Giustizia: suicidi in carcere, le vittime sono sempre più giovani di Davide Madeddu L’Unità, 10 ottobre 2012 Aveva meno di trent’anni. Ha deciso di farla finita, qualche giorno fa, impiccandosi alla grata del bagno con la cinta dell’accappatoio nel carcere di Belluno. Lui, giovane tunisino è l’ultimo detenuto che quest’anno si è ucciso in carcere. L’ultimo di un elenco che da gennaio al 6 ottobre conta 44 persone. A raccontare la sua storia è stata l’associazione Ristretti Orizzonti che cura e aggiorna costantemente il dossier “morire di carcere”. A leggerlo poi nel dettaglio si capisce che i numeri forniti sono quasi da bollettino di guerra. Negli ultimi 12 anni, ossia dal 2000 al 2012 nelle carceri d’Italia sono morte 2056 persone, 756 delle quali per suicidio. Numeri importanti che si ripetono più o meno di anno in anno. E che riguardano persone, uomini e donne. Dall’inizio del 2012 al 6 ottobre, si sono registrati 44 suicidi su un numero complessivo di 123 morti. E sempre secondo quanto spiegano i volontari nel dossier, anche l’età di chi muore in carcere nel corso degli anni si è abbassata. Se nel 2000 l’età media di chi moriva dietro le sbarre era di 45 anni ora è di 38 anni. Una situazione che i rappresentanti delle associazioni impegnate quotidianamente nel mondo carcerario definiscono “preoccupante”. Soprattutto perché all’interno delle carceri si continuano a fare i conti con il sovraffollamento. Che non vuole dire solo far stare stretti i detenuti. “Il sovraffollamento si ripercuote su tutto quello che riguarda la vita del carcere - spiega Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti -, dal lavoro all’assistenza sanitaria, continuando con la scuola”. Basti un esempio. “Oggi capita che in una sezione dove ci stavano 25 persone che ce ne siano 75 - spiega è chiaro che tutte queste persone si riversano in un sistema sanitario rimasto uguale al passato con le stesse risorse economiche e umane del passato”. Senza dimenticare poi gli spazi. “Molto spesso in celle che hanno dimensioni tre metri per tre - aggiunge - devono convivere tre persone che assieme a tutti gli altri devono stare negli stessi passeggi e utilizzare le stesse docce”. Risultato? “C’è gente che passa il suo tempo a non far niente - spiega. I suicidi nascono in una situazione in assenza di futuro. C’è disperazione e soprattutto c’è l’assenza di prospettive”. Situazione diffusa in tutta Italia come si legge ancora nel dossier e conferma anche Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. Per commentare i dati del dossier l’esponente di Antigone non usa giri di parole: “Diciamo che sono numeri tragici - commenta - già un morto basta per indignarsi”. Poi il rappresentante dell’associazione che si oc- cupa di diritti dei detenuti aggiunge: “Dopo le parole del presidente Napolitano non è successo niente forse dobbiamo aspettare tempi migliori”. Fa una premessa Riccardo Arena, conduttore di Radio Carcere (martedì e giovedì) su Radio Radicale. “È evidente che non bisogna generalizzare - spiega. Infatti ogni suicidio, ogni decesso per malattia deve essere analizzato singolarmente. Ma è altrettanto evidente che, di fronte a queste cifre, si può tranquillamente affermare come in Italia, pur non essendoci la pena di morte, per una pena si può morire”. Quanto ai suicidi spiega che “nelle carceri sono, molto spesso, la conseguenza dell’abbandono di singole persone. Persone inascoltate, non seguite adeguatamente che poi una notte si impiccano in bagno. Non suicidi quindi. Ma persone suicidate da un sistema carcerario che non è in grado di gestire problematiche differenti”. Sul versante malattie invece spiega che “Ci troviamo spesso dinanzi alla negazione del diritto alla salute. Molte delle persone detenute morte in carcere sono decedute perché non curate”. Soluzioni? “Occorre intervenire su più fronti, riformando il sistema delle pene e il processo penale. Riforma che spetterebbe al Parlamento. Ma chi in questo parlamento ha interesse a un processo che termina in un anno anziché in 8, 9 e anche 10 anni?”. Giustizia: così domiciliari aiutano a combattere l’emergenza carceri di Ennio Fortuna Il Gazzettino, 10 ottobre 2012 Sono ormai decenni che la giustizia penale si dibatte davanti a questo angoscioso problema. Le condizioni dei nostri stabilimenti carcerari sono assolutamente indegne di un paese civile, tutti lo sappiamo bene, ma da sempre si fa assai poco per migliorarle. Di solito per fronteggiare alla meglio l’emergenza si ricorre all’amnistia e all’indulto, e anche adesso molti osservatori propongono lo stesso rimedio che però, come tutti sanno, è temporaneo perché dopo poco si ritorna alla situazione precedente, magari ancora peggiorata. È evidente comunque che se non si riesce a provvedere diversamente con riforme strutturali, l’amnistia rimane l’unica risorsa possibile, anche se la maggioranza ora richiesta (dopo la riforma costituzionale, due terzi dei componenti di ciascuna Camera) la rende di difficilissima praticabilità. Ma qualcosa si deve pur fare, assolutamente e subito, vista la situazione di estremo disagio derivante dal durissimo sovraffollamento che si aggrava ogni giorno di più, tra l’altro rendendo impossibile ogni prospettiva di rieducazione. I detenuti sono oggi almeno un terzo in più della capacità massima degli stabilimenti, e questa è stimata con criteri verosimilmente da rivedere in difetto. Dei detenuti circa un terzo è in attesa di giudizio (e ciò la dice lunga sulle condizioni della nostra giustizia) e moltissimi sono gli stranieri, clandestini e no. Occorre quindi intervenire sulle condizioni normative che legittimano la custodia cautelare, aumentandone il limite di ammissibilità e privilegiando fin dove è possibile gli arresti domiciliari e le misure interdittive. In pratica il carcere deve essere riservato a giudicabili di accertata, grave pericolosità sociale (ad es. mafiosi, terroristi). Ovviamente occorre rendere più ampio il ricorso alla detenzione domiciliare dopo la condanna definitiva, accrescendo, e notevolmente, il tetto che fa da limite di ammissibilità, e per gli stranieri vanno promosse più di quanto già oggi si faccia le convenzioni internazionali per favorire l’espiazione nel paese d’origine. Inoltre con uno sforzo di fantasia neppure troppo difficile molte pene detentive possono essere trasformate in lavoro sostitutivo. Insomma se si lavora con impegno sull’intera gamma delle misure restrittive della libertà personale prima della condanna nonché sulle pene detentive da applicare dopo la sentenza definitiva il totale dei detenuti può essere ridotto di circa la metà. Qualcuno obietterà certamente che la nostra giustìzia è già oggi uno scarso spauracchio per i criminali, e che non è certo una buona ricetta incrementare ulteriormente le misure alternative alla detenzione che presentano efficacia di prevenzione piuttosto scarsa, se non addirittura nulla. In realtà l’esperienza dimostra che gli arresti domiciliari e la detenzione domiciliare assolvono assai bene la funzione cui sono preposti. Le fughe e le latitanze sono praticamente inesistenti. Inoltre la detenzione carceraria è costosissima, e fortemente criminogena per cui anche sotto tale profilo è consigliabile innovare. Insomma, salvo errori, è possibile fare un lavoro assai positivo, garantendo la tutela degli offesi e della comunità dei cittadini onesti, anche senza ricorrere in modo massivo alle misure di detenzione carcerarie, sconsigliabili anche sotto il profilo teorico, e oggi del tutto inaccettabili, viste le negative condizioni del carcere. Tra l’altro arresti domiciliari e detenzione domiciliare non gravano sul bilancio dello Stato, e anche questo va valutato e tenuto presente quando si valuta l’opportunità dell’innovazione. Che comunque è, e resta soprattutto una riforma di civiltà e di umanità. Giustizia: per tanti… a destra e a sinistra… l’unica pena è dietro le sbarre di Francesco Amicone Tempi, 10 ottobre 2012 Le galere esplodono e Giovanna Di Rosa (Csm) chiede amnistia e misure alternative. Quelle che il ministro Severino si è impegnata a incentivare. Solo a parole. Alimentando nei cittadini una fallace esigenza di sicurezza, che si coniuga con un concetto distorto del giusto e con la spettacolarizzazione della pena, le istituzioni italiane spesso usano il carcere per esigenze che hanno poco a che fare con la pubblica utilità. Per Giovanna Di Rosa, già magistrato di Sorveglianza a Milano e oggi membro togato del Csm, l’eguaglianza fra pena e detenzione è frutto di un ragionamento errato. Il carcere dovrebbe essere usato come ultimo rimedio. Investire sulle misure alternative garantirebbe sostenibilità ed efficacia al sistema penale. A sollecitare riforme in questo senso non ci sono soltanto l’emergenza del sovraffollamento e la presenza di metà della popolazione carceraria in custodia cautelare (quindi ancora in attesa di processo), ma anche le statistiche sulle recidive: a ritornare al crimine sono il 70 per cento dei carcerati a fronte del 20 per cento di chi ha ottenuto pene alternative. Ma al di là delle adesioni formali, poco o nulla è stato fatto perché il principio secondo cui il carcere è una extrema ratio sia realmente applicato. Cosa ostacola l’applicazione di questo principio? Nessun investimento, norme contraddittorie e nessuna riforma coraggiosa della giustizia. Inoltre a spingere in una direzione opposta al principio del carcere come ultimo rimedio c’è una cultura che risponde a un’esigenza trasmessa nel sentire collettivo dalle rappresentazioni della stampa, ma priva di fondamento. È il cosiddetto giustizialismo, che ha fatto avvicinare posizioni culturalmente opposte, a destra e a sinistra, che sulla questione carceri convergono in un medesimo discorso sulla giustizia omogeneo, superficiale, dove si ignorano i dati e le peculiarità del sistema penale. Secondo una statistica pubblicata qualche settimana fa, gran parte degli italiani sarebbe favorevole al carcere per gli evasori. Non crede che il largo consenso all’introduzione di nuove misure detentive possa prospettare un ostacolo anche alla necessità delle depenalizzazioni? Sono discorsi che rendono evidenti molte contraddizioni. Da una parte c’è l’esigenza, condivisa ma solo in senso formale, di depenalizzare certi reati; dall’altra la spettacolarizzazione della pena, attuata soprattutto in questi ultimi anni, spinge verso altri obiettivi. In generale, non si considera che oltre alla privazione della libertà, ci sono provvedimenti altrettanto incisivi, che in molti casi si rivelano meno dispendiosi e più efficaci. Per esempio, l’interdizione alle pubbliche funzioni o la sanzione pecuniaria. Non si comprende, non si vuole comprendere l’idea che la pena non è soltanto mandare chi ha violato le leggi “dietro le sbarre”. Attualmente “dietro le sbarre” ci sono più di sessantamila persone. Vivono in condizioni al limite. A disposizione hanno uno spazio medio inferiore a quello destinato ai maiali negli allevamenti intensivi. Dopo varie condanne da parte degli organi europei, anche il governo ha dovuto ammettere il problema. La scorsa settimana è stato il presidente delle Repubblica, accogliendo una delegazione dei 136 giuristi firmatari di una petizione in favore dell’amnistia (sottoscritta anche da Tempi), ad auspicare un accordo delle forze parlamentari a riguardo. Dal presidente della Repubblica è arrivata una dichiarazione di supporto all’amnistia importantissima. Per quanto si tratti di un intervento tampone, per ragioni umanitarie, sarebbe indispensabile. Non c’è nulla di sorprendente. Periodicamente si è sempre arrivati a questo tipo di provvedimenti. Si tratta, senz’altro, di una misura estemporanea che pone il problema dell’adozione di misure coordinate che non diano luogo a una situazione episodica in un quadro dove non c’è un strategia complessiva sul sistema penale. A parte l’amnistia, quali interventi sono necessari per sanare stabilmente la situazione delle carceri italiane? La discussione deve partire dal sistema penale e non dal carcere. È l’organizzazione della pena che deve essere cambiata. Il principio è quello di individuare la giusta pena e non il “giusto carcere”. Il numero di detenuti dimostra invece che attualmente il carcere non è considerato come residuale al sistema della pena, ma coincide con la pena. In realtà, sono pochi i detenuti colpevoli di reati di reale allarme sociale e la maggior parte non è pericolosa. In termini pratici, bisognerebbe intervenire da subito, effettuando una scrematura della popolazione carceraria, partendo dai molti arrestati per reati bagatellari, in carcere a scontare tre, quattro, cinque mesi. La svuota-carceri è stata un fallimento? È una legge a termine, adottata in attesa dell’attuazione del piano straordinario penitenziario e della riforma complessiva del sistema delle misure alternative. Ha gli stessi problemi di tutti gli interventi timidi e non coerenti di questi anni. Bisogna affrontare una riforma organica. Oltre a incentivare le misure alternative, è necessario procedere con le depenalizzazioni, e infine ripensare alla legge sulla recidiva, che non consente accertamenti sulla pericolosità sociale perché scatta automaticamente e ha portato a chiudere in carcere tantissimi che non lo meritavano. Il 40 per cento della popolazione carceraria è ancora in attesa di giudizio. I magistrati fanno un uso eccessivo della custodia cautelare? La situazione richiede un mutamento culturale e un’assunzione rinnovata di responsabilità anche della magistratura, che della custodia cautelare fa senz’altro ampio uso. Però bisogna ricordare che i comportamenti dei singoli magistrati si collocano in un contesto più ampio che risponde a un sistema normativo dove la sicurezza è sentita come prioritaria. L’attenzione politica è orientata al mantenimento di più ipotesi nelle quali la custodia cautelare deve essere assicurata. È prima di tutto questo sistema di norme non chiaro che tende ad aumentare il ricorso alla custodia cautelare. I magistrati non possono ricorrere anche in questo caso a misure alternative? Il giudice può concederle, strutturare le misure e aumentare il numero laddove ha un servizio di esecuzione penale esterna. Ciò significa: assistenti sociali, educatori, figure istituzionali che garantiscono il giudice. Il tallone d’Achille delle misure alternative sono il domicilio e il lavoro per chi non ce l’ha. Se una persona deve lavorare per vivere, non può farlo senza retribuzione o qualcuno che provveda al mantenimento. Risulta difficile applicare misure alternative se vi è una carenza di strutture organizzative sul territorio. Il ministro della Giustizia Paola Severino ha dichiarato di volere promuovere l’uso delle misure alternative al carcere. In che modo è possibile farlo? Innanzitutto è necessario che le dichiarazioni si accompagnino agli investimenti. Ma attualmente gli operatori che seguono l’esecuzione penale esterna sono quelli con l’organico più lacerato e più ridotto e i tagli si muovono nel contrasto delle misure che si afferma voler promuovere, colpendo quindi soprattutto le misure alternative. In questo quadro non so proprio come potrà essere applicata e a chi la messa alla prova in discussione. Quale cultura può stare alla base di una politica della giustizia efficace? Una cultura impostata sui valori di solidarietà e apertura, che crede al cambiamento dell’uomo. Inoltre sarebbe più d’aiuto ricorrere ai pareri degli operatori e all’aiuto delle istituzioni locali, al posto di attuare iniziative estemporanee che poi si traducono in norme che si stratificano in un sistema impazzito. Giustizia: Osapp; nelle carceri 21.000 detenuti in più, e la magistratura non ci aiuta Asca, 10 ottobre 2012 “Ieri 9 ottobre erano presenti nelle carceri italiane 66.556 detenuti per 45.849 posti ovvero quasi 21.000 detenuti in più, ma, oltre ai problemi del sovraffollamento, delle aggressioni e della carenza di Personale (nel 2012 non saranno rimpiazzati circa 800 Poliziotti Penitenziari che si aggiungeranno ai 7.000 già mancanti in organico ), la Polizia Penitenziaria è sempre più sola rispetto alle altre istituzioni dello Stato” è quanto afferma l’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria) in una nota a firma del Segretario Generale Leo Beneduci. Secondo il sindacalista infatti: “sempre più frequente è l’abitudine dell’autorità giudiziaria che procede, a disporre l’isolamento degli imputati prima dell’interrogatorio di garanzia, andando così a stravolgere la già precaria organizzazione delle carceri a discapito della oramai scarsa aliquota del Personale in servizio nelle sezioni detentive”. “La norma penale prescrive la separazione tra gli imputati ma non l’obbligatorio isolamento soprattutto quando ciò non riguarda le esigenze del procedimento ed è inteso esclusivamente a ‘fiaccarè eventuali resistenze dei soggetti. Auspichiamo quindi - conclude Beneduci - che sulla questione vi sia un puntuale e autorevole intervento della Guardasigilli Severino rivolto ad alleviare i sempre più gravosi e insostenibili incarichi della Polizia Penitenziaria nelle carceri italiane”. Giustizia: la storia di Vincent Rose… quando l’extracomunitario non fa notizia di Valter Vecellio Notizie Radicali, 10 ottobre 2012 Credo che sarà capitato un po’ a tutti, leggendo un giornale, di imbattersi in articoli di cronaca nera dove fin dal titolo si sottolineava che l’autore di una rapina, di un delitto o di un altro crimine era un rumeno, un africano, un extracomunitario. Al contrario mai si sottolinea: italiano rapina, italiano uccide, italiano delinque. Questa storia ha per protagonista un nigeriano, si chiama Vincent Rose. Ha trascorso due anni e tre mesi in carcere, con la prospettiva di trascorrerne altri 18. L’accusa era pesantissima: aver rapito le due figlie, per costringere la madre a prostituirsi. La storia di Vincent comincia il 15 giugno del 2010. Quel giorno Vincent, che parla un italiano molto stentato viene fermato dalla polizia alla stazione di Firenze. Proviene da Palermo, assieme a lui due bimbi, uno di quattro anni, l’altro di due mesi. La denuncia della madre dei due bambini, nigeriana anche lei, è precisa: i piccoli sono stati rapiti, tenuti come ostaggi per costringerla a prostituirsi. Vincent si protesta innocente: dice che è stata la donna ad affidargli i due bambini, perché li portasse via da Palermo, dove conducevano una vita di stenti. Le accuse della donna sembrano credibili, gli inquirenti chiedono ed ottengono l’arresto di Vincent. A questo punto, entra in scena un avvocato di Palermo. Si chiama Ferdinando Di Franco. L’avvocato Di Franco si appassiona alla vicenda. Comincia a ricostruire i movimenti di Vincent e della donna. Dall’analisi dei tabulati risulta che fino a poche ore prima della denuncia i loro telefoni agganciavano la stessa cella. Strano, perché secondo la donna Vincent era fuggito da giorni. I due invece erano insieme. Si cerca la donna, per chiarire come stanno le cose. Niente da fare: è sparita; e non si fa neppure mai viva per chiedere la restituzione dei bambini. Strano comportamento, per una madre. Alla fine il Giudice per le indagini preliminari si convince che non ci sono elementi per aderire alla richiesta dell’accusa che ha chiesto una condanna a diciotto anni. Vincent viene assolto. Ha trascorso però due anni e tre mesi in carcere. Questa volta il mostro straniero da sbattere in prima pagina non c’è, grazie all’incaponirsi di un avvocato; che ha fatto quello che gli investigatori avrebbero dovuto fare e di tutta evidenza non hanno fatto. E il Giudice per le Indagini Preliminari ha esaminato il caso due anni e tre mesi dopo l’arresto. Due anni e tre mesi dopo per giungere alla conclusione che Vincent è innocente, e in carcere non ci doveva stare neppure due giorni o due ore. Per la cronaca: i due bambini sono ancora in un istituto di Firenze. Giustizia: la soluzione dei penalisti, dare la grazia a Sallusti di Anna Maria Greco Il Giornale, 10 ottobre 2012 Sul no al carcere per i giornalisti sono tutti d’accordo, è sulle sanzioni che ancora si discute in commissione Giustizia del Senato. E lì ieri ci sono state le audizioni dei rappresentanti di Anm, Fnsi, Unione cronisti, Unione delle camere penali, Consiglio nazionale forense. Il disegno di legge nato sulla spinta del caso Sallusti, assicura al Giornale il presidente della Commissione Filippo Berselli, sarà “immancabilmente approvato giovedì, in sede deliberante, e poi la palla passerà alla Camera”. Ma sul contenuto del testo che dovrebbe evitare la condanna a 14 mesi di carcere per diffamazione al direttore del Giornale, ancora non c’è chiarezza. Sono stati presentati, infatti, 104 emendamenti che oggi saranno illustrati. Poi saranno dati i pareri. Già si sa che saranno introdotte delle norme che riguarderanno la diffamazione sul web e che la sanzione massima prevista dall’emendamento Chiti-Gasparri per chi compie diffamazione a mezzo stampa sarà di 50mila euro, mentre sarà abolito il minimo di 30mila previsto nel testo-base. Per il resto, sarà il giudice a stabilire la somma da pagare a seconda della gravità del reato. Il nodo riguarda dunque le pene e se per l’Associazione dei magistrati sono necessarie “sanzioni pecuniarie elevate”, per l’Unione cronisti la rettifica dovrebbe bastare a estinguere il reato. Il presidente dei penalisti, Valerio Spigarelli, preferirebbe che la grazia (o misure alternative al carcere) risolvesse il problema Sallusti, per avere il tempo di fare “una buona legge sulla stampa” e non una “scadente”, per colpa dei tempi contingentati. Spiega, infatti, che bisogna evitare “la fretta o una legge che può essere anche ritenuta ad personam”. “Noi - dice Spigarelli - siamo contrari al carcere per i giornalisti, ma questa riforma va fatta bene, tenendo in considerazione anche che di diffamazione si muore moralmente”. Le norme all’esame del Senato, per il penalista, “sono un po’ scollegate, non prendono in considerazione il problema relativo al web”. Anche lo strumento della rettifica “è importante per comprimere il danno, ma non deve far scomparire il disvalore di una condotta in sede penale: vanno cercate sanzioni adeguate per impedire comportamenti diffamatori”. Linea dura, dunque. Ma, obietta il segretario della Fnsi Franco Siddi, attenzione a nuovi bavagli, anche per il web. “Quel che non va bene - dice - è l’idea che la stampa debba essere punita: se si commettono errori gravi è prevista la rettifica di notizie inesatte o false. Questo è lo strumento. Se invece si vuole intimidire la stampa non siamo d’accordo, perché non si può controllare l’informazione o i pubblici poteri”. La Fnsi insiste con la proposta di un “giurì” per garantire entro 7 giorni la riparazione del danno con la rettifica. Toscana: i Garanti; sovraffollamento? facciamo uscire chi è accusato di reati minori Ansa, 10 ottobre 2012 Poi parla dei tagli: “Molti direttori saranno eliminati”. Franco Corleone: “C’è il bisogno di modificare le norme più vergognose della legge Giovanardi. Sulla Spending Review penso che lasciare i carceri a se stessi significhi cancellare ogni garanzia”. “Basta con l’aria fritta. Se si vuole che diminuiscano i detenuti bisogna non fare entrare in carcere persone per fatti di lieve entità sulla detenzione delle sostanze stupefacenti e far uscire i tossicodipendenti. Perciò bisogna modificare le norme più vergognose della legge Giovanardi. Ci vuole poi un decreto legge perché la situazione è di prepotente urgenza, come ha detto il presidente della Repubblica Napolitano. Questo Governo è caratterizzato dall’uso dei decreti legge, uno in più quindi non guasterebbe”. Così il garante dei detenuti del Comune di Firenze Franco Corleone ha illustrato stamane una delle proposte urgenti che i garanti italiani stanno presentando oggi in molte città. Corleone, intervenuto insieme con il garante della Toscana Alessandro Margara, ha sottolineato che lo stato di emergenza in cui versano le carceri italiane (“66.000 detenuti, 20.000 in più della capienza delle strutture”, ha ricordato Margara) offre “tutti gli elementi costituzionali per agire immediatamente”. “Il sovraffollamento si risolverebbe con 10.000 ingressi in meno - ha aggiunto Corleone - e 10.000 uscite di tossicodipendenti. E si potrebbe anche parlare dell’applicazione dell’art. 27 della Costituzione, il trattamento del detenuto per il reinserimento sociale. Altrimenti, tutto il resto è questione per menare il can per l’aia”. Oltre la modifica della legge sulla droga, i garanti chiedono l’eliminazione della legge Cirielli, l’approvazione della legge per l’introduzione del reato di tortura, l’istituzione del Garante nazionale, un provvedimento sull’affettività in carcere, e il rifinanziamento della legge Smuraglia sul lavoro dei detenuti. Per effetto dei tagli introdotti dalla spending review molti direttori di carcere saranno sostituiti dai comandanti della polizia penitenziaria . È una delle “molte brutte notizie” sul mondo delle carceri illustrate stamane dal Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della Toscana Alessandro Margara e dal Garante del Comune di Firenze Franco Corleone che hanno presentato la richiesta di un decreto legge urgente che affronti la questione del sovraffollamento delle carceri. “Saranno eliminate delle direzioni per rispettare le norme della spending review - ha spiegato Corleone -, quindi saranno eliminati gli uffici delle misure alternative a livello nazionale. A livello regionale l’ufficio esecuzione penale esterna che si occupa delle misure alternative in Toscana sarà ridotto a uno e alcune direzioni non ci saranno più. Questo è inaccettabile. Noi abbiamo bisogno di carceri che abbiano un punto di riferimento che coordini il lavoro dell’area della sicurezza, dell’area esecutiva e il rapporto con le Asl per la sanità. Questo è il ruolo di un direttore. Non è possibile abbandonare a se stesse le carceri. Se si vuole risparmiare sul carcere vuol dire che si vuole condannare a morte le persone in carcere”. “Se questi tagli avverranno - ha aggiunto Margara - si cancelleranno completamente tutte le garanzie previste dall’art. 27 della Costituzione”. Campania: la Garante; contro sovraffollamento carceri, modificare legge Fini-Giovanardi Agi, 10 ottobre 2012 “Le condizioni delle pene detentive sono illegali e incompatibili con gli artt. 3 e 27 della Costituzione e con i principi fondamentali delle regole penitenziarie europee”. È quanto dichiara la Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Campania, prof.ssa Adriana Tocco, a margine della conferenza stampa, tenutasi nella Sala Giunta di Palazzo San Giacomo, alla presenza dell’Assessore alle Politiche sociali Comune di Napoli Sergio D’Angelo, il coordinatore dei cappellani di Poggioreale Padre Franco Esposito e del Presidente associazione Carcere possibile onlus avv. Riccardo Polidoro, per sensibilizzare gli organi competenti, riguardo l’invito del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, circa l’intollerabilità della situazioni delle carceri italiane e per chiedere interventi urgenti al Governo, al Parlamento e al Dipartimento Amministrazione Penitenziaria. “Il sovraffollamento - aggiunge la Garante - impedisce la cura della salute, dell’affettività, delle rieducazione, del lavoro, tutti diritti fondamentali di ogni persona, costituzionalmente garantiti. A questo si aggiunge la lentezza delle giustizia, le restrizioni economiche cui è sottoposta anche l’Amministrazione penitenziaria (basti pensare che la base d’asta per il vitto, 3 pasti al dì, è di 3,50euro) e la tipologia sociale dei detenuti, provenienti dagli strati sociali più poveri ed emarginati”. “Poiché - prosegue la Tocco - almeno il 25% dei detenuti sono tossicodipendenti, condannati sulla base della Legge Fini-Giovanardi, per me le priorità tra le richieste contenute nella piattaforma nazionale dei Garanti, sono - sottolinea e conclude - la modifica della Legge sulle tossicodipendenze e l’incremento delle misure alternative, come auspicato dal Presidente della Repubblica”. Puglia: il Garante; dare più occasioni di lavoro ai detenuti… potrebbero bonificare sito dell’Ilva Asca, 10 ottobre 2012 La proposta di Pietro Rossi, Garante dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà della Regione Puglia: “Offrire ai detenuti la possibilità di lavorare alla bonifica dei siti inquinati come l’Ilva”. Un appello alle imprese per far sì che ci siano più occasioni di lavoro per i detenuti. Ad avanzarlo è stato oggi a Bari il Garante dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà della Regione Puglia, Pietro Rossi, presentando in una conferenza stampa la piattaforma di richieste contenente correttivi amministrativi per il contrasto agli aspetti più critici della detenzione. Rossi ha espresso il desiderio che anche nelle bonifiche dei siti inquinati, come quello dell’Ilva, possano trovare impiego. La piattaforma è stata presentata in Puglia come nelle altre Regioni, nelle Province e nei Comuni in cui è presente la figura di tutela del Garante. L’Ufficio pugliese ha inoltre dato vita, con il Provveditorato regionale di amministrazione penitenziaria, ad un’iniziativa che ha consentito ai familiari in visita ai detenuti negli istituti di Foggia, Bari, Taranto e Lecce, di usufruire di momenti di intrattenimento rivolti in particolare ai bambini (spettacoli di burattini, clownerie, trucca bimbi e giocoleria). Negli 11 istituti pugliesi ci sono 4.375 detenuti rispetto a una capienza regolamentare di 2.459 (dati (aggiornati al 30 settembre 2012). Con le richieste, concordate a livello nazionale, si chiede a parlamento, governo ed amministrazione penitenziaria di modificare la normativa sulle droghe e sull’immigrazione clandestina, la legge Cirielli, l’approvazione della legge per l’introduzione del reato di tortura, l’approvazione della legge per l’istituzione del Garante nazionale, l’approvazione di un piano per l’applicazione integrale del Regolamento del 2000, in modo da garantire condizioni di vita accettabili dentro il carcere. Alla presentazione hanno partecipato anche la Garante dei diritti del minore, Rosy Paparella (Sel), e i consiglieri regionali dello stesso partito Anna Nuzziello (Lista “La Puglia per Vendola”) e Franco Pastore (Sel). Calabria: approvata Mozione contro chiusura carcere Laureana, ma ora rischia anche Lamezia Ansa, 10 ottobre 2012 “Particolare soddisfazione” viene espressa dal consigliere regionale della Calabria, Candeloro Imbalzano (Lsp) per l’approvazione da parte dell’Aula della mozione da lui presentata, diretta a scongiurare la minacciata chiusura del carcere di Laureana di Borrello (Rc). “Unica struttura italiana a custodia attenuata, l’istituto penitenziario rappresenta una vera e propria risorsa per i tanti giovani che hanno deciso di intraprendere un percorso di riabilitazione e di reinserimento sociale - rilancia Imbalzano. Un modello in cui hanno tenacemente creduto i detenuti, le loro famiglie, lo stesso Dipartimento e l’intera società civile, pur in un contesto nazionale assai allarmante. Proprio per questo, la decisa posizione che il Consiglio, nella seduta odierna, ha assunto, accogliendo anche la nostra proposta, va salutata positivamente nella consapevolezza che la speranza di cambiamento faticosamente costruita in questi anni non può andare dispersa”. Lamezia: il Sindaco scrive al capo del Dap “no a chiusura del carcere” Il sindaco di Lamezia Terme, Gianni Speranza, ha scritto al capo Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Giovanni Tamburino, al presidente Provveditorato regionale dell’Amministrazione Penitenziaria della Calabria, Salvatore Acerra, e ai parlamentari lametini per esprimere preoccupazione in merito a notizie circa la chiusura della casa circondariale lametina. “Mi è stata riportata, - si legge nella lettera - più volte e da più persone, la notizia addirittura trasmessa dal Tgr della Calabria secondo la quale oltre alla chiusura, già avvenuta, della struttura penitenziaria di Laureana di Borrello, sarebbe imminente analogo provvedimento per la casa circondariale di Lamezia Terme. La notizia ha avuto ampia diffusione anche sugli organi di stampa e ha ingenerato un clima di grande allarme tra i cittadini, gli operatori penitenziari nonché tra i detenuti e le loro famiglie”. ‘Conoscendo l’attenzione - prosegue Speranza - con cui seguite tutte le strutture presenti sul territorio nazionale ritengo superfluo, in questa sede, sottolineare l’importanza che la struttura della casa circondariale di Lamezia Terme ha non solo per la città ma per l’intera Regione”. Il sindaco ha concluso la lettera chiedendo ai vertici dell’Amministrazione penitenziaria di essere informato ed anche eventualmente di poterli incontrare; ai parlamentari lametini di verificare la fondatezza di questa notizia e di prendere un’iniziativa verso il Ministero della Giustizia. Lazio: il Garante; nelle carceri assistenza religiosa e diritto al culto non appaiono una priorità Ristretti Orizzonti, 10 ottobre 2012 Il loro rispetto viene assicurato, all’interno di ciascun istituto, con modalità operative figlie delle buone pratiche quotidiane e della responsabilità dei singoli operatori nell’evitare rapporti conflittuali. Nonostante la varietà delle confessioni presenti, nelle carceri spicca la centralità della figura del cappellano cattolico nell’opera quotidiana di tutela del diritto universale al culto. È questo il quadro che emerge dalla ricerca L’assistenza religiosa in carcere - Diritti e diritto al culti negli istituti di pena del Lazio, condotta in 10 dei 14 Istituti di pena della regione dal Centro Studi e Documentazione su Religioni e Istituzioni Politiche nella Società Postsecolare (Csps) dell’Università di Roma Tor Vergata, con il contributo del Consiglio Regionale e del Garante dei detenuti. “Garantire il rispetto delle diversità religiose sta diventando una priorità - ha detto il Garante dei detenuti Angiolo Marroni - Tra le molte questioni legate al mutamento multiculturale e multi religioso della popolazione carceraria vi sono, infatti, anche quelle legate al rispetto del culto di ognuno e del diritto dei detenuti di praticare il proprio credo. Nelle condizioni in cui, attualmente, versa il sistema penitenziario italiano, credo che una piena tutela del diritto alla Fede possa contribuire a migliorare la qualità complessiva della vita in carcere”. Nelle carceri del Lazio sono presenti 7.130 reclusi, oltre 2.300 in più rispetto alla capienza regolamentare. La popolazione carceraria straniera (quasi il 40% dei reclusi) rappresenta oltre 150 diverse nazionalità. Una pluralità che rispecchia il mutamento in senso multiculturale della società italiana legato a processi di globalizzazione ed immigrazione. Accanto a tutto il resto, muta anche il panorama religioso nazionale che, da una composizione largamente cattolica, si avvia verso una pluralizzazione delle appartenenze religiose. In altri termini, pur in assenza di dati ufficiali, il pluralismo religioso nelle carceri è più forte di quanto non si percepisca. La ricerca (scaricabile nella versione integrale dal sito www.csps.uniroma2.it) ha mappato le modalità con cui le carceri assicurano l’assistenza religiosa e rispondono al diritto al culto, mediante 103 interviste realizzate a coloro che sono più coinvolti su tale versante (direttori e vice direttori, educatori, agenti di polizia penitenziaria, psicologi, mediatori, volontari, cappellani, ministri di culto o referenti di diverse confessioni). Dal lavoro emerge che l’assistenza religiosa e il diritto al culto, oltre a non essere oggetto di programmazione, non fanno parte dei percorsi di formazione degli operatori penitenziari. La religione non rientra fra le informazioni raccolte sui detenuti all’ingresso in carcere, perché considerata un tratto intimo e privato dei reclusi. E nella vita quotidiana in carcere è carente, per gli stessi motivi, una comunicazione efficace dei diritti riguardanti la professione religiosa. Il sistema penitenziario regionale non è, però, insensibile a tali problemi, anche se le risposte nascono più dalle buone pratiche quotidiane e dalla buona volontà degli operatori che non da una efficace pianificazione istituzionale. La ricerca mette in evidenza la citata centralità della figura del cappellano cattolico, che non solo garantisce diversi aspetti dell’assistenza (materiale, umano, spirituale, religioso) ma interviene anche nelle problematiche legate agli altri culti, anche se con intensità diversa a seconda delle confessioni. Funge da mediatore ed organizzatore nell’attività dei ministri ortodossi, cui mette a disposizione gli spazi di culto, e provvede spesso alle necessità dei musulmani. È, invece, meno legato all’attività dei protestanti ed è distante dai Testimoni di Geova, con i quali si avverte una più o meno esplicita tensione. Il cappellano gioca un ruolo importante anche nella diffusione dei testi sacri di altre confessioni (spesso facilita l’accesso al Corano ai musulmani) e nel favorire, con la propria intercessione, l’ingresso in carcere di altri ministri di culto (vale per gli ortodossi). La ricerca evidenzia come, invece, sia carente l’assistenza non cattolica. I ministri incontrati sono Testimoni di Geova (33), delle varie famiglie del Protestantesimo (6) e delle Chiese Ortodosse (4). È evidente, considerando la numerosità dei musulmani, l’assenza di imam che svolgano regolarmente il servizio (ad eccezione del periodo del Ramadan). Una situazione, per altro, poco funzionale rispetto all’esigenza di sicurezza e controllo dei rischi di proselitismo e integralismo. La centralità della religione cattolica si rivela sull’analisi degli spazi per il culto e la preghiera. A fronte di una capillare presenza di cappelle, sono scarsi gli spazi per le altre confessioni. Il carcere di Civitavecchia può essere citato per i pregevoli spazi dedicati al culto buddista, mentre a Cassino e Viterbo piccole salette o ex-camere di detenzione sono state messe a disposizione dei musulmani per la preghiera del Venerdì o per essere adibite a moschea. Carenza di spazi, diversità fra religioni e complessità dei riti rendono difficoltosa la gestione della celebrazione dei culti in carcere. Rara risulta, ad esempio, l’osservanza della preghiera del Venerdì secondo i precetti dell’Islam. Solo in un paio di istituti questo momento è rispettato. Sostanzialmente rispettate in tutte le carceri, invece, le regole del Ramadan, grazie anche all’intervento di comunità esterne come l’Ucoii (Unione delle Comunità Islamiche in Italia) e l’Alcumi (Alternativa Culturale dei Marocchini in Italia). L’alimentazione differenziata in funzione dei culti è, invece, un principio pacificamente accettato. La domanda di menù su base religiosa proviene dai musulmani (si ha una media indicativa di 50 richieste; nei due istituti più ampi considerati, Rebibbia N.C. e Regina Coeli, il numero sale rispettivamente a 250 e 190). La criticità è rappresentata dall’assenza di cucine aderenti alle tradizioni religiose, come la cucina halal per l’Islam o la cucina kasher per l’Ebraismo. Nelle conclusioni del lavoro del Csps sono indicati alcuni suggerimenti per innalzare il livello della tutela del diritto al culto in carcere. Fra le indicazioni, la formazione del personale; l’invito a una riflessione sulla riforma dell’istituto del cappellanato sulla base di quanto accaduto nel sistema penitenziario inglese; l’apertura di spazi multi-fede e, più in generale, l’invito a pensare una piena implementazione dell’assistenza religiosa come risposta di diritto ai rischi di radicalizzazione religiosa in carcere. Lecce: servizio di “Striscia la notizia”; all’Ipm 28 dipendenti e zero detenuti, spreco di 5 mln euro Ansa, 10 ottobre 2012 Stasera a Striscia la Notizia Fabio e Mingo hanno denunciato “uno spreco di denaro pubblico al carcere minorile di Lecce, già al centro di un servizio del Tg satirico del maggio 2009”. Lo rende noto un comunicato dell’ufficio stampa di Striscia la notizia. “Nell’istituto di detenzione, svuotato nel 2007 per lavori di ristrutturazione, non vi erano più detenuti, ma continuavano a lavorare ben 28 dipendenti pubblici. A distanza di cinque anni, - viene anticipato nella nota - non è ancora cambiato nulla. Gli stessi dipendenti avrebbero addirittura richiesto il pagamento degli straordinari per le ore notturne trascorse all’interno del carcere. I costi di mantenimento del personale della struttura sarebbero di circa un milione di euro all’anno, che, moltiplicato per i cinque anni di inattività della casa di correzione, ammontano a ben cinque milioni di euro”. “Come nel 2009, nessuno dei dipendenti - è detto ancora nel comunicato - è disposto a rilasciare alcuna dichiarazione. Nicola Petruzzelli, Direttore del carcere minorile di Bari e Lecce, viene raggiunto telefonicamente dagli inviati e in merito alla vicenda dichiara: “Siamo in attesa del provvedimento di eventuale riattivazione, che è di competenza dell’amministrazione centrale”. Riguardo alla richiesta del pagamento degli straordinari da parte dei dipendenti, replica: “Lo straordinario se si fa, si fa per esigenze operative e per i casi previsti dalla normativa”. Catanzaro: apparecchio radiologico rotto, 45 detenuti in attesa di esami diagnostici di Sergio Costanzo (Commissione Lavori Pubblici) Quotidiano di Calabria, 10 ottobre 2012 Da dieci mesi l’apparecchio radiologico principale dell’Istituto penitenziario di Catanzaro è fuori uso e decine di detenuti, bisognevoli di accertamenti sanitari, attendono che l’Asp lo faccia riparare. Tutto ciò mentre il direttore generale non trova di meglio che spendere migliaia di euro per abbellire i suoi uffici di Via Cortese, (dall’inizio dell’anno la spesa complessiva per i soli lavori della direzione generale pare ammonti a più di 100mila euro). Consapevole che una eventuale diagnosi possa essere importante per i detenuti, il sanitario dell’Istituto di pena, lo scorso 21 settembre, ha inviato un’apposita comunicazione al dg Gerardo Mancuso, mettendolo al corrente che si avvarrà di strutture esterne. Quali gli effetti di questa decisione? Che ben 45 detenuti dovranno essere trasferiti presso altri nosocomi o strutture per completare il loro iter diagnostico, con conseguente aggravio di costi di personale e mezzi per l’Istituto di pena, costi che indubbiamente si sommeranno a quelli che dovrà affrontare l’Asp per pagare le prestazioni alle altre aziende”. “Ma c’è di più. Anche la radiologia sociale di Via Paparo da mesi attende la riparazione di un altro apparecchio diagnostico. Qui la situazione è davvero ridicola. La ditta Girardoni, infatti, interpellata per la riparazione, risponde a mezzo fax di non poter dare indicazioni sulla data del richiesto intervento “dovendo dare priorità ai clienti in regola con i pagamenti”. E quale è il debito dell’Asp nei confronti di questa ditta? Lo scaduto - viene evidenziato nello stesso fax - ammonta a soli 3.853 euro e si riferisce ad una fattura del 30.1.2011. Insomma, per circa 4.000 euro la radiologia sociale non eroga prestazioni da mesi. Bel risparmio! Sempre per gli elettromedicali, un’altra ditta, la AEP Medica ha diffidato l’Asp per oltre 200mila euro di fatture arretrate non pagate, chiedendo il saldo delle stesse entro il 30 settembre. Cosa naturalmente non avvenuta. È normale tutto questo? A noi pare proprio di no. Così come non riteniamo normale continuare a spendere migliaia di euro per lavori non necessari, come quelli della direzione generale per i quali abbiamo ricevuto diverse segnalazioni e lamentele da parte di altri servizi i cui locali sono davvero indecenti, come ad esempio quelli della sala mortuaria di Soverato: una vera e propria offesa alla dignità dell’uomo! Vada il dg a Soverato e guardi dove vanno a finire i morti del nosocomio. Dove sono le autorità preposte al controllo e alla vigilanza?”. “Questi sono solo tre casi emblematici che riguarda il settore elettromedicale, ma ormai all’Asp di Catanzaro alcune ditte attendono anni prima di essere pagate. I cosiddetti 90 giorni data fattura sono ormai diventati 900, e ciò con notevole aggravio di costi per azioni legali e interessi rivendicati dalle ditte fornitrici. Al presidente Scopelliti chiediamo di porre fine a questo andazzo. I cittadini hanno il diritto di avere servizi efficienti e soprattutto risposte immediate. Sbandierare ai quattro venti risparmi di milioni di euro, senza offrire adeguati servizi ai nostri pazienti non è certamente oculata amministrazione”. Trento: quel teatro in carcere che libera dal dolore e fa sognare un Oscar di Maria Viveros Il Trentino, 10 ottobre 2012 Sguardo puntato sul documentario cinematografico con “Scuola d’autore”. Il progetto dell’Iprase , ideato da Amedeo Savoia e Giulio Mozzi, propone agli insegnanti di lettere delle scuole superiori un’attività di ricerca educativa, finalizzata all’azione didattica, con la partecipazione dei protagonisti della cultura contemporanea italiana. Oggi alle ore 14.30, presso il Centro audiovisivi Format di Trento, interverrà Fabio Cavalli, regista teatrale attivo all’interno del carcere romano di Rebibbia e co-sceneggiatore, insieme ai fratelli Paolo e Vittorio Taviani, di “Cesare deve morire”, il film che ha vinto l’Orso d’Oro all’ultima edizione del Festival del cinema di Berlino. Cavalli, com’è stato costruito questo film? È stato scritto battuta per battuta fra luglio 2010 e febbraio 2011. Inizialmente pensavamo di realizzare un documentario. È stato un lavoro lungo e complesso e ci siamo serviti di attori che, con tanto di diploma rilasciato dalla Regione Lazio, possono interpretare di tutto. Grazie al lavoro dei Taviani e del direttore della fotografia Simone Zampagni, ci si dimentica di trovarsi in una galera e Shakespeare è vivo nelle parole degli interpreti. Come è cominciata la sua attività all’interno del carcere di Rebibbia? L’inizio è stato del tutto casuale. Un amico mi ha chiesto di aiutare dei reclusi a mettere in scena “Napoli Milionaria” di Eduardo De Filippo. Gli attori, privi degli strumenti della drammaturgia, erano abituati a guardare la videocassetta della rappresentazione di questo testo così complesso e a imitare ciò che vedevano. Pensavo di lavorare con loro per due mesi e invece sono lì da 10 anni durante i quali ho attrezzato un teatro di 400 posti e ho creato un teatro stabile, dove si formano dei veri talenti. Lei lavora all’interno della sezione di Alta Sicurezza, l’ala del carcere in cui si trovano i condannati per camorra, mafia, traffico internazionale di droga, armi. Vi è entrato con pregiudizi? Ciò che i reclusi hanno fatto non mi riguarda. Io lavoro con gli uomini. Vivono in un regime penitenziario rigidissimo e chi è refrattario a svolgere le attività proposte ha diritto solo a due ore d’aria. Chi, invece, vuole uscire dalla propria cella ha la possibilità di scegliere se frequentare la scuola media superiore o facoltà universitarie che hanno sedi interne, dedicarsi al teatro. Il carcere quindi risponde a quanto viene sancito nell’articolo 27 della Costituzione, secondo cui le pene devono tendere alla riabilitazione del condannato. Non tutte le carceri offrono queste opportunità. Tutto dipende dai direttori, che ne sono i comandanti assoluti. Sono importanti anche le scelte del ministro di turno e la legislazione. Purtroppo il carcere in questi ultimi 20 anni è stato considerato una discarica umana, per distogliere l’opinione pubblica da altri problemi. È grave utilizzare la delinquenza, che certamente va fermata, non per risolvere il problema della sicurezza sociale, ma per ottenere voti. I condannati si trovano a vivere in uno stato di cattività paragonabile a quello degli animali. Con la Bossi-Fini e la Fini-Giovanardi è aumentato il numero dei detenuti, ma non quello dei posti letto. Il nuovo complesso di Rebibbia ha 1.800 detenuti a fronte dei 1.250 posti disponibili. Tuttavia riesce, nonostante la disperata condizione di sovraffollamento, a essere uno degli istituti di pena meno punitivi in Italia grazie all’illuminata direzione di Carmelo Cantone. Il mese scorso a lui è subentrato Mauro Mariani che sta dando continuità a quanto è stato fatto fino a ora. Cosa rappresenta per i detenuti l’esperienza teatrale? Questa attività dimostra che attraverso l’arte si può cominciare un percorso di liberazione dal dolore. È una forma di prevenzione lontana dalla logica spietata del carcere come legge sociale. I numeri dimostrano che i reclusi che si dedicano all’attività teatrale una volta in libertà hanno una minore probabilità di tornare a commettere reati. Adesso stiamo monitorando a livello europeo il ruolo del carcere. È un’opportunità per creare protocolli scientifici che dimostrino quale funzione può avere l’arte nei riguardi delle probabilità di recidività. Abbiamo incontrato più di 150 detenuti per vari reati e, mentre la recidività si attesta sul 60%, per chi fa teatro si abbassa a circa il 5%. Come rispondono i detenuti a questa attività? E il pubblico? Cento detenuti sono coinvolti in tre compagnie e abbiamo una lista di attesa per entrarvi. Dal 2006 il teatro di Rebibbia ha avuto 25.000 spettatori, tanto da essere uno dei primi otto di Roma per afflusso di pubblico. Uno spettacolo teatrale è la conclusione di un percorso e questa è stata la ragione fondamentale di “Cesare deve morire”, che ha permesso di gettare una luce diversa sulle carceri. Anche in un luogo disperato, la parola altissima dei poeti è in grado di riorientare la visione del mondo degli attori, che si riscattano attraverso l’arte, e degli stessi spettatori. L’arte, la bellezza, che relazione hanno con la giustizia? Giustizia è un termine usato a sproposito. È un concetto alto, filosofico. L’unione di Giustizia e Bellezza risale ad Aristotele secondo cui, attraverso la catarsi, lo spirito si libera momentaneamente dai vincoli della carne. È in carcere che avviene la catarsi. Temi come il coraggio nell’affrontare la detenzione, il dolore, la violazione dei diritti civici, l’umiliazione, qui vengono a essere rappresentati all’estremo grado. C’è qualcosa di unico che promana da questo luogo, perché è uno spaccato di umanità che raccoglie sentimenti che non si trovano altrove. I grandi autori del passato hanno scritto parole che risuonano sulle labbra dei nostri attori in modo diverso da come risuonerebbero da attori “normali”. L’episodio di Paolo e Francesca, per esempio, mi era oscuro finché non l’ho sentito declamare in napoletano antico da uno di loro. Nei parlatori il recluso stringe la mano della sua compagna e quella è la stessa stretta di Paolo e Francesca che, pur essendo vicini l’uno all’altra, sanno che non potranno mai vivere il loro amore. Un carcerato, infatti, ha una pena aggiuntiva, la privazione dell’affettività e della sessualità. La sua compagnia è composta da soli uomini. Su 67.000 detenuti nelle carceri italiane, le donne sono 2.800. Il rapporto fra l’attitudine alla delinquenza e il maschio ci dice che le donne rappresentano il futuro della redenzione dal male. Bologna: luci e ombre al Pratello, solo il teatro si salva La Repubblica, 10 ottobre 2012 I garanti Bruno e Fadiga hanno fatto visita al carcere minorile dopo l’insediamento del nuovo direttore. Le stanze ricalcano quelle di una struttura per adulti, il cortile è piccolo. Bene il laboratorio di cucina. I tavoli e i letti sono cementati a terra; porte di ferro con spioncino, cancelli divisori. Un cortile troppo piccolo per ospitare tutti. Il verde manca. È così che viene descritto un carcere, ma le immagini colpiscono ancora di più quando la struttura è un carcere minorile. Quello del Pratello, a Bologna. Sono istantanee scattate dal garante regionale dei detenuti Desi Bruno e da quello dell’Infanzia Luigi Fadiga, che si sono recati in via del Pratello dopo l’insediamento del nuovo direttore, Alfonso Paggiarino. Ciò che dà un po’ di luce è la positiva attività teatrale, da anni guidata dal regista Paolo Billi. Ma solo cinque ragazzi sui diciotto detenuti ora sono coinvolti. Positivo anche il laboratorio di cucina, con fondi provinciali l’ente Fomal che forma nove ragazzi. Ai cuochi in erba è però preclusa la preparazione dei pasti interni. Si gioca in un malmesso campetto di calcio in una gabbia di rete e ferro, simile a una voliera. Apprezzato anche l’impegno del direttore in questa pesante situazione, ma i mezzi economici “paiono essere del tutto insufficienti”. L’Istituto ha un coordinatore tecnico e due educatori part-time con contratto in scadenza a fine anno; sottorganico i 24 agenti di polizia penitenziaria. I Garanti chiederanno un incontro al Capo dipartimento di Giustizia minorile, Caterina Chinnici. Ferrara: carcere-teatro, attori e detenuti sul palco per parlare di giustizia, amore e amicizia La Nuova Ferrara, 10 ottobre 2012 Il teatro come ponte tra il carcere e la società civile, come luogo di contatto tra i detenuti e i cittadini. È questa l’idea che fin dal 2005 anima il laboratorio curato dal Teatro Nucleo nella Casa Circondariale di Ferrara e che ha condotto all’allestimento dello spettacolo in programma domani, giovedì 11 ottobre, alle 21 al Teatro Comunale. In scena ‘Cantiere Woyzeck’, rielaborazione del testo di Georg Buchner, interpretata da una decina di attori, parte dei quali carcerati o ex carcerati. “L’iniziativa laboratoriale che da diversi anni ormai - ha ricordato stamani in conferenza stampa l’assessore comunale alla Sanità e Servizi alla Persona Chiara Sapigni - Horacio Czertok conduce all’interno del carcere di Ferrara, con il sostegno dell’Amministrazione comunale della Fondazione Carife, rappresenta un’attività di rieducazione che restituisce dignità ai detenuti, favorendo in loro il recupero di un ruolo nella società”. “Diversi ed evidenti - ha confermato infatti il direttore del carcere Francesco Cacciola - sono gli effetti, in termini di miglioramento degli atteggiamenti, che abbiamo riscontrato in questi anni nei detenuti grazie alla partecipazione all’attività teatrale”. Un’attività che nei giorni scorsi ha ottenuto anche un riconoscimento del Presidente della Repubblica, una medaglia ricevuta da Czertok come premio di rappresentanza proprio per lo spettacolo Cantiere Woyzeck. “Un riconoscimento che mi riempie di orgoglio - ha dichiarato il direttore del Teatro Nucleo - per un lavoro che non sarebbe stato possibile senza la collaborazione del direttore del carcere, della polizia penitenziaria e dell’Amministrazione comunale e che conferma la funzione sociale del teatro sia per i detenuti che diventano attori di un processo di recupero, sia per il pubblico che può assistere agli effetti di questo processo”. Lo spettacolo in scena domani, come spiegato ancora dal regista, è il frutto di un lungo lavoro di studio sul testo di Buchner, che ha coinvolto negli anni circa duecento detenuti e ha portato alla realizzazione di otto diversi allestimenti, due dei quali giunti in teatro e gli altri presentanti solo in carcere. “Sarà una rappresentazione improntata sulla musica - ha svelato Czertok - e si parlerà di giustizia, amore e amicizia”. “Quella condotta nel carcere di Ferrara - ha concluso il Garante dei detenuti Marcello Marighelli - è un’iniziativa che assume il carattere di modello per altre città e grazie al contatto reale con il pubblico offre un’importante occasione di incontro tra cittadini e detenuti, sfruttando la capacità di mediazione del teatro”. Udine: dai detenuti anche un rap per l’arcivescovo in visita pastorale Asca, 10 ottobre 2012 Perfino un rap per l’arcivescovo di Udine, mons, Andrea Bruno Mazzocato, da parte dei detenuti del carcere di Udine. Gliel’hanno cantato a conclusione della visita pastorale, che si è svolta in due tappe. Oggi pomeriggio l’incontro con i ristretti, nel cortile del passeggio, alcuni giorni fa con il personale della casa circondariale. Prima di entrare nel penitenziario, mons. Mazzocato, ha auspicato che si possano creare, anche a livello parlamentare. Le condizioni perché si concretizzi l’auspicio del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, per l’indulto e l’amnistia. “La Chiesa - ha aggiunto - è molto sensibile alle misure alternative al carcere, per contribuire a risolvere il problema del sovraffollamento, ma anche perché all’interno dei nostri penitenziari sia garantita la dignità per i detenuti”. La situazione di Udine è stata puntualmente illustrata dalla direttrice Irene Iannucci: 200 i presenti, capacità tollerata 150. I rappresentanti degli agenti penitenziari hanno dal canto loro osservato che sono in sotto organico di 40 unità. “Con la crisi ci sono i tagli, ma il Governo deve farli al posto giusto” ha detto l’arcivescovo. “Certo, non bisogna tagliare le gambe”, ha osservato un detenuto. “Appunto” ha concluso l’arcivescovo, assicurando la disponibilità della Chiesa diocesana di Udine e in particolare della città di farsi carico, per quanto possibile, dei problemi del reinserimento. Verona: “Tra Mura Les”, una mostra, un percorso didattico e tre tavole rotonde per capire… Ristretti Orizzonti, 10 ottobre 2012 Dal 20 al 28 ottobre 2012 al Convento San Bernardino una mostra, un percorso didattico e tre tavole rotonde per capire che il carcere deve essere soprattutto rieducazione e riabilitazione. Otto giorni per riflettere e cambiare punto di vista, per andare oltre all’aspetto punitivo del carcere e promuoverne gli aspetti educativi, riabilitativi, ma anche il dramma umano: è la proposta di “Tra mura les”, in programma dal 20 al 28 ottobre 2012 al Convento San Bernardino, in via Provolo 28 a Verona. Si tratta di un’iniziativa promossa dall’associazione La Fraternità, che invita singole persone, gruppi e scolaresche a visitare una mostra di dipinti realizzati dai detenuti del carcere di Montorio e l’esposizione di prodotti artigianali nati nella sezione femminile. Inoltre, mette disposizione , opuscoli e documenti per approfondire la tematica, propone un percorso didattico dal titolo “L’immagine riflessa” e mette a disposizione la ricostruzione fedele di una cella del carcere, completa di arredo. L’inaugurazione è prevista per sabato 20 ottobre, alle ore 16.00. Nei giorni seguenti, “Tra mura les” sarà a disposizione del pubblico dalle 10.00 alle 12.30 e dalle 15.00 alle 18.30, ma i volontari della Fraternità, su richiesta (tel/fax. 0458004960), potranno essere presenti ed accompagnare le scolaresche nella visita anche in orari diversi. Nell’arco della settimana verranno proposte anche tre tavole rotonde con inizio alle 18.00: martedì 23 ottobre si rifletterà su “Un’altra idea di giustizia; responsabilità, riparazione, uno sguardo alle vittime”, giovedì 25 sarà la volta di “Famiglie e associazioni di volontariato: parliamone tra noi”, sabato 27 verrà presentato il Dvd “Raccontamela giusta; attorno al carcere”, con la partecipazione di Roberto Puliero. “Il carcere non è la soluzione ma una soluzione - spiega Francesco Sollazzo, presidente della Fraternità -, ed è in questa realtà che la nostra associazione lavora con impegno giornaliero, con passione e con tanta voglia di donare ai detenuti e ai loro familiari dei momenti di serenità; ai primi con le attività in carcere agli altri con le attività periodiche di ascolto. “Oggi nel 2012 questa frase la sento ancora attuale anche se molto è stato fatto, - continua Francesco Sollazzo, ma non è ancora abbastanza: dobbiamo moltiplicare i nostri sforzi affinché la società civile si accorga di un mondo che non è solo il carcere, il detenuto, la polizia penitenziaria ma è fatta di un mondo che ruota intorno e che spesso fa finta di sapere, di non vedere”. La Fraternità è un’associazione di volontariato di ispirazione cristiana e francescana, ma aperta a chiunque ne condivida le finalità: il sostegno morale ai detenuti ed alle loro famiglie, per accompagnare i percorsi di recupero e riparazione, per sensibilizzare l’opinione pubblica e le istituzioni sul significato della pena e sui problemi del carcere. Tra i progetti in corso di realizzazione, la costruzione e gestione di un “Centro d’ascolto” davanti al carcere di Montorio. Per informazioni: www.lafraternita.it. Droghe: Serpelloni (Dpa); misure alternative per tossicodipendenti, vanno curati fuori da carcere Agi, 10 ottobre 2012 “La tossicodipendenza è una malattia prevenibile, curabile e guaribile e che deve trovare soluzioni fuori dal carcere”. È quanto ha sottolineato Giovanni Serpelloni, capo del Dipartimento politiche antidroga, aprendo i lavori della seconda giornata relativa alla nascita del Consorzio di Solidarietà, dedicata alla problematica delle misure alternative per i detenuti tossicodipendenti e all’esperienza americana dei tribunali speciali (Drug Courts). Il ministro della Cooperazione Andrea Riccardi, in questi giorni, ha più volte sottolineato come sia necessario fare di più per trovare percorsi alternativi per i detenuti tossicodipendenti e avviarli verso un percorso di guarigione al di fuori del carcere dove la vita è insostenibile. “I detenuti i tossicodipendenti - ha spiegato il capo del Dpa - non possono essere considerati dei criminali solo per il fatto di usare sostanze stupefacenti e il carcere non è luogo di cura e riabilitazione della tossicodipendenza; è necessario quindi rimodulare meglio gli interventi rivolti a queste persone, approfittando della necessità che debbano scontare una pena, trasformandola così in una occasione di un vero recupero sociale e lavorativo”. Ancora prima, ha puntualizzato Serpelloni, “dovremo prevedere nuove procedure che possano evitare addirittura l’entrata in carcere delle persone tossicodipendenti che commettono reati in relazione con la loro malattia. È ovvio che per realizzare questo bisognerà trovare una forte collaborazione con i sistemi sanitari regionali”. Droghe: Brogi (Pd); percorsi alternativi per i tossicodipendenti, abrogare la legge Giovanardi Adnkronos, 10 ottobre 2012 “Le parole del presidente Napolitano sulla vergogna delle carceri italiane sono ancora lì, pesanti come un macigno, ma la politica, se si escludono poche eccezioni, sembra non accorgersene, evidentemente distratta da altre vicende. Ma non possiamo continuare ad assistere inermi all’escalation di sovraffollamento, situazioni limite, nuovi suicidi di detenuti”. Lo ha detto Enzo Brogi, consigliere regionale del Pd, che stamane è intervenuto alla conferenza stampa di Sandro Margara e Franco Corleone nell’ambito dell’iniziativa nazionale del coordinamento dei Garanti ‘Subito un decreto legge per eliminare il sovraffollamento in carcere. Occorre ripristinare i termini della legalità nel nostro paese: il carcere deve tornare ad essere luogo anche di rieducazione, cosa impossibile nelle attuali condizioni degli istituti. Eppure, basterebbe prevedere sul serio misure alternative per i tossicodipendenti detenuti, cioè circa il 40% della popolazione carceraria, una cosa incredibile, resa tale dalla famigerata legge Giovanardi”. “Per quanto mi riguarda - ha aggiunto Brogi - continuerò a occuparmi della situazione carceraria in Toscana, questione che riguarda anche gli agenti di polizia penitenziaria, a cui va la mia personale solidarietà per il lavoro che svolgono in condizioni drammatiche. Nei prossimi giorni sarò al carcere di San Gimignano, struttura tra le più difficili nella regione, dove recentemente c’è stato un tentato suicidio e un incendio, che hanno avuto ripercussioni gravi anche su un agente, per continuare il mio viaggio tra gli istituti toscani”, ha concluso Enzo Brogi. Droghe; Capece (Sappe); no a reclusione per tossicodipendenti, bene impegno Riccardi Adnkronos, 10 ottobre 2012 “Il Sappe è impegnato per incrementare l’utilizzo del ricorso alle misure alternative al carcere delle persone tossicodipendenti recluse. Per questo giudichiamo importanti e positivi gli sforzi che sta compiendo nell’analoga direzione il ministro per la Cooperazione, Andrea Riccardi”. È quanto afferma Donato Capece, segretario generale del sindacato autonomo polizia penitenziaria. “Nelle carceri italiane - sottolinea il leader del Sappe - più del 25% circa dei detenuti è tossicodipendente e anche il 20% degli stranieri ha problemi di droga. Se per un verso è opportuno agire sul piano del recupero sociale, è altrettanto necessario disporre di adeguate risorse per far fronte alla possibilità che all’interno del carcere entri la droga. Alcuni recenti fatti di cronaca - prosegue il sindacato dei baschi azzurri - hanno dimostrato che è sempre più frequente il tentativo, anche da parte dei detenuti appena arrestati o di familiari e amici di ristretti ammessi a colloquio, di introdurre sostanze stupefacenti all’interno degli istituti penitenziari”. “Spesso - fa notare Capece - è la professionalità della polizia penitenziaria a consentire di individuare i responsabili e di denunciarli all’autorità giudiziaria, ma ciò non è sufficiente. Nonostante l’Italia sia un Paese il cui ordinamento è caratterizzato da una legislazione all’avanguardia per quanto riguarda la possibilità che i tossicodipendenti possano scontare la pena all’esterno, i drogati detenuti in carcere sono tantissimi”. “La legge - ricorda ancora - prevede che i condannati a pene fino a sei anni di reclusione, quattro anni per coloro che si sono resi responsabili di reati particolarmente gravi, possano essere ammessi a scontare la pena all’esterno, presso strutture pubbliche o private, dopo aver superato positivamente o intrapreso un programma di recupero sociale. Nonostante ciò queste persone continuano a rimanere in carcere”. “Riteniamo sia invece preferibile - conclude Capece - che i detenuti tossicodipendenti, spesso condannati per spaccio di lieve entità, scontino la pena fuori dal carcere, nelle comunità di recupero, per porre in essere ogni sforzo concreto necessario ad aiutarli ad uscire definitivamente dal tragico tunnel della droga e, quindi, a non tornare a delinquere. I detenuti tossicodipendenti sono persone che commetto reati in relazione allo stato di malattia e quindi hanno bisogno di cure piuttosto che di reclusione”. Iran: Ihr lancia allarme, domani a Evin saranno giustiziati 10 detenuti Aki, 10 ottobre 2012 È prevista domani mattina l’esecuzione di 10 detenuti iraniani nel carcere di Evin, a Teheran. A lanciare l’allarme è l’ong Iran Human Rights che cita fonti affidabili nella Repubblica Islamica, secondo le quali nelle ultime ore i 10 prigionieri sono stati trasferiti dal carcere di Ghezelhesar nelle celle di isolamento a Evin. Un’altra Ong che si batte contro la pena di morte “Giustizia per l’Iran” ha pubblicato i nomi di 5 dei detenuti in attesa di essere giustiziati. Sono Saeed Sedighi, Abbas Namaki, Hamid Rabiei, Mohammad Ali Rabiei e Ali Darvish. Tutti i prigionieri sono accusati di reati legati al traffico di droga. Il portavoce di Ihr, Mahmood Amiry-Moghaddam, ha invitato “le Nazioni Unite e tutti i Paesi che hanno rapporti diplomatici con l’Iran a fare il possibile per fermare queste esecuzioni”. La notizia delle imminenti esecuzioni giunge in occasione della Giornata mondiale contro la pena di morte. Albania: sciopero della fame degli ex detenuti “politici”, chiedono risarcimento Nova, 10 ottobre 2012 Una protesta a sfondo politico. Così è stato definito dal capo dello stato albanese, Bujar Nishani, lo sciopero della fame indetto da oltre due settimane da una ventina di ex detenuti politici a Tirana, per non aver ricevuto i risarcimenti finanziari promessi dalle autorità per chi stato nelle carceri della dittatura comunista. In un’intervista all’emittente tv “News 24”, Nishani ha detto di “rispettare lo sciopero come istituto giuridico, ma per quel che riguarda il contenuto ho notato dichiarazioni dal forte contenuto politico”, ha spiegato Nishani, il cui atteggiamento sembra essere in linea con quello del governo. Anche il ministero delle Finanze ha parlato di uno sciopero politico. “Gli ex detenuti che stanno protestando hanno ricevuto la prima rata e alcuni di loro, quelli che hanno più di 65 anni, anche la seconda”, ha detto il segretario generale del ministero delle Finanze, Dorian Teliti. Gli scioperanti hanno già ricevuto “circa 83 mila dollari per la prima rata, ed altri 28 mila per la seconda rata”, ha dichiarato Teliti, secondo il quale “l’Albania il paese che ha offerto la massimo risarcimento finanziario, pari a 18,6 dollari per ogni giorno di carcere”. Gli ex detenuti politici dichiarano per che secondo la legge, fino adesso avrebbero dovuto ricevere quattro rate, ed hanno annunciato di non intendere interrompere la loro protesta estrema. Due giorni fa uno di loro, Gjergj Ndreca, si era dato fuoco. L’uomo stato salvato grazie all’intervento immediato dei suoi amici scioperanti, ed stato poi trasferito d’urgenza in ospedale. I medici si riservano ancora di dichiarare se Ndreca fuori pericolo di vita, anche se ha dato segni di miglioramento. Sciopero della fame degli ex detenuti, un’altra persona si da fuoco Un altro ex detenuto politico dell’Albania si dato fuoco quest’oggi seguendo l’esempio di Gjergj Ndreca che aveva fatto lo stesso due giorni fa. Si tratta di Lirak Beko, 47 anni, in sciopero della fame da ormai due settimane assieme ad una ventina di altri ex detenuti. L’uomo si cosparso di benzina dandosi fuoco con un accendino a pochi passa dalla tenda dove era in corso lo sciopero di fame. Beko stato trasportato d’urgenza in ospedale dove i medici hanno detto che il suo stato di salute molto grave in quanto “ha ustioni sul 50 per cento del corpo”. Skender Tufa, che dirige lo sciopero, ha dichiarato che ciascuno degli ex detenuti compier lo stesso gesto estremo, seguendo calendario preciso, se le loro richieste non saranno prese in considerazione.