosto che di reclusione”. La risposta del Governo in Commissione “Il circuito penitenziario per tossicodipendenti è stato istituito nel 1991 - ha risposto in commissione il sottosegretario alla Giustizia, Sabato Malinconico. Nello specifico sono quattro gli Icatt presenti in Italia: a Firenze, Roma, Eboli e Lauro; le sezioni a custodia attenuata sono invece presenti negli istituti di Torino Lorusso e Cutugno, Genova Marassi, Milano Bollate, Busto Arsizio, Castelfranco Emilia, Forlì, Rimini, San Gimignano, Giarre, Venezia Giudecca, Porto Azzurro, Napoli Secondigliano, e Barcellona Pozzo di Gotto”. Il complesso di tali strutture ospitava, alla data del 27 settembre 2012, 657 detenuti tossicodipendenti. “L’accordo del 26 novembre 2009 - ha aggiunto Sabato Malinconico - raggiunto in sede di Conferenza unificata, intitolato “Strutture sanitarie nell’ambito del sistema penitenziario italiano”, ha previsto comunque una possibile rivisitazione dell’attuale panorama degli istituti e sezioni per la custodia attenuata dei tossicodipendenti, che potrà costituire oggetto di approfondito esame nell’ambito dello studio sui circuiti regionali”. Giustizia: detenuti pasticcieri, o produttori di bici, con buoni stipendi e fatturati record di Francesca Sironi L’Espresso, 19 ottobre 2012 Il profumo della libertà è quello di un panettone. Che sorprende, dopo aver superato cinque cancelli d’acciaio per entrare in un carcere come tutti gli altri: grigio, sovraffollato, triste. Ma qui ci sono i panettoni: ne vengono sfornati più di 60 mila all’anno, distribuiti in tutta Italia, per clienti che vanno dal papa al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Piccoli capolavori: l’ultimo è quello al Kir, una ricetta premiata anche dai palati chic del Pitti Taste di Firenze. Siamo a Padova, nel centro di reclusione Due Palazzi, dove la cooperativa sociale Giotto è riuscita in un miracolo: dare un senso alla carcerazione. Oggi a lavorare dietro le sbarre sono in 150. Non c’è solo la pasticceria, nei tre capannoni trasformati in officine al centro del penitenziario. Si producono biciclette, valigie, filtri, penne usb, e un call center risponde ai cittadini per conto della Asl. Lavori veri, che garantiscono ai detenuti stipendi che vanno dagli 800 ai mille euro. Un miraggio anche per molti che sono fuori, di questi tempi. Per i dipendenti di Giotto lo stipendio non è l’unico stimolo. Quelle otto ore in cui possono muoversi liberamente tra laboratori, macchine e cucine gli concedono un modo diverso di vivere il tempo. Una questione fondamentale per chi deve scontare pene che arrivano all’ergastolo. “Nelle sezioni di reclusione si passa la giornata senza aver nulla da fare: sempre gli stessi discorsi, gli stessi litigi”, racconta Alessandro, responsabile dell’officina biciclette: “Qui invece abbiamo delle responsabilità, dei prodotti da consegnare. E devono essere fatti bene”, chiosa con orgoglio. C’è chi, come Zang, vorrebbe lavorare anche la domenica. Perché “ le feste sono il momento più triste. Siamo soli, e anche lo stabilimento deve chiudere”, racconta Bledar. Lui, ergastolano, da quando lavora per Giotto dice di essere cambiato: “Ho imparato cosa significa avere un mestiere onesto. Oggi prendo uno stipendio, pago le tasse e mantengo la mia famiglia in Albania”. Nel corridoio d’ingresso al penitenziario, dove 900 detenuti dormono in celle che ne dovrebbero ospitare 500, sopra l’ultimo cancello c’è una frase di Dante: “Fatti non foste per viver come bruti”. E le storie di Giotto raccontano come può funzionare un carcere che rieduca veramente. “Ho rivisto mio figlio pochi giorni fa, dopo 15 anni di separazione. Come potrei guardarlo negli occhi e pensare di dargli un’educazione se non facessi niente dalla mattina alla sera? “ dice Francesco, 23 anni di pena, gli ultimi due passati a lavorare per la cooperativa. Oggi Consorzio Rebus, che ingloba Giotto e altre piccole realtà, chiude il bilancio con quasi 20 milioni di euro di fatturato e impiega 450 dipendenti: dal 1991 nei suoi laboratori sono passati 700 detenuti. “Tutto è iniziato con un orto botanico, che abbiamo aperto al centro del penitenziario a metà anni 80”, spiega Nicola Boscoletto, presidente del consorzio: “ Man mano le attività sono cresciute. Ormai io passo più tempo in carcere che fuori, perché il lavoro da smaltire è tanto “. Tutta la popolazione del carcere, in qualche modo, ne gode: da quando la cucina è gestita da Giotto, racconta Boscoletto, “i pasti vengono letteralmente spazzolati. Per la prima volta tornano dalle celle vuoti, senza avanzi”. E come dolce, per Natale, c’è un panettone da vip: il loro. L’eccezione che fa risparmiare I detenuti con un lavoro in Italia sono solo 2.257. Poco più del 3 per cento dell’intera popolazione carceraria, che è arrivata a contare 66 mila persone su 45 mila posti disponibili. Eppure i dati dicono che la recidiva, ovvero la tendenza a ricominciare a delinquere dopo aver scontato la pena, passa dal 70 al 12 per cento, per coloro che in carcere hanno lavorato per un’azienda esterna. Non si tratta solo di un risultato importante dal punto di vista sociale: senza recidiva, l’amministrazione pubblica risparmia più di 35 milioni di euro, poiché ogni detenuto costa allo Stato circa 140 euro al giorno. Ma gli incentivi alle aziende che creano occupazione in carcere sono fermi al 2000: 4,6 milioni di euro all’anno, niente più. E per il 2012 non sono bastati nemmeno a coprire le spese. Giustizia: Reni (Prison Fellowship Italia); nella condizione attuale nessuno può essere rieducato di Susanna Peraldo Il Biellese, 19 ottobre 2012 “La situazione delle carceri in Italia è disastrosa. C’è un sovraffollamento inimmaginabile. Ciò non è concepibile perché l’articolo 27 della Costituzione dice che la pena deve tendere alla rieducazione. Nella condizione attuale nessuno può essere rieducato”. A parlare è Marcella Reni (che sarà a Biella, chiesa di San Biagio, per tutta la giornata di domenica) notaio di Palmi, in Calabria, presidente dell’associazione Prison Fellowship Italia onlus, che si occupa di detenuti, ex detenuti e delle loro famiglie. Associazione che si inserisce all’interno della vasta organizzazione Prison Fellowship International. “Se nelle carceri c’è Gesù le carceri sono un luogo più umano, ma se non c’è Gesù sono un luogo assolutamente disumano, prescindendo dalla colpevolezza, perché nelle carceri è proprio la dignità dell’uomo che viene calpestata”. Quali sono stati i primi passi in Italia? Dopo varie peripezie, Rinnovamento nello Spirito ha accettato di promuovere l’associazione Prison Fellowship Italia onlus che ha già più di 150 volontari. Tra i vari progetti che Prison Fellowship International porta avanti nel mondo - assistenza ai bambini detenuti, rieducazione, riabilitazione nella società, assistenza alle famiglie ecc. - noi abbiamo selezionato per ora “Progetto Sicomoro”. Di che si tratta? È una sorta di mediazione indiretta: noi facciamo incontrare i detenuti con vittime o parenti di vittime. Non le stesse vittime del reato che i detenuti hanno commesso, ma vittime di reati analoghi. Abbiamo già fatto dei progetti: a Rieti e uno, in particolare, a “Opera” - nel carcere di massima sicurezza con detenuti ergastolani - a Milano. Erano sette, tutti pluriergastolani. Sei pluriomicidi, uno trafficante internazionale di cocaina. Abbiamo portato in carcere le vittime, molte delle quali parenti di persone uccise dalla ‘ndrangheta in Calabria. Da questa esperienza è nato un libro intitolato “Tra le mura dell’anima”, scritto a quattro mani da me e Carlo Paris, un omonimo del giornalista. Il risultato è stato addirittura superiore a quanto ci potevamo aspettare. Un esempio? I detenuti che mi avevano assegnato erano tra i peggiori esistenti in quel carcere. Uno solo di loro - per esempio - era stato condannato per ben trentacinque omicidi. Veramente mani grondanti sangue. Tra le vittime da portare in carcere mi è stato segnalato invece Mario Congiunta, cui è stato ucciso il figlio 35enne per essersi opposto ad una estorsione ai danni del futuro suocero. La persona che me l’ha segnalato - un magistrato mio amico - ha detto: “Lui è un duro. Non perdonerà mai. Ti stai portando dentro un problema”. In verità, non solo non è stato un problema, ma è quello che ha fatto la differenza. Proprio per- ché non ha concesso un perdono facile, non ha concesso alcun sconto a nessuno, anzi ha urlato in faccia ai detenuti tutto il suo dolore, tutta la sua pena. Appena ha fatto ingresso in carcere, ha detto ai detenuti: “Per voi è un modo di dire: fine pena mai. Perché prima o poi uscirete da qui. Per me è fine pena mai perché mio figlio non mi sarà più restituito”. Alla fine - proprio nei giorni del Progetto Sicomoro - lui aveva la sentenza di primo grado per il presunto uccisore del figlio e continuava a dire che, anche se avessero dato l’ergastolo a questo individuo, lui non si sarebbe mai sentito in alcun modo, risarcito. Nessuno aveva riparato il danno che era stato provocato alla sua famiglia. Ad esempio, la sua sorellina più piccola - che adesso ha 24 anni - nonostante siano passati 6 anni dall’uccisione ancora si sveglia di notte urlando che vuole Gianluca; la sorella più grande si è separata dal marito che non ha retto tutto questo stress; in quella casa non si è più suonato il pianoforte, non si è più accesa la cucina... Veramente tutta una famiglia distrutta. Che cosa accadde? In quei giorni del Progetto Sicomoro uno dei sette detenuti si è trovato casualmente nella lavanderia del carcere con appartenenti allo stesso nucleo del presunto uccisore e ha preso le difese di Mario Congiunta schierandosi, in quel carcere così difficile, apertamente contro la ‘ndrangheta e a favore di Mario. Lui ha avuto dei problemi di sicurezza per cui è stato spostato nel braccio del carcere. Quando ce l’ha riferito, all’interno delle sedute che facevamo per Progetto Sicomoro, ha detto: “Mario, hai ragione. Ho capito a tal punto da essermi messo contro, aver preso le tue difese”. E ha raccontato anche l’episodio che gli era accaduto. Noi abbiamo visto Mario fisicamente cambiare: i suoi tratti distendersi, rilassarsi. A quel punto lui ha usato proprio queste parole -che poi abbiamo pubblicato nel libro - “Mi sento di aver avuto un risarcimento più ora di quando il giudice ha proclamato la sentenza di ergastolo. Ora sento davvero che la morte di Gianluca non è stata vana”. Si è rasserenato, dicendo: “Sono uscito dallo stagno in cui ero precipitato”. Successivamente ci ha chiesto di far partecipare ai prossimi progetti la moglie e le figlie. Proprio perché possano sperimentare lo stesso beneficio che ha avuto lui. Un’altra di queste vicende? Nicoletta Inzitari è una ragazza calabrese ventitreenne a cui è stato ucciso un fratello appena dopo aver compiuto 18 anni, l’unico figlio maschio di questa famiglia. Ucciso perché i genitori si erano opposti a una attività estorsiva a loro danno. Uccidendo questo ragazzo volevano eliminare il maschio, cioé debellare il nome della famiglia. Oltre al dolore per la perdita del fratello, Nicoletta si portava dietro anche un senso di colpa: essendo lei la primogenita di non essere stata lei la vittima di questo aggua- to criminale, ma il fratello. Ed è entrata in carcere per il “Progetto Sicomoro” che era molto spaventata. Ci siamo messi accanto a lei. Alla fine delle otto settimane - è questa la durata del percorso del Progetto Sicomoro - lei ha scritto una lettera ai detenuti dicendo che non pensava di vivere questa esperienza che è stata la più importante della sua vita. Ma soprattutto comunicando che questi sette detenuti a lei sono diventati cari perché si sono messi in gioco, perché hanno acquisito consapevolezza, perché hanno visto perdono. E dopo il Progetto Sicomoro che cosa rimane? Sono entrata in carcere a trovare questi detenuti proprio sabato scorso, su richiesta del direttore del carcere. Ogni tanto facciamo una specie di “manutenzione” dei sette, quindi ce li fa incontrare. Uno di loro, Testimone di Geova - il nostro Progetto nasce in ambito cattolico, ma dei sette uno era appunto Testimone di Geova, uno Hare Krishana e uno Buddista - ha chiesto di poter fare la catechesi per neocatecumenali, per accedere al battesimo. Quando gli ho chiesto il perché avesse preso questa decisione, lui - nato in una famiglia di Testimoni di Geova - ha risposto: “Perché i miei genitori mi hanno sempre mostrato un Dio che giudica, condanna e punisce. Voi mi avete portato un Gesù che perdona”. Quando gli ho chiesto di spiegarmi di più, lui, avvicinandosi in un sussurro, mi ha detto: “Tengo sul comodino la Bibbia e come tu mi hai insegnato la leggo ogni mattina. Ma non mi basta. Ogni mattina leggo la lettera di Nicoletta perché se una ragazza come lei, a cui hanno ucciso il fratello, mi ha perdonato e mi ha potuto perdonare, allora io sono degno di ricevere questo perdono. Ma ho bisogno ogni mattina di ricordarlo”. Questa ragazza, quindi, ha fatto la differenza nella sua vita. Ma anche nella vita di tutti gli altri. Sono uomini cambiati. Lo stesso direttore del carcere di “Opera” sabato mi testimoniava di come tutti, tolti dall’alta sicurezza e dall’isolamento, stanno per essere passati tra i comuni perché anche i magistrati di sorveglianza si sono resi conto della differenza. Sono uomini totalmente cambiati. Tutto questo dimostra che l’uomo non è il suo errore. L’errore rimane e a volte non si può riparare, però l’uomo può acquistare una sua dignità e può essere salvato. Non c’è uomo che non possa essere salvato. E i sette di “Opera”? Progetto Sicomoro prevede proprio questa riparazione, là dove si può. E comunque una richiesta di perdono. I nostri sette di “Opera” sono tutti arrivati alla mediazione penale - quella tecnica - perché tutti hanno scritto lettere di perdono alle vere vittime. Il risultato quindi è stato non ottimo, ma molto di più. Quali le prossime tappe di questo progetto? Progetto Sicomoro lo stanno richiedendo moltissime carceri. Abbiamo una richiesta da Pordenone perché non abbiamo mai lavorato con i sex offender però il direttore del carcere -dove sono ospitati detenuti solo con questo tipo di reati - mi dice che alcuni detenuti, secondo lui, sarebbero pronti per questo percorso. Ho chiesto che levassero i pedofili perché non voglio trovare le vittime in quanto sarebbero necessari supporti psicologici che non abbiamo. Stiamo invece cercando le vittime di abusi sessuali disponibili a intraprendere il Progetto Sicomoro. Ci sono già i sette detenuti sex offender che parteciperanno. E poi abbiamo richieste dalle carceri calabresi, campane. Ed ancora, probabilmente, il “Regina Coeli” di Roma... Insomma, c’è tanta, tanta carne al fuoco e ci stiamo preparando. Dal vostro osservatorio qual è la situazione delle carceri? C’è un sovraffollamento che è inimmaginabile. Per come è la situazione delle carceri non è possibile la rieducazione. Nel carcere di San Vittore quando vogliono punire qualcuno - solitamente, fino a qualche anno, fa lo si mandava in isolamento - oggi lo mettono nelle celle a sei. Quella è la vera punizione; se lo mandano in isolamento gli fanno un favore e, finalmente, sta solo. Veramente la situazione è tragica. Che cosa si potrebbe fare? Ci sono reati che possono essere scontati in altra maniera, soprattutto noi insistiamo molto sulla riparazione. È molto più importante riparare là dove si può piuttosto che essere ficcati in un carcere dove, non solo non ci si rieduca e non ci si prepara ad essere reimmessi, guariti, in società, ma si va a una scuola di criminalità. C’è veramente tutto da rifare. Concretamente? Avevamo un progetto che però non ha visto la luce per mancanza di fondi al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. È quindi ancora in itinere. Vorremmo proporre quello che in Brasile e in Cile chiamano Abac, una sorta di carcere a detenzione libera o semilibera gestita da volontari. Soprattutto, per i reati minori o per quei detenuti che devono scontare gli ultimi tre anni di pena, stiamo chiedendo fortemente che ci vengano assegnati in misura alternativa e possano essere riabituati, ricollocati in società, soprattutto perché anche la società sia pronta ad accoglierli. È necessario un salto culturale da parte di imprenditori e di cooperative che sono invece sempre molto diffidenti rispetto a detenuti o ex detenuti, anche nel fare le assunzioni. Il momento è critico per tutti, in modo particolare per chi è stato detenuto. E per le vittime? Lavoriamo anche con le vittime. Ho costituito un’associazione parallela che presiedo, con sede in Calabria. Per vittime e parenti di vittime noi lavoriamo in sinergia in maniera da assicurare anche a loro un ristoro del danno subito e avviare, soprattutto i giovani, al lavoro. Che relazione c’è tra queste realtà e Rinnovamento nello Spirito? L’Associazione è stata generata dal Rinnovamento, ma sono cose totalmente distinte e separate. Certo il Rinnovamento sostiene l’Associazione con la preghiera. I volontari e i nostri operatori sono persone totalmente altre perché Prison Fellowship Italia è un’associazione aconfessionale. Domenica sarà in città per la Giornata interdiocesana Biella Vercelli del Rns. Quale sfida affidate al futuro? Che si annunci quella che è la Buona Notizia da sempre. E la buona notizia è che Gesù è vivo. Lettere: quando andrà in carcere Sallusti… di Filippo Facci www.ilpost.it, 19 ottobre 2012 Accade l’incredibile. L’estratto giuridico sulla sentenza Sallusti - quello che, di norma, per una persona nelle sue condizioni, impiega anche anni a viaggiare da Roma a Milano - è già arrivato a Milano. Non solo: il pm ha già firmato il relativo ordine di esecuzione-sospensione, anche se a Sallusti non è ancora stato fisicamente consegnato e quindi non hanno ancora cominciato a decorrere i famosi 30 giorni. Ho fatto ulteriori verifiche: siamo di fronte a qualcosa di più di una corsia di sorpasso ad personam: siamo a un record di velocità che per l’Italia è da Guinnes. Per una diffamazione. Ho fatto una micro-inchiesta (muovendomi a Milano e telefonando a Roma) per comprendere quando Alessandro Sallusti potrebbe finire seriamente in carcere. Data della condanna definitiva (a 14 mesi) da parte della Cassazione: 26 settembre scorso. Tempo che l’estratto giuridico impiegherà per passare dalla Cassazione alla Procura di Milano: diversi mesi - sino a un anno - perché il criterio è progressivo e c’è molto arretrato; se Sallusti fosse stato già in carcere, l’estratto avrebbe impiegato 3 o 4 giorni. Tempo che impiega mediamente l’ufficio posta della procura di Milano - una volta giuntogli l’estratto giuridico dalla Cassazione - per spedire la notifica a un “libero” e cioè a uno come Sallusti: altri due anni; se fosse stato un galeotto, due mesi. Tempo di ulteriore sospensione della pena dal momento in cui Sallusti ricevesse fisicamente la notifica: altri 30 giorni - i famosi 30 giorni, gli unici di cui i giornali parlano - esclusi dunque i tempi morti dell’ufficio notifiche. Periodo, in definitiva, in cui Sallusti finirà in galera se andrà male, cioè bene per lui: fra tre anni. Mentre se andrà bene, cioè male per lui, se cioè in Cassazione e alla procura di Milano s’impegnassero “ad personam”, ci vorrebbero comunque diversi mesi. Ora: io non capisco perché nessuno lo scriva e perché tutti scrivano, ogni volta, che la carcerazione di Sallusti sarebbe imminente. Si direbbe che i giornali, a forza di scrivere genericamente dei tempi della giustizia, nel concreto, non sappiano di che scrivano. Sardegna: l’isola delle ambiguità, tra carcerati e riccastri di Giulio Angioni La Nuova Sardegna, 19 ottobre 2012 Ci sono modi facili e immediati di reagire alle notizie sui trasferimenti di mafiosi e camorristi in regime di 41bis in carceri sarde. Il più irriflesso è il rifiuto del “not in my backyard”, che alcuni politici sardi stanno recitando con disinvoltura, in cerca estemporanea del consenso. Si insiste sull’”abbiamo già dato”, in fatto di servitù carcerarie tanto quanto di servitù militari. I più capaci di storicismo rielaborano i soliti mugugni. Il mugugno del ci risiamo con l’antica e perenne “poena insularis”, della Caienna dei dannati ad metalla, della minaccia del “Ti sbatto in Sardegna”, della nostra isola ridotta a pattumiera d’Italia o d’Iberia o dell’Esarcato d’Africa. Alcuni che ci ragionano di più pongono il problema delle infiltrazioni mafiose in un’isola ancora immune, ricordando magari che la malavita organizzata all’italiana è arrivata al Nord con i soggiorni obbligati dei mafiosi. Facile esagerazione, solo che si ricordino i Sindona e i Mangano e la micidiale solitudine di un Giorgio Ambrosoli, eroe borghese, ai tempi, anche, del faccendiere nostrano Flavio Carboni, rimesso in manette un paio d’anni fa per certe altre sporche faccende eoliche sarde. Alcuni, specie giornalisti, si concentrano sulla sfacciataggine di certi politici che fingono scandalizzata irresponsabilità per cose di cui invece sono stati corresponsabili anche col voto in parlamento o come membri dell’esecutivo. Altri si meravigliano che uomini delle istituzioni come l’onorevole Giuseppe Pisanu, presidente della Commissione Antimafia, dichiari di apprendere il tutto dai giornali, mentre si tratta in tutta evidenza di decisioni di governo e prima anche parlamentari che risalgono a qualche anno fa e che ora si attuano con il solito automatismo burocratico da pena insulare, giustificata con le più limitate via di evasione e fuga e di visite parentali. L’abitudine non è mai cessata. E forse si avrebbero sorprese da un censimento nelle carceri sarde delle attuali presenze di mafiosi e camorristi, come prima di terroristi. Forse anche ad altri torna in mente il piccolo scandalo di non molti mesi fa, di Giuliano Amato che fece molto parlare di sé, qui da noi, quando espresse il lamento che “in Italia c’è troppa Sardegna”, cioè troppo sfaticata e godereccia estate sole e mare. Di primo acchito uno ha nostalgia della Sardegna vacanziera immaginata alla Giuliano Amato. Ma, ragionandoci, viene da chiedersi se sia peggio la crapula estiva dei ricchi epuloni di mare e di costa o la presenza dei piccoli e grossi boss del 41bis in manette e nelle celle di Nuchis, di San Sebastiano, di Badde ‘e Carros (dove sono già numerosi), di Buoncammino e di Uta. Detto all’antica, chi fa più scandalo, di questa gente che ci viene dal mare, scandalo magari di quelli da evangelica macina di mulino da legarsi al collo per un tuffo in mare? È facile fare sociologismo criminologico intorno alla mafia e ai mafiosi puniti e impuniti, più difficile è vedere l’ambiguità di una Sardegna postmoderna terziarizzata dal turismo sfacciato dei ricchi. Non è mai stato facile essere sardi. Ma anche a me da bambino al mio paese sardo contadino hanno insegnato al catechismo che i ricchi epuloni non vanno in cielo, mentre è un’opera di misericordia quella di visitare i carcerati. Sicché adesso mi capita di perdermi a contare le volte che sono stato in un carcere come quello di Buoncammino o in una colonia penale come quella di Isili, mentre ricordo anche troppo la sola volta che sono stato in Costa (Smeralda) e so anche di più il mio mai al Billionaire di un Briatore. No, non è mai stato facile essere sardi, specie quando sembra facile. Credo che stavolta instaurerò contatti più stretti con quei colleghi insegnanti che a Napoli fanno molta e particolare attenzione ai loro alunni figli di camorristi in carcere. Campania: assistenza sanitaria in carcere, via al riparto di 20 milioni di € Il Denaro, 19 ottobre 2012 Spending review: via al riparto di 20,5 milioni di euro per l’assistenza sanitaria nelle carceri campane. Della torta dei finanziamenti disponibili alla Sanità penitenziaria sono attribuiti 18,4 milioni sono da attribuire alla quota indistinta e 1,4 milioni sono destinati alle attività degli ospedali psichiatrici giudiziari. Riguardo ai criteri di assegnazione delle risorse per la quota indistinta si procede al riparto in base alla percentuale di presenze (popolazione carceraria) al 31 dicembre del 2009. E già qui emerge un primo nodo in quanto la sottostima del fabbisogno è certa visto la crescita delle presenza negli ultimi tre anni lievitata dal 25 per cento. Anche per la quota aggiuntiva, destinata agli ex manicomi criminali (oggi ospedali psichiatrici giudiziari) il riparto è effettuato sulla base delle presenze al 31 dicembre di tre anni fa. La quota destinata ai centri clinici viene attribuita all’Asl Napoli 1 in quanto il Centro di detenzione temporanea di Secondigliano è l’unica struttura campana presso la quale è operativo un centro clinico. Il riordino dal 1999 Il riordino della medicina penitenziaria, prima a carico del ministero della Giustizia, risale al 1999. Il quell’anno il governo con un apposito decreto n. 230 del giugno di quell’anno, introduce la riforma dell’assistenza nelle carceri. Ad integrare l’originaria norma interviene un anno e mezzo dopo il decreto legislativo n. 433. Il principio fondamentale della norma è la parità di trattamento, in tema di assistenza sanitaria, dei cittadini liberi e degli individui detenuti ed internati. Le cure alle Asl Dunque il compito dell’assistenza passa a carico delle Asl, il nodo sono proprio i finanziamenti fino a quel tempo assicurati da un altro ministero e improvvisamente attribuiti al fondo sanitario nazionale. In regioni come la Campania cronicamente in bolletta per le attività di Asl e ospedali il passaggio è tutt’altro che indolore. La Finanziaria del 2008 Per questo si va avanti con un sistema ibrido fino al 2008 quando la legge Finanziaria del 2008 stabilisce, al fine di dare completa attuazione al riordino della medicina penitenziaria, il definitivo trasferimento al Servizio sanitario nazionale di tutte le funzioni sanitarie svolte dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e dal dipartimento della giustizia minorile del Ministero della Giustizia. Il riparto che viene ora incassato delle Asl rimanda alle delibere Cipe ndi un anno fa di riparto delle risorse tra le Regioni, con le quali è stata assegnata alla Regione Campania la somma di € 20.565.347,80. L’assegnazione dei fondi alle Asl Fondi da attribuire Quota indistinta 18.402.245,80 Quota Opg 1.476.057,00 Centri clinici 687.045,00 Totale 20.565.347,80 Asl Avellino € 1.910.226,68 Asl Benevento € 1.006.131,81 Asl Caserta € 5.190.555,08 Asl Na 1 Centro € 10.595.666,60 Asl Na 2 Nord € 382.045,34 Asl Salerno € 1.480.722,29 Prato: detenuti a lezione di idraulica e botanica per prepararsi a una nuova vita Il Tirreno, 19 ottobre 2012 Dovrebbe accogliere 476 detenuti e invece ce ne sono 730, il 50% dei quali di origine straniera. Tradotto, in parole povere: sovraffollamento del carcere pratese, soprattutto nella sezione di media sicurezza. Ma c’è un altro aspetto che preoccupa il direttore della casa circondariale pratese Vincenzo Tedeschi: i tagli dei fondi del ministero della Giustizia hanno fatto dire addio quest’anno all’azienda agricola, quella che dal 1986 (anno di nascita del carcere “La Dogaia”) metteva al lavoro i detenuti nella coltivazione della terra che restituiva loro ortaggi e verdure. Ora si conta di rimettere in piedi un’esperienza simile, formando nuove leve dell’agricoltura in carcere, grazie ai tre corsi attivati e finanziati dalla Provincia. “Questo un grosso investimento per la comunità”, fa notare Tedeschi. La vita oltre le sbarre ha il sapore di una libertà fugace sotto il tendone di una serra, il colore blu di quindici divise da lavoro e quello nero degli scarponi anti-infortunistici. Quindici è il numero dei detenuti del carcere della Dogaia che ieri mattina preparavano le talee della serra. Altri quindici sedevano in aula per apprendere nozioni di botanica e giardinaggio, altri ancora da novembre si specializzeranno nel ramo della termoidraulica. Così s’impara un mestiere da spendere dentro e fuori quelle quattro mura, con il pensiero fisso a quando si lascerà quella soglia fatta di cancelli e sbarre. Fra mille difficoltà, si gioca la carta del reinserimento sociale di chi ha sbagliato. Una carta chiamata formazione professionale grazie all’offerta integrata di tre percorsi attivi fino a maggio 2013 (228 ore ciascuno per un totale di 45 detenuti suddivisi in tre gruppi di aula), finanziati dalla Provincia con uno stanziamento 120mila euro sul capitolo del progetto “Ariel” (capofila l’istituto Datini). Integrata perché gli aspiranti detenuti giardinieri dovranno intendersi non solo di superfici agricole, ma anche di impianti d’irrigazione del terreno. A “distrarli” è stato il sopralluogo della vicepresidente Ambra Giorgi, insieme alla responsabile del progetto “Ariel” Editta Sanesi, introdotte dal direttore della casa circondariale Vincenzo Tedeschi e dal collega dell’area pedagogica, Pasquale Scala. Prima tappa, l’aula dove quindici detenuti condannati per reati di natura sessuale da un mese si sono riscoperti studenti di giardinaggio. La vicepresidente Giorgi ha avuto per loro parole di incoraggiamento, dopo aver proposto al direttore della Dogaia una visita a fine corso a Palazzo Banci Buonamici. “Spero che il corso vi torni utile per il reinserimento nella società. È il motivo che mi ha indotto a trovare risorse pari a 120mila euro, operazione che in tempi di crisi non è facile. Inoltre abbiamo deciso di erogare un rimborso spese di 2 euro per ogni ora a chi frequenta almeno il 70% del corso”. I carcerati applaudono, accennando timidi sorrisi e sprizzando entusiasmo per quelle lezioni di botanica che li tengono impegnati due volte alla settimana, mentre dal cortile riecheggiano le grida di chi gioca a pallone. I corsisti sono tra coloro che scontano una pena minima, mediamente, di 10-15 anni. “La selezione avviene da parte nostra secondo un filtro naturale: i detenuti devono dare un minimo di affidabilità”, spiega il direttore Tedeschi. Giovanni è il nome del detenuto più anziano che si fa portavoce del primo gruppo che accoglie l’assessore. “Le piante che studiamo sono metafora di nuova vita”. Dall’altro blocco di pregiudicati nella serra emerge Carmelo, 59 anni ed ex insegnante di educazione artistica. Ha già scontato 22 anni di pena per crimini legati al traffico di stupefacenti, prima ancora nel carcere di San Vittore. Ha fame di riscatto: è uno dei 50 studenti universitari della casa circondariale pratese. “Dal 2000 sono alla Dogaia: volevo iscrivermi all’università, il carcere di Prato era uno dei primi ad attivare il polo universitario penitenziario. Mi mancano cinque esami per laurearmi in Architettura”. A Carmelo non manca tanto per uscire. È diventato nonno: ora non vede l’ora di abbracciare il nipote a Reggio Calabria. Bolzano: Artioli (Lega); il nuovo carcere è inutile, spostiamo i detenuti a Trento Alto Adige, 19 ottobre 2012 Elena Artioli (Lega Nord) torna sul carcere: “Roma sta sciogliendo i patti con l’autonomia, la Provincia di Bolzano sposti il nuovo carcere a Trento”. Anche il carcere di Bolzano “rientrerà nella storia tutta italiana dei supercarceri costruiti e mai utilizzati o semideserti per mancanza di personale? Chi pagherà la manutenzione e il mantenimento dei detenuti, dato che Roma stringe ogni giorno di più la cinghia?” Ma soprattutto “ci saranno i soldi per terminare l’opera o dovrà essere la Provincia a farsi carico di tutti i costi”? A Trento “se non interviene la Provincia pare che siano in forse anche i pasti per la polizia carceraria. Mentre il carcere trentino dispone ancora di ampi spazi, si pensa a costruire la cattedrale da 250 posti a Bolzano. Dove non si è mai superata la soglia dei 150 detenuti”. Dove sta la convenienza? Con quali soldi si intende mantenere questo mega carcere e perché si è voluto costruire su un terreno agricolo trasformandolo in un terreno dal valore commerciale 10 volte superiore? Una serie di quesiti che tornano sul piatto di Durnwalder che dovrà rispondere ad una interrogazione di attualità presentata dal consigliere Artioli. Catania: all’Ospedale Cannizzaro Reparto detenuti sfratta laboratorio analisi, ed è polemica La Sicilia, 19 ottobre 2012 Il primo reparto a Catania con degenze riservate ai detenuti sorgerà all’ospedale Cannizzaro, al terzo piano del primo monoblocco. Qui ieri mattina il commissario straordinario Francesco Poli, accompagnato tra gli altri dal procuratore della Repubblica Giovanni Salvi, dal presidente del Tribunale di Sorveglianza Carmelo Giongrandi e dal direttore della Casa circondariale di Piazza Lanza Elisabetta Zito, ha consegnato i lavori alla ditta appaltatrice, alla presenza del direttore sanitario dell’Azienda Cannizzaro Salvatore Giuffrida e del direttore amministrativo Marco Restuccia. “Il reparto di Degenze per detenuti, nato a seguito delle intese tra Assessorato regionale della Salute e magistratura, avrà sede nei locali che ospitavano il laboratorio analisi e che saranno ristrutturati, ammodernati e adeguati alle misure di sicurezza previste dall’Amministrazione penitenziaria, per garantire i livelli di sicurezza richiesti e le condizioni più appropriate di ricovero e cura”, ha spiegato il dott. Poli. “La nascita di tale reparto - ha detto il procuratore Salvi - è un vantaggio per la città, perché elimina un disagio agli altri pazienti, e per l’amministrazione penitenziaria, in termini di risorse impiegate, ma è soprattutto un beneficio per i detenuti che avranno una struttura dedicata, la quale potrà anche scoraggiare comportamenti strumentali rispetto allo stato di salute”. “Con questo reparto - ha sottolineato la dott. Zito - si riuscirà a garantire il diritto alla salute, che prescinde dalla condizione del malato, anche grazie al fatto che si trova in una struttura d’eccellenza provvista dei servizi e dei presìdi necessari. Sorprende positivamente la brevità dei tempi con cui si è dato vita al progetto: i primi contatti risalgono a marzo”. “Un piccolo miracolo, considerata l’esiguità delle risorse a disposizione, che permetterà di offrire un adeguato servizio di assistenza ai detenuti senza arrecare pregiudizio alla comunità”, ha aggiunto Giongrandi. Il reparto è collegato con gli ambulatori di diagnosi e cura, le sale operatorie e il dipartimento immagini, e comprende sei degenze per 12 posti letto. I lavori, progettati dall’ufficio tecnico del Cannizzaro, saranno eseguiti in sei mesi. Sempre ieri è stato inaugurato il rinnovato reparto di Neonatologia con Utin (Unità di terapia intensiva neonatale), alla presenza tra gli altri del commissario Poli e del direttore del Dipartimento materno-infantile Paolo Scollo. Diretta dal dott. Giovanni Tumino, l’Unità operativa, che si trova al primo piano dell’edificio E al posto dell’ex Ortopedia, vicino a Ostetricia e Ginecologia, al Pronto soccorso ostetrico e al Blocco Parto con cui è collegato, dispone di 18 posti fra terapia semi-intensiva, intensiva e isolamento. A margine della giornata di festa si registra una polemica. Il personale del Servizio di Patologia chirurgica del Cannizzaro ha infatti firmato un esposto - rivolto ai vertici dell’azienda, alle istituzioni, alla magistratura e agli Enti preposti - lamentando che per i lavori in corso “è stato sottratto l’unico gabinetto del Servizio, il corridoio, inserito nei piani di fuga e di emergenza risulta invaso di frigoriferi ed armadi impedendo di fatto l’accesso all’unica porta antincendio. Non risulta alcuna indicazione di cantiere aperto pur essendoci operai che lavorano in stretta commistione con campioni biologici e il personale in stretta commistione con gli operai, di fatto senza alcun dispositivo di sicurezza individuale”. In serata, il chiarimento della Direzione generale dell’Azienda: “nell’ambito della razionalizzazione dei servizi, il Laboratorio analisi, precedentemente distribuito su due piani, sarà dislocato su un unico piano, il secondo. Per potere eseguire i lavori qui, le attrezzature e il personale sono stati spostati in locali inutilizzati del terzo piano, con una inevitabile concentrazione. Naturalmente, tempi e modalità erano stati comunicati al personale, dunque consapevole dei conseguenti temporanei disagi, che comunque l’Azienda sta limitando il più possibile (anche realizzando un bagno a servizio del terzo piano). Nessuna commistione potrà verificarsi tra operai e personale sanitario e nessun cantiere è aperto perché la ditta li ha avuti in consegna soltanto oggi. Nei locali del Laboratorio analisi hanno solamente operato, e opereranno, ausiliari e addetti aziendali”. Modena: malato psichiatrico al Cie, si attiva il Garante regionale dei detenuti Modena Today, 19 ottobre 2012 Desi Bruno ha sollecitato il rilascio del permesso per motivi umanitari ed ha investito del caso l’Assessorato alle politiche sociali. Nel frattempo, la rete Primo Marzo lancia una manifestazione per la chiusura dei Cie. La rete Primo marzo è venuta a conoscenza di un’altra situazione problematica all’interno del Cie di Modena. Da agosto è rinchiuso nella struttura di via La Marmora un giovane sub-sahariano affetto da grave patologia psichiatrica confermata da perizia specialistica, e perciò bisognoso di particolari tutele, ma attualmente tenuto in isolamento in astanteria. In merito al caso specifico il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive, Desi Bruno, dopo opportuni accertamenti, ha sollecitato il rilascio del permesso per motivi umanitari ed ha investito del caso l’Assessorato alle politiche sociali, avviando una “stipula di convenzione con L’Usl”. La stessa garante, vista la delicatezza della situazione, ha omesso i particolari specifici relativi alla patologia psichiatrica del detenuto di cui “al momento, non si conoscono pregressi di percorsi di cura esterni al Cie” ha dichiarato la Bruno. I consiglieri provinciali del Pd modenese Kyenge, Cigni, Cazzotti e Gozzoli hanno segnalato la situazione con una interpellanza d’urgenza, chiedendo le motivazioni del trattenimento e la precisa situazione giuridica della persona. “Oltre a rappresentare una grave violazione dei diritti umani - ha ricordato la rete Primo Marzo in una nota - il caso specifico ci riporta ad alcune domande collaterali sulla garanzia dell’applicazione dei diritti all’interno dei luoghi di detenzione amministrativa. Quanti immigrati vengono trattenuti e lasciati in condizione di abbandono e sofferenza? Quali garanzie al diritto alla cura vengono offerte ai trattenuti nei Cie? Quali sono le caratteristiche formali per dichiarare compatibile al trattenimento un malato privato della libertà personale? Invitiamo le Istituzioni competenti, Comune, Prefettura, Regione, a fare chiarezza sui fatti e ad adoperarsi per abrogare le leggi vigenti attivando percorsi a tutela dei diritti giuridici, della salute e della libera circolazione di tutte le persone. La Rete Primo Marzo invierà una delegazione di parlamentari al Cie di Modena nel pomeriggio di sabato 20 ottobre per valutare la situazione e indice un sit-in davanti al CIE in via La Marmora, lunedì 22 ottobre dalle ore 9:00 nel quale si darà comunicazione dell”esito della visita di sabato. S’invitano perciò cittadinanza, associazioni e media a partecipare”. Oristano: Sdr; nel nuovo carcere di Massama problemi per colloqui e cucine Agenparl, 19 ottobre 2012 “I 120 detenuti del nuovo carcere di Massama dovranno attendere per poter effettuare colloqui regolari e per disporre della piena efficienza delle cucine. L’accelerazione imposta dal Ministero della Giustizia nel trasferimento non ha consentito di organizzare al meglio i due servizi”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, avendo appreso da alcuni familiari la difficoltà nell’effettuare i colloqui con i parenti. “L’inaugurazione della nuova struttura, progettata per 250 detenuti, ha quasi coinciso - sottolinea Caligaris - con la consegna da parte dell’impresa dell’opera in cui peraltro sono ancora impegnate squadre di operai. La forte spinta del Ministero della Giustizia a rendere fruibile il carcere in sostituzione di quello storico di piazza Mannu ha determinato quindi, com’era prevedibile, degli scompensi. Non è stato ancora possibile quindi garantire ai cittadini privati della libertà regolari colloqui in quanto la loro organizzazione richiede l’articolazione di opportuni turni. Analogamente le cucine hanno necessità non solo di essere collaudate ma di essere portate a regime e quindi divenire operative in maniera adeguata alle necessità”. “L’auspicio è che si provveda al più presto a soddisfare i bisogni dei detenuti e degli operatori penitenziari altrimenti - conclude la presidente di SdR - l’accelerazione imposta rischia di divenire controproducente e ledere diritti acquisiti”. Trapani: non ci sono mezzi per trasportare i detenuti in tribunale, salta un altro processo La Sicilia, 19 ottobre 2012 Un altro processo è saltato ieri, a Trapani, a causa della mancata traduzione dell’imputato detenuto. Con una nota, indirizzata ai giudici, il Nucleo traduzioni della polizia penitenziaria ha fatto sapere di essere impossibilitato ad effettuare il servizio per l’indisponibilità di mezzi. Il collegio giudicante, presieduto dal giudice Alessandra Camassa, preso atto dell’assenza giustificata di uno dei due imputati, accusati di rapina, non ha potuto fare altro che disporre il rinvio. Il procedimento è slittato al prossimo 6 novembre ma non è certo se sarà possibile celebrarlo in quella data vista la situazione in cui versa la polizia penitenziaria. La struttura carceraria di Trapani non ha al momento la disponibilità di mezzi per garantire la traduzione degli imputati presso le aule giudiziarie. Una situazione insostenibile che rischia di paralizzare l’attività giudiziaria. Lo scorso 25 settembre un importante processo di mafia era slittato di diverse ore per la stessa motivazione. Il presidente Alessandra Camassa aveva provveduto, per tempo, a segnalare i disagi al Dipartimento amministrazione penitenziaria sollecitando l’adozione di provvedimenti. La situazione però non è migliorata. Se lo scorso 25 settembre gli imputati erano arrivati, seppure in ritardo, consentendo il regolare svolgimento dell’udienza, ieri invece non è stato possibile effettuare la traduzione. Il coordinatore regionale della Uil - Pa Penitenziari, Gioacchino Veneziano, nelle settimane scorse, aveva preannunciato il possibile blocco del servizio. “Abbiamo tutto il parco macchine fermo - aveva detto - perché non ci sono soldi per ripararli. Abbiamo dovuto chiedere aiuto al carcere di Pagliarelli. A Trapani siamo a piedi, come a breve lo saremo in tutta la Sicilia”. Al momento non s’intravvedono possibili soluzioni. Della problematica è stato investito anche il Governo. L’onorevole Rita Bernardini, dei Radicali Italiani, ha presentato, nelle settimane scorse, un’interrogazione parlamentare al ministro della Giustizia sollecitando un immediato intervento. Nel documento, sottoscritto anche da altri cinque parlamentari, si chiede “quali provvedimenti urgenti il governo intenda adottare al fine di porre rimedio ai gravissimi problemi denunciati dal coordinatore regionale della Uil - Pa penitenziari”. Il ministro non ha ancora risposta. Intanto altri processi rischiano di saltare con gravi ripercussioni sull’attività giudiziaria. Roma: a Fiumicino, in volo con l’aereo dei politici, detenuto fugge in pista di Davide Desario Il Messaggero, 19 ottobre 2012 Era stato espulso dalla Romania. E i poliziotti lo stavano accompagnando ad Algeri. Ma durante lo scalo all’aeroporto di Fiumicino un nordafricano ha approfittato della distrazione dei poliziotti romeni ed è scappato a piedi sulle piste del Leonardo da Vinci. Tutto sotto gli occhi degli altri passeggeri, tra i quali anche una nutrita rappresentanza di politici come il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini, il segretario del Pdl Angelino Alfano e il deputato europeo del Pdl Antonio Tajani. Con loro anche il segretario dell’Udc Lorenzo Cesa. Tutti stavano facendo rientro dal congresso del Ppe a Bucarest. È successo ieri sera sulle piste dall’aeroporto intercontinentale di Fiumicino. E allo scalo romano ancora non riescono a crederci. Alle 19,40 il volo di linea dell’Alitalia AZ495, decollato qualche ora prima dalla capitale romena, tocca la pista del Leonardo da Vinci. L’aereo è quasi al completo. Tra i passeggeri anche una folta rappresentanza di politici italiani. Il velivolo dopo il rullaggio arriva al finger. Il pilota effettua tutte le manovre necessarie e si collega all’aerostazione. L’altoparlante dà l’annuncio e a quel punto l’equipaggio fa uscire i passeggeri. Ma improvvisamente scatta un allarme. Qualcosa non funziona nel corridoio di collegamento. Così i viaggiatori vengono fatti scendere in pista dove ad attenderli ci sono i classici pullman pronti a portarli in aerostazione. Eppure il bus non parte. Il motivo? A bordo c’erano anche tre cittadini algerini espulsi dal governo di Bucarest e accompagnati da sei poliziotti romeni. Come da procedura internazionale, i tre espulsi, insieme agli agenti, lasciano l’aereo per ultimi. I tre nordafricani salgono sul bus, ovviamente senza manette, e al loro fianco i poliziotti. Ma un secondo prima che si chiudano le porte accade quello che solitamente si vede solo nei film: uno dei tre stranieri riesce a districarsi e si lancia fuori dall’autobus cogliendo di sorpresa tutti. Due poliziotti romeni goffamente provano a rincorrerlo mentre gli altri quattro colleghi tengono d’occhio gli altrui due algerini. Comincia così una caccia all’uomo per le piste dell’aeroporto: l’algerino è veloce e ha fiato, i due romeni si allontano metri dopo metri. Tutto sotto gli occhi increduli degli altri passeggeri. Qualcuno estrae anche il telefonino nel tentativo vano di riuscire e riprendere l’incredibile scena. Ma non fa in tempo, il nordafricano è già lontano. Per fortuna dei poliziotti romeni e per sfortuna del fuggiasco la scena viene vista anche da una pattuglia della Polaria di Fiumicino. Due poliziotti a bordo di un’auto si lanciano all’inseguimento e alla fine riescono a catturare lo straniero. Il pullman riparte verso l’aerostazione. Il fuggiasco viene portato negli uffici della Polaria dove gli agenti italiani lo prendono in consegna insieme agli altri due connazionali. Almeno fino alle 21,40 quando vengono definitivamente imbarcati su un volo destinato ad Algeri. Bologna: Sindacati; all’Ipm del Pratello manca sicurezza, l’ultima evasione lo dimostra Dire, 19 ottobre 2012 Mettere una volta per tutte in sicurezza la struttura del carcere del Pratello. Solo così si potranno evitare “ulteriori ed incresciosi episodi” come l’evasione di due detenuti a fine settembre: fatto di cui “non può che ritenersi responsabile l’amministrazione della giustizia minorile che ha mostrato e mostra disinteresse ed inerzia nell’affrontare il problema”. È lo sfogo dei sindacati Sappe, Uil, Fp Cgil, Ugl, Cnpp e Sinappe (rappresentativi del personale di Polizia penitenziaria), in una lunga lettera inviata ai vertici dell’amministrazione della giustizia minorile. L’evasione di settembre, dicono i sindacati, “ha ancora una volta evidenziato le ben note carenze strutturali dell’Ipm, con conseguente assenza di sicurezza, che vede tra le sue principali cause la contemporanea presenza del cantiere che circonda l’Istituto”. Occorrerebbe “studiare possibili soluzioni per garantire il soddisfacimento di due necessità tra loro complementari: rendere sicuri gli spazi dell’intera struttura che, com’è accaduto durante la sopra citata evasione, sono stati attraversati dai detenuti in fuga senza che questi abbiano trovato alcun ostacolo strutturale e permettere a tutti gli operatori dell’Istituto di potere lavorare con la serenità necessaria a garantire l’assolvimento dei propri compiti istituzionali”. Serve per i sindacati “una rapida soluzione alla ormai pluriennale presenza del cantiere nell’Istituto”. Se non ci dovessero essere risposte, concludono i sindacati, si darà vita a “tutta una serie di iniziative di protesta per mantenere alta l’attenzione sulla situazione dell’Ipm di Bologna”. Ferrara: presidio davanti al carcere per detenuto “No Tav”, area blindata La Nuova Ferrara, 19 ottobre 2012 Oggi evitate di passare con l’auto e altri mezzi davanti al carcere di Ferrara e nella zona di via Arginone, visto che saranno in vigore divieti di circolazione tra le 14.30 e le 19.30. Il motivo? Èprevista una manifestazione formalmente promossa per “solidarietà verso i detenuti della casa cirondariale di Ferrara”. In realtà si tratta di un presidio voluto dall’area anarchica/NoTav che ha fatto rimbalzare la notizia su Internet e col tam tam di siti anarchici e No Tav ha annunciato per domani pomeriggio il presidio davanti al carcere, dove dal 6 ottobre è presente un detenuto eccellente, Paolo Maurizio Ferrari: Ferrari è stato arrestato nel gennaio scorso nell’ambito di un’inchiesta della procura di Torino dopo gli scontri tra manifestanti No Tav e la polizia al cantiere di Chiomonte, in Val Susa, due estati fa. Detenuto eccellente, perché Paolo Maurizio Ferrari, modenese di 67 anni, è stato negli anni 70 uno dei fondatori delle Brigate Rosse, assieme a Curcio e Franceschini; ha alle spalle 30 anni di carcere, senza benefici, perché non si è mai dissociato dalla lotta armata ed è definito “l’ultimo degli irriducibili”. Nel 2004 è tornato in libertà dopo aver scontato ogni pendenza e da allora si è unito al movimento No Tav e da gennaio scorso, dopo l’arresto, sta passando da un carcere all’altro: Milano, Cuneo e ora Ferrara. Già a Cuneo nel luglio scorso e ai primi di ottobre si sono tenute manifestazioni di solidarietà per Maurizio Ferrari, ora indetta qui a Ferrara. Manifestazione che vedrà arrivare diverse centinaia di manifestanti (le previsioni), che ha messo in moto la macchina dell’ordine pubblico cittadino da parte della questura (potenziamento dei servizi) e del Comune, con la modifica della viabilità: dunque evitate di transitare in via Arginone, tutto bloccato dalle 14.30 alle 19.30 “per ragioni di sicurezza stradale e pubblica”, spiega la nota del Comune “sui provvedimenti adottati su richiesta della questura”. Civitavecchia: il 26 novembre inaugurazione della ludoteca, spazio della genitorialità Comunicato stampa, 19 ottobre 2012 Il rapporto tra figli e genitori detenuti è un problema di cui si parla poco, anche se interessa un numero di persone certamente superiore alle detenute madri. Sono migliaia i bambini che si recano a fare visita ai genitori (madre e/o padre) detenuti. I dati forniti dal Dap, aggiornati al 30 giugno 2012, indicano che su un totale di 66.528 detenuti sono coniugati 19.957, vedovi 635, divorziati 1660, separati 2752, conviventi 6087. Il totale dei figli che i detenuti hanno dichiarato di avere è di 24.385, di questi 7.667 sono figli unici, 8.345 hanno un fratello o una sorella, 4.999 tre fratelli, 2.032 quattro fratelli, 741 cinque fratelli, 293 sei fratelli e 303 oltre sei fratelli. Questi numeri ci parlano di un fenomeno importante che deve essere affrontato sia per tutelare i diritti dei bambini sia per promuovere la genitorialità in carcere sostenendo il detenuto a riacquisire il suo ruolo interrotto dalla detenzione. La Cooperativa Cecilia, grazie alla trentennale esperienza nella gestione dei servizi sociali ed attività in favore della genitorialità e dei detenuti, nella convinzione che il mantenimento e il potenziamento delle relazioni familiari rappresentino un ambito di intervento prioritario nell’azione di recupero e reinserimento delle persone detenute, con il contributo della Cassa delle Ammende del Dap, ha realizzato una ludoteca spazio della genitorialità presso il Nuovo Complesso di Civitavecchia. Questa è la sesta ludoteca di cui, su progetto di Lillo Di Mauro, sono stati dotati altrettanti istituti di Roma e la prima di altre che saranno a breve inaugurate nella Casa Circondariale Mammagialla di Viterbo, e la Casa Circondariale di Rieti Sono spazi colorati ed accoglienti progettati per permettere al genitore detenuto di mantenere saldi e forti i rapporti familiari e sociali e per tutelare i diritti dei bambini attraverso azioni e attività di accompagnamento e sostegno, condotte da educatori professionali, che lo aiutano ad esprimere i disagi e a saperli elaborare. Sono spazi in cui è attivo uno “sportello sociale alla famiglia” riservato ai colloqui con operatori con competenze educative, psicologiche, giuridiche e sociali che intervengono su richiesta nelle situazioni di conflitto. L’accoglienza del bambino in carcere attraverso il gioco ed il dialogo aiuta a lenire momenti di tensione tra lui, genitore detenuto, genitore accompagnatore, agenti di custodia. Facilitare e accompagnare gli incontri tra genitore detenuto e figli oltre a restituire dignità agli affetti, valorizza, la funzione genitoriale altrimenti destinata ad inaridirsi. Gli obiettivi del servizio sono: accompagnare i bambini ai colloqui in prigione considerando che molti di loro vengono presi dal panico al solo pensiero di entrare in carcere; dare sostegno al genitore che si rifiuta di condurre il figlio in carcere a visitare il padre o la madre; consentire ai bambini attraverso personale specializzato di mantenere rapporti costanti con il genitore carcerato; sostenere i bambini durante le perquisizioni; permettere agli stranieri un contatto telefonico più elastico con la propria famiglia in modo che chi ha problemi di fuso orario possa comunque interloquire con i figli lontani; rendere più brevi possibili le attese ai colloqui a cui molte volte sono costretti, per poi dover incontrare il genitore di fretta,; rendere meno traumatizzanti i locali adibiti ai colloqui per permettere che gli incontri si svolgano in un ambienti gradevoli; realizzare un luogo di accoglienza e uno sportello informativo; presa in carico del bambino da parte di personale psico-pedagogico; sostenere i genitori durante l’espletamento della prassi burocratica ma anche quando si sentono disorientati dalle domande dei figli; aiutare il bambino quando si rifiuta di entrare nella sala colloqui; accogliere il bambino in un ambiente strutturato ed attrezzato in maniera consona alle sue esigenze e capacità recettive, attenua l’impatto con la struttura penitenziaria e con i momenti più intensi dell’incontro e del distacco con il genitore che restano intensamente nella memoria fino al colloquio successivo. Promozione dei diritti del bambino; stimolazione dei processi creativi ed espressivi; sviluppo qualità della vita; promozione della partecipazione del bambino; divulgazione diritti dell’infanzia; offrire sostegno e consulenza ai familiari dei detenuti; promuovere nelle famiglie ed in particolare nei minori fiducia nelle istituzioni; promuovere la cultura della legalità e l’integrazione dei beneficiari dell’intervento nel contesto sociale di riferimento; favorire l’affermazione di condizioni di maggiore vivibilità ed umanità per i familiari dei detenuti all’interno delle strutture penitenziarie; promuovere l’integrazione e la complementarietà nelle attività specifiche del sistema penitenziario per migliorare lo stato di detenzione e promuovere l’armoniosa unità familiare dei detenuti con i propri congiunti; recuperare una dignità affettiva sana una genitorialità consapevole. Lillo Di Mauro Presidente consulta permanente cittadina per i problemi Biella: “Studio con testo”… mondo del carcere & arte contemporanea Il Biellese, 19 ottobre 2012 Per l’iniziativa nazionale “Detenzioni 2012”, gli artisti Paola Zorzi e Armando Riva hanno realizzato una installazione progettata dai detenuti della casa circondariale. “Studio con testo”. È il titolo dell’evento di arte contemporanea dedicato alle persone detenute, realizzato nell’ambito di “Detenzioni/2012”. A firmare la realizzazione biellese - inserita nell’ambito della prima iniziativa nazionale di incontro tra l’universo della detenzione ed i protagonisti dell’arte contemporanea - sono Paola Zorzi e Armando Riva che espongono l’installazione nello studio “Megaride” di Armando Riva, a Biella Chiavazza. “Nel suo insieme il progetto che ci ha portati a realizzare questa installazione” esordiscono Paola Zorzi e Armando Riva “è nato dalla necessità di mettere in relazione due ambiti separati: quello del carcere e quello in cui si esterna la dinamica relazionale e produttiva di una società. Tenuto conto dei limiti e possibilità di queste due differenti situazioni” spiegano i due artisti “ai detenuti è stata affidata la parte progettuale, ideativa. In seguito ad alcuni incontri, sono stati quindi realizzati dai detenuti alcuni disegni e progetti a cui noi abbiamo poi dato maggiore concretezza inserendoli in un’unica installazione. Attraverso i testi poi trascritti, a partire da uno dei disegni di un detenuto e sparsi per tutto lo studio, si è evidenziata” concludono “un’ulteriore interazione sia con gli oggetti e opere presenti nello spazio sia con il pubblico”. Un lavoro che è partito con il coinvolgimento dei detenuti. E proprio da questi incontri - mediati da Valeria Quaregna, capo area osservazione e trattamento della Casa circondariale di Biella - sono stati prodotti dai detenuti i disegni, quali progetto da realizzarsi tra l’interno del carcere e l’esterno dove Zorzi e Riva hanno realizzato un’installazione. Oltre a questa, fatta con pietre di torrente, Paola Zorzi e Armando Riva sono tra gli artisti che presentano, in questi giorni, a Palazzo Barolo in Torino, alcune opere. “perché tutto questo succede a me? perché tutto questo succede a me.” di Armando Riva vuole essere un ipotetico dialogo tra la persona carcerata che ha posto la domanda e l’artista che dà una risposta che equivale ad una affermazione. I mestoli utilizzati vogliono rappresentare la difficoltà del gesto “dare e avere”, difficoltà resa più visibile dall’allungamento smisurato dei manici. Nonostante questa difficoltà del gesto l’opera preme contro i muri che la circondano, quasi a voler spostare i limiti e i confini del gesto, fino ad ottenere una posizione quasi libera e quasi rilassata. Di Paola Zorzi, “Contro Natura” un’opera sollecitata dalla lettura di testi scritti da detenuti dove veniva toccato il problema del suicidio in carcere. Albania: sciopero ex detenuti, Osce invita Tirana al dialogo per trovare soluzione Nova, 19 ottobre 2012 L’ambasciatore della rappresentanza dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce) in Albania, Eugen Wollfarth ha invitato le autorità di Tirana al dialogo per trovare una soluzione ai problemi sollevati da un gruppo di ex detenuti politici che hanno indetto da circa quattro settimane uno sciopero di fame, per chiedere il risarcimento finanziario stabilito dalla legge per gli anni trascorsi nelle carceri della dittatura comunista. In un comunicato diffuso oggi, l’ambasciatore Wollfarth dichiara che “le questioni sollevate dagli ex detenuti politici in sciopero sono fondamentali per l’Albania. La democrazia richiede il dialogo”. Il governo albanese per ritiene di aver rispettato in pieno la legge sul rimborso degli ex detenuti ed ha accusato gli scioperanti di essere spinti da motivi politici. “L’ulteriore inasprirsi delle dichiarazioni politiche non fa altro che aggravare una situazione gi tesa”, ha ribadito l’ambasciatore dell’Osce, invitando “tutte le parti, inclusa la società civile, a impegnarsi in una sincera discussione per poter trovare vie costruttive che permetterebbero di guardare avanti”, ha sottolineato Wollfarth. Nei giorni scorsi anche l’organizzazione non governativa Amnesty International, l’ambasciata Usa a Tirana e quella della delegazione dell’Unione europea, hanno lanciato un appello al dialogo per raggiungere una soluzione del problema. È stato in seguito a una mediazione dell’ambasciatore dell’Unione europea, Ettore Sequi, e di quello statunitense, Alexander Arvizu, che la scorsa settimana una rappresentanza degli ex detenuti politici ha potuto essere ricevuta dal capo dello stato albanese, Bujar Nishani. Un incontro che per non ha portato a nessuna soluzione. Usa: Obama rinnova la promessa di chiudere il carcere di Guantánamo Adnkronos, 19 ottobre 2012 Il presidente americano Barack Obama ha rinnovato la promessa di chiudere il campo di prigionia di Guantanámo, che già aveva fatto nella campagna elettorale del 2008. “Voglio ancora chiudere Guantánamo - ha detto Obama, durante la trasmissione satirica Daily Show condotta da Jon Stewart- una delle cose da fare è creare una cornice legale e per farlo serve l’aiuto del Congresso”. Attualmente si trovano circa 170 detenuti nel campo di detenzione nella base militare americana a Cuba, voluto da George Bush per rinchiudervi i presunti terroristi stranieri. La volontà di Obama di smantellare il centro di detenzione si è scontrata con difficoltà legali e l’opposizione del Congresso a ospitare parte dei prigionieri in carceri sul suolo americano. Iran: nel carcere di Shahroud giustiziati due trafficanti di droga Adnkronos, 19 ottobre 2012 Due trafficanti di droga sono stati giustiziati in Iran nel carcere di Shahroud, nella provincia settentrionale di Semnan. Lo ha riferito Iran Human Rights, un’Ong che si batte contro la pena di morte nella Repubblica Islamica, citando una nota pubblicata sulla pagina web della magistratura locale. I due condannati, identificati solo con le iniziali A.A. e M.N., erano entrambi accusato di possesso e traffico di eroina. Oltre il 70% delle condanne a morte eseguite in Iran vede coinvolti detenuti accusati di narcotraffico. Turchia: 600 detenuti curdi in sciopero della fame per Ocalan Ansa, 19 ottobre 2012 Alcune centinaia di detenuti curdi nelle carceri turche stanno facendo uno sciopero della fame per ottenere la fine dell’isolamento imposto nell’isola prigione di Imrali, vicino ad Istanbul, al leader del gruppo armato separatista Pkk Abdullah Ocalan, riferisce oggi la stampa turca. Altri 97 detenuti hanno aderito al movimento ieri, secondo il quotidiano Ozgur Gundem. Secondo Radikal alla protesta, iniziata 38 giorni fa, aderiscono oggi circa 600 detenuti, fra i quali il deputato Faysal Sariyildiz del partito pro-curdo Bdp, uno dei 10 parlamentari turchi attualmente in carcere. Stando a Radikal i detenuti chiedono anche il diritto di potersi difendere in tribunale nella loro lingua madre, il curdo. Il quotidiano riferisce che tre deputati del Bdp hanno incontrato il capo dello stato Abdullah Gul per esporgli le ragioni della protesta dei detenuti curdi.