Sallusti: vengo in carcere, ma da uomo libero Il Mattino di Padova, 18 ottobre 2012 Si sa cos’è capitato ad Alessandro Sallusti, direttore de “Il Giornale”: è stato condannato ad una pena di 14 mesi e in teoria dovrebbe scontarla in carcere. Da Padova, la direttrice della pubblicazione del carcere “Ristretti Orizzonti”, Ornella Favero e un detenuto redattore, Luigi Guida, hanno lanciato una proposta-provocazione: e se Sallusti scontasse la pena, non da detenuto, ma come “lavoro di pubblica utilità”, nel carcere padovano? Un’occasione per conoscere, dal di dentro e da giornalista, la realtà del carcere e delle persone detenute. Abbiamo inoltrato l’invito della redazione di “Ristretti Orizzonti” a Sallusti che ha risposto a tamburo battente. Ecco la sua lettera. “Ringrazio i colleghi di Ristretti Orizzonti per la disponibilità a ospitarmi. Piccola premessa rispetto a quanto scritto nella loro lettera a Il Mattino. All’epoca di fatti non pubblicai una rettifica perché nessuno me lo chiese, come risulta dagli atti giudiziari, e non avendo Libero l’agenzia Ansa non potevo conoscere della precisazione fatta dal magistrato querelante. Inoltre non è vero che non ho pagato il risarcimento (30 mila euro) stabilito nei due gradi di processo. Quello che mi sono rifiutato di fare è pagare a trattativa privata con il querelante altri soldi in cambio, a quel punto, non di un danno (già liquidato) ma della mia libertà (che non ha prezzo). E resto convinto di tre cose. La prima: personalmente non ho commesso nessun reato. Secondo: l’accusa di omesso controllo non prevede il carcere (tanto che nessun direttore l’ha mai subito). Terzo: per mandarmi in carcere mi hanno dato, caso unico, l’aggravante della pericolosità sociale. Ecco, io ho tanti difetti ma non mi ritengo socialmente pericoloso, quindi ritengo quella a mio carico una sentenza o politica o idiota. In entrambi i casi ingiusta. E quindi o lo Stato si prende la responsabilità di portare fino in fondo una ingiustizia o ammette di aver sbagliato e sconfessa in qualche modo suoi servitori o incapaci o in malafede. Una terza via non può esistere. Se i colleghi di Ristretti Orizzonti, alla luce di ciò, vorranno ancora invitarmi sarà per me un onore e un piacere incontrarli, conoscerli e fare con loro tutto ciò che mi sarà possibile. Da uomo libero. Grazie per l’attenzione e l’ospitalità”. Alessandro Sallusti Non vado in carcere perché si vergognano “Il procuratore capo Bruti Liberati ha confidato ad alcune persone: “Io Sallusti non lo mando in carcere neanche se me lo chiede Napolitano”. Così lo stesso direttore del Giornale Alessandro Sallusti, condannato a 14 mesi di reclusione, ospite oggi a 24 Mattino su Radio 24. Invitato a spiegare perché il procuratore capo di Milano avrebbe questa posizione, Sallusti ha aggiunto: “Tengono l’ordine di carcerazione nel cassetto perché si vergognano di venirmi a prendere con i Carabinieri e mandarmi in carcere. Perché alcuni loro colleghi hanno commesso una ingiustizia. La magistratura si è comportata in una maniera assolutamente indegna. Chi ha emesso questa sentenza dovrebbe essere radiato dalla magistratura”. Sallusti ha proseguito: “Il magistrato che mi ha appioppato la pericolosità sociale è in malafede. Guarda caso ha militato prima nei movimenti di estrema sinistra e poi nella corrente di sinistra della magistratura italiana”. Alle parole di Alessandro Sallusti ha risposto l’ex magistrato Bruno Tinti, ospite della trasmissione condotta da Alessandro Milan: “Dire che il giudice è in malafede è una diffamazione. Se mi vedo la scena di un giornalista portato in carcere dai Carabinieri? Certo che ce la vedo. Un giudice ha condannato una persona a una pena detentiva, la pena è definitiva, questa persona non si avvale come libera scelta delle pene alternative, è ovvio che vada in prigione. Che c’è di strano?”. A quel punto Sallusti ha ribattuto a Tinti: “Ma ci vada lei alle pene alternative! Ci vada lei!”. E sulla “pericolosità sociale” di Sallusti, Tinti ha aggiunto: “Bisogna intendersi sul concetto di pericolosità sociale, certo Sallusti non rapina le banche ma è uno i cui precedenti dimostrano che questi reati li commette abitualmente”. In conclusione di trasmissione Sallusti ha detto di non aver mai più sentito Renato Farina, il vero autore dell’articolo all’origine della questione: “La mia vita professionale - ha detto Sallusti - è costellata da problemi dovuti a Farina e quindi per scaramanzia è meglio starne lontani”. Giustizia: Franco Corleone promuove staffetta “digiuno a oltranza” fino al cambio del ministro Ansa, 18 ottobre 2012 Mettere in moto una catena per un digiuno a oltranza fino al cambio del ministro della Giustizia. È quanto annuncia il garante dei diritti dei detenuti del Comune di Firenze, Franco Corleone, che accusa il Governo di parlare di misure alternative mentre con la spending review cancella la direzione dell’esecuzione penale esterna presso il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ed elimina le direzioni di molti istituti. Domani Corleone, in una conferenza stampa a Firenze, spiegherà i modi e i tempi della catena per il digiuno a oltranza, che dovrebbe partire lunedì 22 ottobre, ma intanto sottolinea come il Governo, che non rifinanzia la legge Smuraglia per il lavoro dei detenuti, rinnova il contratto con Telecom, fino al 2018, per i braccialetti elettronici. Lo scandalo - dice il garante di Firenze - è che in 10 anni si sono sperperati 110 milioni di euro per soli 15 braccialetti d’oro, secondo la denuncia della Corte dei Conti. Altra critica all’esecutivo guidato da Monti per la mancata risposta alla richiesta di decreto per le modifiche essenziali alla Legge Giovanardi sulle droghe. Modifiche che consentirebbero di non fare entrare in carcere i responsabili di fatti di lieve entità e di far uscire, per percorsi terapeutici, i tossicodipendenti”. Spesi 81 mln per 15 bracciali elettronici Sono scandalizzato perché il carcere italiano è in una situazione tale che ai detenuti manca la carta igienica mentre il Governo riconferma fino al 2018 un contratto con la Telecom per dei braccialetti elettronici per il controllo delle detenzioni domiciliari. Lo scandalo è che dal 2001 al 2011 si sono spesi 81,3 milioni di euro per l’utilizzo di soli 15 braccialetti in tutta Italia, secondo quando afferma la Corte dei conti. È quanto denunciato oggi dal garante dei detenuti di Firenze, Franco Corleone. Sono braccialetti inutili - ha aggiunto - con uno spreco enorme di soldi che adesso il Governo riconferma. Con la spending review non ci sono invece i soldi per i bisogni dei detenuti o per finanziare la legge Smuraglia che garantirebbe un lavoro vero per queste persone. Sono contraddizioni clamorose. Corleone ha poi reso noto che per effetto dei tagli del Governo ‘sette carceri in Toscana rimarranno senza direttore. Non si possono fare i risparmi sulla sicurezza e sul livello sociale. Un carcere senza testa è destinato a produrre guai grossi ed essere una bomba a orologeria”. Giustizia: Tamburino (Dap), sovrappopolazione carceraria problema da risolvere Agi, 18 ottobre 2012 “Il problema della sovrappopolazione nelle carceri riguarda non solo le Marche ma tutto il Paese. In questa Regione il tasso è nell’ordine della media nazionale, ciò non toglie che si debba provvedere a risolvere questa situazione”. Lo ha detto il Capo Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Giovanni Tamburino, oggi in visita ad Ancona. Per il numero uno del Dap “I detenuti condannati non sono pari a cittadini normali che rispettano le regole”. Quanto alla situazione carceraria “il nostro paese - aggiunge - non ha comunque un tasso di carcerazione diverso da quello che è nella media europea. Quello che abbiamo di diverso - ha spiegato - è la capienza degli istituti, che è insufficiente. Per questo - ha concluso - bisogna puntare sullo sviluppo delle misure alternative e sulla prevenzione”. Misure alternative non sufficienti “In Italia non c’è un tasso di carcerazione diverso dalla media europea”, ma una “distanza notevole da altre democrazie in fatto di capienza degli istituti penitenziari e di insufficiente sviluppo delle misure alternative”. Lo ha detto ad Ancona il capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Giovanni Tamburino arrivato nelle Marche per incontrare il garante regionale dei detenuti Italo Tanoni e l’assessore regionale ai servizi Luca Marconi. Nel suo intervento nell’aula dell’Assemblea legislativa, accolto dalla vice presidente Paola Giorgi, Tamburino ha sottolineato l’impegno dell’amministrazione a favorire la territorialità della pena, legando, ove possibile, il detenuto al territorio. Sta nel cuore dell’amministrazione, ha detto, anche non depotenziare gli Uepe (uffici di esecuzione esterna della pena) perché le misure alternative sono insufficientemente sviluppate nel Paese. I detenuti, ha osservato Tamburino, sono gli ultimi, ed è giusto così perché, vale in particolare per i condannati, hanno infranto le regole...; ma sono cittadini, persone e ci sono regole che devono essere rispettate, senza le quali è impossibile un loro recupero. Va assicurato un livello minimo di garanzie della persona, della dignità ferita dal reato e da ricostruire. Rispetto a questo, ha concluso Tamburino - c’è un ritardo, anche grave, nel nostro Paese. Rimodulazione piano carceri entro l’anno È probabile che, entro la scadenza del piano carceri, il 31 dicembre prossimo, l’apposito comitato possa di nuovo riunirsi per una sua rimodulazione. Lo ha annunciato oggi nell’aula dell’Assemblea legislativa delle Marche, il capo Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Giovanni Tamburino rispondendo alle richieste di chiarimento sulla procedura per la costruzione del carcere di Camerino, inserito nel piano ma in fase di stallo da oltre un anno. “C’è un piano carceri, che comprende quello di Camerino, - ha ricordato Tamburino, soggetto a rimodulazioni che non dipendono né dal Dap né solo del ministero della Giustizia, quanto da un apposito comitato che vigila e segue gli sviluppi e può essere investito da istanze di rimodulazione. Questo - ha aggiunto - con ogni probabilità, avverrà a breve entro la scadenza del pianò. Sulla parte di responsabilità” del Dap, ha spiegato, “mi atterrò a criteri di economicità, buona amministrazione e interesse generale non a criteri localistici. Principi che hanno sempre informato la mia condotta e a cui non derogherò in questo caso”. Protesta Sappe davanti alla sede della Regione Marche Una delegazione del Sappe (Sindacato autonomo polizia penitenziaria) sta manifestando con striscioni e trombette da stadio in sit-in davanti alla sede della Regione Marche per contestare il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Giovanni Tamburino, oggi ad Ancona per incontrare il garante regionale dei detenuti Italo Tanoni, l’Assemblea legislativa, la giunta e i parlamentari marchigiani. Il sindacato addebita al capo del Dap una scarsa attenzione verso le organizzazioni sindacali, contesta il mancato aumento degli organici e la paventata rinuncia alla costruzione del carcere di Camerino. La situazione carceraria nelle Marche è drammatica - ha detto il segretario del Sappe Aldo Di Giacomo. Ci sono 500 agenti a fronte di mille detenuti ma con i turni in quattro quadranti il rapporto è 0,5. Giustizia: in Italia abbiamo un’emergenza che si chiama democrazia… pensateci di Luigi Amicone Tempi, 18 ottobre 2012 “La rigorosa osservanza delle leggi, il più severo controllo di legalità rappresentano un imperativo assoluto per la salute della Repubblica, e dobbiamo avere il massimo rispetto della Magistratura che è investita di questo compito essenziale”. Questa un’agenzia del 15 ottobre in cui il Capo dello Stato, durante l’inaugurazione di una “scuola di magistrati”, è tornato a difendersi (a fronte dell’ultima malevolenza, “il Presidente non è un Re che gode di immunità assoluta”) da “una campagna violenta e irresponsabile di insinuazioni ed escogitazioni ingiuriose”. La campagna, come è noto, sta in quella fiaccola accesa dalla procura di Palermo sulla presunta “trattativa stato-mafia” a cui il Presidente tenderebbe a sottrarre via Corte Costituzionale l’escussione delle proprie intercettazioni e che in principio venne istruita dal venditore di papelli, colto in flagrante millanteria (“io sono un’icona dell’antimafia, io sono in vendita, io gli ho detto che negherò tutto se non mi aiutano”), sotto processo per calunnia e associazione mafiosa, e ora anche indagato per presunto lavaggio-riciclaggio (via discarica in Romania) di 112 milioni (il presunto tesoro di papà), Ciancimino Junior. Dopo di che, uno scorre gli editoriali del giorno, di qualsiasi giorno, e legge e rilegge gli insulti alla politica, gli sberleffi ai partiti, le articolesse di indignazione contro il parlamento. Facile eh? Più difficile, anzi, impossibile, trovare ezi e ferrucci, curzi maltesi e sergi romani, che abbiano il coraggio di avventurarsi nel commento di iniziative di procure che chiudono di punto in bianco una fabbrica che dà pane e lavoro a decine di migliaia di famiglie. Ed è impossibile, benché perfino la Fiom si sia schierata con i preti, trovare un commento in prima pagina a una sentenza che ha sospeso l’eredità della Faac, multinazionale dell’automazione, consegnandola al custode giudiziario, solo perché un lontano parente del proprietario deceduto ha contestato il lascito testamentario dell’azienda alla Curia di Bologna. Più difficile trovare editoriali che si domandino perché un mandato di arresto per voti di scambio venga eseguito un anno dopo il giorno che è stato spiccato. E perché, dopo che ne beccano uno, tutto d’un colpo beccano tutti i consigli regionali d’Italia. E Monti taglia le Regioni. Adesso è il turno di Formigoni. E della sua base sociale. Ma provate a chiedere agli imprenditori quante commesse sono bloccate e quanti cantieri sono fermi. Provate a chiedere al sindaco di Milano con quali tempi incerti si lavora a un Expo dove si dovrebbe avere “poteri speciali” e invece ogni passo può essere interrotto da un “controllo di legalità” (e bisogna averci con i pm ottime relazioni informali). Impossibile, poi, visto e considerato che le notizie, e dunque le carriere, dipendono dagli “agganci” in procura, trovare un solo giornalista autorizzato anche solo a insinuare che i tribunali sono l’unico posto in Italia dove non ha accesso la trasparenza e dove gli incorruttibili non hanno bisogno di controlli. Si sa, i giornali profit sono imprese commerciali e come tali hanno padroni. Il caso vuole che ì padroni dei giornali italiani siano banchieri, costruttori, finanzieri, imprenditori della sanità, multinazionali. Difficile l’esercizio del famoso e autentico Quarto Potere all’americana. Finché c’è da controllare e ingattabuiare la politica, ok. Ma se c’è di mezzo il potere togato, eh, sono cavoli amari. Parlare di giustizia, va bene (quando va bene) per i casi pietosi e umanitari. Prova ne è che c’è una notizia grande come parecchie condanne all’Italia da parte dell’Alta Corte europea per i Diritti Umani, ma la trattano come un caso pietoso e umanitario. Perché non chiudono i penitenziari? Eppure la notizia è che il circuito penitenziario italiano è illegale e torturatore. Perché non lo chiudono come l’Uva? Perché il Presidente non invia un messaggio alle Camere, come gli prescrive Costituzione, e perché “la rigorosa osservanza delle leggi” e “l’imperativo assoluto del più severo controllo di legalità” non valgono per lo Stato? Stesso voltafaccia il governo. Sapientoni e dispensatori degli “indispensabili sacrifici” per tutte le categorie. Ma, fateci caso, si dimenticano del carcere e di quella parte di classi non elettive che esercitano il potere di sbattere la gente in carcere. E se casomai ci pensano - come con i tagli ai maxi stipendi dei lavoratori pubblici - immediata - quasi come il pagamento della fattura all’imprenditore che ha fatto un lavoro per l’amministrazione pubblica - arriva una sentenza della Consulta a specificare che i tagli sì, vanno bene, eccetto che per i giudici e i super manager dello Stato. Avete visto qualche editoriale di commento in proposito? Tutta questa timidezza e, diciamolo pure, il silenzio intorno al terzo potere dello stato, non vi lascia un po’ perplessi e sospettosi - in una non strisciante democrazia dei colonnelli - che la magistratura sembra una potere che fa paura? Pensateci. E se non volete coltivare il sospetto di una P1 in azione da vent’anni in Italia, datevi risposte all’altezza dell’immobilismo ventennale su ogni riforma della giustizia in Italia. Giustizia: strage di Bologna, la vera storia di Mauro Di Vittorio di Paolo Persichetti Il Manifesto ,18 ottobre 2012 Mauro Di Vittorio, Lotta continua 21 agosto 1980. “Prendo un passaggio da un ragazzo tedesco che come salgo mi offre di accendere una pipetta di fumo mi tranquillizza un po’, ma alla seconda pipa nella quale c’erano minimo due grammi di nero mi sconvolgo in modo veramente pauroso. Con la terza la tensione è salita di molto e mi sento male, molto male. Ho un trip violentissimo e delle visioni allucinanti, e per fortuna sono molto stanco per cui mi metto a dormire. Quando il tipo mi sveglia sto meglio e ho fatto molta strada. La sera dopo un passaggio di un belga molto simpatico arrivo a Liegi. Sono contento perché la strada da fare è poca, per cui penso di arrivare il giorno dopo”. L’Europa in autostop È il 30 luglio 1980, Mauro Di Vittorio sta attraversando l’Europa in autostop diretto a Londra, inconsapevole di avere pochi giorni di vita davanti a sé. Giunto a Dover gli inglesi lo rimandano indietro perché non ha con sé sufficienti garanzie di reddito. Costretto a rientrare in Italia, tre giorni più tardi salta in aria insieme ad altre 300persone (85 morirono) nella sala d’aspetto di seconda classe della stazione di Bologna. Oltre venti chili di gelatinato e compound b, una micidiale miscela nascosta molto probabilmente in una valigia, mettono fine per sempre al suo ritorno. Il racconto degli ultimi giorni di vita di Mauro è in un quaderno in cui sono annotate le tappe e gli incontri del viaggio, probabilmente scritto durante il rientro. Dopo 30 anni le pagine di questo diario sono diventate un affaire di Stato, un presunto mistero - secondo il parlamentare Enzo Raisi, già membro della commissione Mitrokhin - che sulla loro veridicità solleva dubbi insinuando che dietro vi sia una manipolazione per nascondere la responsabilità diretta, anche se involontaria, dello stesso Di Vittorio nella strage. La fabbrica delle patacche ispirata dalla trama di un romanzo Per il parlamentare di Fli, che sulla vicenda ha depositato un’interpellanza parlamentare urgente annunciando anche la prossima uscita di un libro, il giovane sarebbe stato un appartenente “all’area di Roma sud dell’Autonomia Operaia”, incaricato di trasportare per conto di un gruppo palestinese, l’Fplp di George Habash in contatto con Carlos, la valigia poi esplosa per un incidente o forse addirittura per una trappola architettata all’insaputa del giovane. Episodio che, sempre secondo Raisi, andrebbe iscritto tra i retroscena del lodo Moro (l’accordo segreto tra Sismi e guerriglia palestinese per salvaguardare l’Italia da attentati in cambio del transito di armi), come un incidente di percorso o come una rappresaglia per la sua violazione l’anno precedente, quando davanti al porto di Ortona furono arrestati, perché trovati in possesso di un lanciamissili destinato alle forze palestinesi, tre esponenti dell’Autonomia romana e successivamente Abu Anzeh Saleh, responsabile dell’Fplp in Italia. Raisi fonda i suoi sospetti sul fatto che nel fascicolo delle indagini, “non sembrerebbe risultare verbalizzato alcun rinvenimento di documento d’identità o agenda del Di Vittorio”. Non è affatto vero ma al parlamentare non interessa al punto da sollevare ombre anche sulla scheda biografica presente nel sito web dell’Associazione familiari vittime del 2 agosto 1980, nella quale sono riportati alcuni brani virgolettati del diario. A rafforzare i dubbi di Raisi ci sarebbero delle nuove testimonianze che riferiscono lo strano comportamento di una ragazza e di un uomo dalle sembianze mediorientali che avrebbero realizzato una ricognizione del cadavere di Di Vittorio all’obitorio di Bologna, fuggendo intimoriti prima che “il primario e il maresciallo presenti sul posto riuscissero a raggiungerli per identificarli”. Sarà soltanto una coincidenza ma il castello di sospetti avanzato da Raisi ricalca senza molta originalità la fantasiosa trama del romanzo Strage, di Loriano Machiavelli, uscito sotto pseudonimo e tra mille polemiche nel 1990 per Rizzoli e ripubblicato due anni fa da Einaudi, nel quale si narra la storia di una coppia di giovani che gravitano nell’area dell’Autonomia, si riforniscono di armi tra Parigi e la Cecoslovacchia fino a quando uno dei due salta in aria alla stazione di Bologna con una valigia di esplosivo attivata a sua insaputa da un sofisticato congegno trasportato da un’emissaria dei “poteri occulti”. Guarda caso anche qui la ragazza si reca all’obitorio con altri compagni. Una forzatura di troppo Il deputato post-missino, citando una testimonianza rilasciata 26 anni dopo i fatti dalla sorella maggiore di Di Vittorio, Anna, a Giovanni Fasanella e Antonella Grippo nel libro “I silenzi degli innocenti” (Bur, 2006), lascia intendere che la “strana telefonata” che informò i familiari del rinvenimento a Bologna della carta d’identità di Mauro, non proveniva dalla questura ma da probabili complici del giovane. Sempre Anna, alcuni anni fa concesse il perdono a Francesca Mambro e Valerio Fioravanti, membri dei Nar condannati per la strage, con una lettera che facilitò l’accesso della Mambro alla liberazione condizionale. Lo scorso 2 agosto, come se nulla fosse, anche Fioravanti, ormai libero, ha ipotizzato in un articolo apparso sul Giornale un ruolo dell’”autonomo” Di Vittorio nella strage. Ma su questo argomento, Anna Di Vittorio e suo marito Gian Carlo Calidori, anche lui colpito negli affetti dalla strage, non hanno intenzione di scendere in polemica. Ritengono che ognuno debba rispondere alla propria coscienza: “Chi siamo noi due per giudicare gli altri?”. In realtà, come ci ha spiegato Anna Di Vittorio, “non è mai esistita nessuna telefonata misteriosa”. D’altronde quanto riportato nel libro non trova riscontro nelle dichiarazioni rilasciate dagli altri familiari il giorno del riconoscimento ufficiale della salma di Mauro. Luciana Sica di Paese sera, in una cronaca apparsa il 13 agosto 1980, racconta le ore passate nella casa di via Anassimandro, nel quartiere romano di Torpignattara. Descrive il clima attonito di una famiglia che per dieci lunghi giorni non ha voluto credere ai ripetuti segnali che annunciavano la tragica fine del loro congiunto, come la telefonata della questura felsinea del 3 agosto che - forse per un eccesso di cautela - riferiva soltanto del generico ritrovamento della sua carta d’identità in città. La cronista raccoglie le prime dichiarazioni del fratello più piccolo, Marcello, e quelle della zia che ancora non riescono a capacitarsi di quella rimozione. Riferisce dell’interessamento dei vicini che invece hanno sentito in televisione la descrizione dei corpi ancora non identificati ed hanno subito capito; finalmente Anna dopo una telefona all’obitorio decide di partire verso la capitale emiliana insieme a due amici. È lunedì 11 agosto, giunta all’istituto di medicina legale entra, sono le nove di sera e all’interno c’è poca luce, i suoi amici non resistono all’odore, tutt’intorno ci sono resti di cadaveri, Anna “vede il corpo del fratello, esce e dice di non averlo riconosciuto”. Chiama Marcello a Roma per sapere se Mauro avesse dei pantaloni di velluto grigio. La risposta non offre scampo: “È lui”. Il mistero inesistente del diario A chiarire invece il mistero del diario ci pensa Lotta continua che il 21 agosto 1980 ne pubblica il testo integrale insieme a una lettera firmata “I compagni di Mauro”. Nel resoconto del viaggio Di Vittorio racconta di essere partito da Roma in automobile insieme a un amico di nome Peppe, probabilmente il 28 luglio. Due giorni dopo alla frontiera di Friburgo i doganieri tedeschi trattengono la macchina di Peppe perché due anni prima era stato trovato senza biglietto sulla metropolitana di Monaco e non ha ancora pagato la multa. Mauro gli lascia tutti i suoi soldi e prosegue solo, in autostop, con la speranza di arrivare rapidamente a Londra, nello squat di Brixton dove viveva, per trovare altro denaro da inviare a Peppe. I numerosi dettagli riportati offrono facili possibilità di riscontro sulla veridicità intrinseca del racconto e se ancora non bastasse c’è l’importo del biglietto del treno non pagato da Mauro durante il viaggio di ritorno che arrivò alla famiglia, quasi come una beffa, dopo la morte. Ancora più interessante è la lettera dei suoi compagni, dalla quale si capisce che Mauro non era un militante e non era mai stato vicino all’Autonomia. Gli autori del testo sono ex di Lotta continua del circolo di Torpignattara, ancora aperto nel 1980 - come accadde anche per altre sedi del gruppo - punto di riferimento per una parte di quella fragorosa comunità politico-esistenziale che non si era rassegnata allo scioglimento dell’organizzazione quattro anni prima. Mauro, che dopo la morte prematura del padre aveva lasciato la scuola per aiutare la famiglia, era molto conosciuto, amato e stimato. I suoi compagni lo descrivono come “Una persona, un compagno inestimabile che sapeva dare tutto a tutti. Capace di dare se stesso in qualsiasi momento. La persona che tutti avrebbero voluto vicino per qualsiasi cosa: per un viaggio, per parlare di se stessi, della vita, delle contraddizioni e dei problemi che ci si presentano quotidianamente”. Un indiano metropolitano a Londra La domenica successiva, sempre su Lotta Continua, appare un’altra lettera che è quasi una seduta pubblica d’autocoscienza. In polemica con i toni ritenuti troppo politici della prima, i suoi autori che si firmano “Alcuni amici di Mauro” sostengono che “per Mauro la parola compagno era diventata vuota e priva di senso come lo è diventata per noi, perché questa maturazione l’avevamo vissuta insieme e insieme avevamo smesso di illuderci e insieme avevamo visto crollare miti, ideologie e propositi rivoluzionari. Quindi, oggi, il minimo che possiamo fare è rispettare il suo modo di vedere, le sue disillusioni. Evitare quindi cose che suonano speculative, evitare analisi che lui non avrebbe fatto, evitare termini in cui non si riconosceva più, evitare inni alla rivolta di cui tutti conosciamo la falsità e la vuotezza”. C’è l’intera parabola di quel che accadde in un pezzo del movimento del 77 in queste frasi che annunciano l’epoca del grande riflusso, dove le grandi narrazioni cedono spazio a traiettorie più intimistiche e personali, in ogni caso situate a una distanza siderale dall’immagine del giovane dalla doppia vita con la valigia piena di esplosivo suggerita da Enzo Raisi. Mauro Di Vittorio con i suoi lunghi capelli neri che sembrano anticipare la moda dei dread, la barba folta e l’aspetto freak, era un’altra persona. Chi lo descrive oggi come l’autore della strage di Bologna lo ha ucciso una seconda volta. “Quest’accusa - replica Gian Carlo Calidori - ci sta facendo vivere un’esperienza sgradevole, ma nonostante ciò continuiamo a confidare, come sempre, nelle Istituzioni della Repubblica Italiana”. E Anna aggiunge: “Nell’agosto del 1980 sono andata a Bologna. Ho visto il cadavere di mio fratello Mauro: era intatto; non carbonizzato; con una sola ferita, mortale, nel costato. Poi, ho incontrato la Polizia Ferroviaria che, molto umanamente, mi ha consegnato gli effetti personali di mio fratello, tra cui il diario di Mauro”. Giustizia: legato a un letto per 90 ore senza acqua e cure, finché muore. Il caso Mastrogiovanni di Valter Vecellio Notizie Radicali, 18 ottobre 2012 Il processo si dipana tra la generale indifferenza; non ha, per esempio, un decimo dell’attenzione che viene riservata alle ridicole affermazioni dell’ex capitano della “Costa Concordia” in occasione delle udienze di Grosseto. Eppure il caso Mastrogiovanni merita di essere seguito con attenzione. Francesco Mastrogiovanni è il maestro elementare anarchico morto in seguito ad un incredibile contenzione durata ben novanta ore; per quella morte sono imputati sei medici e dodici infermieri del reparto di psichiatria dell’ospedale di Vallo della Lucania. Una storia che definire allucinante è poco. Colpevole di nulla, Mastrogiovanni viene letteralmente sequestrato, sottoposto a Trattamento Sanitario Obbligatorio, per ore e ore legato in un letto di contenzione, privato di ogni suo pur elementare diritto, di fatto lasciato morire. Tutto ha inizio il 30 luglio 2009, a Pollica. Mastrogiovanni si trova in automobile e percorre l’isola pedonale. I vigili urbani avvertono il sindaco riferendo che il maestro avrebbe percorso la zona ad alta velocità, provocando incidenti. Viene così ordinato il TSO. Il giorno successivo Mastrogiovanni viene avvistato in un campeggio a San Mauro Cilento, dove trascorre le vacanze. Rifiuta di consegnarsi, si getta in acqua, vi resta due ore accerchiato da uno straordinario arco fi forze composto da forze dell’ordine, capitaneria di porto, addetti alla Asl. Alla fine, visitato dai medici, si dispone il ricovero in regime di TSO. Portato all’ospedale di Vallo della Lucania, Mastrogiovanni ne esce morto. L’avvocato della difesa, nel corso della sua arringa è particolarmente severa con il Pubblico ministero: “Non avrei mai pensato in un processo così delicato di dover compiere opera di integrazione e di supplenza sia all’attività che alla requisitoria svolte dal Pubblico ministero”. La legale sottolinea che “…il Pm è stato distratto, poco attento, poco motivato e ha partorito una requisitoria acefala, avulsa dalla realtà processuale, completamente fuorviante, per nulla attinente all’imputazione”. Il Pm - secondo l’avvocato - ha processato la vittima, ha affermato che si è meritato il Tso per la sua pericolosità sociale, declassando il comportamento degli imputati, stravolgendo infine le cause della morte. Nel corso dell’udienza, su richiesta della difesa, è stato mostrato un video, agghiacciante documento che inequivocabilmente inchioda medici e infermieri alle loro responsabilità. Le immagini, proiettate per la prima volta in tribunale, mostrano come Mastrogiovanni, legato ai polsi e alle caviglie, non si poteva muovere; gli infermieri sono intervenuti solo per ulteriormente stringere i lacci, insensibili alle sue implorazioni, lasciandolo senza acqua e senza cibo per tutta la durata della permanenza in ospedale: “Ci vuole coraggio - dice l’avvocato - a definire la contenzione blanda, mentre intorno al suo letto regna l’indifferenza totale… Il video è chiaro, ma non riesco a comprendere su quali dati il Pm ha elaborato la sua fallace tesi, difendendo medici latitanti, che negano l’evidenza dei fatti”. L’avvocato poi afferma che Mastrogiovanni non è morto per infarto, cosa che nessun consulente ha sostenuto, smonta le menzogne dei medici, chiedendosi come mai questi ultimi, convinti di praticare una contenzione legittima, non l’hanno annotata come prescrive la legge. Il sequestro di persona è fuor di dubbio: i medici non hanno consentito ai familiari di Mastrogiovanni di visitarlo. Per parafrasare l’arringa dell’avvocato, nessuno fa niente per aiutare Mastrogiovanni, anzi tutti si accaniscono contro di lui e viene sottoposto alla contenzione per punirlo, perché - unica ribellione che gli era consentita per il trattamento a cui veniva sottoposto - Mastrogiovanni avrebbe urlato e protestato. Per dirla con l’avvocato Anna Russo, tutti hanno commesso reati: “Medici e infermieri erano tutti d’accordo e coscientemente e volontariamente legavano i pazienti, senza che nessuno si opponesse”. Chi vuole può facilmente visionare quel tremendo filmato, grazie a you tube. Ed è davvero un cazzotto allo stomaco. Lettere: “Sono finita in un carcere… inaccessibile” a cura di Simone Fanti Corriere della Sera, 18 ottobre 2012 Carceri italiane sovraffollate, vecchie, carenti… non è una novità. E tra gli oltre 66 mila ospiti delle strutture penitenziarie ci sono anche 78 persone con disabilità (fonte Ministero della Giustizia, aggiornamento al 15 ottobre 2012). Solo due le donne. Sempre stando ai dati del Ministero le disponibilità di celle attrezzate copre fino a 98 persone (compresi i non autosufficienti) suddivisi in 19 istituti di detenzione. Detto così sembra che il modello italiano funzioni. Ma solo sulla carta. Perché non tutti i commissariati delle forze dell’ordine sono accessibili. Difficile accedervi per fare qualche denuncia, difficile trascorrerci la notte se si delinque. La vicenda che vi racconto oggi, anzi vi faccio raccontare da una ragazza con disabilità che è stata arrestata, è accaduta a Roma qualche settimana fa. Niente nomi ovviamente, d’intesa con la ragazza, solo la storia. E qualche riflessione preventiva. Il tema non è la cannabis terapeutica, che in qualche regione è in fase di sperimentazione, ma l’argomento è carceri e disabilità. Caro Simone, ho 25 anni e sono nata disabile: sono nata con una neoplasia scheletrica, l’emimelia bilaterale agli arti inferiori (per intenderci lo stesso problema di Oscar Pistorius). Fortunatamente, sia per il buonsenso dei miei famigliari, sia per la competenza di certi medici sono riuscita, attraverso molti dolorosi interventi (il primo a 14 mesi) a recuperare le mie “zampette” e a poter camminare. Dopo una pausa nella fase adolescenziale, da circa due anni ho cominciato nuovamente un ciclo di interventi e quindi mi sono ritrovata a dover stampellare. Le scrivo perché sono indignata e arrabbiata e vorrei che questo fatto venisse alla luce, perché è davvero una vergogna. Si parla di carceri sporche, sovraffollate, ma non del fatto che siano inaccessibili. Ebbene sì sono stata, per una notte, una “carcerata con disabilità”. Sono stata arrestata per detenzione di stupefacenti. Il medico per i dolori mi dava Tachidol e Valium e io tra i due farmaci ho scelto la cannabis… può non essere una posizione condivisa, ovviamente, però è la sostanza con cui mi sono trovata meglio nel rapporto benefici-effetti collaterali. Non voglio nascondermi dietro la disabilità per evitare di essere sanzionata, ma avrei voluto che si tenesse conto delle mie condizioni, cosa che non è stata fatta. Ho passato una notte in una cella sporca e maleodorante, e questo nonostante la gamba fosse ingabbiata da un fissatore esterno circolare Ilizarov: avevo delle ferite aperte. La situazione igienica era tale che la mattina dopo il Maresciallo mi ha detto di ringraziarlo di non avermi mandato nelle infermerie del carcere, perché sono molto più sporche. Mi sono state tolte le scarpe per via dei lacci e mi avrebbero portato via anche le stampelle e l’elastico della tuta se non avessi protestato. L’unico bagno disponibile era quello alla turca e ho dovuto discutere non poco per poter utilizzare l’unico con il water di tutta la caserma, sempre diligentemente accompagnata da tre piantoni, casomai decidessi di mettermi a correre per scappare. Ovviamente con le stampelle. Il giorno dopo mi hanno rimesso in cella di sicurezza in attesa del processo, lontana dal gabbiotto dei piantoni e quando li chiamavo per qualche necessità sentivo che ridevano e mi ignoravano, fingendo di non sentire le mie grida. Come se non bastasse, la mattina dopo, durante il processo per direttissima, sono stata umiliata fortemente per la mia disabilità… dal giudice e dal pm, che mi hanno denigrato perché in queste condizioni non mi è possibile lavorare (o meglio, non trovo lavoro da nessuna parte, anche se lo desidero molto). Figurarsi se hanno prestato attenzione alle mie rimostranze, come il fatto che non esistevano bagni disabili nelle strutture in cui mi hanno detenuta. Mi è stato detto che sono in torto e che se mi sono ritrovata in quella situazione è solo colpa mia. È vero, ho sbagliato e devo pagare ma a questo punto mi pongo il problema del trattamento dei disabili in carcere, che c’è, è estremamente sommerso e non viene mai preso in considerazione da nessuno. Si tratta pur sempre di esseri umani e di persone con specifiche necessità che non possono essere prese e buttate in strutture non adeguate solo perché hanno commesso dei reati. Mi vergogno un po’ a raccontarle questa cosa ma è un problema serio e non penso che vada sottovalutato, anche se mi rendo conto della sua estrema complessità”. Lettera firmata Marche: il Capo del Dap Giovanni Tamburino incontra il consiglio regionale Ristretti Orizzonti, 18 ottobre 2012 Le Marche regione “attenta agli ultimi, capace di pensare in termini lungimiranti”, con un tasso di criminalità tra i più bassi d’Italia che deve essere difeso e conservato. È questo il giudizio che esprime sulla nostra regione il Capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Giovanni Tamburino al termine dell’incontro che si è svolto questa mattina con l’Assemblea legislativa e il Garante regionale dei detenuti. Il Presidente Tamburino è stato accolto nell’Aula consiliare dalla Vicepresidente dell’Assemblea legislativa Paola Giorgi, dall’Ombudsman Italo Tanoni, dall’Assessore regionale ai servizi sociali Luca Marconi e dalla Presidente della I Commissione affari istituzionali Rosalba Ortenzi. La Vicepresidente Giorgi, il Presidente Solazzi era impegnato a Roma per un incontro istituzionale, ha ricordato l’impegno che da anni il Consiglio regionale riserva al tema delle carceri, i sopralluoghi svolti dai consiglieri per prendere coscienza delle reali condizioni di vita dei detenuti, ma ha sottolineato anche le priorità, come “la difesa del progetto del carcere di Camerino”. “Le Marche sono una regione virtuosa sotto molti punti di vista - ha aggiunto la Vicepresidente - Siamo attenti al rispetto della dignità umana, ai valori dell’accoglienza e della solidarietà”. Sovraffollamento, carenza di personale e poche opportunità lavorative sono le principali criticità descritte dal Garante regionale dei detenuti Italo Tanoni, soprattutto in considerazione degli ulteriori tagli imposti dal Governo. “Mentre si propone l’istituto della messa in prova - ha detto Tanoni - sotto la scure della spending review i nostri due uffici Uepe (ufficio esecutivo penale esterno) di Ancona e Macerata rischiano il completo declassamento”. E a questo si aggiunge il “paventato accorpamento del provveditorato marchigiano del Dap con quello dell’Abruzzo”. La Presidente della I commissione Rosalba Ortenzi ha posto l’attenzione sulle gravi condizioni in cui versa il carcere di Fermo, “un bunker di cemento che andrebbe chiuso, dove si trovano 91 detenuti, a fronte di una capienza di 45”. In termini di cifre la Regione Marche nell’ultimo anno ha dimostrato concretamente la sua attenzione per la qualità della vita dietro le sbarre. “Sono raddoppiate le risorse previste per l’assistenza e la rieducazione - ha spiegato l’Assessore ai servizi sociali Luca Marconi - Già nel 2011 siamo passati da 440 mila euro a 800 mila, puntando soprattutto sull’assistenza dei minori e sull’inserimento lavorativo”. Il Presidente Tamburino ha ammesso che in Italia c’è “un ritardo grave, notevole, pesante” rispetto ad altri Paesi nell’ambito degli standard detentivi. Ha però ricordato che “il momento della rieducazione non è un monopolio dello Stato, è una finalità che può e deve essere raggiunta da tutta la Repubblica”. “Sono qui perché l’amministrazione penitenziaria non può essere isolata” - ha aggiunto Tamburino. E nelle Marche si possono realizzare percorsi di “recupero e trattamento”. “Il basso tasso di criminalità della vostra regione va difeso in tutti i modi, attraverso l’attenzione e la prevenzione” - ha ribadito Tamburino. Sul fronte dell’edilizia penitenziaria, il Capo del Dap ha confermato che è in atto una “rimodulazione del Piano carceri” in scadenza il prossimo 31 dicembre. “Camerino non è stato escluso, ma manca una disponibilità finanziaria immediata - ha ammesso Tamburino - È chiaro che l’amministrazione penitenziaria farà sentire la sua voce e i criteri che adotterò per fare una valutazione saranno quelli dell’economicità, della buona amministrazione e degli interessi complessivi”. In Aula erano presenti i consiglieri regionali Giulio Natali, Giancarlo D’Anna, Adriano Cardogna e la consigliera segretaria Franca Romagnoli. Campania: diritti umani negli istituti di pena campani… quale futuro? www.ilmediano.it, 18 ottobre 2012 La Commissione per i Diritti Umani del Senato ha fotografato in un dossier la situazione delle carceri di tutta Italia, declamando ancora una volta il triste primato di Napoli - Poggioreale per invivibilità e condizioni della detenzione. Libertà negate, condizioni detentive al limite del sovrumano, assistenza sanitaria negata anche nei casi più critici: questi i temi affrontati dalla Commissione per i Diritti Umani del Senato, che ha fotografato in un dossier la situazione delle carceri di tutta Italia, declamando ancora una volta il triste primato della casa circondariale di Napoli - Poggioreale quanto a invivibilità e condizioni della detenzione. Tali temi sono stati, ancora una volta, al centro di un acceso dibattito svoltosi nella prestigiosa cornice del consiglio regionale campano, alla presenza di numerose figure istituzionali, quali tra gli altri la senatrice Anna Maria Carloni, il Presidente del Tribunale di Sorveglianza Carminantonio Esposito, il Garante dei diritti dei detenuti Adriana Tocco, oltre ad avvocati, magistrati e personale dell’amministrazione penitenziaria. Solo qualche giorno fa, e precisamente domenica scorsa, si è registrato l’ennesimo caso di suicidio in carcere: a non reggere le dure maglie del sistema è stato un giovane di 26 anni, tossicodipendente, con un fine pena peraltro imminente, che non gli ha però consentito di continuare a vivere e comunque a sperare in un futuro oltre le sbarre. La situazione della nostra regione continua ad essere critica, con una capienza ottimale di cinquemila unità ed una capienza attuale di ottomila detenuti, perlopiù stranieri ed in attesa di giudizio, la cui presenza in istituto spesso non fa che ingolfare le maglie del sistema: a Poggioreale, in particolare, il numero attuale di reclusi è addirittura del doppio rispetto alla capienza massima prevista. Nel rapporto redatto dalla Commissione straordinaria per i diritti umani si dà atto, attraverso una lucida e puntuale analisi, di quanto succede nelle quattro mura del carcere e che la gente non sa: in pochi metri quadri tanti, troppi detenuti, con a disposizione uno spazio vitale di pochi metri quadrati nel quale dormire, mangiare, fare i propri bisogni sempre sotto gli occhi di tutti. Cella nella quale un detenuto passa buona parte della sua giornata, perché la mancanza di spazi e di educatori rende, di fatto, difficile lo svolgimento di ogni attività ricreativo-sociale. Il vero problema è, e rimane, quello delle misure alternative alla detenzione, la cui concreta applicazione passa per un Tribunale di Sorveglianza ingolfato, allo stremo delle possibilità e della carenza di personale: in una città come Napoli, ad esempio, per ottenere la misura dell’affidamento in prova al servizio sociale il detenuto deve provare di essersi procurato un lavoro(!), dando vita ad una vera e propria probatio diabolica. Se l’ordinamento positivo richiede ad un soggetto “debole” qualcosa che esso stesso non è in grado di dare, quale esito positivo potrà mai avere qualsivoglia forma di rieducazione? Ancora una volta siamo di fronte a mera teoria. In attesa della tanto agognata amnistia, vera o presunta tale, utile a gettare per un po’ di tempo fumo negli occhi di chi ancora spera in un profondo cambiamento. Sardegna: i mafiosi in cella, le polemiche fuori di Giampiero Cocco La Nuova Sardegna, 18 ottobre 2012 Il vento delle polemiche sollevato dall’arrivo, nel carcere di Nuchis, dei primi esponenti della malavita organizzata non valica le spesse e alte mura di cinta del penitenziario gallurese. All’interno del modernissimo carcere, infatti, la vita prosegue come sempre, uguale come in tutte le altre strutture carcerarie d’Italia. La sveglia (una campanella) al mattino suona alle sette in punto, cadenzando con ritmi da caserma l’intera giornata. Colazione, ora d’aria, pranzo, ora d’aria, ricreazione e poi cella. Una vita da internato condivisa con gli agenti della polizia penitenziaria, che devono vigilare su ogni singolo detenuto loro affidato. Le dotazioni tecnologiche del penitenziario hanno solo in parte modificato questo antico e immutabile tran tran quotidiano. Le novecento e passa telecamere, che riprendono ogni angolo della struttura penitenziaria di Nuchis (che si estende su una superficie di oltre quattro ettari) sono costantemente puntate su ogni punto del carcere, eccezion fatta per l’interno delle celle, unica oasi di privacy concessa ai detenuti. Il campo di calcio, quelli da tennis, la palestra, la sala cinema, la chiesa cattolica sono ancora chiusi, vuoi per mancanza di educatori e agenti, vuoi perché il ministero non ha ancora mandato le necessarie attrezzature. Da alcuni giorni è stata aperta la scuola media, una classe frequentata da una quindicina di detenuti che seguono le lezioni degli insegnanti che arrivano da un istituto tempiese. A fine d’anno dovranno dare gli esami di Stato, come qualunque altro studente italiano. Di lavori per il reinserimento sociale - oltre quelli di scopino e addetti alla cucina -, non se ne parla, in attesa delle convenzioni con le amministrazioni locali. Il carcere di Nuchis, la prima delle quattro mega strutture penitenziarie sarde aperte alla popolazione carceraria, ha fatto alzare il livello di guardia per la presenza di mafiosi, ‘ndranghetisti e camorristi. Per garantire la sicurezza, un ex direttore stabilì che fossero necessari 180 agenti, ma a regime - dicono i sindacati -, ce ne saranno al massimo 120. Questo perché, e non soltanto in Sardegna, il Dap (dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) non ha mai predisposto piante organiche per nessuno dei sette istituti di pena (due dei quali all’aperto, Mamone e Is Arenas) ancora funzionanti nell’isola. In ogni carcere le carenze d’organico sono croniche, e dire che buona parte degli agenti della polizia penitenziaria vengono arruolati nell’isola. “Le carenze - sostiene un rappresentante sindacale - sono nell’ordine del 40 per cento di personale in ogni carcere, ma nonostante questo il dipartimento ha inviato, di recente una nota con la quale si chiedevano applicazioni volontarie per sopperire alle assenze di personale nelle strutture aperte di Is Arenas e Mamone. Ovviamente a costo zero, senza alcun rimborso per quanti accettavano il temporaneo trasferimento. Dei 1400 nuovi agenti, soltanto 180 sono stati destinati alla Sardegna, una percentuale bassissima con la quale non si riescono a coprire neppure i turni di guardia”. Di detenuti sardi assoggettati al 41 bis non ne esistono. I trecentosessanta 41 bis sono personaggi condannati per reati di mafia, camorra o reati legati alla criminalità organizzata. “Pochi dei quali lasceranno le loro attuali assegnazioni”, dice il sindacalista. Restano gli As2 (alta sicurezza due) tra i quali rientra il lulese Matteo Boe, condannato per sequestro di persona. Soggetti ad altissima pericolosità, sottoposti ad un regime di vigilanza stretto e con limitazioni nella sfera personale e sociale. Sono gli As3, (alta sorveglianza) coloro che dovrebbero invece occupare le celle che si stanno aprendo nell’isola: 150 a Tempio-Nuchis, 350 a Sassari-Bancali (con due sezioni As2 e un reparto As1), 180 posti a Massama (As2 e 3) e 650 posti a Uta (As1, 2 e 3). Dopo le polemiche e le prese di posizione, interviene anche l’ex sindaco di Tempio, Antonello Pintus, colui che volle la struttura di Nuchis. “Una scelta della quale non mi sono affatto pentito - ha detto l’ex sindaco -. Il vecchio carcere rischiava la chiusura e per tenerlo aperto abbiamo operato di concerto con l’amministrazione olbiese. La chiusura avrebbe messo a rischio la stessa permanenza del tribunale in Gallura. Ora il nuovo carcere è finalmente in funzione e ci si meraviglia perché nello stesso vengono trasferiti detenuti ergastolani o appartenenti alla criminalità organizzata. Ritengo, in questa bulimia di opinioni innescate da Mauro Pili e che personalmente penso siano puramente propagandistiche, che la dichiarazione più sensata sia quella espressa dall’onorevole Beppe Pisanu, che è poi la stessa che tutti noi abbiamo sostenuto con convinzione: la mafia e la camorra si insinuano dove vi è un ambiente economico-sociale favorevole e non certamente in territori come il nostro, dove l’economia è al collasso e gli abitanti sono moralmente e socialmente esenti da simili tentazioni”. Trento: lettera-appello a sostegno della Proposta di Legge Civico per il Garante dei detenuti di Augusto Goio Vita Trentina, 18 ottobre 2012 Tra i primi firmatari, magistrati, responsabili dell’amministrazione penitenziaria, rappresentanti delle associazioni. Ci sono anche le firme del direttore del carcere di Trento, Francesco Massimo, e del provveditore del Triveneto dell’amministrazione penitenziaria, Felice Bocchino, accanto a quelle, forse più scontate, di Franco Corleone, coordinatore nazionale dei garanti dei detenuti, e di magistrati, avvocati, figure delle istituzioni e rappresentanti delle associazioni in calce alla lettera aperta che chiede l’istituzione del Garante dei diritti dei detenuti in Trentino. Figura già prevista “in molte realtà italiane (12 Regioni, 7 Provincie, 20 Comuni) e in ben 22 Paesi dell’Unione Europea (a cominciare dalla Svezia, nel 1809), il garante è un organo di garanzia che, in ambito penitenziario, ha funzioni di promuovere l’applicazione dei diritti previsti dalla legge per le persone private o limitate nella libertà personali”, si legge in apertura della lettera, diffusa dal consigliere provinciale del Pd, Mattia Civico. Oltre ai già citati, tra i primi firmatari ecco il magistrato di Trento Pasquale Profiti, il presidente dell’ordine degli avvocati Patrizia Corona, il primario di Pronto soccorso, responsabile della sanità penitenziaria, Claudio Ramponi, il direttore della Caritas Diocesana, Roberto Calzà, Mariano Failoni, presidente del Con.Solida, il consorzio che raggruppa le cooperative impegnate nel sociale, Attilia Franchi, presidente del Cnca - Coordinamento Nazionale Comunità Accoglienza - del Trentino Alto Adige, Fabio Tognotti, direttore dell’Apas, e altri. Non essendo ancora stata istituita in Italia la figura di un garante nazionale per i diritti dei detenuti, suppliscono alla lacuna i garanti regionali, provinciali e comunali. I garanti ricevono segnalazioni sul mancato rispetto della normativa penitenziaria sui diritti dei detenuti eventualmente violati o parzialmente attuati e si rivolgono all’autorità competente per chiedere chiarimenti o spiegazioni, sollecitando gli adempimenti o le azioni necessarie. Il loro operato si differenzia nettamente, per natura e funzione, da quello degli organi di ispezione amministrativa interna e della stessa magistratura di sorveglianza. Possono effettuare colloqui con i detenuti e possono visitare gli istituti penitenziari senza autorizzazione. Ecco perché con questa lettera aperta i firmatari chiedono con forza “che questa figura sia istituita anche in Trentino, come espressione del Consiglio Provinciale, quindi dell’intera comunità, nelle forme più sobrie e rispettose delle difficoltà del momento che stiamo vivendo, ma senza fare sconti sui diritti di chi oggi, certamente anche per responsabilità proprie, vive nel carcere di Trento. Perché i diritti non sono privilegi, per nessuno”. “In qualità di primo firmatario del disegno di legge che prevede l’istituzione del garante dei detenuti in Trentino - commenta il consigliere provinciale Mattia Civico (Pd) - non posso che condividere quanto contenuto ed auspicato nel testo sottoscritto da persone autorevoli che ben conoscono la realtà del carcere di Trento. L’impegno che mi auguro possa essere di tutto il Consiglio è di arrivare ad una rapida approvazione della figura del garante”. Il disegno di legge presentato da Civico - che, dopo due anni di faticoso iter legislativo, è ancora fermo in Commissione - prevede la nomina da parte del Consiglio e quindi l’incardinamento nell’ufficio del difensore civico (“al fine di evitare spese di funzionamento”). Sì, perché quello dei costi di funzionamento sembra essere uno degli ostacoli, in questo momento in cui si è tutti chiamati a sobrietà (e in particolare la politica). “Ritengo che, come giustamente richiesto dai firmatari, non sia necessario prevedere indennità di funzione esagerate”, osserva in proposito Civico. “Penso che tale funzione possa essere svolta anche nella massima sobrietà”. E conclude: “Il Garante del detenuti è uno strumento di civiltà: dopo aver speso più di 100 milioni per costruire il nuovo carcere, possiamo disinteressarci di ciò che accade dentro quelle mura?”. Il testo della lettera: “Per un garante dei detenuti a Trento” La figura del garante dei detenuti è indispensabile anche in Trentino. Già previsto in molte realtà italiane (12 Regioni, 7 Provincie, 20 Comuni) e in ben 22 paesi dell’Unione Europea (a cominciare dalla Svezia, nel 1809), il garante è un organo di garanzia che, in ambito penitenziario, ha funzioni di promuovere l’applicazione dei diritti previsti dalla legge per le persone private o limitate nella libertà personale. Crediamo che i detenuti nel carcere di Trento siano parte della nostra comunità e che sia responsabilità collettiva la salvaguardia dei diritti fondamentali delle persone ristrette, a cui, pur negando la libertà di movimento, vanno riconosciuti tutti gli altri diritti: salute, istruzione e formazione, esercizio del culto, espressione dell’affettività, percorsi di reinserimento sociale attraverso il lavoro. Crediamo che per la piena affermazione della dignità della persona costruire carceri moderne, funzionali, “ospitali” sia solo il primo passo, una precondizione; deve seguire un convinto investimento anche in percorsi di riabilitazione e reinserimento, per il recupero di chi sta scontando una pena ed a vantaggio anche della collettività che deve poter contare sul fatto che chi esce dalla condizione di detenuto possa darsi prospettive di vita migliori di quelle che lo hanno condotto in carcere. Crediamo che affinché sia pienamente attuato il dettato costituzionale che pretende la pari dignità sociale tra tutti i cittadini, nessuno escluso, che vieta le pene consistenti in trattamenti contrari al senso di umanità ed impone la finalità rieducativa delle stesse, la figura del garante possa essere uno strumento importante, in grado di sostenere la collaborazione tra i diversi attori coinvolti nei percorsi di recupero. Chiediamo che questa figura sia istituita anche in Trentino, come espressione del Consiglio Provinciale e quindi dell’intera comunità, nelle forme più sobrie e rispettose delle difficoltà del momento che stiamo vivendo, ma senza fare sconti sui diritti di chi oggi, certamente anche per responsabilità proprie, vive nel carcere di Trento. Perché i diritti non sono privilegi, per nessuno. Invitiamo la cittadinanza a sottoscrivere la nostra lettera accedendo al sito web www.pergarantedetenuti.tn.it. Per contatti pergarantede-tenuti.tn@gmail.com. Primi firmatari: Felice Bocchino, Roberto Cal-zà, Pietro Chiaro, Franco Corleone, Patrizia Corona, Mariano Failoni, Attilia Franchi, Francesco Massimo, Pasquale Profiti, Claudio Ramponi, Fabio Tognotti, Iva Vedovelli Reggio C./Carceri: Nucera, non abbassare guardia su chiusura Laureana (ASCA) - Reggio Calabria, 18 ott - ‘ “Nessuno pensi di abbassare la guardia sull’istituto circondariale Luigi Daga di Laureana di Borrello”. È quanto si legge in una nota del vice Presidente del consiglio provinciale di Reggio Calabria, Giovanni Nucera, impegnato, sin dal primo istante contro la chiusura del carcere a detenzione attenuata. “Il carattere temporaneo della chiusura - ribadisce Nucera - non ci convince perché ogni scippo perpetrato ai danni della Calabria e di questa Provincia è sempre partito con questo tipo di proposta. Sull’argomento siamo pronti ad avviare una battaglia epocale”. Una battaglia che, secondo Nucera, andrebbe estesa anche ad altri settori, come quelli dei trasporti e delle infrastruttture. “Prima il governo Berlusconi, adesso quello presieduto dal presidente del consiglio, Mario Monti - Nucera continua - stanno depredando la Calabria. È arrivato il momento di ribellarsi contro una strategia che sta affossando il Mezzogiorno con i continui tagli ai treni e con un’autostrada, la A3, non degna di questo nome. A completare l’opera, adesso, la chiusura del carcere di Laureana, vera e propria eccellenza nel campo della custodia attenuata”. Gorizia: nasce il Garante provinciale dei diritti dei detenuti Il Piccolo, 18 ottobre 2012 Il Consiglio provinciale di Gorizia ha approvato all’unanimità l’ordine del giorno presentato dal capogruppo del Fli Stefano Cosma per l’istituzione di un garante provinciale dei diritti delle persone private della libertà personale. Una figura già nominata dal Comune di Udine ed in attesa di ufficializzazione in quello di Trieste, mentre non è stata prevista dalla Regione, a differenza di molte altre in Italia. Da più parti si afferma che urge una riforma, tant’è che dal 2010 ad oggi ci sono stati 2.056 decessi nelle carceri italiane, di cui 756 per suicidio. Solo nel 2012 siamo arrivati ad una quarantina di suicidi. In dodici anni 68 agenti di polizia penitenziaria si sono tolti la vita e mentre nel 2000 l’età media di chi moriva dietro le sbarre era di 45 anni, ora è di 38. Bisogna trovare misure alternative al carcere, che fra l’altro costano molto meno. “I garanti possono effettuare colloqui con i detenuti e possono visitare gli istituti penitenziari senza autorizzazione, secondo quanto disposto dall’ordinamento penitenziario, appositamente modificato nel 2009 - ha ricordato Cosma, che a luglio aveva visitato il carcere goriziano e che ieri ha informato la direttrice Iannuzzi della sua iniziativa. Il Garante potrà portare alla luce e cercare di risolvere numerose situazioni di disagio: dal sovraffollamento ai pochi corsi di formazione per i detenuti, dalle carenze di figure professionali alla mancanza di servizi igienici per i familiari in visita e, non ultimo, al mancato recepimento in Fvg della normativa sulla sanità penitenziaria”. Prima della sua approvazione, all’Odg è stato aggiunto un emendamento - proposto dal Pd - che estende, ove consentito, le competenze del Garante al Cie e al Cara di Gradisca d’Isonzo. Cosma, che ha ricordato come 50 anni fa proprio la Provincia assunse Franco Basaglia quale direttore sanitario dell’Ospedale psichiatrico provinciale, che elaborò una riforma di respiro nazionale, ha auspicato che da Gorizia parta una riforma del sistema carcerario, magari con un convegno. Anche Dario Obizzi a ricordato che nel 1891 il sistema penitenziario dell’Italia era all’avanguardia rispetto al resto d’Europa. Cosma, infine, ha ringraziato l’assessore Bianca Della Pietra con cui ha condiviso tale percorso, nonché gli uffici della Provincia. Genova: il carcere diventa campo olimpico per un giorno Trasformare il carcere di Genova Marassi in un campo olimpico, i detenuti in atleti, la polizia penitenziaria in tifosi: sarà l’obiettivo di “A Marassi...si gioca”, la festa dello sport per i figli e i familiari dei detenuti organizzata dal Csi sabato 20 ottobre nel penitenziario di Marassi. L’evento è stato presentato dal presidente del Csi Genova Enrico Carmagnani e dal direttore della struttura Salvatore Mazzeo oggi pomeriggio a Genova. “Sarà data la possibilità ai figli e ai familiari dei detenuti di trascorrere insieme ai genitori una mattinata all’insegna dell’attività sportiva e del divertimento - hanno spiegato. Il Csi metterà a disposizione animatori e allenatori esperti che provvederanno all’organizzazione ed al coinvolgimento dei presenti attraverso giochi di gruppo, in un evento che vuole offrire ai giovanissimi che parteciperanno l’opportunità di recuperare, anche solo per una breve parentesi e attraverso un momento di svago, il rapporto con il proprio genitore, la cui lontananza i bimbi subiscono incolpevoli”. Anche per il Cie un Garante dei diritti Un garante provinciale dei diritti delle persone private della libertà personale, valido per i detenuti delle carceri ma da estendere al Cie gradiscano. L’istituzione di questa figura è caldeggiata dal consigliere provinciale Stefano Cosma (Fli): un suo ordine del giorno è stato approvato all’unanimità dal consiglio provinciale, trovando in un emendamento della maggioranza una “sponda” che potrebbe aprire scenari nuovi anche al Cie, viste le recenti testimonianze dei deputati Monai e Sarubbi sui diritti negati all’interno della struttura. “I garanti possono effettuare colloqui con i detenuti e possono visitare gli istituti penitenziari senza autorizzazione - ha ricordato Cosma - secondo quanto disposto dall’ordinamento penitenziario, modificato nel 2009. Il garante potrà portare alla luce e cercare di risolvere numerose situazioni di disagio: dal sovraffollamento ai pochi corsi di formazione per i detenuti, dalle carenze di figure professionali alla mancanza di servizi igienici per i familiari in visita”. Prima della sua approvazione, all’ordine del giorno di Cosma è stato aggiunto l’emendamento, illustrato dal consigliere Alessandro Zanella (Pd), per estendere le competenze del garante al Cie e al Cara di Gradisca. “È noto che i cittadini stranieri trattenuti nei Cie sono persone private della libertà personale per la condizione soggettiva di clandestini sul territorio nazionale - si legge nel testo - e destinatari di un provvedimento amministrativo di espulsione. Le condizioni di trattenimento, di assistenza sanitaria, di informazione legale e i diritti personali connessi sono aspetti che intuitivamente rientrano nella necessità di tutela. Il garante potrebbe contribuire proficuamente anche in relazione alle necessità delle persone trattenute nel Centro di identificazione e espulsione contribuendo per quanto possibile a garantire una salvaguardia dei diritti fondamentali”. Resta da valutare la possibilità concreta dell’estensione al Cie, dato che la normativa che disciplina tali centri è diversa da quella dell’ordinamento penitenziario. Immigrazione: quando un suicidio è annunciato, la storia di Toffik Usmann di Deborah Cianfanelli Notizie Radicali, 18 ottobre 2012 Un viaggio della speranza quello di Toffik Usmann, come per molti altri, finito nella più agghiacciante delle solitudini, unica cosa che il nostro paese ha saputo offrirgli. Era stato assegnato al centro Caritas spezzino con altri profughi provenienti dalla Libia, ma la commissione territoriale di Torino non gli aveva riconosciuto la protezione internazionale. Per quanto ho avuto modo di apprendere Usmann era affetto da una grave forma di depressione, come gli era stato diagnosticato presso il reparto di psichiatria del civico ospedale, dove era stato portato a seguito di svariati episodi di crisi autodistruttive. Nessuno è stato in grado di aiutarlo, come doveva essere fatto. Ancora una volta appare evidente la inadeguatezza e superficialità della nostra normativa in tema di immigrazione, che non riesce ad essere all’altezza del rispetto dei diritti umani come sancito dai trattati internazionali. Tutti erano a conoscenza della grave situazione di questo ragazzo. Gli era stato notificato il foglio di espulsione, per questo era divenuto per tutte le nostre istituzioni un mero fantasma, non più una persona, non più degno di essere oggetto neppure di quel minimo di pietas che dovrebbe essere diritto fondamentale di ogni essere vivente. Eppure tutti sapevano. Più volte erano intervenute le forze dell’ordine per placare le sue crisi, più volte era stato ricoverato e semplicemente sedato, per essere nuovamente lasciato in balia di se stesso. Ora Usmann non c’è più, è il giorno delle domande, come in molti altri casi, domande che troppo spesso sono destinate a rimanere senza risposte: perché una persona bisognosa di urgente aiuto è stata lasciata morire nel nostro paese, così civilizzato, senza che nessuno facesse nulla per impedirlo? Perché le forze dell’ordine gli ospedali, i centri di assistenza e accoglimento nulla hanno fatto per impedire ciò che era stato annunciato? Di chi è la responsabilità? Solo pochi giorni fa Usmann era stato oggetto di articoli di cronaca locale per aver tentato il suicidio, ma ancora una volta è stato lasciato in strada, come un randagio non degno di attenzioni. Tutte domande senza risposta? Non vogliamo che sia così. La vergogna per fatti come questo pesa come un macigno sulla coscienza di un paese che si dice civile. Il minimo che ci si attende è che i responsabili diretti ed indiretti, siano chiamati a renderne conto. Per questo, per far luce sulla vicenda e su qualsiasi responsabilità si vorrà e dovrà ravvisare, la deputata radicale Rita Bernardini presenterà un’interrogazione parlamentare nelle prossime ore. Attendiamo dalle nostre istituzioni delle risposte su questi fatti gravi, nella consapevolezza che ormai sia troppo tardi per il povero Usmann ma per poter far sì che fatti analoghi non debbano più accadere e che nessuno debba continuare a trovare la morte per disperazione nel nostro paese dopo esservi arrivato in cerca di aiuto di diritto e di giustizia. Per non doverci più vergognare di essere italiani. Albania: prosegue sciopero ex detenuti politici, arrestato uno dei coordinatori Nova, 18 ottobre 2012 Gli ex detenuti politici albanesi che chiedono al governo albanese il risarcimento finanziario per gli anni trascorsi nelle carceri della dittatura comunista, non hanno rinunciato allo sciopero di fame nonostante il tribunale avesse ordinato ieri la sua interruzione, considerandolo “illegittimo”. La polizia non intervenuta per eseguire l’ordine del tribunale, ma ha intanto arrestato “in flagranza di reato” uno dei suoi coordinatori, Asllan Patrioti, accusato di “furto con truffa”. Patrioti avrebbe chiesto e ottenuto 700 euro da un cittadino italiano, sostenendo di averlo aiutato a trovare la sua auto che gli era stata rubata lo scorso giugno. Secondo la polizia, invece, l’auto sarebbe stata ritrovata dagli agenti di uno dei commissariati di Tirana e Patrioti avrebbe esercitato continue pressioni nei confronti dell’italiano per ottenere i soldi. Gli ex detenuti politici hanno chiesto l’immediata liberazione di Patrioti, indicando il suo arresto come “un atto politico”.