Invito ad Alessandro Sallusti del “Giornale”… “Non la cella, ma lavoro di pubblica utilità” Il Mattino di Padova, 15 ottobre 2012 Si sta molto dibattendo sull’opportunità che Alessandro Sallusti, il giornalista condannato a una pena di 14 mesi per un reato di diffamazione, vada in carcere. Avrebbe potuto potrebbe chiedere l’affidamento ai servizi sociali ma non vuole, avrebbe potuto pubblicare una rettifica ma non l’ha fatto, avrebbe potuto pagare un risarcimento di qualche migliaia di euro ma non l’ha fatto, e adesso è stato condannato al carcere con sentenza definitiva. Ora tutti dicono che non è giusto andare in carcere per un reato di opinione, ma quanti sono i reati per i quali non serve a niente andare in carcere, e servirebbero davvero pene diverse? Un lavoro di pubblica utilità, per esempio: la redazione di Ristretti Orizzonti si offre di ospitare Alessandro Sallusti non da detenuto, ma da persona condannata a un “lavoro di pubblica utilità”. E su questa proposta intervengono un redattore-detenuto e la direttrice di Ristretti Orizzonti. A noi, i giornalisti ci fanno neri quando veniamo arrestati Penso che non sia giusto punire Sallusti con il carcere, ma penso anche che a noi, i giornalisti ci fanno neri quando veniamo arrestati, facendoci passare per dei mostri senza che nessuno ne paghi le conseguenze. Perché invece quando si parla di un giudice diffamato, allora la condanna arriva, e pesante? Non ho mai visto condannare nessuno per aver scritto degli articoli falsi su di noi. Io ho degli articoli scritti su di me che non corrispondono alla verità, non sono certo Sant’Antonio, però hanno scritto su di me articoli poi smentiti durante il processo e con le sentenze. Al massimo quello che ottieni come risarcimento è che ti dedicano due righe scusandosi, ma io non ho mai visto neppure quelle. In questi giorni il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha invitato i partiti a discutere della drammatica situazione carceraria, sollecitandoli a trovare una soluzione in tempo rapido, partendo da una serie di provvedimenti, che favoriscano la possibilità di accedere alle misure alternative, senza escludere un atto di clemenza come l’indulto e l’amnistia. Ma purtroppo, in attesa che i partiti trovino un punto di incontro, iniziando una discussione seria su questo argomento, nelle nostre carceri molti detenuti continuano a togliersi la vita non riuscendo più a sostenere la tortura che il sovraffollamento gli infligge ogni giorno. Le difficoltà dei politici a varare leggi in materia di giustizia e carceri si verificano però solo quando si tratta di risolvere i problemi del sistema carcerario, mentre invece si sta cercando molto rapidamente di varare una legge ad hoc per evitare che il direttore del quotidiano “Il Giornale” Alessandro Sallusti finisca in carcere. Io credo che il carcere debba essere l’ultimo rimedio almeno per quei reati di minore gravità, quindi questo vale anche per il direttore Sallusti, ma mi chiedo se sia giusto impegnarsi a varare una legge che favorisca solo una casta, in questo caso quella dei giornalisti, mentre si continua a prendersela con comodo e superficialità per la restante parte delle persone che subiscono la drammatica situazione carceraria. Spero dunque che noi tutti iniziamo a fare una lunga riflessione su questo tema, e a convincerci che il problema del sistema carcerario inadeguato non è e non può rimanere solo “affar nostro”, di noi che in galera ci siamo già, e le morti che avvengono all’interno non devono restare un lutto privato, perché quando un detenuto arriva a suicidarsi, in quel gesto estremo c’è senza dubbio una parte di corresponsabilità delle nostre istituzioni. Come può infatti uno Stato non sentirsi causa di questa ingiustizia, se lascia i detenuti in situazioni a dir poco incivili, ma soprattutto illegali, e guarda caso in luoghi dove si dovrebbe ricondurre gli autori di reato al rispetto della legge attraverso la rieducazione, ma mancano invece le condizioni perché la Costituzione venga rispettata? Ecco, Alessandro Sallusti nella nostra redazione potrebbe anche confrontarsi con noi seriamente su questi temi. Luigi Guida La pena del carcere è sbagliata per il reato di Sallusti, ma anche per tanti altri reati In galera ci si misura spesso con il fatto di aver visto la propria storia personale “massacrata” sui giornali, schiacciata sul reato come se a commettere reati fossero “i mostri”, quindi le riflessioni che si possono fare sul caso Sallusti a partire da una realtà di informazione dal carcere come la nostra non assomigliano molto a quelle dei professionisti dell’informazione. La prima riflessione è che questa vicenda non ha insegnato molto a chi ama condire la sua informazione di “mezze verità”, che a volte fanno più danno delle menzogne: dopo aver pubblicato sul suo giornale questo articolo pieno di falsità e non averlo voluto smentire, abbiamo sentito infatti Alessandro Sallusti dire che lui non vuole accettare di concordare un risarcimento, facendo credere che il giudice diffamato avesse chiesto i soldi per sé, e non invece per l’associazione Save the children, come se li intascasse lui insomma, e quindi da una parte ci fosse un giudice meschino e interessato, dall’altra un giornalista che piuttosto di cedere a queste miserie accetta di andare in galera. Un’altra affermazione falsa, che abbiamo sentito fare da tanti, è che mentre gli stupratori e gli assassini escono in fretta dalla galera, chi fa un reato di opinione rischia il carcere. La seconda questione che ci interessa sottolineare è che la terminologia che si usa in tante situazioni, “reati di opinione”, “reati contro il patrimonio”, va forse rimessa in discussione a partire dal fatto che è fuorviante, perché le vittime sono comunque persone. Quindi io non accetto, proprio da giornalista che però opera in carcere, in una realtà in cui si discute seriamente della responsabilità delle persone che commettono reati, che si parli in modo semplicistico di “reato d’opinione”, perché le parole a volte fanno molto più male di un pugno, come non mi piace quando si parla di “reati contro il patrimonio”: se un rapinatore va in banca, minaccia le persone, le prende in ostaggio, le terrorizza, è banale parlare di reato contro il patrimonio ed è deresponsabilizzante. Nel caso di Sallusti poi non è un reato di opinione, è diffamazione, calunnia, è un reato che offende una persona, quel giudice è una vittima perché la dignità di una persona è una cosa seria, e che un magistrato venga spacciato per uno che costringe a fare abortire le ragazzine non mi pare uno scherzo. Detto questo, noi che la galera la conosciamo bene pensiamo che la pena del carcere è sbagliata per il reato di Sallusti, ma anche per tanti altri reati. Perfino in un carcere come la Casa di reclusione di Padova, che è un penale dove dovrebbero stare i detenuti per reati di effettiva pericolosità sociale, invece ci sono tante persone che dovrebbero fare piuttosto percorsi di cura, come i tossicodipendenti, o pene alternative, come il lavoro in un Pronto soccorso per chi commette reati legati al Codice della strada. E non dimentichiamoci che la “pericolosità sociale” di un giornalista per certi aspetti poi è enorme, perché lui ha il potere di danneggiare le persone in una maniera in qualche modo “irreversibile”, visto che un articolo pubblicato anche in internet non dura più un giorno, ma una vita. Sarebbe poi utile che chi critica i giudici per la sentenza Sallusti ragionasse piuttosto sulla necessità urgente di riformare un Codice Penale indecentemente vecchio, quindi tutti gli attacchi ai giudici sono strumentali non perché siano sempre immotivati, pure noi di sentenze criticabili e di pene spropositate ne abbiamo viste tante, ma perché se si fosse fatta la riforma del Codice Penale tanti reati sarebbero stati depenalizzati e quindi si sarebbe messo mano anche alle pene previste per la diffamazione, pensando a pene diverse dal carcere, pene che impegnino la persona, e non solo il suo portafoglio: per Sallusti per esempio potrebbe essere la pena di lavorare per qualche tempo qui nella nostra redazione, confrontarsi con persone che sono state “massacrate” dall’informazione, vedere come si vive davvero in carcere, quanto è falso dire che i delinquenti escono subito, quanti pochi “mostri” ci sono dentro e invece quante persone che arrivano da storie di vita in cui mai avrebbero immaginato di varcare la soglia del carcere. Ornella Favero Giustizia: subito l’amnistia, per evitare il default civile dell’Italia di Patrizia Del Pidio www.investireoggi.it, 15 ottobre 2012 Dal Papa al Presidente della Repubblica, tutti invocano la clemenza per restituire dignità e umanità ai detenuti. La cancellazione dei reati di bassa gravità farebbe risparmiare 1,2 miliardi allo Stato. La situazione carceraria in Italia è una realtà che, come ha affermato il Presidente della Repubblica , che non fa certo onore al nostro paese. In più di un’occasione, Giorgio Napolitano ha sottolineato la necessità di ricorrere a misure di clemenza per ridurre il sovraffollamento delle carceri italiane e per creare condizioni detentive degne di un paese civile per tutti coloro che stanno scontando pene di detenzione senza poter usufruire della rieducazione che il carcere dovrebbe dare per dovere costituzionale. Un invito, quello di Napolitano, che fa il paio con quello già avanzato dal Papa Pio Benedetto XVI un anno fa in visita al carcere di Rebibbia, ma che - come ha osservato il Ministro della Giustizia Paola Severino - non trova piena rispondenza nelle forze politiche parlamentari, interessate più a salvare la faccia dei loro partiti che ai problemi reali della gente che soffre ogni giorno, anche per causa loro. Carceri sempre più piene Il numero sempre maggiore di detenuti negli istituti di pena, sta portando sempre più alla luce dell’Europa le patenti violazioni dei diritti umani e della dignità delle persone alle quali quasi quotidianamente siamo costretti ad assistere dai fatti di cronaca dei telegiornali. L’altissimo numero dei suicidi è solo la punta dell’iceberg di un mondo in cui la vita sembra non contare più nulla a causa dell’inefficienza del sistema carcerario. A proprio per questo, ora come ora, l’amnistia assume i termini di un atto di giustizia più che un atto di clemenza. Virgilio Balducci, che ricopre l’incarico di ispettore dei cappellani delle carceri spiega “L’amnistia ora ha un senso perché molte persone in carcere stanno subendo limitazioni dei diritti fondamentali, pensiamo alla salute, alla malattia mentale, al degrado della dignità umana. Molti diritti vengono limitati, l’amnistia sarebbe un atto di giustizia”. Purtroppo la politica non è affatto elastica su questo argomento, ma Balducci sottolinea che “se questo governo riuscisse a far muovere la situazione a partire da quello che già ora si può fare, sarebbe molto. Se tutti i tossicodipendenti che chiedono di andare in comunità potessero farlo, se i malati mentali fossero accolti in strutture adeguate e gli stranieri che vogliono andare a casa li si lasciasse andare, credo che si abbatterebbe la presenza nelle carceri del 20-30%”. Depenalizzando i reati minori e scontando la pena sul territorio anziché in carcere, si potrebbe arrivare anche ad un nuovo codice penale per una umanità fatta di tossicodipendenti, persone senza fissa dimora, malati psichici, una umanità distrutta e debole, che non ha bisogno del carcere per essere redenta. I tagli effettuati sul sociale hanno condizionato moltissimo il mondo dei detenuti, ma il problema sociale delle pene di detenzioni è anche che, se è giusto che chi sbaglia paga, è anche giusto che chi commette un errore abbia la possibilità di riparare all’errore commesso, e il mondo carcerario italiano odierno non lo permette. La Lega dice no all’amnistia Contraria all’amnistia è principalmente la Lega Nord che attraverso la capogruppo alla Camera ha dichiarato testualmente che “qualsiasi forma di indulto o amnistia è una proposta irricevibile. Se dovesse arrivare in Parlamento faremo un’opposizione durissima. Il sovraffollamento carcerario non si risolve tirando fuori dalle carceri i delinquenti, ma costruendo nuove strutture”. Ma anche il Partito Democratico ha espresso recentemente le sue perplessità dopo le parole di Napolitano. Che si sia incrinato qualcosa fra il Colle e alcuni esponenti di centro sinistra? O che l’amnistia possa divenire merce di scambio con importanti leggi quali il ddl sulla corruzione o la legge elettorale? Del resto per varare una legge a favore dell’amnistia occorre una maggioranza qualificata di due terzi in Parlamento e i numeri sulla carta al momento non ci sono. Strano veramente. Tutti uniti a garantirsi privilegi e vitalizi dopo 35 mesi di legislatura e, invece, divisi su un atto di umanità che restituirebbe un minimo di dignità alla politica italiana? Il fallimento dei partiti di misura anche su queste cose e il fatto che la stampa non dia più risonanza all’attuazione di un provvedimento che dovrebbe essere bipartisan, ne è la prova concreta. Mantenere i detenuti in carcere costa 4,5 miliardi all’anno, 70 euro a contribuente Al di là dell’aspetto umano e politico per cui uno Stato civile, per come stanno le cose, dovrebbe concedere immediatamente l’amnistia, vi è da considerare l’aspetto economico che grava sulle tasche dei contribuenti. E mai come in questo preciso momento della storia repubblicana sarebbe utile tagliare energicamente anche sulle spese che gravitano intorno all’amministrazione della giustizia e più in generale al mondo penitenziario che vede in carcere più persone in attesa di giudizio di quelle che realmente stanno scontando una pena. Secondo l’Istat il costo per “mantenere” in carcere una persona si aggira sui 70mila euro l’anno per detenuto, poco meno di 200 euro al giorno. E lo Stato spesso non è in grado di rivalersi sul detenuto per farsi rimborsare in tutto o in parte le spese di manutenzione in carcere. A conti fatti, quindi, considerando che la popolazione carceraria italiana supera le 67.000 unità, lo Stato italiano spende ogni anno oltre 4,5 miliardi di euro (70 euro a testa) per tenere in piedi un sistema che ha già superato del 25% la capienza massima disponibile delle carceri (44.000 posti). È come se un’azienda di servizi fosse in sotto capacità produttiva del 25%, cioè spendesse molto meno di quanto necessario per soddisfare le esigenze dell’utenza. Ne va della qualità del servizio. Servizi carcerari oltre ogni limite minimo tollerabile Ora, è vero che i delinquenti non si possono lasciare in libertà sui due piedi e che ci sono molte carceri di nuova costruzione non utilizzate, ma è altrettanto vero che non si può far gravare sulla testa dei contribuenti spese superflue dovute all’inefficienza e al malfunzionamento della giustizia italiana che si ripercuotono sulle disumane condizioni della popolazione carceraria. Per costruire e far funzionare nuovi istituti di pena occorrerebbe infatti finanziare nuovi appalti, assumere centinaia di agenti di polizia penitenziaria in più (già sotto organico) e mettere in moto un apparato burocratico che si sta cercando da più parti di snellire. I fondi che lo Stato ha stanziato per le carceri italiane sono stati pressoché uguali dal 2007 al 2011, ma non è stato considerato che il numero di detenuti totali è passato da 44.000 agli oltre 67.000 di oggi. La situazione di sovraffollamento mista ad una situazione di peggioramento dei servizi offerti dal carcere ha portato, quindi, a situazioni estreme come i suicidi e le risse tra detenuti e agenti, che in quest’ultimo periodo sono aumentate ulteriormente. E il tutto è da attribuirsi in primo luogo al contributo che l’amministrazione stanzia ogni anno per la gestione delle carceri, sempre meno adeguato alle minime esigenze umanitarie. L’Italia è all’ultimo posto in Europa per efficienza del servizio carcerario Detto ciò, è bene ricordare che uno Stato civile si riconosce principalmente dal funzionamento della giustizia e l’Italia - secondo un recente rapporto di Confcommercio- registra il più basso livello di efficienza del sistema giudiziario a livello europeo. Le cause penali durano anni, senza considerare il fatto che a volte giungono a conclusione quando i reati sono prescritti con notevole aggravio di spese per la cittadinanza che si vede così aumentare la pressione fiscale senza alcun risultato utile per la società. Il tutto a vantaggio della casta degli avvocati e di tutti quei professionisti (periti, esperti, consulenti, ecc.) che fanno soldi sulla pelle degli indagati grazie alle lungaggini burocratiche dei tribunali e al malfunzionamento dell’apparato giudiziario. Mettiamoci dentro anche i magistrati, l’altra faccia della medaglia della casta, perché no? La recente sentenza della Corte Costituzionale ha stabilito l’illegittimità della riduzione delle retribuzioni dei giudici con busta paga superiore a 90 mila euro in un momento in cui alla collettività vengono chiesti sempre più sacrifici di fronte a una recessione che sembra interminabile. Incredibile! Chiunque a questo punto sarebbe portato a pensare che con i detenuti si fa business. La mancata approvazione dell’amnistia del 2006 E non sarebbe un semplice provvedimento di indulto, come quello varato dal Parlamento nel 2006, a risolvere il problema dei costi della giustizia in Italia. Quel famoso e tanto discusso sconto di pena, non accompagnato dall’amnistia (stralciata all’ultimo momento dalla Commissione Giustizia solo per mandare Berlusconi a processo) produsse, alla lunga, ulteriori costi per la collettività. L’Istat nel 2010 aveva stimato una spesa di 150mila euro all’anno a persona in conseguenza dei procedimenti penali indultati che comunque sono dovuti andare a sentenza, oltre ai delitti commessi dai detenuti rilasciati che sono stati processati sia per i crimini condonati che per quelli nuovi. In conclusione, quindi, solo l’amnistia farebbe veramente risparmiare allo Stato un sacco di quattrini perché cancellerebbe i reati meno gravi (la maggior parte) alleggerendo il lavoro dei giudici che potrebbero così concentrarsi sui procedimenti più gravi rendendoli esecutivi in tempi più rapidi. Un risparmio che le varie associazioni a difesa dei detenuti in attesa di processo hanno stimato nell’ordine di 1,2 miliardi di euro. Giustizia: a Napoli presentato Rapporto su stato dei diritti umani nei penitenziari italiani Ansa, 15 ottobre 2012 Sono circa 21mila i detenuti in esubero rispetto alla capienza regolamentare dei penitenziari italiani. Il dato emerge dal “Rapporto sullo stato dei diritti umani negli istituti penitenziari e nei centri di accoglienza e trattamento per migranti”, realizzato dalla Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato. Dal rapporto, illustrato oggi a Napoli, emerge che, al 29 febbraio 2102, nei 206 penitenziari italiani ci sono 66.632 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 45.742 posti. Il lavoro, sistematico e approfondito, è stato realizzato avendo come punti di riferimento il rispetto della dignità e dei diritti umani e si è avvalso dell’attività svolta anche dalle Commissioni Giustizia e Sanità e della Commissione parlamentare d’inchiesta sull’efficienza e l’efficacia del servizio sanitario nazionale. Secondo il rapporto il sovraffollamento costituisce l’elemento centrale di un disagio umano, psicologico, materiale, e ha conseguenze sul piano sanitario, sulle attività lavorative. Il documento individua quattro punti centrali attorno cui ruota il sovraffollamento: la custodia cautelare; l’aumento dei detenuti tossicodipendenti; la recidiva; l’immigrazione clandestina. Secondo i dati forniti dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, i detenuti in via cautelare rappresentano il 40 per cento della popolazione carceraria. Dai dati emerge che a febbraio 2012, 26.989 erano i detenuti imputati di cui 13.628 in attesa di primo giudizio. Un altro 40 per cento di detenuti è costituito da tossicodipendenti, mentre gli stranieri rappresentano oltre un terzo del totale: su 66.632 detenuti, gli stranieri sono 24.069. Rispetto al tema delle misure alternative, dal rapporto si evince che sono 10.209 i condannati che godono dell’affidamento in prova; 902 quelli in semilibertà. Rispetto alle misure di sicurezza e sanzioni sostitutive, sono 3.035 i condannati in libertà vigilata; 137 quelli che godono di semidetenzione e libertà controllata; 1.331 i condannati sottoposti ad altri regimi tra cui lavoro di pubblica utilità, sospensione condizionale della pena; lavoro all’esterno. 66 suicidi nel 2011, solo 20% dei detenuti lavora, fondi ridotti del 30% in 5 anni Sono state 186 le morti negli istituti penitenziari italiani nel 2011 di cui 66 suicidi. Il dato è all’interno del “Rapporto sullo stato dei diritti umani negli istituti penitenziari e nei centri di accoglienza e trattamento per migranti” redatto dalla Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato presentato oggi a Napoli. Carceri italiane in cui, secondo il rapporto, vigono condizioni di emergenza e per cui - si legge nel testo - la comunità internazionale ha dato in sedi diverse un giudizio fortemente critico sul sistema penitenziario. Criticità data, non solo dalle condizioni di vita, ma anche dalla situazione rispetto al lavoro penitenziario. Secondo il Rapporto, poi, soltanto il 20 per cento dei detenuti è occupato, di cui 11.508 alle dipendenze del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) e 2.257 tra cooperative e aziende no profit. Numeri che sono anche la conseguenza della riduzione dei fondi destinati alla retribuzione dei detenuti-lavoratori. Secondo il Rapporto, che prende i dati dalla relazione che il Dap ha presentato al Parlamento per il 2011, i fondi hanno subito un taglio del 30 per cento, passando da 71milioni 400mila euro del 2006 a 49milioni 664mila nel 2011. Giustizia: Marcenaro (Senato); è tempo per provvedimento di clemenza Ansa, 15 ottobre 2012 Un provvedimento di clemenza da abbinare alla risoluzione di questioni strutturali sono le strade indicate da Pietro Mercenaro, presidente della Commissione Diritti umani del Senato, in occasione della presentazione, a Napoli, del “Rapporto sullo stato dei diritti umani negli istituti penitenziari e nei centri di accoglienza e trattamento per migranti in Italia”. Provvedimenti per dare risposte a quella che Mercenaro ha definito “una vera e propria emergenza carceri”. “Ormai - ha detto Mercenaro - tutti concordano sul fatto che il carcere debba rappresentare l’extrema ratio e credo che in questo contesto si possa aprire uno spazio per un provvedimento di clemenza di cui penso il Parlamento debba discutere perché - ha aggiunto - la situazione attuale degli istituti ci pone in una condizione di violazione dei diritti umani”. Per combattere il sovraffollamento nelle carceri e restituire dignità ai detenuti, secondo Mercenaro, è inoltre, necessario che il Governo realizzi un decreto che - ha detto - “dia realmente il senso che si interviene”. I punti essenziali indicati dal presidente della Commissione sono l’eliminazione della recidiva; il tema dei detenuti in attesa di giudizio per cui - ha sottolineato - fatta eccezione per situazioni di particolare pericolosità, si devono individuare situazioni diverse dal carcere; il tema delle pene alternative “di cui - ha evidenziato - si parla da troppo tempo”. Ma le difficoltà all’interno degli istituti non sono rappresentante soltanto dai numeri, come spiegato, ma anche dalla carenza di risorse per cui diminuiscono figure come psicologi, insegnanti e le possibilità di lavoro per i detenuti. “Senza queste opportunità - ha concluso Marcenaro - resta soltanto la detenzione e viene meno l’aspetto del riaccompagnamento alla libertà. Un carcere così viola la Costituzione”. Cambiare le norme su immigrazione e tossicodipendenza “Ieri a Poggioreale è avvenuto l’ennesimo suicidio. È ogni giorno più evidente che la situazione nelle carceri presenta tutte le caratteristiche dell’emergenza e giustifica da parte del governo l’adozione urgente di un decreto legge che intervenga sulle cause che ne sono all’origine”. È quanto ha dichiarato Pietro Marcenaro, Presidente della Commissione Diritti Umani del Senato, presentando a Napoli il Rapporto sullo stato dei diritti umani nelle carceri italiane. “Modificare subito la normativa sulla recidiva - prosegue Marcenaro - decidere misure diverse dalla custodia in carcere - salvo che in casi eccezionali - per i detenuti in attesa di processo, dare un effettivo impulso a pene alternative al carcere in tutti i casi possibili. E predisporre subito disegni di legge per cambiare le norme su immigrazione e tossicodipendenza che hanno contribuito non poco alla crisi attuale. È in un contesto che affronti strutturalmente il problema carceri che il Parlamento può decidere misure di clemenza. Infine il Governo non può dichiararsi neutrale rispetto a due provvedimenti: l’introduzione del reato di tortura nel codice penale e la ratifica del Protocollo Opzionale delle Nazioni Unite sulla tortura - che sono in discussione al Senato e alla Camera e la cui approvazione è possibile in poche settimane”. Comunità Sant’Egidio: maturo il tempo per un’amnistia “Serve una presa di responsabilità di tutti, soprattutto della classe politica che si deve interrogare e non fingere che il problema non esista”. Lo ha detto Antonio Mattone della Comunità di Sant’Egidio in relazione al tema della condizione delle carceri italiane in occasione della presentazione del “Rapporto sullo stato dei diritti umani nei penitenziari”. Secondo Mattone, ormai si è arrivati a livelli record di sovraffollamento per cui credo - ha aggiunto - sia maturo il tempo per un’amnistia. Un provvedimento di clemenza che, tuttavia, secondo Mattone, da solo non basta, ma che deve essere accompagnato da misure di sostegno che aiutino il detenuto che esce dal carcere rispetto al lavoro, ai rapporti familiari, perché i problemi una volta fuori sono tanti e - ha concluso - una società più sicura l’avremo solo se chi esce dagli istituti sarà una persona cambiata, meno povera e meno sola. Giustizia: Csm, Dap e Magistrati Sorveglianza, pronto un nuovo pacchetto svuota-carceri di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 15 ottobre 2012 Misure urgenti: revisione degli automatismi della ex Cirielli sui recidivi, custodia cautelare limitata, più misure alternative, tempi dei processi contingentati. Sono almeno tre anni che si parla di “emergenza carceri”, espressione più volte usata anche dal Presidente della Repubblica che, anche di recente, ha rilanciato l’allarme sollecitando Parlamento e governo ad adottare “misure strutturali” per “ridurre la popolazione carceraria e creare condizioni più civili per quanti scontano sanzioni detentive senza potersi riconoscere nella funzione rieducativa che la Costituzione assegna all’espiazione di condanne penali”. Una situazione, insomma, che per molti (forse lo stesso Napolitano) giustificherebbe addirittura un’amnistia, se ce ne fossero le condizioni politiche, ma che sicuramente necessita di interventi urgenti dunque, poiché “necessità e urgenza” sono i presupposti per la decretazione d’urgenza, non sarebbe scandaloso - semmai doveroso - se dopo tre anni di perenne emergenza nazionale il governo intervenisse con un decreto legge, anticipando in parte le misure già all’esame del Parlamento e affiancandole con altre, ancora più strutturali. Come quelle messe a punto nel corposo documento della “Commissione d’indagine tra Csm, Dap e magistrati di sorveglianza” che, dopo un anno e mezzo di lavoro sarà presentato nei prossimi giorni al ministro della Giustizia Paola Severino e al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. La Commissione, presieduta dal “laico” del Csm Glauco Giostra (e composta da 12 persone), propone una serie di interventi per risolvere l’emergenza sovraffollamento (ci sono 2imila presenze più dei posti disponibili) creando le condizioni per evitare che, nel giro di qualche anno, si torni al punto di partenza come avverrebbe con un’amnistia. Il “pacchetto” riguarda quindi sia le entrate che le uscite. Per esempio l’universo degli imputati in attesa di giudizio (il 20% dei detenuti è in attesa della sentenza di primo grado), per i quali il carcere dovrebbe rappresentare l’extrema ratio, quando tutte le altre misure risultino inadeguate (comprese quelle interdittive), nonché tutti coloro che entrano in carcere obbligatoriamente salvo uscirne nel giro di pochissimi giorni. Ma riguarda soprattutto l’universo dei detenuti “figli” della ex Cirielli che, dal 2005, ha introdotto automatismi insensati per i recidivi, escludendoli dalle misure alternative alla detenzione, cioè dalla strada maestra per evitare che si torni a delinquere (le statistiche attuali dicono che il 68% dei recidivi viene dal carcere “chiuso” mentre le misure alternative producono solo il 19% della recidiva). Automatismi che non consentono al giudice di valutare il caso concreto, e quindi l’effettiva pericolosità dell’imputato, la gravità del reato, del fatto commesso e altre circostanze. Inoltre, la Commissione prevede anche che per i detenuti in custodia cautelare vi sia un controllo stringente dei tempi del loro processo, come peraltro stabilisce una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo; attribuisce ai magistrati di sorveglianza un potere più ampio nella valutazione dei singoli casi, compreso quello di applicare in via provvisoria l’affidamento in prova ai servizi sociali; e per ridurre tempi e costi, prevede anche che le “udienze” tra magistrati e detenuti possano essere svolte per videoconferenza. L’imminente fine della legislatura non consente di immaginare che queste proposte si traducano in legge. Tuttavia, alcune di esse potrebbero essere estrapolate e confluire, insieme a quelle all’esame del Parlamento proposte dal governo (detenzione domiciliare, messa alla prova) proprio in un provvedimento d’urgenza, assolutamente giustificato “dall’emergenza nazionale” di carceri incivili, diseducative e costose. Giustizia: è strage quotidiana, il collasso del carcere è il collasso del diritto e del paese di Valter Vecellio Notizie Radicali, 15 ottobre 2012 Pensarci ci ha pensato bene, quello che ha fatto non è il risultato di un raptus, di un momentaneo stato depressivo; attende che scenda la sera; si chiude in bagno, si toglie la maglietta, ne ricava una rudimentale corda, l’annoda, l’aggancia al punto più alto dell’inferriata, e poi se la stringe alla gola fino a esserne soffocato… non sono cose che si improvvisano; è un tarlo che si insinua e corrode , ci pensi e ripensi, valuti il come e il dove. Passano le ore, e non cambi idea, lo vuoi fare, lo fai. Ed è quello che ha fatto, l’altra sera, un detenuto tunisino di trentun anni, rinchiuso nell’infermeria dopo il trasferimento dal carcere. Era stato arrestato il 16 ottobre del 2011, piccolo spaccio, i carabinieri in tasca gli avevano trovato robetta. E la condanna non era stata pesante. Fra otto mesi sarebbe uscito. Troppi, evidentemente, anche “solo” otto mesi, quando li si deve trascorrere in un carcere, quello di Busto Arsizio, dove dovrebbero essere rinchiusi al massimo 167 detenuti, e ne riescono invece a stipare 432. Nelle stesse ore i sindacati di polizia comunicavano che altri due suicidi si sono consumati in carceri della Campania… Sono 2.056 i detenuti morti nelle carceri italiane nel periodo che va dal 2000 al 2012, 736 sono i casi di suicidio in cella. Spiega Francesco Morelli, che quotidianamente raccoglie e ordina questo drammatico bollettino: “Sul totale dei decessi, il 35 per cento riguarda detenuti stranieri. Inoltre in dieci anni registriamo oltre trenta casi sospetti di morti in carcere”. Non si muore solo di suicidio, non muoiono solo i detenuti. Prendete il carcere genovese di Marassi. La denuncia viene da un sindacato della polizia penitenziaria, il SAPPE: c’è amianto in carcere. “L’amianto è situato nei pressi della prima garitta, dove gli agenti di polizia penitenziaria transitano e stazionano a lungo e, pertanto, vista l’elevata pericolosità per la salute dei colleghi, sollecitiamo l’intervento immediato della direzione. Sembra che manchino i soldi. Il direttore ci dice che è in attesa dal luglio 2012 di autorizzazione alla spesa da parte del Provveditorato della Liguria ma ogni ulteriore ritardo è ingiustificato oltre che inaccettabile. La legge sulla salubrità e sicurezza dei posti di lavoro è molto chiara e il datore di lavoro deve adottare misure di prevenzione e protezione per ridurre al minimo l’esposizione dei lavoratori alla polvere di amianto ed effettuare periodiche misurazioni della sua concentrazione. Tutti i lavoratori esposti ad amianto devono essere iscritti nel registro degli esposti e l’amministrazione ha dei doveri riguardo all’effettiva valutazione dei rischi. Cosa ci fanno ancora lì quelle lastre pericolose?”. Solo a Marassi, solo a Genova, ministro Paola Severino, e ministri Renato Balduzzi e Corrado Clini, non è affare anche vostro? I nostri istituti penitenziari sono al collasso. Parlano le cifre: nelle 206 strutture penitenziarie, 45.849 i posti; 66.568 i carcerati effettivi. Il 40 per cento è in attesa di giudizio. Non deve stupire che l’Italia sia il Paese europeo con all’attivo il maggior numero di condanne per violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Ci sono strutture carcerarie sul punto di esplodere. Lo dice il “viaggio” compiuto questa estate da “Antigone”. Le costanti registrate sono state il sovraffollamento e le scarse condizioni igienico-sanitarie in cui versano i detenuti. A Pisa, per esempio, a fronte di una capienza regolamentare di 225 persone ne sono presenti 355, di cui 204 stranieri. Qui, nonostante sette mesi fa siano partiti i lavori di ristrutturazione del reparto giudiziario del carcere, lo spreco relativo alle perdite d’acqua fa lievitare il costo delle bollette con un indebitamento di migliaia di euro. Le cose non vanno meglio a “Poggioreale” (Napoli): 2.600 i detenuti presenti malgrado la struttura ne possa contenere la metà, con punte di 12 individui in celle in cui mancano le docce, a dispetto di quanto richiesto dal Regolamento di attuazione dell’Ordinamento penitenziario. A Lanciano, in Abruzzo, il tasso di sovraffollamento dell’istituto è del 170 per cento. La quasi totalità dei detenuti è dunque costretta a vivere al di sotto dei 3 metri quadrati, soglia minima oltre la quale - secondo quanto stabilito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo - si configura la “tortura”. Poi c’è la casa circondariale di Livorno, che conta 4 sezioni chiuse, due di media e due di alta sicurezza. L’associazione ha registrato all’interno frequentissimi episodi di scabbia, tubercolosi e sifilide. Cinque detenuti sono sieropositivi, altri 16 seguono una terapia metadonica. Infine ci sono Messina, Cagliari e Catania. Per costruire le nuove, ipotizzate, promesse, carceri ci vogliono i soldi. Tanti. Ma, in tempi di spending review, meglio puntare sulle “soluzione alternative”. Che dovevano essere decise con un ddl per cui Severino aveva promesso un percorso accelerato. “Il disegno di legge prevede la messa in prova dei detenuti presso i servizi sociali e gli arresti domiciliari”, ha fatto sapere il ministro ad inizio settembre, ma di cui ancora non c’è traccia. Eppure, paradosso italico, le strutture ci sono. Trentotto carceri edificate, costate milioni di euro, ma mai aperte. Per le motivazioni più stravaganti. Ad Arghillà, provincia di Reggio Calabria, il penitenziario è inutilizzato perché mancano la strada d’accesso, le fogne e l’allacciamento idrico. Le prime operazioni per la costruzione di questo carcere risalgono agli Anni 80. Secondo alcuni calcoli la struttura è già costata 80-90 milioni di euro ma deve essere necessariamente rifunzionalizzata, perché gli impianti sono precedenti alla legge del 2000. A Bovalino e a Castelnuovo della Daunia (entrambi in provincia di Foggia) sono presenti due strutture, una da 120 posti e un’altra finita e arredata da quindici anni, che non sono mai state aperte; a Cropani (Catanzaro) l’istituto è occupato da un solo custode comunale. Non è finita qui: a Frigento (Avellino) il carcere è stato costruito dopo il terremoto degli Anni 80 (che aveva provocato il crollo della struttura presente nei pressi del vecchio municipio), inaugurato e chiuso per colpa di una frana; a Monopoli (Bari), le celle che formano il complesso sono state occupate abusivamente da alcune famiglie di sfrattati; a Irsina (Matera) sono stati spesi -sempre negli Anni 80 - circa 3,5 miliardi di lire, però poi la “macchina” ha funzionato per un solo anno e oggi il Comune la utilizzata come deposito. Infine, fra i tanti casi che potremmo ancora citare, c’è quello di Morcone, a 35 chilometri da Benevento. Ebbene il carcere è stato costruito, abbandonato, ristrutturato, arredato e nuovamente abbandonato, malgrado l’utilizzo di vigilantes armati. Ci avete detto, Presidente della Repubblica in testa, che al posto dell’amnistia e dell’indulto (per i quali non c’erano le condizioni politiche, per conquistare le quali non si è fatto nemmeno uno straccio di messaggio alle Camere) ci sarebbero stati urgenti riforme strutturali che avrebbero rimesso in moto il sistema e fatto rientrare l’Italia nel solco della legalità costituzionale. Ci hanno preso in giro e continuano a farlo. Le carceri continuano ad essere luoghi di violazioni di diritti umani fondamentali. Quanto alle riforme strutturali ci si dice che occorre “approfondire”, “riflettere”. Lo dicano ai suicidi, ai tentati suicidi, alle famiglie di queste vittime. A loro lo devono raccontare, spiegare. A sei mesi dalla fine della legislatura, del disegno di legge delega al governo “in materia di depenalizzazione, pene detentive non carcerarie, sospensione del procedimento per messa alla prova e nei confronti degli irreperibili”, è stata stralciata la materia della depenalizzazione e, quanto alle pene detentive non carcerarie, tanto i relatori quanto la Presidente Bongiorno hanno esternato forti perplessità tanto da invocare emendamenti governativi per ridimensionarne la portata o, addirittura, il depennamento o lo stralcio”. Allora, presidente Napolitano, le chiacchiere stanno a zero: cosa rimane della “prepotente urgenza sul piano costituzionale e civile”? Giustizia: Ospedali psichiatrici giudiziari; attivare subito un Ufficio Speciale per chiuderli di Emilio Lupo (Segretario di Psichiatria Democratica) L’Unità, 15 ottobre 2012 L’Italia spegne le luci per risparmiare. Sui giornali si legge ogni passo della manovra economica presentata in Consiglio dei ministri, ma non si parla di una legge importante che rischia di rimanere nel cassetto, inapplicata. È la chiusura degli Opg, gli ospedali psichiatrici giudiziari. È la legge numero 9 del 2012, che tra l’altro prevede, entro il prossimo marzo, l’entrata in vigore di una serie di misure per garantire diritti anche a questi reclusi. Una ferita quella degli Opg, come è per le carceri italiane, che ci si augurava potesse rimarginarsi dopo le continue e sempre più incalzanti denunzie sulla violazione dei diritti costituzionali, da parte non solo delle associazioni che come la nostra se ne interessano, ma anche dalle stesse autorità politiche, come la commissione presieduta dal senatore Marino. Anche il Capo dello Stato ha espresso il suo sdegno. Il video promosso dalla commissione e girato nelle strutture manicomiali, è penetrato negli occhi, nel cuore e nella mente dell’opinione pubblica, producendo, con un impegno costante ed esemplare di tutti e grazie alla sensibilità del ministro della Giustizia, il varo della legge numero 9. Da allora tavoli tecnici, gruppi di studio e iniziative a doppia velocità non hanno prodotto niente di quanto si doveva, ovvero programmi individualizzati per ciascun recluso, accompagnamenti nelle residenze territoriali (che devono essere secondo Pd di piccole dimensioni e a tempo), progetti di ritorno: al lavoro, agli affetti. Di risposte sinergiche, insomma, nemmeno l’ombra. Come Psichiatria Democratica, avevamo già evidenziato - a chiare lettere - lo scorso 3 aprile nella seconda audizione presso la commissione Marino al Senato, il pericolo dell’affossamento della legge. Sia per quel che riguardava le proposte avanzate circa le dimensioni delle strutture che non configuravano case, bensì caserme, sia per l’attivismo registrato - pare - da parte di grandi strutture psichiatriche private per accogliere gli ex internati. Ora bisogna decidere, e presto, se costruire rapidamente con uno sforzo, finalmente comune, risposte di civiltà, oppure stare ancora a guardare. La nostra proposta è semplice, chiara, netta e nel pieno rispetto della spending review: l’attivazione immediata di un Ufficio Speciale per la dismissione degli ospedali psichiatrici giudiziari, da parte dei ministri di Giustizia e Salute, che ne governi e porti a termine - entro la data prestabilita del 31 marzo 2013 - l’intero programma. L’Ufficio Speciale è ormai una necessità quanto mai urgente e inderogabile in ragione dei gravissimi ritardi accumulati da tutti i responsabili del procedimento. Uno strumento, a tempo, quello dell’Ufficio Speciale di cui sollecitiamo il varo e che si interessi dell’allocazione delle risorse umane ed economiche, incastonate, beninteso, all’interno dei progetti individualizzati. Un gruppo di lavoro snello e in grado di garantire l’omogeneità degli interventi, per evitare che ci siano realtà che restando indietro vanifichino - fino a bloccare - l’intero programma. Una realtà operativa che informi puntualmente le famiglie e che svolga con i servizi pubblici un’attività di raccordo con le agenzie presenti sui territori laddove dovranno essere accolte le persone attualmente rinchiuse negli Opg. Psichiatria Democratica propone, pertanto, ai ministri Severino e Balduzzi, di adottare questo strumento di intervento, che, potendo avvalersi delle sicure competenze che ciascun dicastero possiede, sarebbe a costo zero. Avvalendosi dell’apporto delle migliori energie di Regioni e Aziende sanitarie, l’Ufficio da un lato potrebbe annullare le sacche di resistenza e, dall’altro, garantire il mantenimento della centralità del servizio pubblico. Tale centralità rimane, nel tempo, strumento principe di garanzia di equità ed omogeneità, ma anche di argine contro nuove possibili spinte privatistiche e “concentrazionali”. È questa un’occasione per scrivere, insieme, una bella pagina della nostra storia contemporanea, non perdiamola. Giustizia: l’abominevole morte di Luigi Marinelli di Alessandro Litta Modignani Notizie Radicali, 15 ottobre 2012 Sempre più spesso sentiamo nominare Cucchi, Aldrovandi, Bianzino, Uva.... Nomi diventati tristemente familiari, evocatori di arbitrio, brutalità, violenza, morte, denegata giustizia. Il muro dell’omertà e del silenzio poco alla volta si rompe, le famiglie coraggiose non si rassegnano al dolore della perdita, facebook e internet fanno il resto, obbligando la carta stampata ad adeguarsi e a rispettare il dovere di cronaca. Così, uno dopo l’altro, altri nomi e altre vicende emergono dall’oscurità e assurgono alla dignità di “casi”. La lista si allunga, nuovi nomi si aggiungono, con le loro storie di ordinaria follia. Alla presentazione del libro-denuncia di Luca Pietrafesa “Chi ha ucciso Stefano Cucchi?” (Reality Book, 180 pagine) tenuta nei giorni scorsi nella sede del Partito radicale a Roma, ha finalmente trovato la forza interiore di parlare Vittorio Marinelli, che con voce rotta dall’emozione ha raccontato la morte abominevole, letteralmente “assurda” di suo fratello Luigi. Luigi Marinelli era schizofrenico, con invalidità riconosciuta al 100%. Si sottoponeva di buon grado alle terapie che lo tenevano sotto controllo, dopo un passato burrascoso che lo aveva portato in un paio di ospedali psichiatrico-giudiziari. Spendaccione, disturbato, invadente fino alle soglie della molestia, divideva la sua vita fra gli amici, la sua band e qualche spinello. Era completamente incapace di amministrarsi. Ricevuta in eredità dal padre una certa somma, la madre e i fratelli gliela passavano a rate, per evitare che la sperperasse tutta e subito. Rimasto senza soldi, la mattina del 5 settembre 2011 Luigi va dalla madre, esige il denaro rimanente; si altera, dà in escandescenze, minaccia, le strappa la cornetta dalle mani - ma non ha mai messo le mani addosso a sua madre, mai, neppure una sola volta nel corso della sua infelice esistenza. Messa alle strette, la madre chiama Luisa (la fidanzata di Luigi, anch’ella schizofrenica) chiama l’altro figlio Vittorio, chiama la polizia e quest’ultima decisione si rivelerà fatale. Arrivano due volanti - poi diventeranno addirittura tre o quattro - trovano Luigi che straparla come suo solito semi-sdraiato sulla poltrona, esausto ma in fin dei conti calmo. Gli agenti chiamano il 118 per richiedere un ricovero coatto. Arriva Vittorio, mette pace in famiglia, madre e figlio si riconciliano, Luigi riceve in assegno il denaro che gli appartiene e fa per andarsene. Ma la polizia ha bloccato la porta e non lo lascia uscire, dapprima con le buone poi, di fronte alle crescenti rimostranze, con l’uso della forza. Luigi è massiccio, obeso, tre poliziotti non bastano, ne arriva un quarto enorme e forzuto. Costui blocca lo sventurato contro il muro, lo piega a terra, lo schiaccia con un ginocchio sul dorso, gli torce le braccia dietro la schiena e lo ammanetta, mentre Vittorio invita invano gli agenti a calmarsi e a desistere. “Non fate così, lo ammazzate...!” dice lui, “Si allontani!” sbraitano quelli. Vittorio vede il fratello diventare cianotico, si accorge che non riesce a respirare, lo guarda mentre viene a mancare. Allontanato a forza, telefona per chiedere aiuto al 118 ma dopo due o tre minuti sono i poliziotti a richiamarlo. Luigi ormai non respira più ma ha le braccia sempre bloccate dietro alla schiena: le chiavi delle manette.... non si trovano! La porta di casa è bloccata, non si sa da dove passare, un agente riesce finalmente a trovare la porta di servizio, scende alle auto ma le chiavi ancora non saltano fuori. “Gli faccia la respirazione bocca a bocca!” gridano gli agenti in preda nel panico (Luigi è bavoso e sdentato, a loro fa schifo, poverini). Liberano infine le braccia ma ormai non c’è più niente da fare. Il volto di Luigi è nero. È morto. Arriva l’ambulanza, gli infermieri si trovano davanti a un cadavere ma, presi da parte e adeguatamente istruiti, vengono convinti dagli agenti a portare via il corpo per tentare (o meglio: per fingere) la rianimazione. Il resto di questa storia presenta il solito squallido corollario di omertà, ipocrisia, menzogne, mistificazioni. Gli agenti si inventano di avere ricevuto calci e pugni per giustificare l’ammanettamento, il magistrato di turno avalla la tesi della “colluttazione”. L’autopsia riscontra la frattura di ben 12 costole e la presenza di sangue nell’addome, la Tac rivela di distacco del bacino, evidenti conseguenze dello schiacciamento del corpo. Le analisi tossicologiche indicano una presenza di sostanze stupefacenti del tutto insignificante. A marzo il pm chiede l’archiviazione sostenendo che la causa della morte è stata una crisi cardiaca. La famiglia presenta opposizione. Qual è stata la causa della crisi cardiaca? Perché è stato immobilizzato? Era forse in stato d’arresto? In questo caso, per quale reato? Le varie versioni degli agenti, mutate a più riprese, sono in patente contraddizione. “Gli venivano subito tolte le manette” è scritto spudoratamente nel verbale, mentre in verità gli sono state tenute per almeno 10 minuti, forse un quarto d’ora. L’ultima volante dei Carabinieri, sopraggiunta sul posto, descrive nel verbale “un uomo riverso a terra ancora ammanettato”. Ma quando Vittorio Marinelli fa notare al magistrato che questa è evidentemente la “causa prima efficiente” dell’arresto cardiaco, si sente rispondere dal leguleio che “la sua è un’inferenza”. Resta il fatto che prima di essere ammanettato Luigi Marinelli era vivo, dopo è morto. Queste sono le cosiddette forze del cosiddetto ordine, questa è la magistratura dell’Italia di oggi. Tornano alla mente le parole pronunciate da Marco Pannella in una conferenza stampa di un paio di anni fa: “Presidente Napolitano, tu sei il Capo di uno Stato di merda”. Giustizia: trattativa Stato-mafia; il ministro Conso tolse il 41-bis a “pesci piccoli” di Claudia Fusani L’Unità, 15 ottobre 2012 Il risultato del lavoro dei consulenti dell’Antimafia sui 520 detenuti a cui il ministro non rinnovò il carcere duro. L’interlocuzione tra mafia e Stato non è affatto smentita, ma può cambiare la ricostruzione della verità storica. “Trattativa Stato-mafia? Resto con molti dubbi. Scriverò di persona la relazione finale. La tesi sviluppata nei mesi estivi dai consulenti della commissione non mi convince più di tanto”. Giorni fa il presidente della commissione Antimafia, Giuseppe Pisanu, mostrò, parlando con alcuni collaboratori, tutti i suoi ragionevoli dubbi, non tanto circa l’esistenza di una o più trattative tra lo Stato e la mafia nei tre anni che vanno dal marzo 1992 (omicidio Lima) al gennaio 1994 (fallito attentato allo stadio Olimpico), quanto sicuramente sul fatto che oggetto della trattativa, il presunto corpo del reato, sarebbero stati i 520 casi di 41 bis non rinnovati dal governo nel 1993. Mentre il ministro dell’Interno era Nicola Mancino e il Guardasigilli era Giovanni Conso, lo Stato decise di non rinnovare il regime di carcere duro a 520 persone che restarono detenute ma “libere” dai rigorosi divieti previsti per i mafiosi. Pisanu non sarebbe dunque così convinto di seguire l’ipotesi accusatoria della Procura di Palermo che sottende la richiesta di rinvio a giudizio (prima udienza il 29 ottobre) per dodici persone, per la prima volta insieme boss, investigatori, deputati a cui viene contestata l’ipotesi di “minaccia o violenza a corpo politico dello Stato” (a Calogero Mannino e Mancino la falsa testimonianza). Tra i punti di quella richiesta di processo, da mesi al centro di polemiche, c’è il fatto che la prova più evidente di un’interlocuzione tra pezzi dello Stato e i boss di Cosa Nostra in quel biennio di bombe e stragi - mentre la prima Repubblica si disfaceva sotto i colpi delle inchieste di Mani Pulite - sarebbe stato proprio l’aver accettato da parte del governo di allora, presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, di ammorbidire il regime carcerario per i boss detenuti. Sarebbe stato quello il segnale di disponibilità che i vertici di Cosa Nostra avevano richiesto e in base al quale avrebbero trattato per chiudere la stagione delle bombe. Ma è proprio questo il pezzo della ricostruzione che gli uffici di San Macuto stanno sottoponendo ad esame critico. La commissione, infatti, oltre ad avere ascoltato e collaborato con le tre Procure che indagano su quegli anni. Palermo ha la trattativa, Firenze e Caltanissetta le indagini sulle stragi in continente del ‘93 e in Sicilia nel ‘92 - ha analizzato la lista dei boss “beneficiati” dalla presunta trattativa. I risultati dicono che di quel folto gruppo, 520, “solo 44 nel tempo sono stati messi di nuovo sotto il torchio del 41 bis. Di questi 44, un numero esiguo che sta sulle dita di una mano, ha un profilo criminale di un certo livello”. La domanda che a questo punto, dopo anni di audizioni, si fa la presidenza della commissione Antimafia è questa: se le pressioni mafiose non hanno riguardato il 41 bis dei boss più importanti, e di conseguenza non sono state il cuore dello scambio tra uno Stato impaurito dalle bombe e Cosa Nostra decisa a tutto pur di riconquistare ruoli e referenti politici, su cosa si è basata la presunta trattativa? Occorre subito dire che ridimensionare il peso del 41 bis sul tavolo dello scambio tra Stato e Cosa Nostra non significa in alcun modo escludere la trattativa o le trattative. Anzi. Più sentenze ormai dicono che la trattativa ci fu (6 giugno 1998, Corte d’Assise di Firenze sulle stragi del 1993). A marzo (Firenze, Assise Tagliavia) i giudici hanno scritto: “Lo Stato avviò una trattativa con Cosa nostra, una trattativa che venne quantomeno inizialmente impostata su un do ut des” per interrompere le stragi. Lunedì prossimo (22 ottobre) a San Macuto è in calendario l’audizione del procuratore antimafia Piero Grasso. Pisanu si aspetta molto da questo incontro. Una sorta di visione di sintesi da parte dell’ufficio che coordina il lavoro delle tre Procure che indagano su quegli anni. Finora, infatti, le tre Procure hanno dato opinioni discordanti. E anche questo non aiuta la commissione, che pure in questi anni ha contribuito a far ritrovare la memoria a testimoni e protagonisti dell’epoca come Martelli, Conso, i direttori delle carceri. Vale la pena ripercorrere quelle posizioni. La Procura di Firenze, che indaga dal 1993 in avanti e ha ancora aperto un fascicolo per concorso in strage, è stata audita il 12 marzo. Il procuratore Quattrocchi e i sostituti Nicolosi e Crini sono stati chiari. “Nel 1993, in seguito alla prima strage di via dei Georgofili (maggio, ndr) - disse Quattrocchi - il problema relativo al 41 bis non era stato più rivendicato né collegato ad un contesto. Quelli che trattavano, poi, Ciancimino e Riina vengono arrestati”. Ancora più esplicito Nicolosi: “La revoca dei 41 bis è indifferente rispetto ai desiderata di Cosa Nostra. Non c’era praticamente nessuno a cui potesse interessare”. Il procuratore Messineo fu sentito il 19 marzo e propose una visione opposta: “Si trattava di veri e propri capimafia nei confronti dei quali viene adottato lo strano provvedimento di non rinnovo del regime del 41 bis”. Possibilista la Procura di Caltanissetta, sentita il 26 marzo. Per il procuratore Sergio Lari “in quel momento storico era più che possibile una trattativa con Cosa Nostra e molteplici erano le figure, anche istituzionali, che giocarono partite spregiudicate con incursioni anche in campo avverso”. Campania: nelle carceri campane due detenuti suicidi nel giro di pochi giorni Ristretti Orizzonti, 15 ottobre 2012 Giovedì 11 ottobre 2012, Pietro Ribisi, un ergastolano di 61 anni di origini siciliane, si è tolto la vita nella Casa di reclusione di Carinola, carcere di massima sicurezza sito nella Provincia di Caserta. Domenica 14 ottobre 2012, a Napoli Poggioreale, si è tolto la vita Antonio Sorrentino, di 26 anni, detenuto nel Padiglione Avellino per reati connessi alla violazione della legge sugli stupefacenti. Solo oggi trapela la notizia del suicidio in data 11 Ottobre 2012 di un detenuto nella Casa di reclusione di Carinola”. È quanto dichiara, Mario Barone, presidente di Antigone-Campania e componente dell’Osservatorio nazionale. “Le drammatiche condizioni di sovraffollamento, i tagli alla spesa che hanno colpito anche il mondo carcerario” - precisa Barone - “rendendo ancora più difficile nel nostro Paese l’espiazione della pena, la quale non deve mai consistere in quei trattamenti contrari al senso di umanità che possono indurre al gesto estremo”. “Il suicidio di un ergastolano, lungi dal lasciare indifferenti, deve fare riflettere sull’ergastolo, una pena in sé non linea con la Costituzione, la quale - all’art. 27 - assegna alla pena il compito di rieducare il condannato. C’è da chiedersi seriamente se l’istituto dell’ergastolo possa avere ancora cittadinanza in un Paese che, in altri settori, si sforza ad ogni modo ad essere “moderno” “Al 6 Ottobre 2012, il tragico conteggio delle morti in carcere contava: 44 suicidi, 29 morti per “cause da accertare”, 1 per sciopero della fame, 1 ucciso dal compagno di cella, 2 stroncati da overdose di farmaci e droghe, altri 46 deceduti per “cause naturali”: in totale 123 detenuti hanno perso la vita nelle carceri italiane da inizio anno”. “Il rispetto verso le Autorità inquirenti” - conclude Barone - “induce a non incrementare la triste contabilità dei suicidi con queste due ultime morti avvenute sul territorio campano” Detenuto si impicca a Poggioreale, polemica di radicali e Sappe “Ci giunge notizia, confermata dal sindacato Osapp, che ieri, alle 14.40 un altro detenuto si è tolto la vita impiccandosi nel reparto Avellino del carcere di Poggioreale. Era un detenuto comune di soli 26 anni. Ma le notizie di morte sembrano non finire. Stiamo cercando conferma di un altro suicidio avvenuto mercoledì scorso nel carcere di Carinola. In questo caso si tratterebbe di un ergastolano ostativo di 55 anni”. Così in una nota Rita Bernardini, deputata radicale, membro della Commissione Giustizia. La Bernardini ricorda che “rimangono ancora da accertare secondo gli inquirenti, le cause della morte di un detenuto tunisino avvenuta martedì scorso nel carcere di Busto Arsizio: il cappio, lo sgabello, la testa quasi staccata non sono bastati per definirlo come suicidio”. La deputata radicale ricorda poi le parole del presidente Napolitano sulle carceri: “… una realtà che ci umilia in Europa e ci allarma, per la sofferenza quotidiana - fino all’impulso a togliersi la vita - di migliaia di esseri umani chiusi in carceri che definire sovraffollate è quasi un eufemismo”. “Sono passati 451 giorni - sottolinea Bernardini - da quando il presidente Napolitano pronunciò queste parole alle quali, lo dico con rammarico, non è seguito nemmeno quel messaggio alle Camere, previsto dall’articolo 87 della Costituzione e richiesto con un manifesto-appello da oltre 130 costituzionalisti, guidati dal professor Puggiotto. 451 giorni fa il presidente Napolitano non escludeva pregiudizialmente nessuna ipotesi che possa rendersi necessaria, amnistia e indulto compresi”. “Si è ucciso impiccandosi con una cintura nella sua cella del padiglione Avellino del sovraffollato carcere di Napoli Poggioreale. Aveva 26 anni ed era ristretto per reati connessi alla tossicodipendenza. Un’ennesima tragedia che deve fare riflettere. Il Sindacato autonomo polizia penitenziaria Sappe è fermamente impegnato per incrementare l’utilizzo del ricorso alle misure alternative al carcere delle persone tossicodipendenti recluse”. Lo dichiara Donato Capace, segretario generale del Sappe, commentando il nuovo suicidio di un detenuto a Poggioreale. Il Sappe sottolinea come “nelle carceri italiane più del 25 per cento circa dei detenuti è tossicodipendente ed anche il 20 per cento degli stranieri ha problemi di droga. Altro che vigilanza dinamica, come vorrebbe il Capo del Dap Tamburino: come si può ipotizzare una fantasia del carcere in un carcere con quasi tremila detenuti? Nonostante l’Italia sia un Paese il cui ordinamento è caratterizzato da una legislazione all’avanguardia per quanto riguarda la possibilità che i tossicodipendenti possano scontare la pena all’esterno, i drogati detenuti in carcere sono tantissimi. La legge prevede che i condannati a pene fino a sei anni di reclusione, quattro anni per coloro che si sono resi responsabili di reati particolarmente gravi, possano essere ammessi a scontare la pena all’esterno, presso strutture pubbliche o private, dopo aver superato positivamente o intrapreso un programma di recupero sociale. Nonostante ciò queste persone continuano a rimanere in carcere”. “Noi riteniamo sia invece preferibile che i detenuti tossicodipendenti, spesso condannati per spaccio di lieve entità, scontino la pena fuori dal carcere, nelle Comunità di recupero, per porre in essere ogni sforzo concreto necessario ad aiutarli ad uscire definitivamente dal tragico tunnel della droga e, quindi, a non tornare a delinquere. I detenuti tossicodipendenti sono persone che commetto reati in relazione allo stato di malattia e quindi hanno bisogno di cure piuttosto che di reclusione”, conclude Capece. Papa (Pdl): a Poggioreale detenuto “suicidato” da Stato “Il detenuto ventottenne deceduto ieri nel carcere di Poggioreale è stato in realtà suicidato dallo Stato italiano”. Lo dichiara il deputato del Pdl Alfonso Papa riferendosi al decesso avvenuto ieri nell’istituto penitenziario partenopeo dove un detenuto recluso nel padiglione Avellino si è tolto la vita. “Voglio ricordare che il Guardasigilli Paola Severino, a seguito di una visita ispettiva lo scorso luglio, s’era prodigata a sfatare l’immagine negativa dell’istituto parlando addirittura di celle ariose e pulite - continua Papa - E dire che io da ex detenuto non m’ero mai accorto di un simile stato di cose”. “I suicidi proseguono al ritmo di un morto ogni cinque giorni - conclude Papa - I detenuti suicidati dallo Stato gravano sulla coscienza di una classe politica dolosamente inerte”. Sicilia: “Ai detenuti indigenti manca tutto”, denuncia dal Convegno nazionale del Seac Redattore Sociale, 15 ottobre 2012 Nell’Isola non è ancora avvenuto il passaggio della sanità penitenziaria alla regione. Un fatto che pesa sulle spalle dei detenuti che non hanno redditi e non possono provvedere a se stessi I problemi legati all’assistenza sanitaria dei detenuti delle carceri siciliane crescono in maniera esponenziale e nessuno se ne fa carico. A denunciarlo è l’Asvope (Associazione volontariato penitenziario) di Palermo, attraverso le parole della presidente Vanna Bonomonte, nel corso del recente convegno nazionale del Seac (Coordinamento dei gruppi di volontariato penitenziario) di Palermo. Nel convegno, in particolare, si è sottolineata la situazione anomala che vive la Sicilia dove non è stato ancora applicato il decreto del 2008 che prevede il passaggio della sanità penitenziaria dal ministero alla regione. Un mancato passaggio che pesa come un macigno sulla pelle dei detenuti e soprattutto di chi, come lamenta l’Asvope, non ha alcun reddito per provvedere a se stesso. In particolare l’associazione di volontariato che da parecchi anni è impegnata a vario livello nell’assistenza ai detenuti parte proprio da alcuni casi sanitari specifici di detenuti indigenti a cui manca tutto. C’è il caso del recluso D.B.: è un tossicodipendente che avrebbe bisogno di assistenza psicologica ma la richiesta al Sert richiede il riconoscimento dello stato di tossicodipendenza. L’interessato non avendo questo documento, può procurarselo solo con un esame tricologico o otorinolaringogliatrico a pagamento ma non ha i soldi. La vita in carcere nell’angustia delle celle comporta alterazioni della vista. “Nell’arco di un anno, tra l’Ucciardone e Pagliarelli, abbiamo fornito una cinquantina di occhiali - dice Vanna Bonomonte. Il numero delle richieste va salendo e le spese solo per le lenti si aggirano da 30 a più di 100 euro”. C’è il caso ancora più grave di G.T. che a causa di un’infezione non curata ha perso un occhio. Poiché nessuno lo ha più seguito non si sa in che condizioni è l’altro occhio. Z.N è, invece un immigrato a cui mancano tutti i denti davanti: è giovane e di questo si vergogna, quindi parla coprendosi la bocca. Ha chiesto una protesi ma, in questo caso, si tratta di un impianto fisso che costa molto; il detenuto lavora ma non ce la fa a sostenere la spesa. Ci sono altri due detenuti, F.C. e S.B. anche loro abbastanza giovani che sono completamente sdentati: non possono mangiare il pasto normale, nutrendosi poco e male. Un dentista volontario dell’Asvope ha cercato di curarli ma occorrono le protesi mobili che costano più di mille euro. I volontari dell’Asvope, recandosi all’Asp, hanno appurato che queste vengono fornite per un costo di 425 euro. “Ci siamo chiesti perché dobbiamo pagare tre volte tanto - prosegue Vanna Bonomonte. Forse perché nessuno porta questi detenuti nell’Asp di via La loggia oppure perché nessuno dentista di questa Asp può venire in carcere?”. C’è chi soffre di allergie e aspetta cure che tardano ad arrivare come ciò che lamenta il detenuto M.P. che, soffrendo di rinite allergica, ha richiesto un medicinale specifico che ancora non gli hanno fatto avere. Spesso l’associazione aiuta e sostiene economicamente chi non può neanche riuscire ad avere un documento perché è a pagamento come il certificato che attesta l’invalidità. Al detenuto A. C., infatti, che deve presentare un certificato del medico curante per avviare la pratica di riconoscimento dell’invalidità, gli hanno chiesto 50 euro di cui non disponeva. La richiesta in questo caso si è spostata all’Asvope che a sua volta si è rivolta ai patronati che si occupano dei riconoscimenti delle invalidità. Tutto naturalmente con tempi notevolmente lunghi. “Ai detenuti indigenti manca tutto. L’elenco degli altri bisogni sanitari è lungo. Dai casi accennati si evince che i problemi sanitari vanno sempre in coppia - afferma la presidente dell’Asvope -; per ogni caso elencato c’è un diritto alla salute violato e uno stato di indigenza che blocca ogni tentativo di superare col denaro le difficoltà. Chi è benestante si può curare, nonostante in carcere, può chiedere, infatti, l’intervento di specialisti di sua fiducia. Dovrà aspettare un po’ di tempo poiché la burocrazia dell’A.P. ha tempi biblici, ma è sostenuto dalla certezza che un magistrato non gli negherà il diritto di provvedere a sue spese alla salute. Il poveraccio, invece, può solo supplicare i volontari, i quali talvolta non ce la fanno a fare supplenza alla disattenzione delle istituzioni verso i diritti della persona. Spesso per questo siamo alla ricerca di fondi per aiutare chi soffre, cercando tutte le possibili strade alternative come il ricorso alle convenzioni con altri enti. In ogni caso il volontariato non può avere tutti gli strumenti per risolvere alla radice i gravi problemi sanitari che lamentano i detenuti”. Umbria: le Associazioni; Garante dei detenuti, bene l’apertura di un bando pubblico Notizie Radicali, 15 ottobre 2012 Dichiarazione di Libera Umbria, Radicali Perugia, Associazione Antigone, Forum dei Detenuti: “L’apertura, da parte del Consiglio Regionale, di un bando pubblico per la scelta del garante dei diritti dei detenuti è un’ottima notizia. In primo luogo perché, con l’avvio delle procedure di selezione, è stato stabilito un principio di trasparenza a coronamento di una annosa battaglia di civiltà e legalità condotta da Libera Umbria, Radicali Perugia, , Associazione Antigone, Forum dei detenuti ed altre associazioni della società civile: infatti la legge regionale, che istituisce una figura di tutela delle persone private della libertà personale, risale infatti all’ottobre del 2006, sei anni fa, e da allora è cresciuta notevolmente la popolazione carceraria con disagi e problemi assai gravi. L’iniziativa del Consiglio Regionale, è una buona notizia anche per la procedura scelta, sono state infatti recepite le richieste fatte dalle associazioni promotrici sulla spinta delle centinaia di firme raccolte, affinché si adottassero regole di grande trasparenza e partecipazione. L’attenta e pubblica valutazione dei curricula dei candidati dovrebbe essere la regola per tutte le nomine negli enti pubblici. Noi ci attendiamo che la persona scelta non solo corrisponda ai requisiti di legge, ma che, per l’indipendenza rispetto al mondo della politica, della giurisdizione e dell’amministrazione carceraria, per la competenza giuridica e scientifica, per l’impegno civile, abbia grande autorevolezza e goda di generale fiducia. È quello che occorre per svolgere con efficacia ed equilibrio i compiti che il garante deve affrontare in questa difficile congiuntura”. Piacenza: detenuto in “osservazione psichiatrica” tenta d’impiccarsi, salvato dagli agenti Agi, 15 ottobre 2012 Un detenuto in alta sicurezza sottoposto a osservazione psichiatrica nel reparto sanitario del carcere di Piacenza ha tentato il suicidio per impiccagione. È successo ieri sera. L’uomo, spiega Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe, è stato salvato dagli agenti di polizia penitenziaria che si sono accorti delle sue intenzioni e sono entrati nella cella. “È il secondo caso che ci viene segnalato, avvenuto sempre nella giornata di ieri - ha detto Durante - dopo quello di Reggio Calabria”. E ha aggiunto: “Ricordiamo che la polizia penitenziaria ogni anno salva la vita a circa 1.100 detenuti che tentano il suicidio. Nel carcere di Piacenza ci sono circa 200 detenuti in più rispetto ai posti previsti e in relazione al sovraffollamento esistente ci vorrebbero almeno 30 agenti in più. Non è esente dal sovraffollamento tutta l’Emilia Romagna - ha concluso il rappresentante del sindacato autonomo di polizia penitenziaria - dove ci sono circa 1.700 detenuti in più rispetto ai posti previsti e mancano circa 650 agenti”. Reggio Calabria: Sappe; detenuto sottoposto al regime di Alta sicurezza tenta suicidio Adnkronos, 15 ottobre 2012 Un detenuto sottoposto al regime di alta sicurezza nel carcere di Reggio Calabria ha tentato il suicidio impiccandosi con la cintura dei pantaloni al letto. Lo riferiscono Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe e Damiano Bellucci, segretario nazionale. “L’uomo - affermano - è stato salvato dagli agenti della polizia penitenziaria che in quel momento stavano effettuando il giro di controllo e accortisi di ciò che stava avvenendo sono entrati nella cella ed hanno immediatamente soccorso il detenuto”. “Nel reparto alta sicurezza sono ristretti 170 detenuti, il doppio della capienza prevista - concludono - a Reggio Calabria ci sono 450 detenuti, per una capienza di circa 200 posti. L’organico è di 199 poliziotti penitenziari, ma ne mancano circa 50. Oggi, grazie alla professionalità e all’attenzione del personale, un’altra vita è stata salvata. Bisogna ricordare che ogni anno la polizia penitenziaria salva in Italia circa 1100 detenuti che tentano il suicidio”. L’organico continua il Sappe, “è di 199 poliziotti penitenziari, ma ne mancano circa 50. Oggi, grazie alla professionalità e all’attenzione del personale, un’altra vita è stata salvata. Bisogna ricordare che ogni anno la polizia penitenziaria salva in Italia circa 1100 detenuti che tentano il suicidio”. Cagliari: Sdr; nel carcere di Buoncammino assenti 7 figure mediche specialistiche Ristretti Orizzonti, 15 ottobre 2012 “L’Azienda Sanitaria Locale n.8 deve immediatamente provvedere ad assegnare al carcere di Buoncammino sette figure mediche specialistiche. La lentezza nelle procedure burocratiche si ripercuote pesantemente sui detenuti condizionando negativamente il diritto alla salute”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, sottolineando che “la Casa Circondariale, in seguito al passaggio della medicina penitenziaria alla ASL, deve essere considerata a tutti gli effetti un presidio sanitario con le indispensabili figure professionali a garanzia dei cittadini privati della libertà che invece lamentano attualmente gravi carenze nel servizio”. “Nella struttura detentiva - osserva Caligaris che con il segretario Gianni Massa ha effettuato una puntuale ricognizione delle risorse professionali presenti - sono assenti pneumologo, ortopedico, chirurgo, otorino, oculista, fisioterapista e neurologo. Non sono state infatti ancora rinnovate le precedenti convenzioni ormai scadute da alcune settimane. Così è garantita esclusivamente l’assistenza primaria con la presenza di almeno un medico in ogni settore della Casa Circondariale (Destro, Femminile e Alta Sicurezza, Sinistro e Centro Diagnostico Terapeutico). La graduatoria della Medicina dei servizi invece è in attesa di rivalutazione per l’assegnazione del monte orario attribuito ai professionisti”. In particolare sono stati assegnati al settore destro, che comprende anche la sezione femminile e quella dell’Alta Sicurezza, i medici Claudio Lussu, con funzione di responsabile dell’attività del reparto, Marina Rocca, Andrea Garau e Paola Coda; in quello sinistro affiancano Aldo Casti (responsabile) i colleghi Dina Serra, Gianfranco Pili e Sebastiano Forteleoni. Nel Centro Diagnostico Terapeutico operano invece Luciano Fei (responsabile) con Paolo Trois. L’assessorato deve invece ancora chiarire il ruolo dei medici del Punto di Primo Intervento e assegnare alcune ore di un medico dimissionario. Svolge attualmente il ruolo di coordinatore il dott. Antonio Piras. “Il passaggio della sanità penitenziaria dal Ministero della Giustizia alle Asl - afferma ancora la presidente di Sdr - risulta a Buoncammino, una realtà particolarmente complessa anche per l’alto livello di persone detenute, ancora problematico. I detenuti lamentano difficoltà a effettuare visite specialistiche esterne, a ottenere relazioni quando necessarie per inoltrare ai Magistrati competenti domande di detenzione domiciliare o differimento pena per motivi di salute e un blocco quasi totale della fisioterapia con conseguenze gravi sul processo degenerativo. Altro punto dolente è il ritardo nei ricoveri ospedalieri per interventi chirurgici. La carenza delle figure specialistiche comporta inoltre la necessità di accompagnare i detenuti nei diversi nosocomi cittadini con l’impiego delle scorte. Un’impresa quasi impossibile per l’inadeguato numero di Agenti penitenziari costretti a turni massacranti per garantire tutti i servizi. Ecco perché diventa indispensabile lo snellimento delle procedure burocratiche”. Tempio Pausania: Pili (Pdl); in tre giorni 24 mafiosi e camorristi trasferiti nel carcere Ansa, 15 ottobre 2012 “Uno sbarco di mafiosi e camorristi senza precedenti nell’isola. Tutto gestito in gran segreto e compiuto in meno di tre giorni nel luogo dove erano meno attesi, il carcere di Nuchis”. Lo denuncia il deputato Mauro Pili. Ecco l’elenco dei detenuti. “Un vero e proprio blitz che conferma il progetto scellerato del ministero della Giustizia di trasformare la Sardegna in una vera e propria Cayenna per mafiosi e camorristi. Continuare a prendere sotto gamba questa situazione è da irresponsabili. Le istituzioni si devono, a tutti i livelli, mobilitare. Con uno sbarco di queste dimensioni le infiltrazioni mafiose e camorriste sono molto di più di un pericolo”. Lo ha appena detto il deputato sardo Mauro Pili che poco dopo le 20:00 ha concluso la visita ispettiva nel carcere di Tempio dove ieri sera sono arrivati altri sei detenuti mafiosi provenienti dal carcere di Opera - Milano. “In poco meno di una settimana sono già arrivati 24 detenuti pericolosissimi, condannati per mafia e camorra, 5 ergastolani, altri con pene tra i 48 anni e i 25 anni di carcere. Una vera e propria calata di mafia e camorra nell’isola. Un’azione compiuta nel più totale silenzio con trasferimenti a gruppi di 4 o sei dai carceri di Opera di Milano, di Santa Maria capo avetere, di Lanciano e Benevento”. “Si tratta - ha detto Pili- di una strategia pianificata a tavolino per scaricare in Sardegna i detenuti con le pene maggiori legate a mafia, camorra e traffico internazionale di droga. È una scelta in totale contrasto con tutte le linee guida legate alla regionalizzazione della pena detentiva e che va ad incidere in maniera devastante sul tessuto sociale esterno al carcere. Mentre all’interno del carcere, nonostante le carenze d’organico ancora rilevanti, il personale penitenziario e lo stesso comando riescono a sopperire con professionalità e abnegazione, all’esterno il rischio di infiltrazioni è gravissimo”. “Sono previsti in totale altri 46 mafiosi e camorristi considerato che la struttura di alta sicurezza messa a disposizione ha 70 posti. È possibile quindi che la testa di ponte per questo trasloco in terra sarda di così tanti mafiosi sia proprio il carcere di Tempio - Nuchis. Una situazione insostenibile - ha detto Pili - proprio perché non solo non era prevista ma che è stata tenuta segreta alle istituzioni locali e regionali”. Si tratta di detenuti la maggior parte condannati definitivamente per omicidi nell’ambito dell’associazione mafiosa e camorristica. “Per la Sardegna - ha detto il parlamentare sardo che sullo sbarco presenterà domani una interrogazione al Ministro della giustizia - si conferma una drammatica previsione di qualche mese fa. Il ministero ha l’obiettivo non solo di mandare nell’isola i personaggi più pericolosi ma pensa di utilizzare le nuove carceri per svuotare quelle del resto del Paese, ignorando il fatto che tutte le carceri sarde hanno detenuti in quantità doppia rispetto a quelle previste. Non solo non si vogliono ottimizzare le carceri esistenti ma si vogliono sin da subito rendere sovraffollate le nuove con detenuti pericolosi all’interno e soprattutto all’esterno”. “I reati per i quali scontano la pena i detenuti appena arrivati - sostiene Pili - sono di una gravità inaudita che non possono giustificare in alcun modo una tale concentrazione di tali personaggi in una realtà come la Sardegna. Ai 70 mafiosi di Tempio, si dovranno sommare quelli preannunciati a Massama,125, ed oltre 300 prossimi 41 bis destinati alle carceri di Nuoro, Sassari e Cagliari. Un quantitativo di mafiosi di 500 unità che rischia di stravolgere lo stato sociale e di sicurezza dell’isola. Il Ministro deve fermare questo scempio - è l’appello di Pili - è un fatto di una gravità inaudita non aver concertato questo fatti con la Regione. È un atto di violenza nei confronti dei sardi e della Sardegna che va respinto in tutti i modi”. Sindaco Tempio Pausania: non so niente su arrivo mafiosi “Non ne sappiamo niente, non abbiamo nessuna notizia in merito”. Così il sindaco di Tempio Pausania, Romeo Frediani ha risposto stamane a Cagliari ai giornalisti che gli chiedevano dettagli, in occasione della presentazione di un protocollo d’intesa tra Anci e il dipartimento amministrazione penitenziaria, dell’arrivo di 25 detenuti mafiosi e camorristi nel nuovo carcere di Nuchis. A denunciarne il trasferimento in Sardegna, ieri dopo un sopralluogo nel penitenziario, è stato il deputato del Pdl Mauro Pili, che ha anche fornito l’elenco dei detenuti. “In ogni caso - ha aggiunto il sindaco - finché si tratta di detenuti di Alta Sicurezza, la struttura è idonea, mentre non credo che lo sia per altri tipi di detenuti tra cui quelli del 41 bis”. “Noi galluresi siamo socievoli, ma anche testardi”, ha avvertito Fediani, “per cui non credo che ci possano essere problemi di infiltrazione di mafiosi e camorristi nel tessuto sociale”. Oristano: Progetto terra madre: quando la pena riabilita La Nuova Sardegna, 15 ottobre 2012 Un centinaio di detenuti per due anni sono stati impegnati per due anni in un progetto di reinserimento, di formazione e di lavoro legato all’agricoltura sociale. A conclusione di quel percorso è arrivato il tempo dei bilanci. Domani nella fattoria sociale e artistica la Hormiguita (loc. Perdixeddas - Santa Giusta) è in programma un convegno che illustrerà i risultati ottenuti dai progetti Terra Madre e Archeo. Il progetto, promosso dalla Casa circondariale di Oristano e dalla comunità Il Seme, ha sperimentato “un cammino innovativo per la costruzione di opportunità inclusive, di accoglienza e di lavoro per oltre 100 detenuti attraverso attività multiattività di agricoltura sociale”, dice Antonello Comina, presidente della coop Il Seme. Le attività di accoglienza, reinserimento sociale, di formazione e di lavoro sono state realizzate principalmente nell’ambito di due fattorie sociali della comunità Il Seme a Santa Giusta e nelle Colonie Penali di Is Arenas e di Mamone. Due anni durante i quali sono state portate avanti iniziative di economia solidale a supporto di programmi abilitativi e riabilitativi, di inserimento e reinserimento lavorativo e di inclusione sociale. “Ha contribuito a rendere effettivo, per oltre 100 detenuti, il precetto costituzionale di trasformare il tempo trascorso in carcere in un periodo di riabilitazione inteso in senso letterale, cioè “rendere il soggetto nuovamente abile a qualcosa di costruttivo”. Ciò senza mai far venire meno la serietà della pena e mantenere un buon livello di sicurezza e di integrazione”, dice Comina. Questa fase del progetto Terra madre è stato finanziato dalla Regione autonoma della Sardegna attraverso il Por Fse, programma “Ad Altiora” e si è inserito all’interno di un “sistema di rete” con diversi soggetti pubblici e privati. “Terra madre - spiega ancora Comina - ha definito “una buona prassi” utile ai fini dello sviluppo di iniziative a sostegno del reinserimento sociale e dell’inserimento socio-lavorativo di persone detenute e, in genere, sottoposte a misure restrittive. Una buona prassi che ha permesso di rendere produttivo il periodo di detenzione non solo per il pur fondamentale tentativo di reinserimento, ma soprattutto per la comunità nel suo insieme”. Livorno: il Garante; a dicembre sarà pronto il nuovo padiglione per 200 detenuti Dire, 15 ottobre 2012 Ad annunciarlo il garante Marco Solimano, informato a sua volta dal Dap. La struttura livornese potrà accogliere complessivamente 320 reclusi. A dicembre sarà pronto il nuovo padiglione dell’istituto penitenziario di Livorno. Ad annunciarlo è stato il garante dei detenuti di Livorno, Marco Solimano, informato a sua volta dal vicedirettore del Dap Luigi Pagano. Il nuovo padiglione potrà ospitare circa 200 reclusi, che si aggiungeranno ai 120 che può ospitare la parte vecchia. Nel novembre del 2011, in soli 20 giorni, vennero sfollati dalla parte vecchia del carcere circa 400 detenuti, tra cui tutta la sezione femminile, perché dimoravano in una sezione dichiarata inagibile e troppo sovraffollata. Gli sfollati andarono così ad affollare altre carceri toscane, soprattutto Sollicciano e Porto Azzurro. Con il nuovo padiglione, si augura Solimano, “speriamo ci sia spazio anche per una nuova sezione femminile”. Massa Carrara: a 3 anni da apertura all’Ipm di Pontremoli minori ancora senza istruzione Agenparl, 15 ottobre 2012 “A tre anni dall’apertura dell’Istituto penale per i minorenni di Pontremoli, non solo non è ancora stato attivato un corso scolastico regolare, ma le ore di istruzione sono state ulteriormente ridotte”. La denuncia arriva da Marina Staccioli, consigliere regionale per il Gruppo Misto, e Cesare Micheloni, consigliere provinciale di Massa Carrara, entrambi esponenti di Movimento Identità Toscana. “Nei giorni scorsi - fanno sapere i consiglieri - è pervenuta negli uffici di Regione, Provincia di Massa Carrara e Comune di Pontremoli una lettera firmata dal dirigente del Dipartimento Giustizia minorile del Ministero della Giustizia”. “Si tratta di un richiamo ufficiale - continuano Staccioli e Micheloni - attraverso il quale il Ministero mette in evidenza una grave inadempienza da parte della Regione: ad oggi l’Ufficio scolastico regionale non solo non ha garantito il tempo regolamentare nell’anno scolastico in corso (24 ore settimanali), ma ha addirittura ridotto le 9 ore settimanali dello scorso anno alle 8 di quello 2012/2013”. “La Regione Toscana - attaccano i consiglieri - non sta solo violando la normativa vigente in merito di obbligo scolastico, sta violando l’art. 34 della Costituzione, che sancisce l’accessibilità e l’obbligatorietà della scuola. Ma soprattutto - concludono Staccioli e Micheloni - sta calpestando i risultati di una lunga battaglia di civiltà che ci ha reso fieri di essere toscani”. In merito alla mancata attivazione di un regolamentare corso scolastico nel penitenziario minorile di Pontremoli, Marina Staccioli e Cesare Micheloni presenteranno due interrogazioni parallele rispettivamente in Consiglio regionale e provinciale. Lodi: Sindacato Alsippe; dal Dap menefreghismo nei confronti del destino del carcere Il Cittadino, 15 ottobre 2012 Menefreghismo nei confronti del carcere di via Cagnola. La posizione di Francesco Ricciardi, segretario del sindacato Alsippe, è di “assoluta critica all’amministrazione penitenziaria centrale e regionale per un totale disinteresse verso le problematiche della casa circondariale di Lodi”. In questi giorni, infatti, si è diffusa la notizia che la spending review potrebbe colpire anche la struttura della città, in poche parole potrebbe perdere il direttore ed essere accorpata a quella di Opera. La decisione non è ancora confermata, il provvedimento del governo colpirebbe le piccole strutture. “Le istituzioni superiori - aggiunge Ricciardi - si ricordano della casa circondariale di Lodi solo per i tagli, non prendendo in considerazione il numero esiguo di operatori di polizia penitenziaria che quotidianamente si sobbarcano non uno, non due ma ben tre o quattro posti di servizio contemporaneamente, con tutti i risvolti sulle condizioni psicofisiche che si ripercuotono sulla vita lavorativa e su quella personale”. Aggiunge poi il sindacalista: “Comprendo il momento storico che stiamo attraversando ma non è così che si gestisce il servizio pubblico, soprattutto quello penitenziario, in un momento di massimo disagio e pericolo dovuto al sovraffollamento in cui vive tutto il sistema penitenziario”. Al momento la struttura di via Cagnola è guidata da Stefania Mussio (al suo interno si contano 51 posti, ma gli ultimi dati a disposizione, quelli di giugno, indicavano 95 persone) ed è utilizzata per i detenuti in attesa di giudizio. Immigrazione: 285 milioni di euro per “Frontex”, il braccio armato dell’Unione europea di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 15 ottobre 2012 Nel 2004, l’Unione europea crea Frontex, l’agenzia europea delle frontiere, i cui comandi sono a Varsavia. Nel 2010 era fornita di “26 elicotteri, 22 aerei leggeri, 113 navi, 476 apparecchiature tecniche (radar mobili, video termici, sonde che misurano i tassi di gas carbonico emesso, detector del battito del cuore...)” scrive Claire Rodier. Frontex è conosciuta soprattutto per le missioni di sorveglianza nel Mediterraneo e per l’organizzazione di charter di migranti espulsi verso i paesi d’origine. Ma “in qualche anno Frontex è diventata lo strumento emblematico della politica di controllo migratorio dell’Unione europea”. Lo svizzero Jean Iegler l’ha battezzata “organizzazione militare quasi clandestina”. Nel 2007, Frontex ha bloccato 53mila persone che volevano entrare clandestinamente in Europa: il costo è stato di 24.128.619 euro. Una spesa enorme, che però serve a Frontex anche per facilitare la vendita di tecnologie di punta a paesi terzi, grazie agli accordi di “esternalizzazione” dei controlli (conclusi i paesi dei Balcani, la Bielorussia, la Moldavia, l’Ucraina, la Russia, la Georgia, Capo Verde, la Nigeria, ma anche Usa e Canada, mentre sono in via di conclusione intese con Mauritania, Libia, Egitto e Senegal). Il parlamento europeo ha chiesto spiegazioni, per un “rafforzamento del controllo democratico” dell’azione di Frontex. Dal 2011, Frontex può comprare o affittare materiale ed è quindi ormai “al centro di un sistema che associa gli industriali del settore della sicurezza all’amministrazione europea”, scrive Claire Rodier. Il budget di Frontex è passato da 6 milioni di euro del 2005 a 86 milioni nel 2011. Per il periodo 2007-2013, Frontex ha ricevuto un finanziamento di 285 milioni di euro per il programma di “solidarietà e gestione dei flussi migratori”. Frontex gestisce anche Eurosur, un sistema europeo di sorveglianza delle frontiere, nato quest’anno e può attingere a piene mani ai fondi del programma europeo di ricerca e sviluppo FP7, dotato di 50 miliardi. Frontex compra armamenti, ma facilita anche l’accesso agli industriali delle armi ai fondi di ricerca europei. Per esempio, Frontex si sta adoperando per lo sviluppo dell’uso civile dei droni, mercato per il momento dominato dall’industria statunitense e israeliana: nell’autunno del 2011 ha organizzato una dimostrazione in volo che ha permesso all’americana Lockheed Martin, alla spagnola Aerovision associata con la francese Thales, all’israeliana IAI di mostrare i rispettivi sistemi. Il mercato dei droni, che era di 3 miliardi nel 2009, dovrebbe decuplicarsi entro il 2020. È dalla metà degli anni ‘90 che i droni sono utilizzati per controllare le frontiere (li hanno Austria, Svizzera, Algeria, evidentemente gli Usa, per il controllo della frontiera con il Messico, dove è usato il Predator B della General Atomics). “Colpo doppio per i mercanti d’armi - conclude Claire Rodier - nuovo orizzonte per la tecnologia della sicurezza, la lotta contro l’immigrazione clandestina sostiene anche lo sviluppo dell’industria di guerra”. Albania: sciopero ex detenuti politici, domani ministro di Giustizia riferirà al parlamento Nova, 15 ottobre 2012 Il ministro della Giustizia albanese, Eduard Halimi, sarà convocato domani in udienza alla commissione parlamentare legislativa per riferire sulla questione dello sciopero della fame degli ex detenuti politici, i quali protestano per “i mancati rimborsi economici promessi dal governo”. Il ministero della Giustizia l’istituzione che ha seguito tutte le procedure e stilato l’elenco delle persone che dovrebbero usufruire della ricompensa per gli anni trascorsi nelle carceri della dittatura comunista. È da oltre tre settimane ormai che un gruppo di ex detenuti ha indetto lo sciopero della fame e durante questo fine settimana tre di loro sono stati trasferiti in ospedale, mentre sono rimasti in otto a protestare. “Alle autorità chiediamo di avviare un dialogo. Non c’è molto tempo a disposizione. I nostri fratelli stanno rischiando la vita”, ha dichiarato oggi il coordinatore della protesta, Skender Tufa, durante una manifestazione di fronte alla sede del parlamento. La scorsa settimana, grazie alla mediazione internazionale, una rappresentanza degli ex detenuti politici stata ricevuta dal capo dello stato, Bujar Nishani. “Abbiamo pensato che quell’incontro potesse dare il via al dialogo con le autori. Siamo delusi, perché non c’è nessun segnale che indichi una soluzione del nostro problema”, ha dichiarato Fatmir Lamaj, uno degli scioperanti che ha partecipato al colloquio con Nishani. Siria: notizie su uno scambio di prigionieri tra regime e ribelli ad al Raqa Nova, 15 ottobre 2012 È in corso uno scambio di prigionieri tra il regime siriano di Bashar al Assad e i ribelli dell’Esercito libero nella provincia di al Raqa. Secondo quanto riporta il quotidiano arabo “al Sharq al Awsat”, le autorit di Damasco hanno ordinato nei giorni scorsi la scarcerazione di due detenuti politici condannati a morte. La decisione stata presa per ottenere la liberazione del figlio di Ali al Shaaibi, esponente del regime in auge fin dagli anni ottante in Siria. Si tratta del primo caso di scambio di prigionieri in Siria dall’inizio della rivolta. La notizia stata confermata anche da un esponente del Consiglio nazionale siriano, Mohammed Sarmini, il quale ha spiegato che “lo scambio il primo mai avvenuto in Siria e riguarda alcune famiglie di al Raqa che hanno visto loro congiunti essere scarcerati in cambio del figlio di Ali al Shaaibi che era finito in mano ai ribelli. Il giovane stato liberato quando i detenuti sono arrivati nella zona in mano ai rivoluzionari. I due sono provati dalle torture che hanno subito e saranno trasportati all’estero per essere curati. Questo episodio dimostra come il regime stia progressivamente crollando”.