Giustizia: “basta con la tortura di Stato”, i Garanti dei detenuti iniziano un mese di mobilitazione Ristretti Orizzonti, 11 ottobre 2012 Laganà: sovraffollamento ancora altissimo, iniziative in 12 città. “I provvedimenti adottati per ridurre il sovraffollamento nelle carceri italiane hanno ridotto la popolazione dei detenuti da poco più di 67 mila a 66.500. Capite che non stiamo andando nella direzione giusta, serve un piano organico di riforma della giustizia”. Si affida ai numeri Elisabetta Laganà, garante dei diritti dei detenuti del Comune di Bologna, per denunciare la situazione delle carceri nel nostro Paese. Se guardiamo a Bologna, la situazione è “più vivibile, ma ancora critica”. Sono, infatti, 880 i detenuti alla Dozza (contro una capienza di 473 posti), 20 all’Istituto penale minorile e 42 al Cie (30 uomini e 12 donne). Per riportare all’attenzione dell’opinione pubblica il “tema carcere”, il Coordinamento dei garanti dei detenuti lancia un mese di mobilitazione, con eventi e iniziative in 12 città italiane. Tra le richieste dei garanti ci sono la modifica alla legge sulle droghe, in particolare l’articolo 73, la modifica della legge Cirielli e della normativa sull’immigrazione, l’approvazione della legge per introdurre il reato di tortura in Italia e l’applicazione integrale del Regolamento del 2000 per garantire condizioni di vita accettabili dentro il carcere. Servono interventi urgenti. Tra i primi a cui sta lavorando il Comune di Bologna c’è la realizzazione di un osservatorio sui diritti sia all’interno del Cie che alla Dozza e al Pratello insieme alle associazioni Sos Donna e Altrodiritto. “Stiamo lavorando alle convenzioni con la Prefettura e le direzioni dell’amministrazione penitenziaria - spiega Amelia Frascaroli, assessore al Welfare del Comune di Bologna- L’obiettivo è realizzare un osservatorio sui diritti che sia un servizio di ascolto per i detenuti, come un’emanazione dell’ufficio del garante”. Nonostante il numero dei detenuti alla Dozza si sia ridotto, la preoccupazione della garante rimane. “È necessario lavorare su più fronti - dice. Diminuire la carcerazione preventiva, un’anomalia italiana, ad esempio per i tossicodipendenti, e investire sulle possibilità occupazionali”. Sulla carcerazione preventiva Laganà cita l’esempio di Milano dove i tossicodipendenti vengono inviati dal Tribunale direttamente alle strutture terapeutiche, senza passare dal carcere, “in questo modo si evita la detenzione e si fa partire subito il progetto di recupero”. Per quanto riguarda il lavoro, la garante cita invece i dati sulla recidiva: tra i detenuti che hanno seguito corsi di formazione professionale la recidiva è bassissima, l’1-2%. “In questo modo - conclude Laganà - si abbatte il sovraffollamento”. Margara e Corleone: un patto per migliorare la situazione delle carceri. Un protocollo con l’amministrazione penitenziaria e un patto per migliorare la situazione delle carceri, attualmente insostenibile in Italia. Prenderà il via, inoltre, un mese di mobilitazione per chiedere interventi urgenti al Governo; mobilitazione che dovrebbe culminare, in Toscana, con un convegno internazionale organizzato per il 6 dicembre prossimo. È quanto hanno annunciato il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Toscana Alessandro Margara e il Garante dei diritti dei detenuti del Comune di Firenze Franco Corleone in una conferenza stampa che si è svolta in contemporanea ad eventi simili organizzati in altre 12 città italiane, su iniziativa del Coordinamento nazionale dei Garanti, per denunciare la situazione pesantissima delle carceri in Italia e riferire sui rapporti con l’amministrazione penitenziaria. Margara ha lanciato l’allarme: per effetto dei tagli introdotti dalla spending review andranno via molti direttori di carcere, sostituiti da organi di polizia. “Sarebbe un evento nefasto” ha commentato Margara, secondo il quale con questi ultimi provvedimenti “si cancelleranno completamente tutte le garanzie previste dall’articolo 27 della Costituzione sul trattamento dei detenuti per il reinserimento sociale”. Il Garante toscano ha ricordato che “attualmente in Italia ci sono 66 mila detenuti, 20 mila in più di quelli che le carceri potrebbero ospitare”. Margara e Corleone hanno invocato quindi un decreto legge che modifichi la normativa esistente, in modo “da non fare entrare in carcere persone per fatti di lieve entità sulla detenzione delle sostanze stupefacenti e far uscire i tossicodipendenti”. Questo permetterebbe una drastica diminuzione del numero di detenuti: il 33% infatti è in carcere per reati connessi alla droga. “Il sovraffollamento si risolverebbe con 10.000 ingressi in meno - ha aggiunto Corleone - e 10.000 uscite di tossicodipendenti. Tutto il resto è aria fritta”. Oltre alla modifica della legge sulla droga, i Garanti chiedono l’eliminazione della legge Cirielli, l’approvazione della legge per l’introduzione del reato di tortura, l’istituzione del Garante Nazionale, un provvedimento sull’affettività in carcere, il rifinanziamento della legge Smuraglia sul lavoro dei detenuti. Fra i numerosi interventi, anche quello del consigliere regionale Enzo Brogi (Pd), che ha insistito sulla necessità di “impegnarsi al massimo per far uscire i tossicodipendenti dal carcere”, “per favorire l’azione del Garante” e “per far sì che si crei un carcere non ostile, che non trasformi i detenuti in individui ancora più pieni di rancore ma che crei le condizioni per il loro reinserimento nella società”. Tanoni: temo gli effetti della spending-review sulle carceri. È in controtendenza il dato sulla popolazione carceraria nelle Marche rispetto al resto dell’Italia. Nella giornata nazionale di mobilitazione dei Garanti dei detenuti per denunciare la situazione delle carceri, l’Ombudsman Italo Tanoni presenta gli ultimi dati regionali e sottolinea come nei primi nove mesi dell’anno il numero dei reclusi sia aumentato del 3,5%, contro un -0,5% registrato a livello italiano. In totale i sette istituti di pena della regione ospitano 1.266 detenuti (dati al 31 agosto 2012), contro una capienza regolamentare di 775 (+ 440), il 42% sono stranieri e il 44% in attesa di giudizio. “L’Italia è inadempiente per quanto riguarda gli standard che dovrebbero essere garantiti. Lo scorso 24 settembre il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ci ha duramente sanzionato e il Presidente Napolitano ha più volte sollecitato interventi” - ha spiegato Tanoni che, in contemporanea con altri dodici Garanti nel resto d’Italia, ha tenuto una conferenza stampa a Palazzo delle Marche. Numerose le richieste rivolte al Governo e al Parlamento. Dalla modifica della legge Fini-Giovanardi sulla detenzione dei tossicodipendenti (nelle Marche rappresentano il 10%), all’approvazione della legge sull’affettività in carcere, dall’introduzione del reato di tortura nel Codice penale all’istituzione del Garante nazionale dei diritti dei detenuti. “Per il decongestionamento delle carceri il Ministro della Giustizia Paola Severino ha annunciato un provvedimento sulla detenzione domiciliare e la messa in prova - sottolinea Tanoni - Ma nello stesso tempo la spending-review prevede un ulteriore taglio del personale assegnato all’Ufficio esecuzione penale esterna che si occupa proprio delle misure alternative e del reinserimento dopo l’uscita dal carcere”. Tanoni ha anche ricordato “il dato drammatico sul numero degli educatori”, con un rapporto di 1 ogni 80 reclusi, e la carenza degli organici nella polizia penitenziaria, “sottodimensionati del 33%”. La notizia positiva arriva dalla conferma “del trasferimento entro fine anno di 180 detenuti nel carcere di Barcaglione” per decongestionare la casa circondariale di Montacuto, dove il sovraffollamento ha toccato il massimo storico con un +150% (430 detenuti contro i 172 della capienza regolamentare). Sul fronte dell’edilizia penitenziaria, l’assessore ai lavori pubblici di Camerino Roberto Lucarelli ha ricordato che “nel piano del Governo è prevista la costruzione di quattro carceri e quello di Camerino è il primo a poter partire”. Ieri (martedì 9 ottobre) si è svolto a Roma un incontro con il Prefetto Sinesio, commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria, che ha confermato lo stanziamento dei fondi per il progetto, ma “materialmente non ha ancora ricevuto la copertura finanziaria”. “Stiamo spingendo per l’accredito che deve avvenire entro l’anno, altrimenti tutto quello che è stato fato decadrebbe” - ha concluso Lucarelli. Marroni: a Regina Coeli di sanità… si può anche morire”. A fronte di una capienza massima di 900 detenuti, oggi il carcere romano di Regina Coeli ne “ospita” mediamente il doppio. La situazione, comune a tutti i penitenziari italiani, è arcinota e suscita periodicamente le denunce sdegnate delle massime autorità dello Stato, nonché delle organizzazioni internazionali. Condizioni di vita al limite dell’umanità, servizi fatiscenti, ritmi di lavoro delle guardie carcerarie insopportabili, condizioni igieniche ed alimentari indecenti. Fra tutte queste criticità, il centro diagnostico e terapeutico del carcere di via della Lungara versa in tale stato di fatiscenza e carenza igienico-sanitaria da rischiare a breve sviluppi potenzialmente drammatici. Il pericolo è denunciato pubblicamente, ma sembra che, oltre alle buone intenzioni, nulla di concreto si muova. Da ultimo è il Garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, a scrivere una lettera alla (ex) Presidente della Regione Renata Polverini e ai vertici del Provveditorato regionale dell’Amministrazione Penitenziaria e della Asl Rm A in cui si fa presente che il Centro Diagnostico e Terapeutico di Regina Coeli è una struttura che dovrebbe erogare assistenza sanitaria di qualità superiore rispetto alle altre carceri. È per questo che al Centro vengono assegnati, con sempre più frequenza, detenuti con patologie complesse provenienti da tutta Italia”. A fronte di tali obiettivi - ha scritto Marroni - la struttura non è in grado di assicurare gli standard sanitari minimi previsti dalla legge, nonostante i lavori di manutenzione eseguiti. Le maggiori criticità si riferiscono, infatti, allo stato degli ambienti comuni e delle singole celle, che anche a causa delle condizioni strutturali non assicurano livelli igienico-sanitari sufficienti ad ospitare persone con patologie gravi”. Il centro - continua Marroni - come minimo dovrebbe garantire un adeguato livello di igiene contro possibili germi patogeni, con misure di pulizia e disinfezione compiute da personale qualificato. “A Regina Coeli invece - afferma il Garante - queste operazioni sono affidate ai detenuti/pazienti e ai ‘piantonì per gli spazi comuni, per di più con l’insufficienza di prodotti detergenti e disinfettanti per l’igiene personale e collettiva”. Così come è di tutta evidenza la carenza di personale ausiliario/sanitario e la scadente qualità del cibo distribuito che, oltre ad essere insufficiente per quantità e qualità, non riesce neanche a tener conto delle diverse necessità alimentari dei pazienti detenuti dettate dalle prescrizioni mediche. Di tenore pressoché analogo è l’interrogazione parlamentare dell’onorevole Rita Bernardini del Pd che ricorda come, subito dopo la recente nomina del nuovo direttore del centro clinico di Regina Coeli, Alfonso Sabella, si sia riunita la commissione mista Ministero della giustizia-Regione per definire entro il 20 settembre entità e scadenze degli interventi tecnici ed edilizi necessari ad “ottimizzare l’assistenza sanitaria e rendere maggiormente fruibile il centro clinico”. Il 20 settembre naturalmente è passato senza nessuna nuova direttiva e la Bernardini si chiede per quali ragioni il ministero della Giustizia preveda ulteriori stanziamenti “per un centro clinico che negli anni, a fronte di esorbitanti esborsi di denaro pubblico, ha dimostrato tutta la sua inadeguatezza ad affrontare il problema della salute dei detenuti ivi ricoverati”. Come ha ricordato il sottosegretario Mazzamuto, dal 2002 al 2012 sono stati finanziati ed eseguiti numerosi e significativi interventi attinenti alla manutenzione ordinaria e straordinaria del fabbricato di Regina Coeli, per un ammontare complessivo di diverse diecine di milioni di euro. Nonostante questo forte impegno finanziario la situazione del centro sanitario del carcere non è certo migliorata. Anzi, come ricorda la deputata democratica, “il centro diagnostico e terapeutico dell’istituto è oggi nei fatti una grande infermeria; fino a non molto tempo fa, disponeva di due sale operatorie ben funzionanti per interventi chirurgici di non elevata complessità, ma questo servizio - molto utile ad evitare traduzioni e piantonamenti - non esiste più dopo il passaggio della sanità penitenziaria alla Asl; la sala radiologica è funzionante ma solo in orari di ambulatorio, quindi non di notte e durante i festivi; per i detenuti del carcere di Regina Coeli che hanno bisogno di essere ricoverati, si utilizzano l’ospedale di Belcolle a Viterbo e il Sandro Pertini a Roma, ma i posti sono insufficienti”. Stando così le cose, gli interroganti chiedono al ministro Severino di sapere “quali e di quale entità siano gli investimenti previsti e se questi comprendano la piena riattivazione delle sale operatorie e del funzionamento full time della sala di radiologia”. Diversamente, considerate le condizioni di detenzione all’interno del carcere rimaste inumane e degradanti, con il portato incredibile di morti e suicidi, sarebbe opportuno “prendere in considerazione la proposta da più parti avanzata della chiusura del carcere di Regina Coeli”. Callaioli: il Don Bosco ospita 352 detenuti, ma la capienza massima è di 305 posti. Sono 352 i detenuti ospitata dalla casa circondariale Don Bosco di Pisa a fronte di una capienza massima tollerabile di 305 posti, anche se quella regolamentare non supera i 226. I numeri sono stati forniti oggi dal garante dei detenuti pisani, Andrea Callaioli, a margine della presentazione della campagna di mobilitazione promossa dal coordinamento nazionale dei garanti per evidenziare “la drammatica situazione del panorama carcerario italiano”. “Pisa vive una situazione leggermente migliore rispetto ad altre realtà - ha spiegato Callaioli - e questo grazie anche ai rapporti di proficua collaborazione con la società della salute e gli enti locali, ma anche grazie all’impegno e alla professionalità degli agenti di polizia penitenziaria e del personale amministrativo. Tuttavia non bisogna abbassare la guardia e gli obiettivi della campagna nazionale sono anche i nostri: immediata emanazione da parte del governo di un decreto legge per garantire misure alternative ai tossicodipendenti ed evitare l’ingresso in carcere per fatti di lieve entità, ma anche un impegno forte del Parlamento per modificare la legge Giovanardi, ratificare il protocollo addizionale dell’Onu sulla tortura, approvare la legge sulla tutela dell’affettività in carcere, la legge sull’introduzione del reato di tortura nel codice penale e l’istituzione della figura del Garante nazionale dei diritti dei detenuti”. Sechi e Oppo: basta con la tortura di Stato. Iniziative contemporanee in tutta Italia, o almeno in ognuna delle città in cui è presente il garante per i detenuti. Per rimarcare che quella delle carceri è una situazione di “prepotente urgenza”. Come denunciato da circa 200 tra giuristi, politici e garanti con una lettera aperta indirizzata al Presidente Napolitano. Un’urgenza che ribadiscono Cecilia Sechi e Gianfranco Oppo, garanti dei detenuti dei comuni di Sassari e Nuoro: “Non possiamo che essere d’accordo con le parole del Presidente - spiegano - che riferendosi alle carceri si è espresso in termini di una realtà che non fa onore al nostro paese, ma anzi ferisce la credibilità internazionale e il rapporto con le istituzioni europee. Parliamo di condanne della Corte europea dei diritti dell’uomo per trattamento inumano e degradante. Di 1200 ricorsi pendenti per il sovraffollamento delle celle. Di centinaia di ricorsi dei detenuti le cui condizioni di salute sono palesemente incompatibili con la permanenza in carcere. Facciamo un appello affinché il Parlamento eserciti le sue prerogative per dare una contestuale risposta, concreta e non più dilazionabile, sia alla crisi della giustizia italiana che al suo più drammatico punto di caduta: le carceri. Come Garanti di Sassari e Nuoro riteniamo che non servano contenitori di corpi ma strutture funzionali al percorso rieducativo riconosciuto dalla Costituzione e dall’Ordinamento. Non possiamo restare indifferenti allo stato di abbandono in cui versano le strutture sarde; ci rivolgiamo ai nostri parlamentari attraverso un appello con cui vogliamo anche sensibilizzare, oltre all’opinione pubblica, tutte le istituzioni e le persone di buona volontà perché: cessi lo stato di incostituzionalità in cui versa la situazione carceraria nella nostra isola e nel nostro paese; venga una volta per tutte affermata la territorialità della pena; venga valutata la possibilità di dare un contributo utile a percorrere la strada della clemenza nei casi meno gravi; si faccia un maggiore ricorso alle pene alternative; si risolva quanto prima la questione relativa alla chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari che rischia di aggravare i già gravi problemi”. Giustizia: Severino; ddl pene alternative va a rilento, per chiusura degli Opg probabile proroga Tm News, 11 ottobre 2012 La velocità dell’iter parlamentare dei provvedimenti legislativi “dipende moltissimo dalla volontà politica”. Lo ha sottolineato il ministro della Giustizia Paola Severino, commentando con i cronisti al Senato l’andamento dei lavori sulle diverse proposte sulle materie di sua competenza. “Oggi - ha raccontato la guardasigilli - dovevo andare alla Camera per la seduta in commissione sulle misure alternative al carcere ma è stata sconvocata. Non vi nascondo che ci sono rimasta male”. A chi le ha chiesto se pensa che ci sia una volontà di rallentare l’iter del provvedimento, Severino ha risposto: “Non penso”, ma ha ribadito che il ddl rappresenta “un completamento delle misure sul carcere, un provvedimento deflattivo importante”. Al ministro Severino è stato chiesto cosa pensasse delle dichiarazioni di Giulia Bongiorno, la presidente finiana della commissione Giustizia della Camera, che ha sottolineato una certa contraddittorietà che ci sarebbe a suo giudizio fra lo spirito repressivo del ddl anticorruzione e la decisione di sottrarre alla detenzione i condannati a pene inferiori ai 4 anni contenuta nel ddl sulle misure alternative al carcere. “Conosco e stimo Giulia Bongiorno, non posso credere che abbia messo in collegamento misure alternative e corruzione in senso stretto”, ha commentato, pur riconoscendo “che nel ddl anticorruzione ci sono alcune fattispecie minori per le quali sono previste pene più basse che rientrano nelle previsioni dell’altro provvedimento”. Quanto al merito del provvedimento, la guardasigilli ha spiegato che “prevede una forte discrezionalità del giudice, non ci sono automatismi” per la messa alla prova o per la detenzione domiciliare che verrà valutata caso per caso e quindi “darebbe sollievo al carcere ma non creerebbe allarme sociale”. La chiusura degli Opg “potrebbe scivolare” Il termine per la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), stabilito per il 31 marzo 2013, “potrebbe effettivamente scivolare”. Lo dice il ministro della Giustizia, Paola Severino, rispondendo ai cronisti che glielo chiedono al Senato. “Può darsi - spiega - che la scadenza venga prorogata ma non che salti il provvedimento. Abbiamo visto quali sono le condizioni degli ospedali psichiatrici, è un problema che ci sta molto a cuore. Con il ministro Balduzzi e sotto l’occhio vigile del senatore Marino che è il promotore di questa rivoluzione,, stiamo attenti a che le convenzioni con le Regioni vadano avanti. Il problema è trovare i fondi”. Severino conclude: “Noi vorremmo vedere conclusa la questione prima della fine della legislatura”. Giustizia: la missione nelle carceri di “Sariddu” Cattati per favorire la trattativa Stato-mafia di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza Il Fatto Quotidiano, 11 ottobre 2012 Il 41 bis per lui non era un problema. A sentire i racconti dei pentiti catanesi, Rosario Pio Cattali, meglio conosciuto come “Saro dei servizi segreti”, entrava e usciva dalle celle dei boss mafiosi come se fosse a casa sua. Dieci giorni prima dell’arresto del boss Nitto Santapaola, era riuscito a contattare il mafioso Carletto Campanella, detenuto al carcere duro, per dirgli di avvisare il padrino del blitz imminente. Come? Mistero. Cattati ci riuscì e consegnò l’ambasciata al picciotto di Santapaola, che anni dopo riferirà di non esser riuscito a far nulla proprio “perché sottoposto al 41 bis”. Lo racconta in tempi più recenti il pentito Maurizio Avola (per averlo saputo dallo stesso Campanella), che conclude l’episodio con una convinzione: quel Saro “apparteneva ai servizi segreti, scambiava favori con personaggi dei servizi, faceva dei favori, degli omicidi e loro facevano passare della droga, coprivano i reati”. Il fantasma dei Servizi Dichiarazioni allora ritenute senza riscontri e adesso rimbalzate sui tavoli dei pm di Palermo che ieri, per la seconda volta in una settimana, sono tornati a Messina per uno “scambio di atti” e un “approfondimento” con il procuratore Guido Lo Forte, con l’obiettivo di mettere a fuoco il grado di attendibilità di Cattafi (arrestato nel luglio scorso per concorso in associazione mafiosa), autore di dichiarazioni che più d’un inquirente definisce “una bomba”, ma ancora tutte da riscontrare. Dichiarazioni che confermerebbero l’ambiguo ruolo di Francesco Di Maggio, il vice capo del Dap in carica nel novembre del ‘93, quando il Guardasigilli Giovanni Conso revocò centinaia di provvedimenti di 41 bis, a suo dire “in assoluta solitudine”. La prova, per i pm di Palermo, del cedimento dello Stato impegnato nella trattativa con la mafia: per questa ragione i verbali di Cattati, per ora secretati, finiranno con tutta probabilità agli atti dell’udienza preliminare della trattativa davanti al Gup Piergiorgio Morosini e, anche nel processo agli ex ufficiali del Ros Mori e Obinu, accusati di avere favorito la latitanza di Bernardo Provenzano, sempre nel contesto del dialogo Stato-mafia. Una cosa sembra certa: Saro Cattafi, ritenuto l’anello di congiunzione tra mafia, massoneria e servizi deviati, in carcere si muoveva come un fantasma. Anche e soprattutto nel 93 (anno della cattura di Santapaola), cioè nel periodo in cui il dibattito sotterraneo sulla gestione del 41 bis animava il cuore delle istituzioni. Nell’estate di quell’anno, secondo un rapporto del Gico di Firenze, Sariddu avrebbe avuto contatti telefonici con il barcellonese Filippo Bucalo (uno dei tre magistrati in servizio all’Ufficio detenuti del Dap, sotto la gestione Di Maggio), e col fratello Sergio, di professione avvocato. Dietro le quinte della trattativa, insomma, Cattafi agiva in silenzio. E ha continuato a farlo, almeno fino al 2008. Riferisce Carmelo Bisognano, un altro pentito catanese, che in quell’anno fu il super boss Aldo Ercolano, recluso a L’Aquila al 41 bis, a dargli un messaggio da recapitare a Cattati. “Lui sa come deve fare” Dapprima Ercolano chiese se Saro fosse detenuto e quando Bisognano gli rispose che era “fuori”, il boss comandò: “Digli di farmi avere quello che gli ho dato”, forse del denaro. E concluse: “Lui sa come deve fare”. Messaggi in entrata e in uscita dalle carceri. Sempre a braccetto con i boss di Cosa Nostra. È questa la “missione segreta” nel mondo penitenziario che Rosario Cattafi dice di aver ricevuto direttamente da Di Maggio proprio nel pieno della trattativa? È questo il contenuto delle due registrazioni che dice di avere in mano e che proverebbero le sue attuali rivelazioni? La gestione dei detenuti mafiosi, del resto, è sempre stata il “pallino” dell’ex vicecapo del Dap, come sostiene Loris D’Ambrosio (il consigliere di Napolitano scomparso nel luglio scorso) nella telefonata con l’ex ministro Nicola Mancino intercettata il 25 novembre 2011. D’Ambrosio e le squadrette Per il consigliere del Quirinale, ciò che avrebbe spinto Di Maggio ad accettare la nomina al Dap era il suo interesse “all’alleggerimento (del 41 bis, ndr) di soggetti che in qualche modo collaboravano: non formalmente, ma come confidenti”. D’Ambrosio definisce Di Maggio “un custodiale” e parla anche dell’esistenza di alcune non meglio precisate “squadrette” nei bracci del 41 bis. Di certo, c’è che Cattafi è stato arrestato a Milano nell’inchiesta sull’autoparco di via Salomone, proprio il 9 ottobre 1993, ovvero alla vigilia della mancata proroga dei 334 provvedimenti di 41 bis che Di Maggio avrebbe imposto a Conso. E che Di Maggio, anche lui originario di Barcellona, è una vecchia conoscenza di Sariddu, sin dai tempi della scuola, quando Cattafi becca la prima condanna per episodi di squadrismo con Pietro Rampulla, futuro artificiere del “botto” di Capaci. Negli anni delle stragi, infine, il suo nome finisce in tutte le inchieste su mafia e poteri occulti: Avola lo indica addirittura tra i registi, all’hotel Excelsior di Roma, di un progetto di attentato ad Antonio Di Pietro. Lettere: appello per mio padre, detenuto e malato di cancro di Alessia Fusco www.linkontro.info, 11 ottobre 2012 Sono Alessia, figlia di Rosario Fusco, attualmente detenuto alla casa di reclusione di Opera con una condanna definitiva di 30 anni. Il mio è un grido di dolore, dolore di una figlia che vede il proprio papà giorno dopo giorno lasciarsi andare per le inadeguate cure avute durante tutto l’iter della malattia, non riesco neanche a pronunciare quella parola ed ogni giorno mi convinco che sia tutto un brutto sogno. Il mio appello è per un disagio molto grave, “il diritto alla salute e alla vita”. Ogni momento mi chiedo se la condizione di “detenuto” implichi anche il non rispetto della persona. Il 7.12.2011 è stato diagnosticato a mio padre un’adenocarcinoma tra il retto e il sigma (anche se già molti mesi prima aveva perdite di sangue, ma mai prese; in considerazione dai dottori della struttura carceraria) si trovava a Fossombrone e il mese successivo decisero di portarlo all’ospedale di Pesaro per operarlo, lui rifiutò categoricamente chiedendo semplicemente l’assistenza di noi familiari e dopo un lungo iter giudiziario, che lei può immaginare, gli accettarono di operarsi in una clinica da noi scelta essendo presieduta da uno dei migliori chirurghi e di poterlo assistere, tutto questo dopo cinque lunghi mesi infatti mio padre viene operato solamente a maggio, cinque mesi fatti di trasferimenti tra Milano e Spoleto (assurdo!). Sembrava che finalmente quel brutto sogno di una bambina spaventata fosse finito, invece ecco la risposta dell’esame istologico da cui emerge che il tumore era maligno e cinque dei 10 linfonodi che gli avevano tolto erano metastatici, quindi le chemio erano necessarie. Ed ecco che ricomincia la nostra battaglia senza fine con la giustizia italiana per potergli concedere una sospensione della pena o gli arresti domiciliari, ma niente non gli concedono nulla. Nel frattempo lui detenuto a Spoleto rifiuta la chemio (scelta comprensibile anche se a lui ho sempre detto il contrario) poiché messo in una stanza di ospedale senza una finestra, da solo e con una descrizione di tutte le conseguenze che questo terapia gli avrebbe comportato, mi dica lei chi avrebbe accettato? Una volta rifiutato, la risposta dello Stato sa qual è stata? Trasferirlo a Milano. Invece di avvicinarlo a noi per poterlo vedere tutte le settimane e trasmettergli tutta la forza necessaria ce lo allontanano e per di più messo in una stanza con un malato di Aids, epatite e quant’altro, ma se peggiora e gli succede qualcosa io con chi dovrei prendermela? Ha sbagliato e sta pagando ì suoi errori ma tutti abbiamo il diritto di ricevere adeguate cure, di tutelare la vita e di essere circondati delle persone più care. Ho pensato di incatenarmi ovunque, di urlare al mondo intero il mio problema, ho scritto a chiunque anche ad alcuni politici ma sono tutti bravi a fare solo ottima propaganda ma pochi fatti. Ad aggravare ulteriormente la mia situazione personale e della mia famiglia è la condizione di mio fratello Pasquale, il quale è affetto da oligofrenia di grado medio grave con disturbi del comportamento, come si evince dall’allegata documentazione sanitaria. Infatti da quando nostro padre è stato trasferito a Milano ha avuto un peggioramento notevole perché non riesce ad affrontare questi lunghi viaggi e non lo vede da tre mesi è questo influisce negativamente sulla vita quotidiana dell’intera famiglia. Le faccio presente che ci troviamo anche in una situazione economica abbastanza precaria, in quanto i costi sostenuti dei viaggi fino a Milano (molto onerosi) per soltanto un ora di colloquio ,dopo aver fatto mille km non c’è neanche la precedenza per le famiglie che vengono da lontano e questo le sembra giusto? Le chiedo pertanto di intervenire per quanto di sua competenza affinché mio padre possa almeno essere trasferito in una struttura o in un centro più vicino a noi. La prego non mi abbandoni anche lei in questa mia battaglia di affetto e giustizia. Lettere: il trasferimento degli ergastolani di Spoleto… l’illusione di rincorrere un’utopia Pantaleone Giacobbe (direttore aggiunto casa di reclusione Spoleto) Il Manifesto, 11 ottobre 2012 I 18 detenuti AS1 (questa sigla si potrebbe definire simbolo paratattico, per stigmatizzare la pericolosità dei singoli detenuti) prima rinchiusi nella casa di reclusione di Spoleto sono stati trasferiti per un fatto di carenza di disponibilità di posti letto di cui, appunto, il carcere di Spoleto è in grande sofferenza. Anche se è obbligatorio ed ovvio dover pensare male e senza per questo commettere alcun peccato. Tale partenza ha lasciato come un vuoto. Non nel senso fisico del temine in quanto, se fosse per questo, il vuoto è stato subito colmato con un numero di detenuti addirittura doppio rispetto a quelli di prima. Vuoto, al contrario, perché è venuta meno una tentazione culturale, con l’illusione di poter rincorrere un’utopia, non certamente per imitare esempi illustri di rottura culturale come la scuola di Barbiana di Don Milani o l’impegno sociale di Danilo Dolci di “Banditi a Partinico” o, addirittura, rifarsi all’anti-psichiatria di Franco Basaglia nel manicomio di Trieste... niente di tutto questo. Più modestamente, la curiosità di capire se un gruppo di strane persone, quasi tutte con ergastoli sulle spalle, e che avevano intrapreso nel carcere di Spoleto un certo discorso di discontinuità rispetto al loro passato, erano in grado di mantenere questa promessa anche per il futuro. Come si vede, veramente nulla di rivoluzionario, ma per mantenere il passo su un progetto del genere ad ogni modo bisognava essere sorretti da una buona dose di utopia. L’ho sempre detto che l’art. 27 della Costituzione bisognerebbe intitolarlo I care. Esperienza, con un inizio fatto di entusiasmo da neofita, per l’improvvisa scoperta di avere a portata di mano la possibilità di raccontare il passato non come storia personale da rimuovere in gran parte, perché quella che conta è già scritta negli atti giudiziari. Ma come piano-sequenza, dove ogni momento della vita è lì, si presenta scandalosamente col suo vero peso specifico. Sarebbe interessante leggere, per capirne la portata, cosa scrive Mariano Ciro nel libro “Volete sapere chi sono io? Racconti dal carcere”(Oscar Mondadori); o Carmelo Musumeci in “Undici ore d’amore” (Gabrielli editore). Questa partenza improvvisa, per un verso ha fatto smarrire uno spirito positivo all’interno del carcere alimentato da iniziative culturali, da dibattiti informali, da contestazioni anche, ma che plasmavano le voci di dentro su quote di pensiero fuori dallo schematismo nevrotico e ossessivo a cui ti costringe quotidianamente l’istituzione totale. Ma ha creato anche una certa amarezza perché, comunque, è stato rescisso un legame costruito con fatica e tante volte allentato o tirato al massimo di grado, a seconda le circostanze del momento. Alcuni di questi detenuti sono arrivati a Spoleto dopo un lungo peregrinare da un carcere all’altro, “come ultima spiaggia”, gli è stato dato come messaggio. Evidentemente, c’è sempre un’ultima dell’ultima spiaggia. Per aver coltivato questa idea (narcisistica?), non può essere agitato il sospetto di un cedimento al sentimentalismo d’antan, pur sempre in agguato specie in situazioni di convivenza forzata e costretta dentro spazi di manovra alquanto rigidi. Essa, sappiamo, predispone alla lunga a vedere l’interlocutore quasi solo dal lato positivo, non fosse altro che è quello che gli si offre più a buon mercato e con immediatezza. E in ogni caso il farsi accettare innesca nell’altro un giuoco psicologico gratificante. Il tutto s’è tradotto semplicemente in uno stare al giuoco, dentro cui è stato possibile individuare elementi di sincerità forse poca, di strumentalismo forse molto, di curiosità e di noia a seconda le giornate, ma anche di ironia e autoinganno che ha dato, poi, luogo al crogiolo che possiamo condensare come l’inizio destabilizzante. E non è da escludere anche che il trasferimento di questi detenuti sia dipeso da una sorta di fraintendimento o malinteso, forse influenzato da un eccesso di interpretazione autarchica rispetto a quello che bolliva in pentola in questo stare al giuoco. Per esempio, sollevare il tema dell’ergastolo ostativo può aver generato dei sospetti? Eppure, esso è stato portato tante volte all’attenzione dell’opinione pubblica con intelligenza: mai che si ricordi sia stato presentato dentro un progetto rivendicativo ottuso. Ogni discorso su quel tema mirava ad un cambiamento di prospettiva, dove si chiedeva sia la necessità di una nuova elaborazione culturale come superamento di quella che generò la fattispecie di chiusura (sentenza n. 35 del 2003 della Corte Costituzionale); e parallelamente i singoli ergastolani coinvolti nel dibattito dicevano come ciò fosse paradossale nei confronti della loro vita, e non di altre, per la metamorfosi che essi stessi sentivano intima e come valore aggiunto. In un certo qual modo, potremmo dire, che siamo nell’ambito di un quasi contenzioso ad personam, dove si getta sul piatto della rivendicazione non un bene materiale ma uno immateriale ovvero una nuova presa di coscienza a dimostrazione della rottura col passato criminale di queste persone. Ma stranamente essa non trova un alter ego per vagliarne la consistenza ideologica, in quanto la norma astratta preposta a ciò, esclude già di per sé che una presa di coscienza in materia sia possibile. A ben vedere, non è peregrina l’idea che un approccio così asimmetrico possa aver generato delle comprensibili paure, specie in chi non ha gli strumenti di lettura adeguati. Ora, la speranza è che nulla si disperda di tanto impegno e lavoro. In particolare i detenuti interessati non abbandonino la strada intrapresa e siano seminatori di buone prassi, pur consapevoli che non è più possibile né ripetere né riprendere l’esperienza di Spoleto. L’incantesimo s’è spezzato e soltanto un rewind è in grado di creare l’illusione filmica di un ritorno al futuro. Nuoro: Socialismo Diritti Riforme; a Mamone record nazionale (88%) di detenuti stranieri Comunicato stampa, 11 ottobre 2012 “Il sovraffollamento, le condizioni di invivibilità e la mancanza di lavoro non risparmiano neanche le colonie penali della Sardegna dove vengono inviati i cittadini privati della libertà, in maggioranza stranieri, ritenuti non pericolosi e dove sono in corso programmi di valorizzazione delle produzioni agricole”. Lo denuncia Maria Grazia Caligaris, presidente dell’Associazione Socialismo Diritti Riforme sottolineando che “i soldi per il finanziamento delle attività lavorative straordinarie e comuni sono insufficienti e la maggioranza dei ristretti è costretta a rimanere per lungo tempo inattiva nei cameroni”. La Sardegna - sottolinea Caligaris - nel settore delle servitù penitenziarie ha anche il primato purtroppo di ospitare il più alto numero di cittadini stranieri. Il record nazionale spetta, infatti, alla colonia penale di Mamone (Nuoro). Marocchini, tunisini e rumeni rappresentano l’88% dei cittadini privati della libertà che stanno scontando il residuo di pena all’aperto. Il dato appare ancora più significativo se si considera che per il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, con i dati aggiornati al 30 settembre 2012, i detenuti stranieri costituiscono complessivamente il 36% dei reclusi nei 206 Istituti della Penisola. In Sardegna le percentuali sono molto diverse proprio perché l’isola ospita aree territoriali destinate al recupero dei detenuti attraverso il lavoro. Al secondo posto della graduatoria nazionale si colloca un’altra colonia penale sarda quella di Is Arenas con il 78% di stranieri. Una così massiccia presenza di stranieri - rileva la presidente di Sdr - è un ulteriore segnale inequivocabile di come il Dipartimento non rispetti il principio della territorialità della pena. La maggior parte dei cittadini comunitari ed extracomunitari vengono trasferiti dal Continente, principalmente dall’Italia settentrionale dove spesso risiedono familiari o dove hanno creato relazioni sociali con conterranei. A conclusione della pena rischiano di non trovare più le persone con le quali avevano convissuto con negativi effetti di disadattamento. La netta superiorità numerica di cittadini prevalentemente islamici genera talvolta anche reciproca insofferenza con attriti non sempre controllabili al punto che alcuni detenuti sardi rinunciano alla colonia penale. A determinare il più profondo malessere è però la scarsità dell’attività. A parte alcune borse-lavoro infatti la cassa delle ammende è praticamente vuota e quindi anche nelle colonie è stato necessario - conclude Caligaris - attivare le turnazioni con lunghi periodi di inattività che generano ancora più profondi malesseri e tensioni. Bologna: i Garanti; al Pratello si gioca a calcio in una gabbia, pare un penitenziario per adulti Dire, 11 ottobre 2012 Giocano a calcio dentro una gabbia di rete e ferro - una sorta di voliera per uccelli - i 18 ragazzi reclusi all’interno del carcere minorile del Pratello di Bologna. È uno degli accorgimenti di sicurezza che sono stati adottati all’istituto “Pietro Siciliani” e che hanno impressionato Desi Bruno e Luigi Fadiga, i Garanti regionali dei detenuti e dell’infanzia, durante la visita fatta all’istituto lo scorso 3 ottobre. Il problema del campetto da calcio è solo una delle tante “criticità” rilevate durante la visita. Ci sono anche, spiegano in una nota, lo “squilibrio numerico” tra il numero di agenti e quello degli educatori (24 contro tre), oppure il fatto che i ragazzi vengano tenuti in celle da quattro (una situazione “del tutto inadatta alla loro necessità e che favorisce il compiersi di condotte vessatorie”). Tutti questi rilievi, sommati alle “scarse risorse” degli Enti locali che limitano le attività ricreative (il lavoro teatrale di Paolo Billi, ad esempio, impegna solo cinque dei 18 ospiti) fa propendere i Garanti per questa conclusione: il Pratello “ha l’aspetto di un vero e proprio carcere per adulti, dotato di sistemi di sicurezza attiva e passiva, grosse porte di ferro con spioncino e robusti cancelli per ogni cella; tavoli e letti cementati al suolo; sala colloqui scarna e disadorna”. L’atmosfera che si respira “è tipicamente carceraria, con celle in disordine e non pulite, letti sfatti, muri sporchi, ragazzi in ozio e chiusi in cella nel pomeriggio” e questo è “in netto contrasto con le finalità sancite dal nuovo processo penale minorile”, che cercano di favorire l’accoglienza in comunità o la ‘messa alla provà alla detenzione. Al più presto, Bruno e Fadiga chiederanno un incontro al capo del Dipartimento di giustizia minorile, Caterina Chinnici. Al Pratello, al 3 di ottobre, erano reclusi 18 ragazzi (di cui tre italiani), una decina dei quali hanno già 18 anni. Nell’istituto, lavorano un coordinatore dell’area tecnica, due educatori part-time a tempo determinato (con contratto in scadenza al 31 dicembre) e 24 agenti di Polizia penitenziaria. È garantita la presenza di uno psicologo e un medico dell’Asl è presente tre ore al giorno, la mattina, dal lunedì al sabato; in caso di urgenza si chiama la guardia medica, mentre gli infermieri ci sono sempre. Venendo all’ambiente, il cortile è “inadeguato” e “manca uno spazio verde”. Inoltre, “gran parte dell’area esterna è ingombra di detriti, container, persino una gru, e materiali depositati dalla ditta che ha avuto l’appalto della ristrutturazione e che ha deciso di non rimuovere, lamentando gravi ritardi nei pagamenti”. Ecco perché, “per consentire ai ragazzi di usufruire di un malmesso campetto di calcio, si è dovuta costruire una gabbia di rete e ferro, simile ad una voliera”. Per quanto riguarda il capitolo attività, se il teatro di Paolo Billi impegna solo cinque ragazzi, altri nove partecipano al laboratorio di cucina sovvenzionato da Provincia e Fomal. purtroppo, però, “rimane ancora non attivo l’utilizzo della cucina e dei ragazzi-cuochi per la preparazione dei pasti interni, sia per il personale che per i ristretti”. Al momento della visita dei Garanti, avvenuta di pomeriggio, 13 su 18 erano chiusi in cella. Il nuovo direttore, Alfonso Paggiarino, concludono i Garanti, “si prodiga con grande volontà per fare uscire l’istituto da questa pesante situazione”, ma “mezzi economici e forse anche i sostegni dall’Amministrazione penitenziaria paiono essere del tutto insufficienti”. Catanzaro: finanziamento per il progetto “Sport negli istituti penali minorili” www.catanzaroinforma.it, 11 ottobre 2012 Un finanziamento di 24 mila euro per la realizzazione del progetto “Sport negli istituti penali minorili”. È quanto l’assessore alla pubblica istruzione, Patrizia Carrozza, è riuscita a ottenere a seguito dell’accordo siglato fra il Miur e la presidenza del Consiglio dei ministri, dipartimento per gli Affari regionali in materia di alfabetizzazione motoria e promozione delle attività sportive nel contesto scolastico. Il finanziamento che consentirà la realizzazione del progetto è destinato all’Istituto Vivaldi di Catanzaro Lido, che già opera all’interno dell’Ipm catanzarese. L’assessore Carrozza, in visita questa mattina all’Istituto penitenziario minorile di Catanzaro, ha esposto ai detenuti le finalità di un progetto che intende percepire lo sport come strumento di educazione al dialogo, al rispetto delle regole e alla solidarietà, che vuole essere veicolo di integrazione e inclusione sociale. Un discorso a tutto campo quello che l’assessore alla pubblica istruzione ha rivolto ai giovani detenuti, che nell’istituto hanno modo di studiare oltre che di frequentare svariati corsi, come quello musicale, di informatica, pittura, costruzione di custodie per strumenti a corda, laboratori di pizzeria, di pasticceria e di informatica. “Le regole vanno rispettate - ha detto l’assessore Carrozza - e sono sicura che questo concetto è stato già da voi recepito. Mi auguro in futuro di non ritrovarvi più qui. Se nelle vostre vite c’è stato un momento di disorientamento, sono certa che potrete rientrare nei ranghi delle regole. La cosa fondamentale è che voi recuperiate la fiducia in voi stessi. Dovete ricostruire le vostre vite e avete risorse tali che ve lo consentiranno. Vi auguro di trovare la vostra strada perché ne avete diritto”. “Noi cerchiamo di spiegare ai ragazzi che il loro soggiorno qui deve essere un momento da sfruttare per investire su loro stessi - ha detto il direttore dell’Istituto penale minorile, Francesco Pellegrino - Sono molto bravi e cerchiamo di far capire loro che non sono finiti perché ora si trovano nell’istituto di pena”. Ad accompagnare l’assessore Carrozza nella sua visita ai detenuti, oltre al direttore Pellegrino, il dirigente scolastico dell’Istituto Vivaldi di Catanzaro Lido, Caterina Anania, e la vicepreside Teresa Agosto; il direttore del centro di Giustizia minorile per la Calabria e la Basilicata, Angelo Meli; l’insegnante dell’istituto Grimaldi- Pacioli, Francesco Muraca. Trapani: un’area verde per i bimbi dei detenuti, è un tentativo per umanizzare la pena www.trapaniok.it, 11 ottobre 2012 “È un tentativo per umanizzare la pena e nasce proprio per restituire spazio agli affetti familiari, per mantenere vivi i diritti alla maternità e alla paternità anche in carcere”. Così il dott. Renato Persico, Direttore della casa circondariale San Giuliano, ha commentato l’Area Verde ricevuta in dono questa mattina dal Kiwanis Club Service di Erice. “Il Kiwanis, - ha continuato Persico - su impulso del cappellano Monsignor Gaspare Gruppuso ha sostenuto la realizzazione di una piccola area giochi all’interno dell’Area verde, con molto entusiasmo e convinzione, come ha fatto in questi anni anche per numerose altre iniziative e attività in favore dei bambini svantaggiati” Si, infatti questa mattina, nell’ambito di tutte le iniziative benefiche e coerentemente con il motto corrente dell’Associazione “Serving the children of the world” (Serviamo i bambini del mondo), una rappresentanza del Kiwanis, con la presenza del Presidente uscente dr. Giovanni Bevilacqua e del subentrante dott. Fausto Garuccio, ha donato giochi, tavolini, sedie e un tappeto verde in erba sintetica di 72 mq. Il tutto è destinato ai bambini dei detenuti ristretti a San Giuliano. Giochi che diventano il primo nucleo della neonata “Area Verde” all’interno dell’Istituto. Monsignor Gruppuso presente alla cerimonia ha detto “si tratta di una iniziativa di particolare valore umano e spirituale per la sensibilità sociale e civica manifestata dall’Associazione. In questo terribile momento di crisi c’è bisogno di tanta solidarietà nei confronti delle persone più bisognose. Auspichiamo che sull’esempio del Kiwanis, altre associazioni possano mettere in campo iniziative benefiche in favore dei detenuti”. Verona: detenuto all’ospedale per una Tac, gli tolgono le manette e scappa, è caccia all’uomo Corriere Veneto, 11 ottobre 2012 L’unica cosa abbastanza sicura è che le sue condizioni di salute non erano poi così precarie. Perché, in caso contrario, non sarebbe riuscito a darsi alla fuga a piedi e a rendersi “uccel di bosco”. Sa di avere alle calcagna tutte le forze dell’ordine quel detenuto straniero protagonista dell’evasione andata in scena martedì sera all’interno dell’ospedale di Borgo Trento. Ma nonostante l’imponente dispiegamento di forze sul territorio, fino alla tarda serata di mercoledì non è stato ritrovato. “Un episodio grave” ha commentato la direttrice della casa circondariale di Montorio, Mariagrazia Bregoli che mercoledì è stata impegnata a lungo in una serie di sopralluoghi in ospedale con gli uomini della polizia penitenziaria. “Abbiamo immediatamente informato la procura” ha spiegato la direttrice che intende mantenere il più stretto riserbo possibile sulle indagini. Nessuna certezza sulla dinamica di quanto accaduto martedì notte, poco dopo le 23.30 in quel corridoio della Radiologia, accanto al Pronto soccorso. Secondo il racconto di alcuni testimoni, gli agenti della polizia penitenziaria avrebbero accompagnato due detenuti in ospedale per visite programmate. I due sarebbero stati fatti accomodare in corridoio nell’attesa del loro turno, con le manette ai polsi. Il primo sarebbe stato visitato regolarmente e, una volta uscito dalla saletta del medico, sarebbe stato fatto accomodare nuovamente in corridoio in attesa dell’altro. Per consentire al medico di effettuare la visita, probabilmente una Tac, gli agenti lo avrebbero liberato dalle manette. E a quel punto, approfittando di un attimo di distrazione, il carcerato sarebbe sceso all’improvviso dal lettino, per dirigersi a perdifiato verso le porte scorrevoli. “Proprio in quel momento è passato un medico che le ha fatte aprire e non è riuscito nemmeno a rendersi conto di quel che stava succedendo - ha raccontato un testimone. E quello si è ritrovato libero”. Gli agenti non avrebbero perso tempo e si sarebbero dati immediatamente all’inseguimento in lungadige Attiraglio. Secondo il racconto di alcuni testimoni, avrebbero esploso anche alcuni colpi di pistola nel tentativo di fermarlo. Ma l’uomo, probabilmente tunisino, con un residuo di pena di circa 6 anni, avrebbe continuato la sua corsa in direzione Parona. L’allarme è scattato immediatamente e le ricerche di tutte le forze dell’ordine sono proseguite senza sosta per l’intera giornata di mercoledì. “Ringrazio tutte le forze dell’ordine per l’ampia disponibilità dimostrata anche in questa occasione - ha precisato la direttrice. Le indagini sono in una fase delicatissima e ci auguriamo di arrivare a un buon esito in tempi rapidi”. Mercoledì mattina nella sala d’aspetto del Pronto soccorso, erano in molti i pazienti incuriositi dall’insolita presenza di tutti quegli agenti in divisa. “Chissà cosa sarà successo - domandava una signora. Speriamo nulla di grave”. “Io questa notte ero qui per accompagnare mia mamma - ha raccontato un testimone. Ho visto i due carcerati arrivare accompagnati dalle guardie. È stato il secondo, un omone robusto con barba e capelli crespi, quello riuscito a fuggire. Ci sono stati momenti di tensione, ho sentito qualcuno che diceva di aver udito il rumore degli spari. Non so cosa sia successo, ma non è stata certamente una bella esperienza”. Siracusa: Osapp; detenuto minaccia poliziotti con bottiglia rotta Adnkronos, 11 ottobre 2012 “Nel carcere di Siracusa si è verificato l’ennesimo evento critico che per fortuna e soprattutto grazie alla perizia del personale non ha prodotto conseguenze più gravi dopo che alle 13 un detenuto ha iniziato a minacciare gli addetti di Polizia Penitenziaria e se stesso con i pezzi di una bottiglia d’olio rotta”. Lo denuncia il segretario generale Osapp, Leo Beneduci. “Non sappiamo - spiega ancora Beneduci - quanto e come i frequentissimi episodi di violenza nelle carceri potranno essere sopportati e debitamente affrontati da un corpo di Polizia ridotto allo stremo dalla disattenzione della politica e delle istituzioni; ma siamo certi che le conseguenze di un disastro che solo la polizia penitenziaria fronteggia a tutela della collettività, in assenza di adeguati correttivi, non tarderanno a produrre danni anche all’esterno del carcere”. Libri: “La mia prigione. Storia vera di un poliziotto a Palermo”, di Bruno Contrada Il Velino, 11 ottobre 2012 Esce il 17 ottobre “La mia prigione. Storia vera di un poliziotto a Palermo” di Bruno Contrada con Letizia Leviti (Marsilio). È la vigilia di Natale del 1992 quando Bruno Contrada, dirigente del Sisde con alle spalle una lunga carriera in Polizia, viene arrestato a Palermo con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Al termine di una complessa vicenda giudiziaria sarà condannato a scontare dieci anni di reclusione. Da allora Contrada non ha mai smesso di proclamare la sua innocenza portando avanti una tenace battaglia. Nato dall’incontro con la giornalista Letizia Leviti, questo libro raccoglie il racconto dei fatti, i ricordi, le considerazioni, le previsioni di un uomo che nell’arco della vita ha conosciuto la mafia e i mafiosi, la politica e i politici, la magistratura e i magistrati. E ha conosciuto il carcere. Ripercorrendo decenni di storia d’Italia - dal suo arrivo a Palermo nel 1962 a oggi - Contrada affronta tutti i risvolti, anche i più oscuri, della sua storia: le accuse dei pentiti, i rapporti con Falcone e Borsellino, il suo presunto coinvolgimento nella strage di via d’Amelio, la trattativa stato-mafia. A completare il quadro, un’informativa sulla situazione della mafia a Palermo e provincia, che Contrada stilò nel 1982 all’indomani dell’omicidio La Torre, in cui per primo faceva riferimento all’esistenza della cosiddetta “zona grigia”. Risultato di un travaglio morale e intellettivo, il libro si compone di tante risposte, ma genera altrettante inquietanti domande. Bruno Contrada “da questo libro non chiede nulla, se non l’occasione di fare un’altra volta chiarezza sulla vicenda”, la storia di un uomo che non si difende, ma si racconta. Il carcere è stata un’esperienza devastate, raccontata da Contrada con aneddoti ed episodi. Raccontata da uomo che si sente ingiustamente carcerato e quindi con quel patire profondo e duro più delle catene. Una sofferenza che è sinonimo di umiliazione e che sa declinarsi però in ricordi tragici e leggeri. Un detenuto eccellente, lui. Per il quale è stato addirittura riaperto il carcere militare di Palermo. Lui, unico detenuto. Perché proprio io? Questa è la domanda che si pone Contrada, mentre in carcere viene sommerso da lettere di stima, incoraggiamento, solidarietà. Perché? Immigrazione: respingimenti in mare, anche dopo condanna all’Italia dalla Corte di Strasburgo Redattore Sociale, 11 ottobre 2012 La denuncia del vice presidente della Federazione internazionale dei diritti umani Lana, che lancia un appello al governo italiano: “Sospenda le attività di cooperazione con la Libia in assenza di garanzie su diritti umani”. “È legittimo il sospetto che i respingimenti nel Mediterraneo verso la Libia proseguano nonostante l’ultima sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, il caso Hirsi contro Italia, del 23 febbraio 2012. Sentenza che ha dichiarato illegittimi i respingimenti collettivi e che ha condannato l’Italia”. A denunciarlo è Mario Lana, vice presidente della Federazione internazionale dei diritti umani (Fidh) e presidente dell’Unione forense per la tutela dei diritti umani (Uftdu) commentando il rapporto della Fidh “Libia: si ponga fine alla caccia ai migranti” presentato oggi a Bruxelles e a Yamoussoukro in Costa d’Avorio. Il rapporto raccoglie l’esito della missione in Libia condotta a giugno 2012 da tre organizzazioni (Fidh, Justice sans frontières pour les migrants e Migreurop) all’interno di 7 centri di detenzione a Tripoli, Bengasi e nella regione di Djebel Nafoussa e ha permesso di fare un bilancio sulle drammatiche condizioni di vita dei migranti. I respingimenti, ha spiegato Lana, sono stati testimoniati dagli stessi migranti detenuti incontrati durante la missione in Libia, ma mon sono solo i respingimenti a preoccupare la Federazione. Per Lana, infatti, i migranti provenienti dall’Africa Sub-Sahariana sono “vittime di una vera e propria caccia ad opera di ex ribelli che si sono attribuiti il compito di ripulire il paese dai migranti. Vengono eseguiti arresti arbitrari e vengono rinchiusi in campi improvvisati, gestiti da ex ribelli e sottoposti a condizioni inumane e degradanti. Vivono in locali senza aria, caldissimi, sottoposti unicamente alle regole degli ex ribelli. Oltre alla detenzione subiscono anche l’umiliazione di non sapere dove, come e quando torneranno in libertà”. Condizioni di vita drammatiche documentate dalle tre organizzazioni che devono essere affrontante al più presto, ha spiegato Lana, che lancia un appello al governo italiano affinché “sospenda tutte le attività di cooperazione con la Libia in assenza di misure che garantiscano la protezione dei diritti umani nel paese”. Per Lana, è necessario “rinegoziare gli accordi di cooperazione nel rispetto del diritto internazionale relativo ai diritti umani e rendere pubblici gli accordi. Finora c’è una gestione anomala: si fanno gli accordi ma non si rendono pubblici come è doveroso in un Paese democratico. L’Italia sta rinegoziando gli accordi con la Libia, noi abbiamo il diritto di conoscere le misure che verranno adottate per poter dare anche un contributo”. Immigrazione: arresti, detenzione brutale e lavori forzati… in Libia è caccia ai migranti Redattore Sociale, 11 ottobre 2012 L’allarme lanciato dalla Federazione internazionale dei diritti umani in occasione della presentazione del nuovo rapporto sulle condizioni di vita dei migranti in Libia. “Sono vittime di arresti mirati, lavori forzati e condizioni di detenzione brutali”. Arresti mirati e discriminatori, lavori forzati e condizioni di detenzione brutali nei campi gestiti da ex ribelli fuori controllo: nella Libia del post Gheddafi è caccia ai migranti provenienti dall’Africa sub-sahariana. La denuncia arriva “Libia: si ponga fine alla caccia ai migranti” presentato oggi a Bruxelles e a Yamoussoukro in Costa d’Avorio e realizzato dalla Federazione internazionale dei diritti umani (Fidh), Justice sans frontières pour les migrants (Jsfm) e Migreurop. Il rapporto è il risultato di un’inchiesta realizzata a giugno 2012 all’interno di 7 centri di detenzione a Tripoli, Bengasi e nella regione di Djebel Nafoussa che ha permesso di fare un bilancio sulle condizioni di vita dei migranti, riportando “violazioni flagranti e generalizzate dei diritti umani fondamentali”. Il conflitto, spiega il rapporto, ha provocato un esodo di massa di lavoratori migranti, ma la fase di ricostruzione ne sta attirando di nuovi. “Soltanto un’esigua minoranza cerca di raggiungere l’Europa - ha dichiarato Messaoud Romdhani, vice presidente della Lega tunisina dei diritti dell’uomo. Si tratta essenzialmente di persone in fuga dai conflitti o dalla repressione nel Corno d’Africa che sono alla ricerca di una protezione internazionale che la Libia, che non ha ancora ratificato la Convenzione di Ginevra del 1951 sullo status di rifugiato e non ha alcun sistema d’asilo, non è in grado di offrire”. Un dato confermato, spiega il rapporto, dalla lista delle intercettazioni in mare effettuate dalla guardia costiera libica fornita alla delegazione: “Quasi la totalità delle persone intercettate sono potenziali rifugiati di origine somala o eritrea”. Per chi arriva in Libia dall’Africa Sub-sahariana, il rischio di finire dietro le sbarre è altissimo. “In Libia - spiega il rapporto -, gli stranieri considerati “illegali” rischiano di essere catturati ai check point o arrestati nelle loro abitazioni o luoghi di lavoro da gruppi di ex ribelli, al di fuori di qualsiasi controllo da parte delle autorità governative”. Arresti che avvengono in un contesto di razzismo radicato, come si legge nelle parole di un dirigente di un gruppo di ex ribelli: “La cosa più importante oggi è ‘ripulirè il paese dagli stranieri che non sono in regola e mettere fine alle pratiche di Gheddafi che lasciava entrare molti africani in Libia. Non vogliamo più che queste persone portino qui malattie e criminalità”. Sono in migliaia, inoltre, i migranti detenuti nei campi gestiti dagli ex ribelli. “Le condizioni di vita in questi campi sono inumani e degradanti - spiega Sara Prestianni, membro di Migreurop e di Jsfm. Le celle sono sovraffollate, le possibilità di uscire all’aria aperta eccezionali e i detenuti subiscono quotidianamente l’arbitrarietà e la brutalità delle guardie”. Alle violenze si aggiunge, poi, anche il lavoro forzato. “Abbiamo anche constatato che datori di lavoro esterni - racconta Geneviève Jacques, membro della presidenza internazionale della Fidh -, con la complicità delle guardie dei centri, reclutano i detenuti per lavorare nei cantieri o nei campi. I migranti non sanno per quanto tempo dovranno lavorare, nè se saranno pagati”. Nei centri di detenzione, infine, la missione delle tre organizzazioni ha permesso di raccogliere le testimonianze di chi ha tentato di attraversare il mediterraneo verso l’Europa. “Le loro testimonianze inducono a supporre che i respingimenti verso la Libia proseguono in violazione delle norme internazionali - aggiunge il testo. Il rapporto mostra ugualmente che la Libia è parte integrante del sistema europeo di esternalizzazione dei controlli di frontiera per impedire gli arrivi dei migranti, dei rifugiati e dei richiedenti asilo sul territorio europeo e come questo sistema si stia rinnovando nel quadro dei negoziati in corso con le nuove autorità libiche”. Alle autorità dei paesi coinvolti, le tre organizzazioni chiedono un impegno concreto. Alle autorità libiche di porre fine agli arresti e alle detenzioni arbitrarie, di chiudere i centri di detenzione per migranti e di garantire il rispetto dei diritti umani dei migranti. All’Unione europea, invece, di sospendere tutte le attività di cooperazione in materia migratoria con la Libia in assenza di misure che garantiscano la protezione dei diritti umani, di rinegoziare accordi di cooperazione nel pieno rispetto del diritto internazionale ed europeo relativo ai diritti umani e di rendere pubblici gli accordi, di mettere fine alle politiche di esternalizzazione dei controlli delle frontiere europee nei paesi vicini e, in particolare, in Libia. Ai paesi di provenienza dei migranti, infine, di vegliare sul rispetto dei diritti fondamentali dei loro cittadini in Libia e di assicurare la loro difesa e protezione in caso di violazione di questi diritti e la liberazione dei loro cittadini dai centri di detenzione. Stati Uniti: il ministro Terzi; caso Chico Forti, facciamo di tutto per riaprire processo Tm News, 11 ottobre 2012 Il ministero degli Esteri “sta facendo di tutto” per riaprire il caso di Chico Forti, il cittadino italiano, detenuto da 12 anni a Miami con l’accusa di omicidio, che si professa innocente. Lo ha detto il ministro degli Esteri, Giulio Terzi al Tg5. “È un caso che è stato portato alla mia attenzione parecchi mesi fa”, ha spiegato il titolare della Farnesina. “L’ho esaminato nei dettagli e ho avuto la sensazione che fosse veramente il momento per il ministero degli Esteri, per l’ambasciata a Washington, per il consolato a Miami di concentrare molta attenzione su questa terribile vicenda”, ha sottolineato Terzi precisando che alcuni aspetti del caso “meritano di essere chiariti”. Un mese fa “siamo riusciti a mettere insieme un team di legali assistito dalla nostra ambasciata e dal consolato generale che credo stia dando un contributo significativo alla famiglia per cercare di riaprire questa vicenda”, ha detto ancora il ministro. Svizzera: carcere amministrativo “troppo rigido”, per gli stranieri in attesa di espulsione www.info.rsi.ch, 11 ottobre 2012 Le condizioni materiali di detenzione nelle prigioni svizzere sono complessivamente positive. Tuttavia, la situazione carceraria per gli stranieri in attesa di espulsione (coatta o meno) è troppo rigida. Lo dice il secondo rapporto della Commissione nazionale per la prevenzione della tortura, pubblicato oggi. Nella maggior parte dei 15 istituti visitati nel 2011, gli stranieri detenuti in seguito a un provvedimento amministrativo (da 6 mesi a 12 mesi al massimo) sono trattati come normali carcerati autori di reato; tale situazione, ricorda la commissione, non è conforme “alla giurisprudenza del Tribunale federale”. Per la commissione, il regime detentivo di queste persone dovrebbe essere “significativamente più libero di quello previsto per gli autori di reati”. In particolare, questi detenuti dovrebbero godere di “un più ampio accesso ad attività occupazionali e sportive”. In generale, le condizioni delle prigioni elvetiche sono soddisfacenti, anche se sono state riscontrate varie lacune. In particolare, l’informazione dei detenuti quando entrano in carcere è spesso insufficiente. Ticino: troppe ore in cella e scarsa offerta occupazionale Tra le strutture visitate dalla commissione nel 2011, figurano anche in Ticino il carcere giudiziario La Farera e il penitenziario La Stampa. Secondo la commissione, “i lunghi periodi trascorsi in cella e le insufficienti possibilità occupazionali si ripercuotono negativamente sui detenuti della Farera, soprattutto se devono trascorrere in carcere diversi mesi”. È urgente dunque “ampliare l’offerta occupazionale, in particolare per i giovani autori di reati”. Altro neo individuato: le informazioni fornite ai detenuti sono spesso insufficienti e il regolamento interno non è disponibile in diverse lingue. La commissione ha raccomandato inoltre al canton Ticino di “ridurre la durata della segregazione in cella e di regolare formalmente il ricorso alle celle disciplinari e di contenzione”. Albania: centenario indipendenza, amnistia per 2.500 detenuti e condannati a pene alternative Nova, 11 ottobre 2012 Il governo albanese ha approvato un disegno legge che prevede l’amnistia per circa 2.500 persone, fra detenuti e condannati per reati non gravi. Il provvedimento stato previsto in occasione del 100mo anniversario di indipendenza del paese. Secondo il disegno di legge, ad approfittare dell’amnistia saranno 290 detenuti condannati con una pena non superiore ai due anni e tutti coloro ai quali rimane da scontare ancora un anno di reclusione. Torneranno in libertà anche 928 adulti e 452 minorenni che si trovano ai domiciliari o sono sottoposti a pene alternative. Sono infine 876 le persone attualmente indagate per reati con pena prevista non superiore ai due anni di reclusione che godranno dell’amnistia. Prima di entrare in vigore il provvedimento dovrà essere approvato anche dal parlamento. Albania: sciopero ex detenuti politici, il premier Berisha accusa i socialisti Agi, 11 ottobre 2012 Il premier albanese Sali Berisha ha accusato stamane in Parlamento i socialisti di avere indotto il gruppo di ex detenuti politici a promuovere lo sciopero della fame spingendoli anche a gesti estremi. Per il premier, sono i deputati socialisti ad aver portato le bottiglie di benzina usate dagli scioperanti per darsi fuoco. “Sono vere esecuzioni di cui siete responsabili”, ha detto Berisha, che ha invitato i familiari degli scioperanti a convincere i propri congiunti dal desistere dalla protesta. Berisha ha ricordato che fin dalla sua fondazione il Partito Democratico è stato vicino agli ex detenuti, e interprete delle loro richieste, ma una parte di questi ex detenuti secondo il premier si è lasciata strumentalizzare dall’opposizione, schierandosi contro il governo. Il premier poi ha elencato tutti i benefici ottenuti dagli ex detenuti, e in particolare ha ricordato il caso di Gjergj Ndreca, il primo degli scioperanti che si è dato fuoco. Tutti avrebbero ottenuto già a metà degli anni 90 la casa, rimborsi in denaro per complessivi 256 mila dollari, e quote delle società statali. Comunque, il Partito Democratico e il governo, ha assicurato Berisha, rimangono vicini alle ragioni degli ex detenuti. Per quanto riguarda la richiesta di apertura dei dossier del vecchio regime per individuare quanti collaboravano con gli apparati di repressione, Berisha ha ricordato che l’opposizione aveva votato contro, e la legge approvata dalla maggioranza governativa era stata bloccata dalla Corte costituzionale per alcuni cavilli. Libia: l’esercito libera 18 egiziani detenuti da oltre un anno a Bani Walid Nova, 11 ottobre 2012 Le forze dell’esercito libico, composte in buona parte dalle milizie della città di Misurata, hanno liberato ieri 18 miliziani che da più di un anno erano detenuti nella città di Bani Walid. La loro liberazione avvenuta per puro caso ed uno degli effetti dell’assedio che prosegue da oltre una settimana alla città un tempo roccaforte del regime di Muammar Gheddafi. Secondo quanto riporta il quotidiano arabo “al Quds al Arabi”, si tratta di persone tenute in stato di detenzione dalla brigata di Khamis Gheddafi durante la guerra in Libia. Solo due giorni fa l’ambasciatore del Cairo a Tripoli stato avvisato della scoperta di una prigione segreta dove erano detenuti degli egiziani a Bani Walid, e in particolare nella zona di Wadi al Mardum. Un delegato dell’ambasciata ha visitato ieri il gruppo di egiziani per accertarsi del loro stato di salute: entro breve tempo gli ex detenuti saranno condotti in patria. Intanto, ieri le forze di sicurezza libiche hanno dovuto sedare una rivolta che si scatenata intorno alla sede del consolato egiziano di Bengasi. La polizia dovuta intervenire per disperdere una folla composta da cittadini libici che protestavano perch in attesa da giorni di ottenere il visto d’ingresso in Egitto.