Giustizia: carceri al collasso, emergenza senza fine di Giorgio Velardi Il Punto, 14 ottobre 2012 Il Capo dello Stato apre all’ipotesi di un’amnistia, il ministro della Giustizia studia un modo per costituire 4mila nuovi posti entro il 2013. Nel frattempo la totalità dei nostri istituti di pena è sul punto di esplodere: a Catania il tasso di sovraffollamento è del 341%. Mentre da Nord a Sud ci sono 38 strutture costruite e mai utilizzate, con uno spreco di centinaia di milioni. L’ultimo suicidio, di cui ha dato notizia l’Osapp (l’organizzazione sindacale autonoma di Polizia penitenziaria), è stato quello di un 51enne italiano che il 28 settembre scorso nel carcere di Biella ha legato i lacci delle scarpe alle inferriate della cella e ha detto “basta”. È il 41 esimo detenuto che dall’inizio dell’anno si è ucciso in un carcere della Penisola. Con molta probabilità, spiace dirlo, non sarà l’ultimo. C’è un grave problema che affligge l’Italia che fa meno notizia dell’andamento dello spread: è la situazione dei nostri istituti penitenziari. Che sono al collasso. Basta esplicitare due soli dati: quello della capienza delle 206 strutture regolamentari, 45.849 posti, e quello del totale dei detenuti che ad oggi sono presenti nelle prigioni, 66.568. Il 40 per cento dei quali e in attesa di giudizio. Numeri da brivido, cifre che fanno dell’Italia il Paese europeo che ha all’attivo il maggior numero di condanne per violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. E mentre il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, apre all’ipotesi di un’amnistia, il ministro della Giustizia Paola Severino accelera per fare in modo che entro la fine del 2013 siano costituiti circa 4mila nuovi posti. Ma i complessi, inutilizzati, ci sono. Sia al Nord che al Sud. I numeri del problema Secondo “Morire di carcere: dossier 2000-2012” di Ristretti Orizzonti, negli ultimi dodici anni sono stati 2.055 i detenuti che hanno perso la vita nei nostri penitenziari. Più di un terzo di loro, 735, si sono tolti la vita. L’anno peggiore è stato il 2009, dove i suicidi registrati sono stati 77. Nel 2011 il numero si è fermato a 66. A preoccupare maggiormente, però, è la mancanza di “soluzioni alternative” - come le hanno definite la stessa Guardasigilli e il Capo dello Stato - che potrebbero (quantomeno) alleviare la gravità della situazione. Anche in questo caso sono i numeri a venire in nostro soccorso. E dicono che la percentuale di recidività per i detenuti che non hanno mai lavorato nel corso della loro permanenza in carcere è tre volte superiore rispetto a quella di coloro che invece hanno svolto attività all’esterno: 65 per cento contro il 19. E a testimonianza del fatto che l’Italia sembra guardare con scarso interesse a ciò che accade nelle sue celle, va fatto notare che in altri stati del continente il 75 per cento delle condanne viene scontato lavorando al di fuori (da noi l’83 per cento dei carcerati resta in cella per l’intero periodo di detenzione). Non solo: un altro dossier, realizzato nel 2010 dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) e dal titolo “Eventi critici”, ha evidenziato la manifestazione di oltre 5mila episodi di autolesionismo e di 1.137 casi di tentato suicidio. Poi c’è la situazione degli Opg, gli Ospedali psichiatrici giudiziari, che dovrebbero essere definitivamente chiusi entro sei mesi. Ma, stando a quanto recentemente dichiarato dalla senatrice del Pd Donatella Poretti, la legge 9/2012 (“Interventi urgenti per il contrasto della tensione detentiva determinata dal sovraffollamento delle carceri”) rischia di rimanere inapplicata. Questo perché manca il decreto del ministero della Salute che contiene i requisiti per le nuove strutture da destinare ai soggetti coinvolti, che doveva essere già stato emanato nel marzo scorso. “Nessun fondo è stato stanziato -ha argomentato Poretti. L’anno 2012 volge al termine e il rischio evidente è che i 158 milioni di euro previsti dalla legge tornino nel bilancio pubblico e vengano destinati ad altri fini”. Pronte ad esplodere Ci sono strutture carcerarie sul punto di esplodere. Lo dice il “viaggio” compiuto questa estate da Antigone, l’associazione che da oltre vent’anni si occupa di giustizia penale, nei principali penitenziari italiani. Le costanti registrate sono state il sovraffollamento e le scarse condizioni igienico-sanitarie in cui versano i detenuti. A Pisa, per esempio, a fronte di una capienza regolamentare di 225 persone ne sono presenti 355, di cui 204 stranieri. Qui, nonostante sette mesi fa siano partiti i lavori di ristrutturazione del reparto giudiziario del carcere, lo spreco relativo alle perdite d’acqua fa lievitare il costo delle bollette con un indebitamento di migliaia di euro. Le cose non vanno meglio a “Poggioreale” (Napoli): 2.600 i detenuti presenti malgrado la struttura ne possa contenere la metà, con punte di 12 individui in celle in cui mancano le docce, a dispetto di quanto richiesto dal Regolamento di attuazione dell’Ordinamento penitenziario. A Lanciano, in Abruzzo, il tasso di sovraffollamento dell’istituto è del 170 per cento. La quasi totalità dei detenuti è dunque costretta a vivere al di sotto dei 3 metri quadrati, soglia minima oltre la quale - secondo quanto stabilito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo - si configura la “tortura”. Poi c’è la casa circondariale di Livorno, che conta 4 sezioni chiuse, due di media e due di alta sicurezza. L’associazione ha registrato all’interno frequentissimi episodi di scabbia, tubercolosi e sifilide. Cinque detenuti sono sieropositivi, altri 16 seguono una terapia metadonica. Infine ci sono Messina, Cagliari e Catania. Nel primo caso il tasso di sovraffollamento è pari al 200 per cento, con i carcerati costretti a vivere anche in 11 in 19 metri quadrati (1,72 a testa). Metà dell’istituto è inagibile, l’altra metà necessiterebbe di una ristrutturazione (a causa del sovraffollamento, i detenuti affetti da gravi patologie sono mischiati a quelli “comuni”). Nel capoluogo sardo, invece, sono presenti circa 200 soggetti tossicodipendenti (il 40 per cento del totale) e 20 in terapia retro virale. È scarsa la presenza di agenti di polizia penitenziaria: ne servirebbero 267, ce ne sono solamente 212. Ad indossare la “maglia nera” è però la casa circondariale “Piazza Lanza” di Catania. Il carcere siciliano, costruito per ospitare 155 fra uomini e donne, vede la presenza di 529 individui (il tasso di sovraffollamento è del 341 per cento), 249 dei quali in attesa di giudizio. Il particolare che inquieta maggiormente è che in inverno, per risparmiare, l’impianto di riscaldamento viene tenuto spento, così come le luci nei corridoi. Strutture “dimenticate” Per costruire nuove carceri ci vogliono i soldi. Tanti. Ma, in tempi di spending review, meglio puntare sulle “soluzione alternative”. Che dovevano essere decise con un ddl per cui Severino aveva promesso un percorso accelerato. “Il disegno di legge prevede la messa in prova dei detenuti presso i servizi sociali e gli arresti domiciliari”, ha fatto sapere il ministro ad inizio settembre -, ma di cui ancora non c’è traccia. Eppure, paradosso italico, le strutture ci sono. Trentotto carceri edificate, costate milioni di euro, ma mai aperte. Per le motivazioni più stravaganti. Ad Arghillà, provincia di Reggio Calabria, il penitenziario è inutilizzato perché mancano la strada d’accesso, le fogne e l’allacciamento idrico. Una struttura di cui ha parlato anche l’ex capo del Dap, Franco Ionta, in un colloquio con il Riformista dello scorso gennaio. “Le prime operazioni per la costruzione di questo carcere - spiegava Ionta - risalgono agli Anni 80. Secondo alcuni calcoli la struttura è già costata 80-90 milioni di euro ma deve essere necessariamente rifunzionalizzata, perché gli impianti sono precedenti alla legge del 2000”. A Bovalino e a Castelnuovo della Daunia (entrambi in provincia di Foggia) sono presenti due strutture, una da 120 posti e un’altra finita e arredata da quindici anni, che non sono mai state aperte; a Cropani (Catanzaro) l’istituto è occupato da un solo custode comunale. Non è finita qui: a Frigento (Avellino) il carcere è stato costruito dopo il terremoto degli Anni ‘80 (che aveva provocato il crollo della struttura presente nei pressi del vecchio municipio), inaugurato e chiuso per colpa di una frana; a Monopoli (Bari), le celle che formano il complesso sono state occupate abusivamente da alcune famiglie di sfrattati; a Irsina (Matera) sono stati spesi -sempre negli Anni 80 - circa 3,5 miliardi di lire, però poi la “macchina” ha funzionato per un solo anno e oggi il Comune la utilizzata come deposito. Infine, fra i tanti casi che potremmo ancora citare, c’è quello di Morcone, a 35 chilometri da Benevento. Ebbene il carcere è stato costruito, abbandonato, ristrutturato, arredato e nuovamente abbandonato, malgrado l’utilizzo di vigilantes armati. Il consumo di droghe Nelle condizioni in cui versano, le carceri non hanno un ruolo rieducativo per i detenuti, ma anzi sortiscono l’effetto contrario. Uno dei problemi maggiormente rilevanti è quello della tossicodipendenza. La percentuale di reclusi che fanno uso di sostanze è stabile al 25 per cento, come ribadito anche da una recente ricerca del Dap. “Malgrado tutte le tecniche che possono essere messe in atto, nonostante perquisizioni sempre più rigorose nei confronti dei familiari dei detenuti che rischiano però di diventare un deterrente per le visite, è inevitabile che questo fenomeno attraversi anche le porte delle carceri. Cercare di azzerarlo è impossibile, nessuna struttura è ermetica e a prova di errore”, dichiara a Il Punto Alessio Scandurra, coordinatore dell’osservatorio di Antigone. “In luoghi come questi le organizzazioni criminali usano la droga come merce di scambio, non ci sono solamente i consumatori singoli che vengono riforniti dai componenti della famiglia”, prosegue Scandurra, che poi aggiunge: “È mio dovere ricordare che non è certo questa l’unica forma di illegalità presente nei penitenziari. Ci sono decine di processi aperti per appropriazioni indebite dei fondi del ministero, per violenze dei detenuti sui detenuti, degli agenti sui detenuti e viceversa, c’è una legge del 2000 che dice come dovrebbero essere le carceri che non viene rispettata e sentenze internazionali le quali affermano che le prigioni italiane costituiscono forme di tortura. L’illegalità rappresenta più l’ordinarietà che l’eccezione”. Ad essere consumate nelle carceri non ci sono solo le droghe cosiddette “tradizionali”, ma anche quelle sintetiche - difficili da individuare sia dagli agenti che dai nuclei cinofili - come subutex e skunk, la “supercanna” che unisce marijuana e hashish. Secondo “Carcere e droghe in tempi di politiche securitarie”, dossier di fuoriluogo.it, le autorità carcerarie dovrebbero pianificare una serie di interventi atti a ridurre il danno; in aggiunta, la salute in carcere dovrebbe essere gestita dal ministero della Salute e non da quello della Giustizia. Uno scenario perfetto nelle intenzioni, meno nella pratica quotidiana. Bisogna fare presto, dunque: la questione delle carceri va risolta, e in fretta. Questa volta non ce lo chiede (solo) l’Europa, ma il buonsenso. Giustizia: Camera; ddl per pene alternative, prosegue confronto su nuovo testo base Asca, 14 ottobre 2012 La Commissione Giustizia anche in questa settimana ha svolto un ampio esame del ddl 4041 contenente le misure di depenalizzazione e pene alternative alla detenzione per attenuare il sovraffollamento carcerario. Il Ministro della Giustizia ha spesso ribadito la necessità ed urgenza di questo provvedimento e per accelerare l’iter l’Esecutivo si è detto disponibile a stralciare la parte dell’articolato riguardante la depenalizzazione sulla quale si erano registrate le maggiori differenze di posizioni concentrando l’attenzione sulle pene non carcerarie. In Commissione è stato, infatti, presentato un nuovo testo base composto da 9 articoli suddivisi in IV Capi e un testo distinto relativo all’articolo 2 del ddl originario relativo, appunto, a depenalizzazione e pene non carcerarie. Si punta ora a chiuder l’iter referente. Giustizia: Bernardini (Ri); dove sono le riforme promesse al posto di amnistia e indulto? Agi, 14 ottobre 2012 “Ci avevano detto, Presidente della Repubblica in testa, che al posto dell’amnistia e dell’indulto (per i quali non c’erano le condizioni politiche, per conquistare le quali non si è fatto nemmeno uno straccio di messaggio alle Camere) ci sarebbero stati urgenti riforme strutturali di depenalizzazione e decarcerizzazione che avrebbero rimesso in moto il sistema e fatto rientrare l’Italia nella legalità costituzionale”. Lo dichiara, in una nota, Rita Bernardini, deputata radicale, membro della Commissione Giustizia, che si rivolge al Capo dello Stato aggiunge. “Il Presidente Napolitano dovrebbe dirci oggi che ne è di quelle riforme. Può essere che non lo sappia o che si sia accontentato delle rassicuranti esternazioni del ministro della giustizia”. Le carceri “continuano ad essere luoghi di violazioni di diritti umani fondamentali”, sottolinea Bernardini. Quanto alla depenalizzazione “per non ingolfare l’esausto sistema della giustizia siamo nella fase dell’occorre approfondire” e del “bisogna riflettere”. “Quattrocentocinquanta giorni scanditi dalle morti e dai suicidi della comunità penitenziaria e dalla disperazione di milioni di cittadini che hanno a che fare con l’irragionevole durata dei processi civili e penali, osserva. “A sei mesi dalla fine della legislatura, del disegno di legge delega al governo “in materia di depenalizzazione, pene detentive non carcerarie, sospensione del procedimento per messa alla prova e nei confronti degli irreperibili”, è stata stralciata la materia della depenalizzazione e, quanto alle pene detentive non carcerarie, tanto i relatori quanto la Presidente Bongiorno hanno esternato forti perplessità tanto da invocare emendamenti governativi per ridimensionarne la portata o, addirittura, il depennamento o lo stralcio”. “E, allora, caro Presidente, cosa rimane della Prepotente urgenza sul piano costituzionale e civile”? Rimane forse il tradimento dei cardini di uno stato di diritto del quale i Radicali e la comunità penitenziaria dovranno continuare, con la nonviolenza, a farsi carico?”, conclude. Giustizia: Corleone; in carcere tossicodipendenti e stranieri, celle contenitori di marginalità www.estense.com, 14 ottobre 2012 “Il carcere toglie dalla circolazione le persone che appartengono a strati sociali che non si vogliono come collettività riconoscere: i tossicodipendenti, gli stranieri. Quasi il 70% della popolazione detenuta in Italia è in carcere per motivi di status, si attua così una logica contraria non solo al senso del pudore ma alla Costituzione”. A parlare venerdì sera, presso la libreria Ibs di Ferrara, il docente di diritto costituzionale della facoltà di Giurisprudenza Roberto Bin, coordinatore dell’ultimo appuntamento della rassegna “Libri dietro le sbarre”. L’iniziativa ha lo scopo di informare e sensibilizzare la cittadinanza sui temi legati alla carcerazione, e si è chiusa su quello che potrebbe apparentemente sembrare un nodo minore, ma sul quale si misura interamente il senso e la finalità della detenzione: la progettazione fisica delle case circondariali: “sono strutture che riflettono un’ideologia - ha proseguito Bin, vengono collocate fuori dalle città perché contengono persone che la società non vuole vedere, la collettività separa da sé la parte che ritiene malata”. Il dibattito è stato alimentato dalla raccolta di saggi “Il corpo e lo spazio della pena”, edito nel 2011 da Ediesse, e si è sviluppato sui binari paralleli della giurisprudenza e dell’architettura. Alessandro Massarente, ricercatore di composizione architettonica per Unife, ha voluto a proposito ricordare quanto sia importante per qualsiasi costruzione fare in modo che garantisca agli uomini individualità e coesione: “anche in un ambiente dove è fondamentale garantire la sicurezza bisognerebbe fare in modo che le persone possano avere degli spazi per sé. Il carcere attualmente nega la privatezza: la continuità visiva è pervasiva, totale”. Della stessa idea anche Andrea Pugiotto, ordinario di diritto e primo promotore della rassegna, che ha ricordato quanta poca attenzione venga posta alla vita affettiva e sessuale di chi è recluso, e ha fornito alcuni numeri in relazione al sovraffollamento: al 31 luglio 2012 in Italia ci sarebbero 45.588 posti in carcere, occupati però da 66.009 persone. “La capienza regolamentare prevede 9 metri quadrati per ciascuno - ha spiegato Pugiotto - ma ad un certo punto c’è stato uno slittamento semantico, si è cominciato a parlare di capienza tollerabile, la quale non è mai stata definita con dei parametri. È una categoria consuetudinaria, basata sull’abitudine. Noi giochiamo con le etichette ma il Consiglio d’Europa ci tiene d’occhio. Tra i Paesi membri della Comunità le nostre carceri, per sovraffollamento, sono seconde solo a quelle della Serbia”. Franco Corleone - garante dei detenuti a Firenze, tra i curatori del libro presentato - ha terminato la discussione riportandola dove sempre questo tipo di confronto finisce: sulla necessità di rivedere la legislazione. “Le celle funzionano come contenitori di marginalità, testimoniano la crisi del sistema di welfare, sostituito con il prisonfare. Il 33% delle persone dietro le sbarre hanno violato l’articolo 73 della legge Giovanardi sulla droga, che penalizza lo spaccio e la detenzione attribuendo al trasgressore dai 6 ai 20 anni, una punizione spropositata rispetto a quella imposta per altri reati. Il problema è legato al fatto che questa legge, come tante altre leggi speciali, mina l’equilibrio delle pene”. Corleone porta ad esempio la Norvegia, dove la pena massima è pari a 21 anni di reclusione, e non volendosi accontentare di sospirare l’utopia del grande e civilizzato nord Europa, si è chiesto ed ha chiesto al pubblico presente: “perché noi non possiamo dire: siamo l’Italia e vogliamo un codice penale decente?”. Si è concluso su questo interrogativo la rassegna 2012, e con l’augurio espresso dal garante ferrarese Marcello Marighelli: “spero che questo ciclo continui anche il prossimo anno: la luce su queste problematiche non può proiettarsi a intermittenza, deve essere continua”. Giustizia: le galere esplodono e Giovanna Di Rosa (Csm) chiede amnistia e misure alternative di Francesco Amicone Tempi, 14 ottobre 2012 Alimentando nei cittadini una fallace esigenza di sicurezza, che si coniuga con un concetto distorto del giusto e con la spettacolarizzazione della pena, le istituzioni italiane spesso usano il carcere per esigenze che hanno poco a che fare con la pubblica utilità. Per Giovanna Di Rosa, già magistrato di Sorveglianza a Milano e oggi membro togato del Csm, l’eguaglianza fra pena e detenzione è frutto di un ragionamento errato. Il carcere dovrebbe essere usato come ultimo rimedio. Investire sulle misure alternative garantirebbe sostenibilità ed efficacia al sistema penale. A sollecitare riforme in questo senso non ci sono soltanto l’emergenza del sovraffollamento e la presenza di metà della popolazione carceraria in custodia cautelare (quindi ancora in attesa di processo), ma anche le statistiche sulle recidive: a ritornare al crimine sono il 70 per cento dei carcerati a fronte del 20 per cento di chi ha ottenuto pene alternative. Ma al di là delle adesioni formali, poco o nulla è stato fatto perché il principio secondo cui il carcere è una extrema ratio sia realmente applicato. Cosa ostacola l’applicazione di questo principio? Nessun investimento, norme contraddittorie e nessuna riforma coraggiosa della giustizia. Inoltre a spingere in una direzione opposta al principio del carcere come ultimo rimedio c’è una cultura che risponde a un’esigenza trasmessa nel sentire collettivo dalle rappresentazioni della stampa, ma priva di fondamento. È il cosiddetto giustizialismo, che ha fatto avvicinare posizioni culturalmente opposte, a destra e a sinistra, che sulla questione carceri convergono in un medesimo discorso sulla giustizia omogeneo, superficiale, dove si ignorano i dati e le peculiarità del sistema penale. Secondo una statistica pubblicata qualche settimana fa, gran parte degli italiani sarebbe favorevole al carcere per gli evasori. Non crede che il largo consenso all’introduzione di nuove misure detentive possa prospettare un ostacolo anche alla necessità delle depenalizzazioni? Sono discorsi che rendono evidenti molte contraddizioni. Da una parte c’è l’esigenza, condivisa ma solo in senso formale, di depenalizzare certi reati; dall’altra la spettacolarizzazione della pena, attuata soprattutto in questi ultimi anni, spinge verso altri obiettivi. In generale, non si considera che oltre alla privazione della libertà, ci sono provvedimenti altrettanto incisivi, che in molti casi si rivelano meno dispendiosi e più efficaci. Per esempio, l’interdizione alle pubbliche funzioni o la sanzione pecuniaria. Non si comprende, non si vuole comprendere l’idea che la pena non è soltanto mandare chi ha violato le leggi “dietro le sbarre”. Attualmente “dietro le sbarre” ci sono più di sessantamila persone. Vivono in condizioni al limite. A disposizione hanno uno spazio medio inferiore a quello destinato ai maiali negli allevamenti intensivi. Dopo varie condanne da parte degli organi europei, anche il governo ha dovuto ammettere il problema. La scorsa settimana è stato il Presidente delle Repubblica, accogliendo una delegazione dei 136 giuristi firmatari di una petizione in favore dell’amnistia (sottoscritta anche da Tempi), ad auspicare un accordo delle forze parlamentari a riguardo. Dal Presidente della Repubblica è arrivata una dichiarazione di supporto all’amnistia importantissima. Per quanto si tratti di un intervento tampone, per ragioni umanitarie, sarebbe indispensabile. Non c’è nulla di sorprendente. Periodicamente si è sempre arrivati a questo tipo di provvedimenti. Si tratta, senz’altro, di una misura estemporanea che pone il problema dell’adozione di misure coordinate che non diano luogo a una situazione episodica in un quadro dove non c’è un strategia complessiva sul sistema penale. A parte l’amnistia, quali interventi sono necessari per sanare stabilmente la situazione delle carceri italiane? La discussione deve partire dal sistema penale e non dal carcere. È l’organizzazione della pena che deve essere cambiata. Il principio è quello di individuare la giusta pena e non il “giusto carcere”. Il numero di detenuti dimostra invece che attualmente il carcere non è considerato come residuale al sistema della pena, ma coincide con la pena. In realtà, sono pochi i detenuti colpevoli di reati di reale allarme sociale e la maggior parte non è pericolosa. In termini pratici, bisognerebbe intervenire da subito, effettuando una scrematura della popolazione carceraria, partendo dai molti arrestati per reati bagatellari, in carcere a scontare tre, quattro, cinque mesi. La svuota-carceri è stata un fallimento? È una legge a termine, adottata in attesa dell’attuazione del piano straordinario penitenziario e della riforma complessiva del sistema delle misure alternative. Ha gli stessi problemi di tutti gli interventi timidi e non coerenti di questi anni. Bisogna affrontare una riforma organica. Oltre a incentivare le misure alternative, è necessario procedere con le depenalizzazioni, e infine ripensare alla legge sulla recidiva, che non consente accertamenti sulla pericolosità sociale perché scatta automaticamente e ha portato a chiudere in carcere tantissimi che non lo meritavano. Il 40 per cento della popolazione carceraria è ancora in attesa di giudizio. I magistrati fanno un uso eccessivo della custodia cautelare? La situazione richiede un mutamento culturale e un’assunzione rinnovata di responsabilità anche della magistratura, che della custodia cautelare fa senz’altro ampio uso. Però bisogna ricordare che i comportamenti dei singoli magistrati si collocano in un contesto più ampio che risponde a un sistema normativo dove la sicurezza è sentita come prioritaria. L’attenzione politica è orientata al mantenimento di più ipotesi nelle quali la custodia cautelare deve essere assicurata. È prima di tutto questo sistema di norme non chiaro che tende ad aumentare il ricorso alla custodia cautelare. I magistrati non possono ricorrere anche in questo caso a misure alternative? Il giudice può concederle, strutturare le misure e aumentare il numero laddove ha un servizio di esecuzione penale esterna. Ciò significa: assistenti sociali, educatori, figure istituzionali che garantiscono il giudice. Il tallone d’Achille delle misure alternative sono il domicilio e il lavoro per chi non ce l’ha. Se una persona deve lavorare per vivere, non può farlo senza retribuzione o qualcuno che provveda al mantenimento. Risulta difficile applicare misure alternative se vi è una carenza di strutture organizzative sul territorio. Il ministro della Giustizia Paola Severino ha dichiarato di volere promuovere l’uso delle misure alternative al carcere. In che modo è possibile farlo? Innanzitutto è necessario che le dichiarazioni si accompagnino agli investimenti. Ma attualmente gli operatori che seguono l’esecuzione penale esterna sono quelli con l’organico più lacerato e più ridotto e i tagli si muovono nel contrasto delle misure che si afferma voler promuovere, colpendo quindi soprattutto le misure alternative. In questo quadro non so proprio come potrà essere applicata e a chi, la messa alla prova in discussione. Quale cultura può stare alla base di una politica della giustizia efficace? Una cultura impostata sui valori di solidarietà e apertura, che crede al cambiamento dell’uomo. Inoltre sarebbe più d’aiuto ricorrere ai pareri degli operatori e all’aiuto delle istituzioni locali, al posto di attuare iniziative estemporanee che poi si traducono in norme che si stratificano in un sistema impazzito. Giustizia: cosa desidero… a parte la libertà? di Toni Castellano www.gruppoabele.org, 14 ottobre 2012 Da anni in Italia si chiede l’abolizione dell’ergastolo. Il carcere italiano è fondato sul concetto di rieducazione del detenuto, previsto dall’art. 27 della Costituzione. Ogni pena prevede sconti, agevolazioni e benefici in base all’osservazione del comportamento del condannato e alle sue necessità rieducative. Solo per via dell’esistenza di queste agevolazioni, l’ordinamento giuridico italiano ammette l’ergastolo, legittimo in quanto effettivamente “non perpetuo”. Eppure il “fine pena mai” esiste. Esistono persone che mai riceveranno in carcere una rieducazione. Sono costrette a scontare il così detto “ergastolo ostativo”. Ostativo, come scrive Adriano Sofri (su La Repubblica del 24 settembre 2012), “vuol dire che per certi reati ritenuti di particolare gravità è esclusa senza riserve l’eventualità che la pena carceraria finisca o si muti in pene alternative: niente permessi, niente lavoro esterno, niente riduzioni di pena per buona condotta”. A spiegare questa condizione è un libro composto da interventi degli stessi “uomini ombra” come si sono autodefiniti gli ergastolani che hanno accettato di raccontare la propria storia. Il libro si intitola “Urla a bassa voce”, edito da Stampa alternativa e curato da Francesca de Carolis, giornalista Rai, alla quale abbiamo posto qualche domanda sulla questione. L’ergastolo ostativo nega nella sua natura il concetto di rieducazione dell’individuo condannato, contraddicendo l’art. 27 della Costituzione italiana. Come si spiega l’esistenza di questa pena nel nostro Paese? L’ergastolo ostativo nasce da un meccanismo prodotto dall’inasprimento delle pene introdotte per combattere la mafia all’inizio degli anni ‘90. Norme particolarmente restrittive per chi compia reati legati ad associazioni di stampo mafioso. Norma chiave, il 4 bis, che impedisce la concessione di pressoché tutti i benefici previsti dalla legge, per chi è detenuto per reati di associazione mafiosa, sequestro di persona a scopo di estorsione, associazione finalizzata al traffico di stupefacenti. A meno che non si scelga di essere “collaboratore di giustizia”. Credo che intanto sia necessario avere presente il momento storico nel quale questa normativa è nata, dopo le stragi nelle quali sono morti il giudice Falcone, Francesca Morvillo, gli agenti della scorta, e poi il giudice Borsellino e i suoi agenti. Un momento “d’emergenza”, in cui si decise di rafforzare le misure da prendere per combattere le grandi organizzazioni criminali. E se queste misure, giuste o non giuste le si considerino, sono rimaste inalterate a distanza di venti anni da quei giorni, credo sia perché il nostro paese rimane “assediato” dalle organizzazioni criminali, una battaglia ancor più difficile da combattere, se gli intrecci di mafia-politica-economia sembrano rafforzarsi, anziché scemare, negli anni. Proprio perché ben più radicate nel tessuto sociale sono le organizzazioni di stampo mafioso, non ci si è accontentati della “dissociazione” del detenuto, per dimostrare il distacco dall’organizzazione di appartenenza, ma si è chiesto un atto più radicale: il collaborare. Collaborare, dunque, per dimostrare di essere pentiti? Ecco, questo è il punto. Noi parliamo genericamente di pentiti, ma questo significa fare confusione, non aiuta a capire. Premesso che non si nega che i “collaboratori di giustizia” abbiano avuto un ruolo importante per combattere le organizzazioni di stampo mafioso, decidere di essere “collaboratore di giustizia”, significa fare una scelta processuale, che non necessariamente indica un “pentimento”, inteso come atteggiamento morale che nasce da un percorso di riflessione che è anche intimo. Mentre ci sono molti motivi (e nel libro ognuno lo spiega) per cui una persona può decidere di non collaborare: la paura di vendette trasversali, ad esempio, oppure il fatto che non si voglia “mettere in carcere qualcuno al posto mio”, oppure (succede anche questo) che davvero si abbia poco da dire. Vorrei comunque sottolineare che le persone condannate all’ergastolo di cui stiamo parlando, e di ergastolo ostativo si tratta (quindi condannate a non uscire mai, ma proprio mai dal carcere) sono persone in prigione da quindici, venti, anche più di trent’anni. Quello che chiedono è di poter dimostrare che un percorso è stato fatto, di essere cambiati, certo “pentiti” del passato, senza necessariamente fare una scelta processuale (diventare cioè collaboratori di giustizia) che per motivi cui non possiamo non prestare ascolto, non possono fare. Insomma, se è comprensibile che chi decide di collaborare venga premiato, non sembra accettabile che chi non faccia questa scelta abbia di fatto una pena suppletiva. Quanti sono oggi in Italia gli ergastolani ostativi? Per quali crimini sono condannati? Non esiste un dato ufficiale. Neppure al Ministero della Giustizia possono dire esattamente quanti siano gli ergastolani ostativi. Perché, una volta che si è condannati per reati ostativi, l’ostatività viene di volta in volta attribuita o meno, in base ad una valutazione della collaboratività o meno della persona, che naturalmente può cambiare nel tempo, ma anche in base alla rilevanza che può assumere nel tempo l’eventuale collaborazione. Recentemente si è parlato di circa 1000, fino a 1200 ergastolani ostativi. Si calcola comunque una cifra che va dai due terzi ai tre quarti delle persone condannate all’ergastolo, che, per la cronaca, al mese di giugno di quest’estate erano 1546. Per cosa sono condannati? Per omicidio o reati comunque commessi nell’ambito di associazioni di stampo mafioso, sequestro di persona a scopo di estorsione... Il riferimento è all’articolo 4 bis cui accennavamo prima. Ma tengo a sottolineare che chi volesse trovare nel libro la “storia criminale” di ciascuno, ne rimarrebbe forse deluso. A meno che qualcuno non abbia voluto liberamente riferirsi a reati commessi in passato (e comunque qui c’è anche chi si dichiara innocente), nel libro non viene chiesto a nessuno di “pronunciare” il proprio reato, perché il tentativo è di andare “oltre “: chiedersi e chiedere se, indipendentemente dal reato commesso, abbia senso una pena che non finisce mai, in quale rieducazione si può sperare per una persona alla quale è tolta qualsiasi speranza di riaffacciarsi alla società. Perché il carcere duro è una soluzione d’emergenza? Con carcere duro ci riferiamo al regime di 41 bis, norma dell’ordinamento penitenziario che prevede particolari restrizioni: riduzione delle ore d’aria, celle particolari, nessuna attività in comune, restrizione dei colloqui con i familiari, vetri divisori durante i pochi colloqui. Una soluzione d’emergenza per impedire contatti con l’organizzazione criminale d’appartenenza, ma, si accusa, anche un regime vessatorio per “indurre” alla collaborazione. Il pensiero che fosse soluzione d’emergenza, e quindi legato a particolari situazioni e momenti storici, sembra chiaro anche al legislatore, se nel suo progetto l’efficacia di quella norma doveva essere temporanea, limitata a un periodo di tre anni, secondo l’idea originaria. Ma varie proroghe l’hanno lasciata in vigore, fino alla legge che poi l’ha resa definitiva. E questo credo si spieghi sempre con quello che dicevamo prima, che l’Italia rimane per un verso o per l’altro un paese assediato dalle organizzazioni criminali, con inquietanti zone d’ombra nel mondo della politica e dell’economia... e l’idea trasmessa di un’emergenza costante anestetizza un può... Ci fa chiudere gli occhi, pensare accettabili violazioni di diritti che accettabili non sono. Ma, a proposito di carcere e di carcere duro, c’è chi ci invita a cominciare a riflettere, a pensare che sicurezza (la nostra) e pena (quella degli altri) non coincidono, non sono la stessa cosa, che ci deve pur essere un modo per impedire i contatti di chi è pericoloso con l’associazione di appartenenza senza violarne la dignità. Perché non si può educare alla legalità con strumenti illegali, e il sistema carcerario italiano, così com’è adesso in Italia “è” illegale. E questo vale per tutti. In un capitolo del libro gli ergastolani parlano della speranza che si possa pensare ad alternative all’ergastolo ostativo. Quali sono e quanto sono ipotizzabili? Di cosa parlano... Premesso che una delle cose che colpisce è che nessuno, ma proprio nessuno, tranne ovviamente chi si dichiara innocente (e pure questo è legittimo) dice di non dovere scontare una pena, quello che si chiede è la definizione di un tempo che non sia una pena da scontare fino alla morte (perché questo, ripeto, è l’ergastolo ostativo), senza i normali benefici ai quali i “normali “ ergastolani pure posso accedere. Le alternative? Rimando alle pagine del libro: “preferirei spazzare le strade della mia città piuttosto che stare qui a rispondere a queste domande”, “lavorare per la famiglia della vittima”, “avere la possibilità di spiegare ai giovani che si trovassero nelle condizioni in cui mi sono trovato da giovane quali sono le strade da non prendere. Chi meglio di me potrebbe insegnare...”. Insomma la richiesta è di avere la possibilità di essere messi alla prova, di riallacciare un rapporto con la società. Certo non è facile, ma da qualche parte bisogna pur partire, e bisogna partire da un lavoro culturale, lavorando soprattutto su noi stessi perché nessuno sia respinto nel nulla... ( chi lo ha detto?) . Qualche sera fa, ad un seminario su “Ergastolo e democrazia” ( ma il titolo vero sarebbe potuto essere “Ergastolo versus Democrazia”) , Gherardo Colombo ha fra l’altro detto che bisogna parlare, parlare e discutere con chi è a favore dell’ergastolo, perché la resistenza dipende “non tanto dalla diversità dell’altro, ma dall’incertezza di sé stessi... e mette in crisi riconoscere chi è condannato all’ergastolo perché significherebbe riconoscerlo simile a noi ... e questo ci terrorizza...”. La strada non è semplice ma da qualche parte bisogna cominciare. E cominciare a pensare a costruire una giustizia informata non più al criterio restituivo, restituisco il male con altrettanto male, che è quello che succede adesso; ma bisogna pensare a forme di giustizia riparativa, e perché ci sia riparazione è necessario riaprire la relazione con la società. Consapevoli, certo, che al dolore profondo di chi è vittima, di chi non c’è più, non c’è rimedio, ma comprendendo anche che una giustizia che si fa vendetta non serve a nessuno e tradisce tutti noi. Come viene effettuata la valutazione della pericolosità sociale delle persone detenute al fine di concedere permessi e benefici extracarcerari? Chi la effettua? E quale probabilità ha un ergastolano ostativo di ottenerne? Molto sintetizzando, la valutazione viene fatta sulla base della relazione periodica ( non superiore a un anno) prodotta dal Gruppo trattamentale (educatori, psicologi , direzione del carcere e commissari) che viene trasmessa al Giudice di Sorveglianza. La decisione è del Giudice di Sorveglianza. Ma i percorsi sono lunghi e non semplici. Va anche considerato il fatto che in Italia ci sono solo 173 Magistrati di Sorveglianza da cui passa tutto ( tutte le richieste, da quelle minime come ad esempio i reclami per le docce fino ai benefici più ampi e importanti come permessi e semilibertà) per quanto riguarda gli oltre 60.000 carcerati italiani, ergastolani e non. Un confronto di numeri che si commenta da solo. Per quanto riguarda la seconda parte della domanda, l’ergastolano ostativo per definizione, possiamo dire, non ha alcuna possibilità di ottenere benefici a meno che, per le leggi di cui abbiamo parlato, non scelga di essere “collaboratore di giustizia”. Oppure può accadere che gli venga riconosciuta la “collaborazione irrilevante”. Quello che è successo, ho saputo recentemente, a Pino Reitano, una delle persone che hanno testimoniato la loro vita nelle pagine di “Urla a bassa voce”. Reitano è in carcere dal ‘91, da qualche mese non è più “ostativo”, dopo che il Magistrato di Sorveglianza, rispondendo ad una sua richiesta, e dopo aver esaminato tutti i fascicoli, gli ha riconosciuto la “collaborazione irrilevante”, che significa in sostanza che nulla può più dire per chiarire i fatti alla cui conoscenza si chiedeva di collaborare, che questi sono diventati chiari e definitivi, anche per tutt’altre strade, quindi, indipendentemente dalla buona condotta magari tenuta in carcere, dal percorso rieducativo seguito... Legittimo chiedersi che percorso, che giustizia è mai questa. Cos’è la “famiglia carcere”? La “famiglia carcere”... termine usato in senso anche un po’ ironico, amaramente ironico nel libro. Bisognerebbe trascorrere un periodo in prigione, credo, per capire che significa recidere di fatto completamente i rapporti con la propria famiglia. Posso immaginare sia la rete di relazioni che comunque capita che in carcere si possano stringere. Una “famiglia” forzosa, dalle dinamiche non facili, ma dove, e questo le testimonianze degli ergastolani che si raccontano nel libro sommessamente lo suggeriscono, è possibile trovare tracce di umanità che noi, da fuori, vogliamo perduta. Anche la condizione di chi gestisce e amministra le carceri è critica. Quali sono i pericoli cui costoro sono esposti? Certo, nonostante i giudizi anche duri che nel libro vengono dati, quello che si comprende è che anche chi lavora nel carcere fa in qualche modo la vita del carcerato. Tutti, in qualche modo diventano carcere. E il numero dei suicidi degli agenti carcerari, 60 in dieci anni, ne sono buona prova. Ricevo spesso i comunicati dei sindacati degli agenti penitenziari... ebbene denunciano sempre mancanza di personale, condizioni impossibili di lavoro, il sovraffollamento, l’amarezza dei comunicati che registrano le morti in carcere. E vorrei comunque ricordare che il numero dei detenuti morti in carcere quest’anno a metà agosto era 100. Sono 2033 negli ultimi 12 anni, e di questi un terzo sono suicidi. I dati sono dell’Osservatorio Permanente sulle morti in carcere, che ha sottolineato come il numero dei morti in carcere è praticamente pari a quello delle vittime delle varie mafie e della criminalità comune sommate insieme. Ci dice nulla questo dato? Nel libro si parla molto di perdono. Ma quale perdono, cos’è il perdono? Il perdono... Noi forse istintivamente pensiamo al perdono del linguaggio devoto inteso come remissione di peccati, e quindi trasferito in terreno “laico” sembra diventare cancellazione della colpa. Ma il perdono che chiedono gli ergastolani che intervengono nel libro è quella disponibilità, quell’apertura verso l’altro che permette la riapertura di relazioni, che non cancella la colpa, ma rinunciando alla vendetta aiuta a ritrovare la strada dell’umanità comune. Insomma, quel non essere respinti nel nulla di cui si parlava prima. Giustizia: Uil-Pa Penitenziari; ricorsi per gli straordinari, assistenza legale è gratis Dire, 14 ottobre 2012 Sono ormai un “esercito” gli agenti della Polizia penitenziaria che hanno deciso di presentare ricorso al Tar per recuperare i soldi delle ore di straordinario fatte tra il 2007 e il 2012. E, se a livello nazionale la Uil penitenziari durante l’estate ha già raccolto 1.180 ricorsi, in questi giorni i delegati sindacali dell’Emilia-Romagna hanno deciso di continuare la raccolta e di aspettare fino al 27 ottobre per mettere insieme un’ultima tornata di lavoratori e presentare al Tar un ulteriore ricorso. L’assistenza legale da parte degli avvocati della Uil, sottolinea il sindacato in una nota, è “completamente gratuita”. C’è tempo, dunque, fino al 27 ottobre, dopo di che gli avvocati della Uil metteranno un punto e presenteranno il ricorso al Tar. La vicenda degli straordinari prende il via quando, nel marzo scorso, il Consiglio di Stato ha stabilito che il lavoro eccedente le 36 ore settimanali previste per gli agenti di Polizia penitenziaria sia da considerarsi straordinario. Fin qui tutto bene. Quello, però, che ha spinto tante guardie carcerarie a presentare ricorso è stato il fatto che il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, in luglio, ha sì recepito della sentenza dei giudici amministrativi, ma non ha fatto alcun cenno a restituire ai lavoratori gli indennizzi relativi agli straordinari dei cinque anni pregressi. Il sindacato si è dunque messo in moto per radunare i lavoratori e fare ricorso. Durante l’estate, l’iniziativa ha raccolto l’adesione di 1.180 lavoratori. Per chi, in Emilia-Romagna, non avesse ancora fatto in tempo ad aderire, la Uil regionale ricorda che le porte sono aperte fino al 27 ottobre. Giustizia: autistico fermato e sedato a forza, la polizia lo scambia per uno spacciatore di Valeria Teodonio La Repubblica, 14 ottobre 2012 Pierre è un gigante di quasi due metri. Ha 19 anni e la pelle nera. È autistico e non parla. Ma quando lo fermano in una strada di Verona, in zona Santa Lucia, i poliziotti di pattuglia si insospettiscono. E chiamano immediatamente il 118: il medico dell’ambulanza e gli agenti pensano che Pierre sia uno spacciatore. Sospettano che abbia ingerito ovuli di droga. All’ospedale Borgo Trento il paziente arriva “in stato di incoscienza”, si legge nel referto del pronto soccorso. Scattano gli esami. Tra cui una radiografia al torace e all’addome. Degli ovuli non c’è traccia. Questa storia accade il 22 settembre. Pierre è un ragazzo nato in Italia, figlio di immigrati africani. Suo padre, Valentin, è uno psicologo della Costa D’Avorio. Ma non trova lavoro, e fa il panettiere. Sua madre, che si fa chiamare Giovanna, è originaria del Camerun, e ha studiato medicina senza laurearsi. Vivono in Italia da oltre trent’anni e hanno quattro figli. Pierre è il secondogenito. Il medico che lo cura, Massimo Montinari, sostiene che il suo autismo è dovuto alle vaccinazioni che ha fatto da bambino. Quel sabato mattina Pierre è con sua madre: hanno appena finito di fare la spesa nel supermercato Lidl. Aspettano l’autobus, ma a Pierre scappa di andare in bagno. E si allontana. La madre lo segue con le buste della spesa, lo perde di vista. Pierre è scomparso. Giovanna chiama il marito, che a sua volta telefona al 113. Dopo mezzora, scoprono che loro figlio è in ospedale, dove era stato portato a mezzogiorno. Il medico di guardia, Alessandra Consolaro, scrive sul referto: “Il medico del 118 e i poliziotti mi pongono il problema di ingestione di ovuli”. E aggiunge quattro punti interrogativi, come a dubitare di questa possibilità. Quarantaquattro minuti dopo la dottoressa annota ancora: “Identificato il nome del paziente, soffre di autismo, avvisati i genitori “. Ma gli esami, ormai, sono stati fatti. Racconta la madre: “L’ho trovato narcotizzato e con un ago nel braccio. L’abbiamo riportato a casa quel pomeriggio stesso. Ma il giorno dopo aveva una reazione allergica ai farmaci, il collo rosso. E soprattutto non voleva uscire di casa, aveva perso il senso dell’orientamento, non capiva dove si trovava “. “Rischiamo di buttare tutto il lavoro fatto in anni di terapie - spiega adesso il dottor Montinari - Pierre potrebbe non recuperare più. Si fida di pochissime persone, io lo visitavo senza camice per non spaventarlo. Questi ragazzi hanno il terrore dei camici bianchi. È stato narcotizzato senza alcuna autorizzazione. È aberrante. Hanno sospettato di lui perché non sa comunicare o forse solo perché ha la pelle nera? E i farmaci che hanno usato sono controindicati, perché Pierre è come tutti gli autistici un paziente fortemente allergico”. Nessuno si capacita di come sia stato possibile scambiare quel ragazzone per uno spacciatore. “Una pattuglia lo ha considerato un trafficante di droga - continua Montinari - come è possibile che non si siano accorti che si trattava di un ragazzo autistico? Anche un ignorante si renderebbe conto del problema di questo ragazzo, è assurdo che i medici non lo abbiano capito. Non so chi siano i poliziotti che l’hanno fermato, cercheremo di scoprirlo. Dobbiamo capire su quale base hanno ipotizzato che Pierre potesse avere degli ovuli nello stomaco”. Adesso la famiglia sta preparando la denuncia, contro i poliziotti e contro i medici. “È impossibile scambiare nostro figlio per uno spacciatore” dicono i genitori. “Ha perso tutte le capacità relazionali che aveva acquisito, non vuole più uscire di casa. Mentre prima era contento di fare due passi. E adesso è terrorizzato”. Busto Arsizio: detenuto tunisino suicida in cella, fra pochi mesi sarebbe uscito La Prealpina, 14 ottobre 2012 S’impicca nell’infermeria del carcere. Ennesima vittima del sovraffollamento: il tunisino era caduto in depressione dopo il trasferimento da San Vittore. L’ennesimo dramma dietro le sbarre, l’ennesima vita soffocata dal peso della detenzione. L’altra sera, in via per Cassano, un trentunenne tunisino si è ucciso mentre era ricoverato in infermeria. Lo ha fatto intorno alle 21.30, chiudendosi in bagno e quindi riparandosi da chiunque potesse tendergli una mano amica. Lo ha fatto con la maglietta che aveva indosso, annodata e agganciata al punto più alto delle inferriate che proteggono le finestre e poi stretta intorno alla gola. Il salto compiuto dalla sedia in quell’attimo di cieca disperazione gli ha spezzato la colonna vertebrale e per lui non c’è stato più nulla da fare. Inutile l’intervento tempestivo del personale sanitario, della polizia penitenziaria, dei medici del 118: hanno tentato di rianimarlo, di strapparlo alla morte, ma ormai il ragazzo non aveva più battito. Appena un quarto d’ora prima era passata la ronda, il maghrebino ha dunque atteso di poter agire indisturbato, con lucida e fredda determinazione. Ancora otto mesi in carcere e poi avrebbe riacquistato la libertà, ma il tempo che gli rimaneva da scontare lì dentro, in via per Cassano, evidentemente gli risultava insopportabile. “Voglio andarmene, non voglio stare qua, qua sto male”, ripeteva dal 22 luglio, da quando cioè era stato trasferito dal penitenziario di San Vittore a quello di Busto. Al “Due” di piazza Filangieri, paradossalmente, il giovane stava bene. Lo avevano arrestato il 16 ottobre del 2011 per questioni di piccolo spaccio, la condanna era stata mite, un anno e mezzo di reclusione beneficiando dell’attenuante della lieve entità di stupefacente che i carabinieri gli avevano trovato in tasca. A Milano aveva stretto amicizie, era riuscito a intessere rapporti e per lui, che già soffriva di problemi depressivi e che non aveva nessuno che gli facesse visita, era già tanto. Ma la piaga del sovraffollamento aveva reso necessaria la sua traduzione in via per Cassano. Una struttura costruita per ospitare 180 detenuti e ormai giunta a contenerne più del doppio, 436 per la precisione. Solitudine e sovraffollamento alla fine hanno avuto la meglio sulla capacità del tunisino di tener duro fino al 15 giugno. A livello nazionale il dato è allarmante. Sono 2.056 i detenuti morti nelle carceri italiane nel periodo che va dal 2000 al 2012 e, tra questi, 736 sono i casi di suicidio in cella. Fenomeno significativo è l’abbassamento dell’età media di chi muore dietro le sbarre, che oggi si colloca introno ai trentotto anni. Sono i numeri aggiornati al 6 ottobre del dossier “Morire di carcere” realizzato dall’associazione Ristretti Orizzonti. Sul totale dei decessi, spiega il responsabile dello studio Francesco Morelli, “il trentacinque per cento riguarda detenuti stranieri” e il caso registrato a Busto martedì ne è ulteriore conferma. Inoltre, denuncia, “in dieci anni registriamo oltre trenta casi sospetti di morti in carcere”. Ora toccherà al pubblico ministero Nadia Calcaterra decidere se eseguire l’autopsia sul corpo del giovane. Nel frattempo si tratterà di rintracciare un parente, un familiare, qualcuno che possa occuparsi del rimpatrio della salma per evitargli almeno un parcheggio sine die all’obitorio. Suicidio in carcere, chiesta l’autopsia Suicidio in carcere, interviene la Fp Cgil di Varese, per voce del coordinamento proviciale polizia penitenziaria, con una riflessione: “È l’ennesima tragedia che si consuma nelle carceri italiane e il terzo decesso in meno di un anno presso il carcere di Busto Arsizio, un carcere quest’ultimo noto alle cronache per lo spaventoso stato di sovraffollamento. Sono infatti 432 i detenuti presenti a oggi nel penitenziario carcere di via per Cassano, quando la capienza regolamentare sarebbe di 167 detenuti”. La tragedia risale a martedì sera: sul corpo del tunisino - che si è tolto la vita impiccandosi alla finestra dell’infermeria con la maglietta che aveva indosso - il pubblico ministero Nadia Calcaterra ha disposto l’autopsia. Dubbi sulle cause del decesso sembrano non essercene, ma in via del tutto prudenziale il magistrato ha deciso di escludere in radice qualsiasi ipotesi che non sia quella del gesto volontario. Il trentunenne era stato trasferito da San Vittore in via per Cassano a luglio e da quel momento è scivolato in una depressione senza fine. Non pensate a buttare la chiave, riscoprite il germe della pietà, di Pietro Roncari “Allah Akbar” è forse con questa tenera invocazione alla misericordia divina che il giovane tunisino ha dato addio alla vita. Pietas è il sentimento primo che colpisce quando arrivano dal carcere notizie come queste, frequenti e feroci. Ma quanti suicidi dovremo sopportare ancora e quanti articoli di denuncia scrivere prima che si decida di umanizzare il carcere. Perché è fuori discussione che il motivo primo della disperazione che porta a questi così tragici gesti è il baratro umano, giudiziario, relazionale oltre che affettivo nel quale l’arrestato è precipitato. Un sistema giudiziario e un regime carcerario inadeguati inducono personalità fragili, provate e smarrite a cercare nel suicidio l’uscita di sicurezza. Non meno devastanti sullo sviluppo della persona sono anche altri suicidi, che non arrivano al capolinea ma stillano, giorno dopo giorno, il veleno della sfiducia in tutto, della rinuncia a vivere e rafforzano l’addio al proprio futuro. Vite estraniate e perdute. Pensare che la soluzione a tanti mali del carcere è stata individuata, testata e annunciata, ma mai realizzata: creare strutture alternative, evitare che ogni arrestato, anche per reati modesti, finisca dietro le sbarre, diversificare i percorsi giudiziari e penali tutelando così meglio sia i rei che le vittime. Insomma quando il carcere sarà l’extrema ratio della civiltà giuridica? Intanto i suicidi dei detenuti aumentano e la loro disperazione cade nel vuoto. “Disperati mai” è stato lo slogan della commovente campagna di sensibilizzazione attivata mesi scorsi da Ra-dio24 su dramma dei tanti imprenditori suicidatisi per l’oppressione delle tasse. Ma chi ascolta, oltre ai lodevoli samaritani, la disperazione dei naufraghi della vita finiti dietro le sbarre? La cultura del “buttate la chiave” non porta lontano. Sarebbe più saggio guardarci dentro. E se oltre all’indignazione e allo sconcerto sboccia il sentimento della pietà, sia il benvenuto. Anche a nome del povero tunisino che non c’è più. Pisa: una casa per ex detenuti, porte aperte a “Oltre il Muro” La Nazione, 14 ottobre 2012 Cinque camere in un appartamento di novanta metri quadrati al primo piano di una palazzina all’ombra dei pini di Piazza Toniolo con tanto di due ampie terrazze, una con vista sul Bastione Sangallo e l’altra sui giardini di via Croce. Precedute, a piano storico centro terra, da uno spazio dedicato ad uffici e a locali per i colloqui. Tutto è questo è “Oltre il Muro”, lo storico centro d’accoglienza cittadino per detenuti in semilibertà ed ex carcerati in attesa di reinserimento sociale in grado di dare ospitalità notturna a otto persone. Completamente ristrutturato grazie al Piuss e a un investimento complessivo di 322mila euro, 193mila dei quali arrivati dai fondi europei tramite la Regione e la parte rimanente a carico di Società della Salute (94mila) e Asl5 (35mila). “Con questo intervento abbiamo rimesso a nuovo una delle tante “eccellenze” nascoste della nostra città, una struttura pubblica, gestita in collaborazione con il privato sociale, che in quattordici anni ha dato ospitalità notturna a diverse centinaia di detenuti ed ex detenuti, accompagnandoli nei loro non sempre facili percorsi di reinserimento sociale senza aver mai avuto il minimo problema d’integrazione con il quartiere di San Martino, a dimostrazione che quando si lavora con competenza e professionalità, come in questo e in altri casi, è possibile fare in modo che i centri d’accoglienza non gravino sulla vivibilità del quartiere che lo ospita, anche quando si confrontano con realtà complesse come quella carceraria” ha spiegato il Sindaco Marco Filippeschi durante la cerimonia per il taglio del nastro cui sono intervenuti anche l’assessore Ciccone, il direttore del carcere “don Bosco” Prestopino e quello della Società della Salute Cecchi. Tante le persone incontrate nei 14 anni di attività: 371 i detenuti e gli ex carcerati (nel 65% dei casi italiani) ospitati e ben 1.586 quelli incontrati allo sportello d’ascolto e informazione per chi è in uscita dal carcere. Reggio Calabria: Cgil, Cisl e Uil contro la chiusura del carcere di Laureana di Borello Agi, 14 ottobre 2012 “Lavoro negato perfino ai detenuti che vogliono riscattarsi. Non chiudete il carcere di Laureana di Borrello”. È questo uno degli striscioni che ha sfilato nel corteo per la manifestazione regionale unitaria di Cgil, Cisl e Uil, in corso a Catanzaro. Il riferimento è alla struttura carceraria che si trova in provincia di Reggio Calabria e che il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha deciso di chiudere. La struttura era destinata al reinserimento di giovani detenuti. Lucca: detenuto si ferisce in carcere adoperando le lamette Il Tirreno, 14 ottobre 2012 Ennesimo episodio che fa emergere la difficile situazione del carcere di San Giorgio. Ieri un detenuto extracomunitario si è procurato ferite da taglio alle braccia adoperando delle lamette. È la stessa persona che venerdì scorso si era reso protagonista di una rissa e che, armato di badile, aveva tentato di aggredire gli agenti di polizia penitenziaria accorsi per sedare la violenta lite tra detenuti di varie etnie. “È insostenibile la condizione lavorativa in cui si trova ad operare il personale della polizia penitenziaria - dice Armando Cenni, segretario provinciale Sappe. A fronte delle numerosissime segnalazioni ai vari organi nazionali e locali, gli annosi problemi non solo sono rimasti tali, ma addirittura sono aumentati oltremisura. La situazione, diventa giorno dopo giorno sempre più drammatica, il sovraffollamento determina forti problemi sia per il regolare mantenimento dell’ordine, sicurezza e disciplina dell’istituto stesso nonché per la stessa convivenza dei detenuti. A ciò si aggiunge la carenza di poliziotti penitenziari, meno 45 unità, con carichi di lavoro estenuanti”. Il Sappe chiede un incontro urgente col prefetto, il sindaco e il presidente della Provincia. Trento: direttore del carcere, magistrati e Associazioni chiedono il Garante dei detenuti Ansa, 14 ottobre 2012 Una lettera aperta per chiedere l’istituzione del Garante dei diritti dei detenuti in Trentino è stata sottoscritta da figure istituzionali e associazioni. “Già previsto in molte realtà italiane (12 Regioni, 7 Provincie, 20 Comuni) e in ben 22 Paesi dell’Unione Europea (a cominciare dalla Svezia, nel 1809), il garante è un organo di garanzia che, in ambito penitenziario, ha funzioni di promuovere l’applicazione dei diritti previsti dalla legge per le persone private o limitate nella libertà personali” si legge in apertura della lettera, diffusa dal consigliere provinciale del Pd Mattia Civico. Primi firmatari, tra gli altri, a quanto viene riferito nella nota, sono il provveditore del Triveneto dell’amministrazione penitenziaria, Felice Bocchino, il direttore dell’istituto di pena di Trento, Francesco Massimo, il coordinatore nazionale dei garanti dei detenuti, Franco Corleone, il magistrato di Trento Pasquale Profiti, il presidente dell’ordine degli avvocati Patrizia Corona, il primario di Pronto soccorso, responsabile della sanità penitenziaria, Claudio Ramponi, il direttore della Caritas Diocesana, Roberto Calzà e altre associazioni. “Chiediamo - si legge nella lettera aperta - che questa figura sia istituita anche in Trentino, come espressione del Consiglio Provinciale, quindi dell’intera comunità, nelle forme più sobrie e rispettose delle difficoltà del momento che stiamo vivendo, ma senza fare sconti sui diritti di chi oggi, certamente anche per responsabilità proprie, vive nel carcere di Trento. Perché i diritti non sono privilegi, per nessuno”. Viterbo: “Progetto carceri” per curare i detenuti malati di psoriasi in ospedale www.viterbooggi.eu, 14 ottobre 2012 Durante il workshop di Viterbo tra i reparti di medicina protetta di alcuni ospedali italiani, è stato siglato un accordo tra la Simspe (società italiana di medicina e sanità penitenziaria) e l’Adipso (associazione per la difesa degli psoriasi). È la presidente nazionale Mara Maccaroni che ne spiega i contenuti: “Questo accordo è anche chiamato “Progetto carceri” e serve per far curare i detenuti che sono ammalati di psoriasi all’interno delle strutture pubbliche per consentire loro di essere seguiti attraversi continui screening e cercare di alleviare le sofferenze”. La psoriasi è una malattia cronica della pelle non infettiva: è una malattia autoimmune di cui soffre il 4% della popolazione italiana: nel 33% dei casi la psoriasi riguarda soggetti che hanno familiari affetti da tale patologia; ciò suggerisce la presenza di una componente genetica ereditaria della patologia. “Alla base dell’accordo - sottolinea Mara Maccaroni - c’è la necessita di seguire i dettami dell’articolo 32 della costituzione italiana che parla del diritto alla terapia per tutti i cittadini. Anche i carcerati sono cittadini che hanno diritti uguali a tutti coloro che non vivono questa particolare situazione sociale”. Adipso e Simspe hanno anche in programma di ribadire le loro intenzioni attraverso una lettera che invieranno ai ministri della salute e di grazie e giustizia: “Vogliamo fare presente in questo modo - conclude Maccaroni - le difficoltà che ci sono nella cura di questi pazienti”. Salerno: i detenuti saranno impegnati nella piantumazione di alberi La Città di Salerno, 14 ottobre 2012 Recupero sociale ed ambientale: il Comune di Vallo della Lucania raggiunge i due obiettivi grazie con un solo progetto, “Vallo città solidale”, che per il secondo anno consecutivo consentirà di recuperare le aree degradate attraverso l’impiego di alcuni detenuti della casa circondariale di Vallo della Lucania. Il progetto, frutto di una stretta collaborazione tra l’Istituto e l’Amministrazione vallese, nasce all’interno della programmazione sperimentale del Ministero della Giustizia in ambito penitenziario, volta a favorire il coinvolgimento dei detenuti in attività lavorative di pubblica utilità. Dopo la riqualificazione della frazione Pattano e dell’uscita della variante alla Statale 18, quest’anno il progetto consentirà la messa a dimora, da parte dei detenuti, di piante nelle aree ripulite. Soddisfazione e ottimismo dalle parole del sindaco di Vallo, Antonio Aloia: “Tutti ugualmente, istituzioni pubbliche e associazioni, siamo chiamati ad offrire un aiuto concreto a chi attraversa momenti difficili”. Trapani: processi a rischio senza i mezzi per i detenuti, interrogazione dei radicali La Sicilia, 14 ottobre 2012 Processi a rischio a Trapani e nel resto della Sicilia. La polizia penitenziaria non ha i mezzi per accompagnare i detenuti presso le aule giudiziarie. L’on. Rita Bernardini, dei Radicali Italiani, ha presentato un’interrogazione al ministro della Giustizia sollecitando il governo ad intervenire. Il caso era scoppiato alcune settimane fa dopo che un importante processo di mafia, a Trapani, era slittato di diverse ore a causa della mancata traduzione di alcuni detenuti. Il coordinatore regionale della Uil-Pa Penitenziari, Gioacchino Veneziano, intervenendo nell’ambito della polemica, aveva spiegato: “Abbiamo tutto il parco macchine fermo perché non ci sono soldi per ripararli. Abbiamo dovuto chiedere aiuto al carcere di Pagliarelli. Quello che fa male è il fatto che tutti sanno che siamo allo stremo, ma nessuno dice a chiare lettere che Trapani è solo l’inizio della fine del servizio delle traduzioni in Sicilia, essendo tutti gli automezzi fermi per guasti; quindi è facile immaginare quali conseguenze si riverbereranno sul sistema giustizia, atteso che la mancanza degli autoveicoli destinati al servizio delle traduzioni potrebbe impedire la presenza in aula degli imputati mettendo a rischio decine di processi”. Enna: agenti aggrediti da detenuto nel reparto detentivo dell’ospedale Agi, 14 ottobre 2012 Aggrediti due agenti di custodia da un detenuto con una patologia altamente infettiva, nel reparto detentivo dell’ospedale Basilotta di Nicosia (Enna). La Uilpa penitenziari ne chiede la chiusura. Il coordinatore provinciale di Enna ha inviato la richiesta al provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Maurizio Veneziano, sottolineando che il reparto non è a norma di legge, manca di finestre e gli agenti sono costretti a rimanere in un corridoio largo poco più di un metro. L’aggressione ai due agenti risale a giovedì, quando un detenuto con una patologia altamente contagiosa li ha aggrediti e feriti. Il sindacato chiede che il reparto detentivo venga adeguato e che nelle more dei lavori venga chiuso. Lodi: si va verso un carcere “dimezzato”, all’orizzonte spunta il taglio della direzione Il Cittadino, 14 ottobre 2012 La spending review potrebbe colpire anche il carcere di Lodi. La casa circondariale di via Cagnola, infatti, sarebbe una delle due (si parla di Lecco o Sondrio) destinate a perdere l’autonomia direzionale, cioè a perdere il direttore. Le decisioni non sono ancora prese, ma se il taglio del 40 per cento fosse confermato l’istituzione carceraria di Lodi attualmente guidata da Stefania Mussio potrebbe essere accorpata con quella di Opera. Questo quanto trapelato secondo le prime indiscrezioni, in queste ore. La spending review del governo Monti prevede il taglio delle direzioni delle piccole strutture. Se fosse confermato, la struttura carceraria di via Cagnola potrebbe perdere, effettivamente, l’autonomia. Certezze in più potrebbero esserci entro la fine del mese. La struttura di via Cagnola, infatti, da tre anni interessata da lavori di ristrutturazione, è una piccola casa circondariale da 51 posti, anche se, secondo i dati di giugno, i detenuti ospitati erano 95. Serve per i detenuti in attesa di giudizio, quindi in fase di passaggio. Come le scuole con pochi alunni hanno perso la presidenza e sono state accorpate, così ora succede al sistema penitenziario. “La spending review va a colpire molti ambiti e istituzioni - commenta Laura Coci, esponente dell’associazione Lodi per Mostar che per anni è stata volontaria in via Cagnola; questo taglio non mi sorprende. Se è in atto una razionalizzazione, questa inevitabilmente va a colpire anche l’amministrazione penitenziaria. Mi auguro che non siano tagliati i fondi finalizzati all’inserimento lavorativo e sociale delle persone detenute, alle attività trattamentali realizzate in collaborazione con l’esterno, agli interventi d’istruzione e formazione professionale”. Per il momento, va tuttavia precisato, le notizie riguardano la razionalizzazione delle direzioni carcerarie. Il carcere di Lodi ricorda i cent’anni “lasciando”, per una sera, via Cagnola C’è gran fermento oltre il portone di via Cagnola: esattamente fra due settimane (alle 21 di venerdì 26 ottobre), per la prima volta in cento anni di storia il carcere di Lodi lascerà per una sera la sua sede abituale, per raggiungere il palco dell’auditorium Bpl. In occasione del centenario della casa circondariale, inaugurata l’11 dicembre 1912, la direzione carceraria ha infatti organizzato una serata benefica aperta a tutta la cittadinanza, che porterà sul palco dell’auditorium performances di musica, danza e teatro. Tieni il tempo è il titolo scelto per l’iniziativa, promossa con il patrocinio di Comune e Provincia e il sostegno della Fondazione Banca Popolare di Lodi: “Questo spettacolo è frutto della collaborazione di molte persone - spiega la direttrice Stefania Mussio - che hanno creduto nell’idea e si sono impegnate a fondo affinché si realizzasse. Se dovessi definirla in poche parole, direi che si tratta della restituzione alla città di una presenza istituzionale forte, che da cento anni fa parte del tessuto comunitario e continuerà a farlo anche in futuro. Oggi parlare di carcere è diventato quasi una moda, ma lo si fa sempre in accezione negativa, per enfatizzare problemi e criticità. Lo spettacolo di venerdì 26 sarà invece l’occasione di condividere con la città gli aspetti positivi dell’istituzione carceraria, che ha come scopo ultimo la risocializzazione dei detenuti”. Un obiettivo che la direzione persegue ormai da anni, attraverso corsi, laboratori e progetti che consentono alle circa cento persone attualmente ospitate all’interno dell’istituto la possibilità di mettersi alla prova con diverse discipline artistiche. Cinque di esse parteciperanno in prima persona allo spettacolo, portando in scena una piccola rappresentazione teatrale preparata con il regista Antonio Zanoletti, allievo di Giorgio Strehler al Piccolo di Milano: “Grazie a questa esperienza - racconta Zanoletti - ho avuto conferma ancora una volta del valore terapeutico del teatro: all’inizio i ragazzi erano molto intimiditi, quasi accartocciati su se stessi; ora sono pronti a salire sul palco”. Uno di loro sarà impegnato anche in una performance di breakdance, uno stile di danza che i detenuti hanno avuto modo di conoscere grazie al corso tenuto da Sabrina Pedrazzini, fondatrice della scuola d’arte Il Ramo, che “presterà” alla serata la sua compagnia di danza contemporanea. Alla colonna sonora penserà invece il sestetto jazz diretto dal pianista Antonio Zambrini, affiancato dalla voce di Martha J., docente di un corso di canto particolarmente apprezzato dai detenuti. Il ricavato della serata sarà interamente devoluto in beneficenza, ma non in favore dei detenuti, bensì di uno dei progetti finanziati dalla Fondazione della Banca Popolare di Lodi, che da tre anni sostiene le iniziative di rieducazione messe in campo dalla direzione carceraria. “Un impegno all’insegna della continuità” ha detto il presidente Duccio Castellotti durante la conferenza stampa di ieri mattina, cui erano presenti anche l’assessore comunale alle politiche sociali Silvana Cesani e Paolo Landi, responsabile segreteria e relazioni territoriali della Banca Popolare di Lodi. Silvia Canevara. Tieni il tempo - Spettacolo di danza, musica e teatro per il centenario della casa circondariale. Venerdì 26 ottobre (ore 21.00) c/o Auditorium Bpl, via Polenghi Lombardo 13, Lodi. Evento benefico, offerta minima 15 euro. Per info: 0371-421500 (da lunedì a venerdì dalle 10 alle 14). Siracusa: undici milioni di euro per l’ampliamento del carcere di Cavadonna La Sicilia, 14 ottobre 2012 È stato firmato ieri il protocollo con l’impresa che si è aggiudicata l’appalto dei lavori edilizi che porteranno all’ampliamento del carcere di Cavadonna. Sono stati stanziati 11 milioni di euro che verranno pagati all’azienda vincitrice “Patti” di Noto, che avrà 400 giorni di tempo per completare i lavori. Vista l’importanza dell’impegno economico preso, il prefetto Renato Franceschelli e il commissario delegato per il Piano carceri Angelo Sinesio, hanno deciso di sottoscrivere un protocollo di legalità per eliminare la possibilità di un coinvolgimento di organizzazioni malavitose. L’accordo per l’intervento di ampliamento del penitenziario rappresenta un passo positivo sia perché permetterà di migliorare la condizione della popolazione carceraria e della stessa polizia impiegata nella sorveglianza e gestione del carcere, sia perché contribuirà parzialmente alla ripresa del settore edilizio, duramente colpito dalla crisi, dando occupazione a 200 lavoratori richiesti per lo svolgimento dell’opera. Genova: Sappe, intervenire al carcere di Marassi, c’è amianto su muro di cinta Adnkronos, 14 ottobre 2012 C’è amianto nel carcere di Marassi. Lo scrive in una nota il Sindacato autonomo polizia penitenziari (Sappe) facendo riferimento alla presenza di lastre di amianto accatastate e abbandonate da parecchio tempo sul tetto della porta principale del carcere di Marassi, a Genova. “L’amianto è situato nei pressi della prima garitta, dove gli agenti di polizia penitenziaria transitano e stazionano a lungo e, pertanto, vista l’elevata pericolosità per la salute dei colleghi, sollecitiamo l’intervento immediato della direzione”. “Sembra che manchino i soldi. Il direttore ci dice che è in attesa dal luglio 2012 di autorizzazione alla spesa da parte del Provveditorato della Liguria ma ogni ulteriore ritardo è ingiustificato oltre che inaccettabile”, afferma nella nota Roberto Martinelli, che del Sappe è segretario aggiunto. “La legge sulla salubrità e sicurezza dei posti di lavoro - prosegue - è molto chiara e il datore di lavoro deve adottare misure di prevenzione e protezione per ridurre al minimo l’esposizione dei lavoratori alla polvere di amianto ed effettuare periodiche misurazioni della sua concentrazione”. Tutti i lavoratori esposti ad amianto, scrive il Sappe, devono essere iscritti nel registro degli esposti e l’amministrazione ha dei doveri riguardo all’effettiva valutazione dei rischi. “Allora cosa ci fanno allora ancora lì quelle lastre pericolose?”, si chiede Martinelli. Il Sappe invita quindi uffici del Dap e del Provveditorato di Genova ad “effettuare adeguati controlli e a mettere in atto i presidi necessari alla prevenzione di rischi professionali”. Brescia: mostra fotografica “L’immagine dietro le sbarre”, di Gianni Pezzani Brescia Oggi, 14 ottobre 2012 Sulle pareti ingrigite del penitenziario, venti pannelli che ritraggono la pianura parmense. Venti pannelli fotografici che ritraggono la pianura parmense appesi alle pareti ingrigite del carcere di Canton Mombello. È la mostra fotografica “L’immagine dietro le sbarre”, del fotografo Gianni Pezzani, presentata ieri nella rotonda interna al carcere, dove ogni giorno convergono le voci dei 534 detenuti “ospiti” della struttura. L’idea di portare la realtà vera e concreta all’interno di una casa circondariale è partita da “Brescia con passione” e ha, da subito, conquistato l’attenzione dell’architetto Renato Corsini e della sua Wave Photogallery. “La fotografia è una realtà che fa parte della nostra società. Portarla dentro il carcere ha il senso di presentare un rapporto su ciò che accade all’esterno” spiega Corsini. La realizzazione di progetti che tengono conto delle case circondariali e del coinvolgimento dei detenuti fanno parte di un impegno che molti sentono necessario nel percorso di reintegrazione del detenuto. “Bisogna rendere la vita di chi è dentro più vicino alla città e ai cittadini liberi”, sostiene l’assessore alla Cultura del Comune di Brescia, Andrea Arcai, che sottolinea l’urgenza di continuare a parlare della situazione disastrosa in cui si trova oggi il carcere di Canton Mombello. “La situazione di questo carcere deve cambiare”, aggiunge Arcai. I percorsi di rieducazione dei detenuti non possono trascendere da una continuativa relazione con il territorio e viceversa: “Non dobbiamo lasciare la realtà interna al carcere lontana dall’attenzione dei cittadini bresciani. Si tratta di civiltà e di convivenza” sostiene Carlo Alberto Romano, docente di criminologia e criminologia penitenziaria all’Università degli Studi di Brescia, elogiando così l’operato dell’associazione “Carcere e Territorio”, coinvolta nell’organizzazione e nella promozione della mostra. Le fotografie selezionate dalla Wave Photogallery provengono da lavori che Gianni Pezzani ha svolto negli anni tra il 2007 e il 2009. Tutte hanno come protagonista il paesaggio naturale della pianura che circonda il comune di Colorno (Parma) dove il fotografo è nato. “Per me si è trattato di un ritorno alle origini, alla terra madre” spiega l’autore, che ha vissuto quindici anni in Giappone, dove le sue fotografie sono state utilizzate per la creazione di stampe per i tessuti. La professione nel campo della moda - oggi Pezzani lavora per i principali magazine d’Italia - non ha cancellato il suo amore per la fotografia riflessiva e per la natura. Tra tutti gli elementi naturali, la nebbia lo affascina più di altri, “perché crea una soffice barriera che ha un effetto vellutato, attutisce i rumori e ti abbraccia” racconta, parlando anche di tutti quei cambiamenti che le sue terre hanno dovuto affrontare in questi anni. “La natura è stata violentata da un insensato sviluppo urbano, anche se sono rimaste delle aree in cui non si nota, ma questo dipende dalla vastità della pianura”, conclude con rammarico. Teatro: Ascanio Celestini, l’utopia senza sbarre di Matteo Bartocci Il Manifesto, 14 ottobre 2012 “Governammo senza prigioni e senza processi”. Il giudizio di Mazzini sull’esperienza generosa e sfortunata della Repubblica Romana del 1849 è una frase rivoluzionaria. Tanto più oggi, nell’Italia dei Fiorito e dei questurini dattilografi. Una frase che è uno dei leitmotiv di Pro Patria, l’ultimo spettacolo di Ascanio Celestini in scena fino al 14 ottobre al teatro Vittoria di Roma. Due ore di monologo interrotte soltanto da cinque sorsi d’acqua. Una scena claustrofobica come una cella, un quadrato 2 metri per 2 e uno sgabello. Lo spazio fisico e metaforico in cui un detenuto parla con Giuseppe Mazzini mescolando eroiche gesta risorgimentali, slang da penitenziario e poche sentenze del Tractatus di Wittgenstein. Un monologo circolare, in cui Celestini cammina attorno allo sgabello come la storia gira intorno ai cardini di sempre: l’ingiustizia, la lotta contro l’ingiustizia, la punizione di chi perde. Pro Patria è la storia di una sconfitta, tragica, di tre risorgimenti: quello anarchico e rivoluzionario dei Pisacane; quello delle brigate Garibaldi che dopo il fascismo volevano una Repubblica se non socialista almeno di popolo e di lavoratori; quello del ‘68, infrantosi sulla prima bomba in una banca, il 12 dicembre 1969 a piazza Fontana. La strage di stato. Ma lo stato di stragi ne ha fatte tante. Sempre. A centinaia di migliaia. Strage di persone e strage di giustizia. La rivoluzione perciò è governare “senza prigioni e senza processi”. Un’utopia che Celestini srotola sul palcoscenico a mitraglia, scivolando qua e là in digressioni surreali sulle carceri di oggi, fatte di uomini ridotti a infanti che riempiono le “domandine”, bollati come “camosci” (i detenuti) o “erbivori” (gli ergastolani). Già l’ergastolo. È rivoluzionario, nell’Italia di oggi, scagliare l’arte contro l’ergastolo e contro la prigione. La storia non siamo “noi” (retorica). La storia è di chi vince (realtà). E questa patria, che da oltre 150 anni è unita sulla carta geografica in realtà è stata fatta dai perdenti. I rivoluzionari. Cosa c’è di più rivoluzionario nell’Italia di oggi se non criticare il carcere come strumento unico e totale di giustizia sociale, la leva del cambiamento e livella della disuguaglianza tra chi ha e chi non ha. “In galera i ladri” è il programma delle liste elettorali che troveremo presto alle urne. Anche Celestini, che sulla scena è un ladro di mele che diventa rivoluzionario e scrive un discorso per Mazzini, è contro i ladri. I ladri di futuro e di giustizia però. I re e i papi, gli statisti e i cardinali. Il vero furto è la proprietà. E la storia della Repubblica Romana è un po’ il filo rosso che lega lo spettacolo all’oggi. Ciò che sarebbe potuto essere e ciò che è stato. Destinata alla sconfitta, è annunciata da Mameli ai compagni d’Altitalia con un telegramma che oggi sarebbe un tweet: “Roma, la repubblica, venite”. È uno slogan che vorremmo rileggere sui muri prima e dopo la cacciata di Alemanno dal Campidoglio.