Giustizia: le sbarre che escludono il diritto di Mauro Palma Il Manifesto, 6 novembre 2012 “Il delitto della pena”, un volume collettivo per i tipi Ediesse. Quella cultura di morte che assegna al carcere il compito di punire e segregare il colpevole. In uno strano periodo della sua esistenza Egon Schiele trascorse, con una brutta accusa mossa da pudibondi delatori, ventiquattro giorni in carcere: era il mese di aprile del 1912. Il pittore definì le condizioni complessive della detenzione come una situazione in cui sarebbe impazzito se avesse “dovuto continuare ancora a lungo in quello stato di continua ebetudine”: il riferimento era non tanto e non solo alle condizioni materiali, all’affollamento, alla non intimità, quanto all’ambiente, all’atmosfera complessiva, all’incidenza che essa inevitabilmente aveva - ed ha - sulla corporeità di chi in carcere è ristretto. Per lui la via di fuga furono i pennelli: “con dita tremanti inumidite dalla mia saliva amara, mi sono messo a dipingere per non impazzire del tutto; servendomi delle macchie nell’intonaco ho creato paesaggi e teste sulle pareti della cella, poi osservavo il loro lento asciugarsi fino a impallidire e sparire nella profondità del muro, come fatti sparire dall’invisibile potenza di una mano incantata”. Oggi quei graffiti e quegli schizzi sono all’Albertina di Vienna. Ritraggono ambienti immediatamente riconoscibili a chi frequenta il carcere, tanto immutati sono nei cento anni che ci separano da essi lo schema relazionale e l’impersonalità trasandata che essi trasmettono: li ritroviamo nelle pagine di descrizione di attuali analisti dei sistemi penitenziari, così come negli scritti di detenuti del nuovo secolo. Ciò che è mutato è che quanto un tempo era disvelato dalle descrizioni di rari osservatori, è oggi invece esibito, reso conoscibile; senza imbarazzo. Così, la lettura di saggi e scritti che da angolazioni diverse esaminano il punto di arrivo dei sistemi penali non serve più a sapere ciò che in fondo già si sa. Serve piuttosto a recuperare la riflessione sulla legittimità, il significato e il limite del potere punitivo che la società e, per essa, lo Stato hanno nei confronti di coloro che hanno aggredito beni a cui essa attribuisce valore e che ritiene doveroso tutelare. Questa è la riflessione dei cicli di dibattiti sui libri sul carcere e sulla pena che l’università di Ferrara propone annualmente, per iniziativa di Andrea Pugiotto che, da costituzionalista, riporta al nucleo della finalità della pena detentiva le analisi che nascono da suoi aspetti e sue modalità. Il centro resta comunque la materialità della pena, la sua ineludibile incidenza sulle vite, sui corpi, sulle quotidianità. Un recente volume, che Pugiotto ha curato insieme a Franco Corleone, riprende il ciclo d’incontri del 2011 (Il delitto della pena, a cura di F. Corleone e A. Pugiotto, Ediesse) e si muove attraverso quattro aspetti che evidenziano criticità diverse e tutte estreme, perché ruotano, tutte, attorno al tema della morte: la morte come pena; la morte non materiale ma civile della definitiva esclusione dal contesto sociale; la morte che interviene come fattore oscuro all’interno di un universo che dovrebbe essere di attenta custodia e, quindi, di responsabilità; la morte della pietas di chi, in una impropria concezione di rilevanza della vittima nella scena penale, tende a chiamare la vittima stessa a concorrere a decisioni pubbliche, quale è la punizione del colpevole. Sono nodi non semplici da dirimere soprattutto nel contesto attuale che sembra spesso centrare il discorso non sulla funzione della pena come elemento per riannodare i fili spezzati, quanto sulla meritevolezza dei castighi, in un improprio e impossibile bilanciamento tra male sofferto e male da infliggere. A questa deriva, che non attiene soltanto all’ambito giuridico, ma a quello più generale della cultura e dei rapporti tra individui e a quello dell’abbandonato ruolo propositivo che la politica dovrebbe esprimere, sono dedicate le pagine più originali del libro; quelle che lo pongono al di là delle analisi più tradizionali sul carcere. Lo pongono, infatti, come un testo che ci ricorda che il diritto penale nella modernità non nasce in continuità con la pratica della vendetta, solo rendendola meno direttamente cruenta e soprattutto affidandola alla neutralità dello Stato; al contrario, nasce in contrapposizione a essa e alla logica che la sosteneva. Questa affermazione - banale nelle dissertazioni dotte, però negata nella pratica della quotidianità mediatica e spesso anche in qualche deriva pseudo-giuridica - ha valore determinante per la riflessione sul sistema delle punizioni e sul carcere odierno. Proprio per questo le pagine del libro sono precedute da un’approfondita introduzione, dall’emblematico titolo Quando il delitto è la pena, centrata sul dove siamo giunti e che ci richiama all’estrema vicinanza dei temi affrontati; e si concludono con le parole del Presidente Napolitano in un convegno in Senato dello scorso anno. Parole che certificano ciò che la premessa denuncia: la prepotente urgenza di riportare il carcere alle sue connotazioni costituzionali. Un dovere verso chi vi è detenuto, verso chi vi opera, ma anche verso noi stessi, a esso esterni, ma che rischiamo di essere inconsapevolmente parte di una cultura di morte. Giustizia: l’ipocrisia sull’emergenza carceri di Roberto Martinelli* La Stampa, 6 novembre 2012 Si parla ciclicamente dell’emergenza carceri del nostro Paese. A un anno dall’insediamento del Governo Monti, è possibile sostenere che anche questo Esecutivo in carica ha ottenuto ben pochi risultati per contrastare questa grave criticità. Tanto per capirci: i detenuti presenti nelle nostre carceri nei giorni della nascita del Governo tecnico erano 68.047 (alla data del 30.11.2012); pochi giorni fa, il 31 ottobre 2012, erano 66.811: un decremento di soli 1.236 soggetti, una flessione pressoché impercettibile se si considera che i posti letto regolamentari detentivi sono poco più di 45mila. Certo, probabilmente senza la legge fortemente voluta dalla Ministro Guardasigilli Severino finalizzata a ridurre la tensione detentiva determinata dal numero di persone che transitano per le strutture carcerarie per periodi brevissimi, evitando cioè il meccanismo delle “porte girevoli” (gli ingressi e le uscite dal carcere per pochi giorni che, è stato stimato, si aggirano attorno alle oltre 20 mila persone che ogni anno entrano ed escono dagli istituti nell’arco di tre giorni) avrebbero potuto essere anche di più ma, di fatto, le strategie di contrasto al sovraffollamento penitenziario si sono rilevate inefficaci. Da addetto ai lavori, da fiero ed orgoglioso appartenente al Corpo di Polizia Penitenziaria, dico che quel che serve sono processi più rapidi (oltre il 40% dei detenuti oggi presenti nelle carceri italiane sono in attesa di un giudizio definitivo); l’espulsione degli oltre 23.500 detenuti stranieri presenti oggi in Italia; la detenzione nelle Comunità terapeutiche dei detenuti tossicodipendenti, che sono oggi 1 su 4 dei presenti. Non solo: il fatto che i detenuti non siano impiegati in attività lavorative o comunque utili alla società (come i lavori di pubblica utilità) favorisce l’ozio in carcere e l’acuirsi delle tensioni. Ricordo a me stesso che, secondo le leggi ed il regolamento penitenziario, il lavoro è elemento cardine del trattamento penitenziario e “strumento privilegiato” diretto a rieducare il detenuto e a reinserirlo nella società. In realtà, su questo argomento c’è profonda ipocrisia. Tutti, politici in testa, sostengono che i detenuti devono lavorare: ma poi, di fatto, a lavorare nelle carceri oggi è una percentuale davvero irrisoria di detenuti, con ciò alimentandosi una tensione detentiva nelle sovraffollate celle italiane fatta di risse, aggressioni, suicidi e tentativi suicidi, rivolte ed evasioni che genera condizioni di lavoro dure, difficili e stressanti per le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria, sotto organico di ben 7mila unità. Altro che vigilanza dinamica o patti di responsabilità dei detenuti come il Dap pensa di risolvere i problemi! I poliziotti e le poliziotte penitenziari italiani hanno salvato negli ultimi vent’anni decine di migliaia di vite umane in carcere, intervenendo tempestivamente e salvando la vita a chi ha tentato di suicidarsi (impiccandosi alle sbarre della finestra, inalando gas da bombolette di butano che si continuano a far detenere nonostante la loro pericolosità, avvelenandosi con farmaci, droghe o detersivi, soffocandosi con un sacco infilato in testa) e impedendo che atti di autolesionismo potessero degenerare ed ulteriori avere gravi conseguenze. Nel solo 2011 ci sono stati ben 1.003 tentativi di suicidio di detenuti e 5.639 atti di autolesionismo. E nei soli primi sei mesi del 2012 ci sono stati 3.617 atti di autolesionismo, 637 tentati suicidi, 541 ferimenti e 2.322 colluttazioni. Peccato (e grave!) che non abbia ritenuto opportuno ricordarlo Luigi Pagano nella sua intervista a Il Giornale d’Italia. È importante per il Paese conoscere il lavoro svolto dai poliziotti penitenziari, è importante che la Società riconosca e sostenga l’attività risocializzante della Polizia Penitenziaria e ne comprenda i sacrifici sostenuti per svolgere tale attività, garantendo al contempo la sicurezza all’interno e all’esterno degli Istituti. Il nostro Corpo è costituito da persone che nonostante l’insostenibile, pericoloso e stressante sovraffollamento credono nel proprio lavoro, che hanno valori radicati e un forte senso d’identità e d’orgoglio. Persone che lavorano ogni giorno, nel silenzio e tra mille difficoltà ma con professionalità, umanità, competenza e passione nel dramma delle sezioni detentive italiane. Ricordarlo, ogni tanto, è a mio avviso doveroso. Ai lettori ma soprattutto a coloro che hanno il potere e l’autorità di assumere decisioni significative e concrete sui temi del carcere. *Sovrintendente di Polizia Penitenziaria e Segretario Generale aggiunto del Sappe Giustizia: alla Camera attesa conclusione iter del ddl su pene detentive non carcerarie Asca, 6 novembre 2012 In settimana l’Assemblea ha in programma l’esame del ddl 5019-bis e abbinati di delega al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e disposizioni sulla sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili, dovranno innanzitutto essere discusse le questione pregiudiziale di costituzionalità e la pregiudiziale di merito che sono state presentate. Il ddl è frutto dello stralcio dal testo originario 5019 del Governo delle disposizioni relative alla depenalizzazione che sono ora oggetto di un distinto provvedimento, cioè il 5019 ter. Lo stralcio è stato deciso dal Governo per non rallentare l’iter delle misure in grado di affrontare l’emergenza del sovraffollamento carcerario viste le divergenze tra i gruppi ancora esistenti sui criteri di depenalizzazione. Il ddl 5019 bis in esame disciplina, con riguardo a reati puniti con sanzione detentiva fino a quattro anni, la possibilità di applicare la pena detentiva presso l’abitazione e di estinguere il reato in caso di esito positivo della messa alla prova dell’imputato con attività lavorativa di utilità sociale. Prevede inoltre la sospensione del procedimento nei confronti degli imputati irreperibili. La reclusione e l’arresto presso l’abitazione o altro luogo di privata dimora costituiscono due nuove pene detentive non carcerarie, che operano anche per fasce orarie o giorni della settimana, in misura non inferiore a quindici giorni e non superiore a quattro anni, nel caso di delitti puniti con la reclusione non superiore a quattro anni. Il giudice in questi casi dovrà prevedere particolari controlli, anche attraverso mezzi elettronici. Messa alla prova, nessun automatismo “Nessun automatismo”, ma sarà il giudice a decidere. È questo l’orientamento al quale la maggioranza ed il Governo stanno convergendo, riguardo al ddl sulla “messa alla prova” che stabilisce pene alternative al carcere per le condanne inferiori ai quattro anni. Oggi pomeriggio, secondo quanto si è appreso, c’è stato un incontro fra i due relatori del provvedimento, Donatella Ferranti (Pd) ed Enrico Costa (Pdl) con il Governo (il sottosegretario alla Giustizia Gullo) nel quale sono stati esaminati in via preliminare, come è prassi, gli emendamenti al testo che sono circa una trentina ed ai quali si aggiungono, sempre secondo quanto si è appreso, due pregiudiziali di costituzionalità avanzati dalla lega. La detenzione domiciliare dunque sarà la pena alternativa al carcere che il giudice potrà stabilire, di fronte ad una condanna definitiva, tenendo conto del soggetto che ha compiuto il reato, della tipologia dell’atto commesso, della recidiva fra gli altri elementi. Nella maggioranza viene fatto notare che questo provvedimento consentirebbe di diminuire il numero di casi di recidiva, di evitare il contatto con il carcere e di ottenere anche dei risparmi per lo Stato, senza mai abbandonare il concetto di sicurezza. Gli elementi che nei giorni scorsi erano stati, di fatto, tutti sottolineati dal guardasigilli Paola Severino, conversando con i cronisti a Montecitorio. Giustizia: Radicali;14esimo giorno di sciopero della fame per Rita bernardini e Irene Testa Agenparl, 6 novembre 2012 “Giunte oggi al 14esimo giorno di sciopero della fame, la deputata radicale Rita Bernardini e la segretaria dell’associazione Il Detenuto Ignoto Irene Testa annunciano una nuova giornata di sciopero totale della fame e della sete, per domani, mercoledì 7 novembre, quando la Camera sarà impegnata nella discussione di provvedimenti in tema di giustizia penale, quali la messa alla prova, gli arresti domiciliari e i procedimenti contro imputati irreperibili: tutte misure giudicate , per l’effimera portata , del tutto inadeguate a rispondere al dramma umanitario in corso. La dura iniziativa nonviolenta, in corso da ormai due settimane, ha l’obiettivo di sollecitare un dialogo sempre più urgente sullo stato di illegalità della giustizia e delle carceri italiane, con le istituzioni che fino a questo momento si sono mostrate incapaci di adottare misure efficaci; e ribadire la necessità per il Parlamento di prendere in esame provvedimenti di amnistia e indulto, i soli in grado di ripristinare da subito la legalità nei tribunali, paralizzati da milioni di procedimenti pendenti, e nelle carceri sovraffollate dove i detenuti sono sottoposti a trattamenti inumani e degradanti, interrompendo così quella flagranza di reato, ripetutamente denunciata da Marco Pannella, che vede l’Italia pluricondannata in sede europea. Con il digiuno totale si vuole dare corpo alla sete di legalità della comunità penitenziaria, isolata e inascoltata, e dei milioni di cittadini ostaggio di una giustizia ingiusta. Ad affiancare Rita Bernardini e Irene Testa nella loro azione nonviolenta diversi militanti e dirigenti radicali, tra cui il segretario di Radicali Lucani Maurizio Bolognetti e il direttore di Notizie Radicali Valter Vecellio che si sono uniti allo sciopero della fame”. Lo rende noto l’Ufficio Stampa dei Radicali. Giustizia: Ucpi; politica affronti dramma sociale carceri, il 22 novembre sciopero penalisti Adnkronos, 6 novembre 2012 Le forze politiche e il governo utilizzino gli “ultimi scampoli di legislatura per assumere provvedimenti che il dramma sociale delle carceri impone, senza farsi paralizzare dal timore ingiustificato di possibili contraccolpi elettorali”. E considerino il problema “urgente quanto lo è stato quello della corruzione e della diffamazione”. È l’invito rivolto dall’Unione Camere Penali alla politica, l’ennesimo, accompagnato da una delibera in cui si indice per il 22 novembre prossimo, un giorno di astensione dalle udienze e da ogni attività giudiziaria nel settore penale. L’Ucpi “da sempre in prima linea nella battaglia per il rispetto dei diritti fondamentali dei detenuti”, e dopo l’impegno assunto con la mozione sulle carceri approvata al Congresso di Trieste, sottolinea come in diverse occasioni, “con accenti adeguati alla gravità della situazione, il Presidente della Repubblica ha invitato il sistema politico a farsi carico del problema per porre fine a quella che è stata definita senza mezzi termini una vergogna”. Le camere penali ribadiscono poi che il sovraffollamento carcerario è “il frutto in primo luogo di una concezione che pone la pena detentiva al centro del sistema penale”, che ciò costituisce il “retaggio di una visione autoritaria del diritto penale da cui il nostro Paese non riesce a svincolarsi”; e che il “medesimo stampo autoritario si rinviene nel quotidiano abuso della custodia cautelare, che determina per oltre il 40% il numero complessivo dei detenuti, nell’intento, neppure velato, di una parte della magistratura di trasformare la custodia cautelare in una incostituzionale anticipazione della pena con la quale far fronte alle presunte o reali inefficienze del sistema giudiziario”. Ecco perché, oltre ad annunciare l’astensione del 22 novembre, “non solo come occasione di civile protesta”, i penalisti si impegnano a diffondere i “numeri sconvolgenti delle popolazione detenuta, delle morti in carcere e di documentare le insostenibili condizioni di vita dei detenuti” e, al fine della più ampia sensibilizzazione al problema, di “promuovere occasioni di pubblico dibattito nel corso delle quali spiegare ai cittadini le ragioni che dimostrano come un sistema penale, un sistema carcerario ed un ordinamento penitenziario degni di un paese civile, costituiscono anche il più efficace presidio per la loro sicurezza”. Giustizia: finisce in carcere da innocente muore prima di essere risarcito di Michela Allegri Il Messaggero, 6 novembre 2012 Per la Corte d’Appello aveva diritto a 64.000 euro. L’operaio romeno è caduto da un’impalcatura. I soldi andranno alla famiglia. Una storia triste, di ingiustizia e dolore, quella di Copil Vasile, cittadino romeno di 51 anni, inseguito dalla cattiva sorte. È morto il primo maggio scorso, il giorno della festa dei lavoratori, cadendo da un’impalcatura davanti agli occhi del figlio, muratore anche lui, assunto nello stesso cantiere del padre a Rocca di Cambio. L’ennesimo caso di morte bianca il suo, che ha fatto molto scalpore, proprio perché avvenuto in un giorno particolarmente simbolico per i lavoratori. Nel caso di Copil, però, il fato sembra essersi particolarmente accanito, perché il giorno in cui è precipitato dal terzo piano dell’impalcatura, la sua vita poteva cambiare: era in attesa di una risposta. O meglio, di un risarcimento, autorizzato a marzo scorso dalla Corte di Appello di Roma: 64 mila euro, per aver subito un’ingiusta detenzione. Il romeno, infatti, nonostante fosse incensurato, era finito in carcere e ci era rimasto per quasi un anno. Accusato di una rapina che era avvenuta il 20 ottobre del 2009 e della quale lui non era responsabile. A far scattare l’indagine era stata la denuncia di una signora che aveva raccontato alle forze dell’ordine di essere stata derubata del portafoglio in pieno centro storico, nei pressi di Campo dei Fiori. “Sono stata aggredita da due uomini di origine romena - aveva ricordato alle forze dell’ordine. Hanno minacciato anche di stuprarmi se non avessi svuotato la borsetta”. Li aveva riconosciuti poco tempo dopo, in fotografia. Aveva indicato il volto di Copil e quello di un altro uomo, tra le foto segnaletiche che le erano state mostrate. La faccia di Vasile si trovava nello schedario perché era entrato clandestinamente in Italia, anche se non aveva mai commesso crimini. La signora era certa che fossero loro gli aggressori. Copil era stato arrestato con l’accusa di rapina e. tentata violenza, il 10 marzo del 2010. Si era sempre difeso dicendo che di quel fatto non sapeva nulla. Ma era rimasto in carcere fino al 25 gennaio dello scorso anno. Quando, a conclusione del processo di primo grado, era stata pronunciata nei suoi confronti una sentenza di piena assoluzione. La signora si era sbagliata, perché la sua descrizione non corrispondeva affatto con le testimonianze emerse durante il dibattimento. La faccia del ve-ro aggressore era infatti difficile da dimenticare, soprattutto per un particolare: aveva due enormi occhi azzurri, che risaltavano ancora di più perché, nel giorno della rapina, indossava un maglione blu. Copil, però, non aveva gli occhi azzurri, e nel suo armadio non ricordava nemmeno di avere un maglione blu. Una volta assolto e immediatamente scarcerato, assistito dall’avvocato Andrea Manasse, l’uomo ha presentato una richiesta per ottenere il risarcimento per ingiusta detenzione. Non lo ha fatto soltanto per una questione economica, anche se durante i mesi trascorsi lontano da casa aveva lasciato una moglie e tre figli, uno dei quali minorenne. Lo ha fatto perché aveva subito un torto. A marzo, la Corte di Appello ha accolto la sua richiesta, quantificando la somma in 64 mila euro. L’ordinanza è stata inoltrata al ministero dell’Economia e delle finanze. E il primo maggio, Copil doveva ricevere la risposta. Ma la buona notizia non ha fatto in tempo a raggiungerlo, perché la tragedia: è morto cadendo dall’impalcatura. Saranno ora i suoi familiari a ritirare il giusto risarcimento. Lettere: l’ergastolo “ostativo” e l’inganno della costituzionalità di Alfredo Sole (detenuto nel carcere di Opera) www.articolo21.org, 6 novembre 2012 Riceviamo e di seguito pubblichiamo un nuovo intervento firmato da Alfredo Sole, detenuto presso il carcere di Opera, relativo al dibattito sull’ergastolo ostativo: “Il detenuto - si legge - ha imparato a gridare il proprio dolore, a far ascoltare la sua voce e seppur non è più padrone della propria vita, non si lascerà sopprimere nella totale indifferenza”. Quanta fatica nel cercare di svelare la vera natura del 4bis, un articolo di legge così subdolo da confondere non solo gli avvocati, ma gli stessi detenuti che sono afflitti da questo morbo. Finalmente, da poco più di un mese, sembra che qualcosa stia cambiando: 2 ottobre, Senato della Repubblica “Ergastolo e Democrazia”; 16 e 17 novembre alla Bocconi il Movimento Science for Peace aprirà un dibattito sull’ergastolo ostativo; 12 ottobre nella Chiesetta di via Roma 19, Cassina de Pecchi, si svolgerà un dibattito sull’ergastolo, relatori Mirko Mazzali vice-presidente Commissione carceri di Milano, Roberta Cossia giudice di sorveglianza Tribunale di Milano, Luciano Eusebi docente in Diritto penale all’Università Cattolica. Dibattiti e commenti su TV e quotidiani. Nell’iniziativa “firma contro l’ergastolo” basta andare sui siti www.scienceforpeace.it e www.carmelomusumeci.com per rendersi conto che i primi firmatari sono gente di scienza, di spettacolo, intellettuali e politici. Una nuova consapevolezza ha fatto sì che questi uomini e donne di cultura tendessero una mano a chi da qui lotta contro l’ergastolo. Hanno conosciuto il terribile volto del 4 bis. Davvero qualcosa sta cambiando? Scusate il mio scetticismo ma da troppo tempo speriamo che qualcosa cambi e da 20 anni a questa parte molte cose sono cambiate ma solo in peggio. Non so se questa sarà la volta buona e non oso nemmeno sperarlo, ma qualcosa di buono c’è. Finalmente si conosce e si riconosce che in Italia c’è la pena di morte, l’ergastolo ostativo. Nell’articolo del 24/09/2012 sul quotidiano La Repubblica, Adriano Sofri, da grande intellettuale che è, ha esposto in modo brillante la problematica del 4 bis e posto all’attenzione di chi vuole comprendere come il nostro Paese riesca a sfornare leggi che pur essendo delle vere barbarie, tuttavia non sono anticostituzionali. Il 4 bis è stato partorito da una mente diabolica. In Italia il carcere a vita non potrebbe essere costituzionale. Cosa fare per renderlo tale? Detto fatto! Si fa in modo che sia lo stesso detenuto a decidere se vuole rimanere per tutta la vita in carcere o avere la possibilità di accedere ai benefici carcerari (“la possibilità di benefici”, ci tornerò fra poco). In questo modo, ostativo non è sinonimo di carcere a vita. Il 4 bis ti dà la possibilità di accedere ai benefici, basta che collabori con la giustizia. Posta in questo modo ed essendoci la “possibilità”, come per incanto, l’ostativo diviene costituzionale. Dove sta l’inganno? 1) La collaborazione, il cosiddetto 58 ter non è di quelli che ormai siamo abituati a sentire, cioè i famosi pentiti; è solo delazione su fatti magari successi 20/30 anni fa. Di conseguenza non c’è nessun programma di protezione per i familiari, tanto meno sconti di pena. 2) Non hai accesso automatico ai benefici carcerari, ma solo la possibilità (la speranza) di un giorno potervi accedere, così come ce l’hanno gli ergastolani non ostativi. Cioè metti in gioco e in pericolo la tua vita e quella di tutta la tua famiglia solo per la “possibilità” che un giorno un qualche Magistrato di Sorveglianza decida di concederti i benefici, così come c’è la possibilità che questi non ti vengano concessi. Il tutto per una “possibilità”. È questo il terribile volto del 4 bis! Quale detenuto dopo 20/30 anni di carcere sarebbe disposto a distruggere la propria famiglia per una “possibilità”? Nessuno! È proprio su questo che ha fatto affidamento chi ha partorito questa barbarie. Non c’era nessuna intenzione di lasciare che l’ergastolano decidesse della sua stessa sorte. Si è fatto in modo (con l’inganno) che la legge fosse costituzionale, ma che allo stesso tempo assicurasse che nessun ergastolano vedesse mai più la libertà. Si è fatto affidamento, paradossalmente, sull’omertà del detenuto affinché rimanesse per tutta la vita in carcere senza nessuna speranza. Questo è il 4 bis. Spero di essere riuscito a completare il quadro sull’ergastolo ostativo già evidenziato dall’abile penna di Adriano Sofri. Purtroppo per i giustizialisti, il detenuto non è più “una cosa fra le cose” a voler citare Foucault. Il detenuto ha imparato a gridare il proprio dolore, a far ascoltare la sua voce e seppur non è più padrone della propria vita, non si lascerà sopprimere nella totale indifferenza. Bolzano: pestaggi in carcere; i detenuti confermano le accuse, sotto accusa 11 agenti di Mario Bertoldi Alto Adige, 6 novembre 2012 Ieri la deposizione in aula di cinque dei 22 denuncianti, tutti tunisini e marocchini. Le testimonianze dietro uno schermo per non vedere in faccia gli agenti inquisiti. Non è la prima volta che il carcere di Bolzano è al centro di inchieste della Procura per presunti atti di violenza nei confronti dei detenuti. Accadde già con il caso della cosiddetta “cella X” ai tempi del procuratore Cuno Tarfusser. Finì tutto in una bolla di sapone: tutti gli agenti inquisiti (accusati di aver pestato alcuni detenuti all’interno di una cella punitiva) furono assolti, seppur con la formula della prova insufficiente o contraddittoria. Ora la storia sostanzialmente si ripete. Un gruppo di detenuti (quasi tutti tunisini e marocchini in carcere per spaccio di droga) accusa numerosi agenti della polizia penitenziaria di averli picchiati ripetutamente successivamente alla sommossa e rivolta (come gli stessi detenuti l’hanno definita) che provocò gravi danni al carcere di via Dante il 23 gennaio scorso. A denunciare presunti abusi da parte delle guardie carceraria sono stati 22 detenuti. Sul registro degli indagati sono finiti 11 agenti, otto di Bolzano e tre di Trento. Ieri su richiesta del sostituto procuratore Axel Bisignano si è svolta la prima udienza dell’incidente probatorio voluto per poter chiarire in tempi stretti (dunque prima dell’eventuale dibattimento) molti aspetti di questa inquietante vicenda. C’è subito da dire che tutti gli indagati (difesi dagli avvocati Valenti, Nettis, Stolfi, De Guelmi, Leoni e Pontecorvo) negano con decisione ogni addebito. Le ipotesi di reato contestate sono però gravi in relazione al ruolo svolto dalle guardie carcerarie all’interno di un istituto di pena. Tutti gli indagati (che rischiano ovviamente anche ripercussioni pesanti per la carriera lavorativa) sono chiamati a rispondere di lesioni e abuso d’ufficio. L’individuazione degli undici agenti (accusati dei presunti atti di violenza) è avvenuta sulla base di riconoscimenti avvenuti attraverso fotografie. E sempre attraverso fotografie i detenuti denuncianti hanno documentato gli effetti delle presunte percosse. Agli atti ci sono fotografie di ecchimosi in faccia, di occhi neri, di graffi, di quale colpo inferto in testa. È per questo che la Procura (che ha già chiesto l’archiviazione dell’inchiesta avviata per individuare i responsabili della rivolta) ha deciso di andare sino in fondo negli accertamenti. Nell’udienza di ieri, davanti al giudice Walter Pelino, cinque detenuti denuncianti hanno confermato in aula le accuse senza però indicare con certezza i presunti responsabili. Tutti hanno deposto dietro uno schermo senza avere la possibilità di vedere in faccia gli agenti inquisiti (che erano presenti in aula). Un accorgimento disposto dal giudice proprio per salvaguardare la genuinità dell’eventuale prossimo riconoscimento ufficiale dei presunti responsabili con ricognizione “all’americana”. Dalle deposizioni sarebbero emerse numerose incongruenze. Nell’elenco degli accusati, ad esempio, è finito anche qualche agente che al momento dei fatti non sarebbe stato neppure in servizio. I detenuti denuncianti sostengono di essere stati picchiati mentre si trovavano in una stanza vicino all’ufficio matricola della prima sezione per la perquisizione che ha preceduto il trasferimento a Trento, resosi necessario a seguito dei gravi danni che la rivolta con incendio aveva provocato nel braccio della seconda sezione del carcere. Qualcuno sarebbe stato picchiato anche all’arrivo nel carcere di Trento. Udine: domenica scorsa maxi-rissa in carcere, provvedimenti disciplinari per 26 detenuti Messaggero Veneto, 6 novembre 2012 Nella Casa circondariale di via Spalato si sono fronteggiati 26 detenuti di due gruppi: albanesi contro africani. Domani la direzione della casa circondariale di via Spalato deciderà se e quali provvedimenti cautelari prendere dopo la maxi rissa che domenica ha coinvolto 26 detenuti. Il direttore Irene Iannucci ha già dato disposizione di sospendere i corsi scolastici e le attività di socialità per le persone che hanno preso parte agli scontri in carcere. In base a un prima ricostruzione dei fatti, le prime tensioni si sarebbero registrate sabato, per futili motivi. Ma domenica le cose sono degenerate: tre detenuti sono stati accompagnati all’ospedale Santa Maria della Misericordia dalla polizia penitenziaria, altri sono stati medicati nell’infermeria della casa circondariale. A fronteggiarsi sono state due fazioni di opposte nazionalità: da una parte un gruppo di albanesi, dall’altra uno di africani. Lo scontro si è verificato intorno alle 10 di mattina durante l’ora d’aria. Per gli agenti di polizia penitenziaria non è stato semplice dividere i detenuti che si sono affrontati a mani nude. Nel corso delle perquisizioni poi effettuate nelle celle sono però state rinvenute alcune lamette da barba che potrebbero essere state utilizzate come armi. Ovviamente la direzione della casa circondariale ha subito fatto in modo che le due faziosi non avessero più opportunità per venire a contatto. Anche il carcere di Udine soffre di problemi di sovraffollamento con circa 220 detenuti rinchiusi, contro un numero massimo previsto di 160 e una popolazione ottimale di appena 100 “ospiti”. Anche sul fronte della polizia penitenziaria non mancano i problemi, con appena 120 agenti in servizio contro i 150 previsti dalla pianta organica. Trieste: al Coroneo 245 detenuti, mentre 113 condannati scontano la pena fuori dal carcere di Laura Tonero Il Piccolo, 6 novembre 2012 Il Coroneo è da anni una potenziale polveriera. Attualmente i reclusi sono 245 con una capienza massima di 150 persone. Una situazione che costringe i detenuti non solo a passare le giornate uno sopra l’altro, ma anche a sopportare pesantissimi disagi causa la vetustà della struttura. In alcune celle ci sono sciacquoni difettosi e lavandini semi intasati. Le persone che stanno scontando una pena fuori dal Coroneo a Trieste sono 113. In 57 sono agli arresti domiciliari, 7 sono in regime di semilibertà, per gli altri l’affidamento. Nel resto della regione invece vengono gestiti con misure alternative alla detenzione 285 casi. “Ciò ha permesso di non far esplodere il sistema carcerario, - spiega Nunzio Sarpietro, presidente del Tribunale di Sorveglianza - questa è stata l’unica risposta concreta al sovraffollamento carcerario”. A scontare gli arresti domiciliari a Trieste sono 57 persone. Di queste 24 hanno beneficiato della legge 199, la svuota carceri. Un provvedimento del 2011 ha previsto inoltre l’innalzamento da dodici a diciotto mesi della pena detentiva che può essere scontata presso il domicilio del condannato anziché in carcere. Chi sconta la pena a domicilio, 24 ore su 24 deve restare a casa salvo prescrizioni diverse da parte del tribunale di sorveglianza. Anche il semplice spostamento per una visita medica deve essere autorizzato dal giudice. I controlli da parte di polizia e carabinieri sono frequenti, anche giornalieri. Sette godono invece della semilibertà: la notte dormono in cella e la mattina escono per andare a lavorare. Per 39 uomini e donne i giudici hanno invece previsto l’affidamento terapeutico. L’Uepe, l’Ufficio di esecuzione penale esterna, predispone un programma e segue la persona. Tra di loro ci sono 14 persone in affidamento terapeutico. “A Trieste, come nel resto della regione, il 90 per cento di solito sono tossicodipendenti, - riferisce Sarpietro - gli altri sono dipendenti cronici da alcol ma contemporaneamente sono in aumento i dipendenti da gioco che scontano pene spesso legate alla truffa”. “Tenendo conto che nel penitenziario Coroneo in questi ultimi mesi sono recluse in media 245 persone, in totale nella nostra provincia a scontare una pena sono 358 persone. “I giudici stanno facendo sforzi enormi, con discrezione e sensibilità cercano di far fronte al problema del sovraffollamento, - valuta Sarpietro - i servizi Uepe con poco personale fanno miracoli, così come la polizia penitenziaria. Prezioso il lavoro delle comunità terapeutiche e dei volontari”. Il presidente punterebbe ad una giustizia riparativa. “Darei sfogo ai lavori socialmente utili,- spiega - istituirei la figura di un mediatore che provveda al risarcimento della parte offesa non solo dal punto di vista materiale ma anche attraverso un percorso psicologico che dia soddisfazione a chi è stato leso”. Anni fa, per far fronte alla grave situazione carceraria del Coroneo, l’allora direttore Sbriglia propose la costruzione in project-financing di una struttura in Altipiano. Le aziende che investivano potevano usufruire dei carcerati per la manodopera. “Accolsi favorevolmente quell’idea - sostiene Sarpietro - sono assolutamente favorevole a strutture di questo genere, leggere, per far scontare la pena a persone che devono passare brevi periodi in carcere o che hanno commesso reati modesti. Cuneo: Progetto “Carcere Aperto 4”; sei detenuti (forse) al lavoro nei Comuni www.targatocn.it, 6 novembre 2012 L’Amministrazione guidata dal sindaco Allemano, capofila dell’iniziativa, ha presentato nei giorni scorsi in Provincia il progetto “Carcere Aperto 4” per ottenere il contributo Regionale. Saluzzo, Ente capofila, in accordo con i Comuni partners di Manta, Costigliole Saluzzo e Savigliano ha presentato in questi giorni a venire alla Provincia di Cuneo il progetto “Carcere Aperto 4”, per ottenere il finanziamento regionale di €. 43.851,60 a copertura delle spese per le retribuzioni relative all’impiego di 6 detenuti, di 4.200 euro per le spese per il corso di formazione e l’attuazione degli obblighi relativi alla sicurezza a favore dei lavoratori e di 6.570 euro per i servizi di accompagnamento al lavoro e per il corso di formazione. Gli oneri indiretti saranno invece a carico dei Comuni partner, così come le eventuali migliorie e gli aspetti qualificanti per il progetto, a discrezione di ogni partecipante e in base alle proprie possibilità. Si tratta dell’inserimento in un ambito lavorativo di persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale (in carcere) cui già negli anni scorsi Saluzzo (il cui progetto quest’anno prevede l’impiego di una persona per 12 mesi nel suo Ufficio Turistico) ed i Comuni del circondario avevano aderito, consci - recita l’atto deliberativo - “dell’importanza della concezione positiva della pena carceraria che individua nel lavoro un elemento di trattamento e di promozione umana e sociale”. Il progetto è frutto della collaborazione fra le Amministrazioni Comunali dei paesi interessati, la Direzione del Carcere e gli operatori dell’Ufficio per l’Esecuzione Penale Esterna (Uepe) di Cuneo. I costi a carico del solo Comune di Saluzzo, in caso di approvazione del progetto, saranno pari a 3.682,29 euro, comprensivi degli oneri indiretti (2.226,89 euro), delle spese per i buoni pasto (1.375,40 euro) e della visita medica (80 euro). Reggio C.: chiede 1.000 euro per fare “relazione positiva”, arrestata assistente sociale Uepe Agi, 6 novembre 2012 Una assistente sociale del Ministero della Giustizia in servizio all’Ufficio esecuzione penale esterna di Reggio Calabria, Maria Grazia Galletta, è stata arrestata in flagranza di reato dalla polizia per concussione. La donna è stata sorpresa dalla polizia del Commissariato di Palmi, diretto dal vicequestore aggiunto Fabio Catalano, poco dopo avere intascato una mazzetta che, secondo l’accusa sarebbe stata elargita per “aggiustare” una relazione che avrebbe consentito a un soggetto destinatario di ordine di carcerazione definitivo di usufruire di una misura alternativa alla detenzione in carcere. L’arresto è avvenuto a seguito di una denuncia sporta da un uomo, condannato a quattro mesi di reclusione, che aveva chiesto una misura alternativa alla detenzione, per la quale era necessaria una relazione del servizio Uepe di Reggio Calabria, che la funzionaria era disposta a rilasciare solo a seguito del pagamento di una mazzetta di mille euro. Il pagamento avrebbe permesso alla donna di rilasciare una relazione favorevole, che avrebbe consentito all’uomo di evitare il carcere. Da qui la denuncia del condannato, che ha attivato la macchina investigativa della polizia. Al via, a quel punto, appostamenti, intercettazioni e riprese video, fino all’appuntamento “combinato”, ieri mattina, a Palmi, in un supermercato, al quale si sono presentati anche gli agenti di polizia, che subito dopo il pagamento dei mille euro, hanno messo le manette ai polsi alla funzionaria di Marina di Gioiosa Jonica. “Si tratta di un’operazione importante - ha detto il procuratore capo della Repubblica di Palmi Giuseppe Creazzo, durante la conferenza stampa - che ha consentito di smascherare una donna che approfittava della situazione di difficoltà di una persona condannata”. Alla conferenza stampa in procura hanno preso parte anche il questore di Reggio Calabria, Guido Longo, ed il dirigente del commissariato di Palmi, Fabio Catalano, vice questore aggiunto. Milano: la Fondazione Umberto Veronesi organizza conferenza sull’ergastolo “ostativo” Corriere della Sera, 6 novembre 2012 Si autodefiniscono “uomini ombra”, né vivi né morti: sono gli oltre 1.500 ergastolani ostativi, esclusi da ogni beneficio penitenziario. “Persone plasmate dalla sofferenza, rinchiuse anche da più di trent’anni, che stanno pagando con una pena di morte mascherata” commenta Nadia Bizzotto, responsabile del Servizio carcere della Comunità Papa Giovanni XXIII. Sarà proprio il tema dell’ergastolo, insieme con quello della dignità della persona in relazione al diritto, il nucleo della quarta Conferenza mondiale di Science For Peace, organizzata dalla Fondazione Umberto Veronesi, a Milano, il 16 e 17 novembre (www.scienceforpeace.it, tel. 02/76018187). Le neuroscienze hanno ormai appurato che la mente cambia e si evolve durante tutta la vita, dunque anche chi ha commesso delitti può cambiare e reintegrarsi. “Ma il sistema penitenziario italiano realizza solo la versione punitiva della pena” avverte Bizzotto. “Eppure, cambiare le persone e abbattere la recidiva è possibile” sottolinea Gloria Manzelli, direttore del carcere di San Vittore. “Le nostre prigioni fronteggiano però un gravissimo problema di sovraffollamento, con 69 mila detenuti totali su una capienza di 43 mila. E a questo si aggiunge l’impossibilità di applicare misure alternative a quanti, soprattutto stranieri, sono privi di domicilio e di lavoro”. La funzione rieducativa della pena è prevista dalla Costituzione. Realizzarla è un percorso che coinvolge anche chi è fuori. “Per prendere in carico i soggetti più fragili, mostrando loro un percorso di vita più dignitoso, serve la sinergia di tutte le istituzioni” conclude Manzelli. Ancona: “Chiusi dentro, chiusi fuori”, i detenuti incontrano lo scrittore Alessandro Fo www.vivereancona.it, 6 novembre 2012 I detenuti di Barcaglione incontrano il latinista e scrittore Alessandro Fo nell’ambito del progetto “Liberamente” promosso dall’Ombudsman regionale. L’incontro con il latinista e scrittore Alessandro Fo conclude, nella biblioteca della Casa di reclusione di Barcaglione ad Ancona, il laboratorio di scrittura poetica “Liberamente”, promosso dall’Ombudsman regionale. Il professor Fo, docente dell’Università di Siena e nipote di Dario Fo, ha letto alcune poesie e parlato a lungo con i detenuti che hanno frequentato il corso realizzato in sinergia con il Liceo Classico Perticari di Senigallia. “Questa iniziativa nasce come proposta sperimentale e rappresenta una scommessa sulla parola, sull’arte e sulla poesia - ha detto l’Ombudsman Italo Tanoni. Una scommessa vincente perché la risposta dei detenuti è stata forte ed emozionante”. “Liberamente, l’arte per non essere in disparte” è il progetto che da due anni il Garante dei detenuti realizza in collaborazione con l’Ufficio scolastico regionale per migliorare la condizione dei reclusi attraverso la conoscenza e l’utilizzo dei linguaggi creativi. Dopo gli ottimi risultati ottenuti lo scorso anno nella Casa circondariale di Montacuto, quest’anno il progetto si è svolto nel carcere di Barcaglione, prevedendo, oltre alle otto lezioni di poesia, un laboratorio di pittura allestito con il Liceo artistico Mannucci di Ancona. “Sono rimasto molto colpito dall’accoglienza ricevuta - ha dichiarato Alessandro Fo. L’incontro con coloro che trascorrono molta parte della loro avventura esistenziale nella privazione della libertà è sempre di grande ricchezza. I detenuti hanno mostrato grande disponibilità all’ascolto e la necessità di comunicare la propria esperienza. Sarebbe importante anche che chi è “chiuso fuori” dal carcere potesse avere una percezione meno prevenuta e più diretta di questa difficile, ma profonda realtà umana”. Imperia: processo per evasione dal carcere.. il sistema di videosorveglianza era fuori uso Agi, 6 novembre 2012 La disattivazione del sistema di videosorveglianza, per via di lavori sul sistema di sicurezza, ma anche la cancellazione del previsto trasferimento del detenuto: sono alcune delle ragioni che, il 7 luglio del 2009, avrebbero agevolato l’evasione dal carcere di Imperia dell’immigrato tunisino Farah Ben Faical Trabelsi, 38 anni, tuttora irreperibile. Oggi, all’apertura del dibattimento, davanti al giudice monocratico Sonia Anerdi, i sette testi del pubblico ministero Alessandro Bogliolo hanno raccontato i retroscena della clamorosa evasione, per la quale sono imputati con l’accusa di omessa custodia: Elia Lonardo e Felice Serafino, rispettivamente agente scelto e assistente capo della polizia penitenziaria. I testi - tutti operatori della polizia penitenziaria - hanno raccontato il momento che stava vivendo il carcere. A causa dei lavori in corso, infatti, sembra che parte dell’impianto audiovisivo fosse stato disattivato:; così come i sensori nelle barriere perimetrali dell’istituto. Senza contare che quel giorno, il detenuto evaso doveva essere trasferito al carcere genovese di Marassi, ma arrivò un contro ordine e la sua assenza venne, dunque, male interpretata. Il giudice, dopo aver ascoltato i testi, ha aggiornato il dibattimento al prossimo 25 marzo. Chieti: reliquia sangue Giovanni Paolo II sarà esposta nel carcere di Vasto Agi, 6 novembre 2012 La reliquia del beato Giovanni Paolo II sarà esposta nel carcere di Vasto il prossimo 12 novembre dalle 15.30 alle 16.30. Lo annuncia in una nota il direttore della casa circondariale, Carlo Brunetti. “Il cappellano del carcere don Angelo Di Prinzio ha invitato tutta la comunità penitenziaria a vivere giorni di preghiera e di fede partecipando alle cerimonie religiose programmate nella struttura penitenziaria di Vasto”, scrive nella nota Brunetti. Immigrazione: reti contro le evasioni al Cie di Gradisca, copriranno tutti gli spazi aperti di Luigi Murciano Il Piccolo, 6 novembre 2012 Misura del Viminale per evitare le fughe continue. La denuncia: “La polizia brutalizza gli ospiti”. Fughe e rivolte, Cie di Gradisca sempre ad alta tensione. Dalla struttura trapelano episodi di violenza e tentativi - a volte riusciti - di evasione. Sempre con le stesse modalità: l’elusione del dispositivo di sorveglianza a infrarossi, l’ascesa sul tetto, il salto nel buio verso le campagne circostanti. Tanto che il Viminale avrebbe autorizzato la collocazione di una rete su tutte le superfici “aperte” del centro per scongiurare questa pratica. La soluzione però potrebbe essere congelata dai recenti sviluppi sul cosiddetto caso degli “appalti allegri” che sta toccando proprio il Viminale. Intanto trapelano presunti episodi di violenza. A denunciarlo i familiari di alcuni trattenuti, tramite l’associazione monfalconese “Tenda per la Pace” che definisce il Cie “zona franca ove sono sospesi i diritti umani”. Secondo i familiari, durante la tentata fuga di 3 persone una squadra di poliziotti “avrebbe manganellato indistintamente” un piccolo gruppo di migranti “colpevoli di non rispettare l’ordine di rientrare nelle proprie stanze vista l’emergenza in corso”. L’episodio seguirebbe un tentativo difuga del 1 novembre, quando una cinquantina di ospiti avrebbe cercato l’evasione dal tetto. Fuga scongiurata dalla mediazione di un ispettore. Mediazione che però secondo i familiari non si sarebbe ripetuta il giorno dopo, “quando un gruppo di rappresentanti delle forze dell’ordine - riferisce Tenda - si è presentato di fronte agli immigrati, oppostisi all’ordine di rientrare nelle stanze. Altri 3 migranti stavano tentando la fuga. Repressione preventiva?” chiede l’associazione. Che denuncia: “Attualmente il Cie ospita persone in condizioni di salute non idonee per regolamento alla permanenza nel centro: ma anche per queste persone è scattata la repressione”. A detta di Tenda per la Pace “manganellate vi sarebbero state per un detenuto che sta perdendo la vista a causa di una cataratta, visitato in ospedale e poi riportato al Cie. Il primo ad essere colpito. Botte anche per un ragazzo che aveva tentato il suicidio”. Il sindacato di polizia Sap nega con forza “qualsiasi azione violenta”. “Eventuali azioni necessarie a riportare la sicurezza sono quelle consentite, tutte documentate dalle telecamere. Se qualcuno ritiene di fare denuncia, i filmati possono essere acquisiti e dimostrare la calunnia” commenta il segretario provinciale Angelo Obit. Immigrazione: “In nome del popolo italiano”, il docufilm sul Cie di Ponte Galeria a Roma di Stefano Pasta Affari Italiani, 6 novembre 2012 “In nome del popolo italiano” è il ritornello giudiziario che accompagna la telecamera di Stefano Liberti e Gabriele del Grande mentre entrano nel Cie di Ponte Galeria a Roma, per raccontare le vite che stanno dietro alla macchina delle espulsioni dei “clandestini”. A due passi da casa nostra, per i Cie (Centro di identificazione ed espulsione) transitano ogni anno 11.000 persone, delle quali circa 4.500 vengono poi effettivamente rimpatriate con la forza. Luoghi di detenzione, con sbarre alte sette metri e filo spinato, sorvegliati giorno e notte da militari e agenti, dove si finisce perché privi del permesso di soggiorno. Anche senza essersi macchiati di alcun reato, come spiega una detenuta sudamericana: “Quando commetti un delitto, la condanna è giusta, però io non ho commesso nessun delitto”. Un carcere per innocenti. Vi sono rinchiusi padri di famiglia, lavoratrici con accento romano, ragazzi e ragazze nati in Italia. Al Cie di Roma ne arrivano ogni giorno. Dipinti come “diversi” - addirittura “criminali” da quando, nel 2009, la mancanza di documenti è diventato un reato -, si tratta invece di persone “normali”. Basta un permesso di soggiorno scaduto, magari perché con la crisi si è perso il lavoro. Nel breve documentario “In nome del popolo italiano”, prodotto da Zalab con il sostegno di Open Society Foundations, i numeri del Viminale tornano ad essere uomini e donne in carne e ossa. Spiegano gli autori del documentario: “Siamo convinti che mostrare quei luoghi e ascoltare quelle voci significa rompere una definizione. E ribadire che nessun essere umano è illegale. Nemmeno quando lo dice una legge”. Nei Cie si vive sospesi: nel 2011, per decisione dell’allora ministro Maroni, la detenzione è stata prolungata da un massimo di sei a diciotto mesi. Il 60% dei detenuti non viene identificato né rimpatriato, ma rilasciato ugualmente senza documenti dopo diciotto mesi. Con un anno e mezzo di vita in meno. In nome del popolo italiano. Vite senza fare nulla, come riassume una ragazza: “Resti tutto il giorno così, diventi vecchia. Fumiamo sigarette come pazzi, a pranzo mangiamo come pecore”. Del resto, per motivi di sicurezza, nel Cie non è consentito agli “ospiti”- così sono paradossalmente chiamati i detenuti - neanche il possesso di un pettine. Fino al grottesco, come quando l’anno scorso, nei mesi più freddi e in camerate spesso sprovviste di riscaldamento, i detenuti di Ponte Galeria dovettero dar vita a una protesta, “la rivolta delle ciabatte”, perché obbligati da un’ordinanza prefettizia ad indossare ciabatte al posto di scarpe con i lacci, per scongiurare pericoli di fughe. Ha recentemente raccontato una ragazza bosniaca nel rapporto di Medici per i Diritti Umani sul Cie di Roma: “Le condizioni qui nel centro sono brutte perché la dignità di una donna non esiste. Nel bagno non c’è una porta. Un pettine non esiste e dobbiamo pettinarci con le forchette. D’inverno, faceva un freddo cane perché il riscaldamento è rotto e spesso manca l’acqua calda”. Come mostrano le immagini girate da Del Grande e Liberti, non mancano invece sbarre, lucchetti, recinti e ancora corridoi recintati. I racconti di chi esce dal Cie parlano poi di pestaggi non denunciati per paura, armadietti delle infermerie pieni di psicofarmaci, tentativi di suicidio, fughe e rivolte. Anche i dati confermano il quadro: a Ponte Galeria, il 50 per cento dei detenuti è sotto ansiolitici, senza prescrizione medica. “Le condizioni nelle quali sono detenuti molti migranti irregolari nei Cie sono molto spesso peggiori di quelle delle carceri”, “trattamenti degradanti e disumani”, si legge nel “Rapporto sullo stato dei diritti umani negli istituti penitenziari e nei centri di accoglienza e trattenimento per migranti” approvato a marzo dalla Commissione Diritti Umani del Senato. I Cie sono uno dei luoghi più emblematici della cosiddetta “Fortezza Europa”. E le storie raccontate da “In nome del popolo italiano” sono quelle che stanno facendo la storia, “la storia - ricorda Gabriele del Grande, sul suo blog Fortress Europe - che studieranno i nostri figli, quando nei testi di scuola si leggerà che negli anni duemila morirono a migliaia nei mari d’Italia e a migliaia vennero arrestati e deportati dalle nostre città. Mentre tutti fingevano di non vedere”. UE: Comitato contro torture; Stati istituiscano struttura controllo indipendente su carceri Asca, 6 novembre 2012 “Bisogna ristrutturare al più presto i luoghi di detenzione e intensificare i controlli perché i diritti umani di chi è privato della libertà siano rispettati”. È questa la critica che si legge nel rapporto annuale del Cpt (Comitato per la prevenzione della tortura e dei trattamenti degradanti) pubblicato oggi a Strasburgo. Si tratta di una carenza comune a tutti gli stati europei. Ecco perché il Cpt intima ai governi una riforma radicale delle prigioni che preveda soprattutto l’istituzione di una struttura di controllo indipendente. Lo prevede anche un protocollo della convenzione dell’Onu entrato in vigore nel 2006 e ratificato da 31 dei 47 paesi aderenti al Consiglio d’Europa. “Un organismo di controllo nazionale - dice Ltif Huseynov, giurista azerbaigianese, presidente del Cpt - potrebbe intervenire spesso e immediatamente, quindi darebbe un contributo considerevole alla prevenzione dei trattamenti impropri. Oltre tutto, tale istituzione che sollecitiamo tutti i governi a creare nel minore tempo possibile, costituirebbe una forte di informazione notevole per riparare eventuali guasti. Abbiamo, infatti, constatato nelle nostre visite di monitoraggio che è soprattutto la carenza di informazioni inadeguate a creare difficoltà nella prevenzione”. Stati Uniti: in California referendum su abolizione della pena di morte per costi eccessivi di Daniele Barbieri L’Unione Sarda, 6 novembre 2012 Oggi negli Stati Uniti si vota per la scelta del presidente ma anche per un importante referendum. In California (lo Stato più popoloso degli Usa) si decide sulla Proposition 34: se vince il sì per la prima volta nel mondo la pena di morte verrà abolita per iniziativa popolare. Sono state raccolte oltre 800mila firme per chiedere il referendum. C’è una insolita alleanza fra progressisti (da sempre contrari per ragioni etiche) e l’ala destra del Partito Repubblicano che prese l’iniziativa denunciando i costi enormi della pena capitale. Fra i promotori del referendum, Jeanne Woodford, ex direttrice del carcere San Quentin: dice che ogni pena di morte costa 184 milioni di dollari l’anno allo Stato (308 secondo il Los Angeles Times) per le speciali condizioni di sicurezza e le spese legali; con i soldi risparmiati si potrebbe indagare su omicidi e stupri irrisolti. I sondaggi sono molto incerti. Gli abolizionisti sono favorevoli al referendum. Non tutti: l’avvocato David Dow, indomito difensore nei processi capitali, ritiene che l’ergastolo senza possibilità di liberazione sia altrettanto crudele della pena capitale. Sembra che anche molti dei detenuti nel braccio della morte in California (705 uomini e 19 donne) siano contrari perché la nuova legge in nome del risparmio ridurrebbe le possibilità di appello contro le condanne. La pena di morte in California fu abolita nel 1972 e restaurata nel 1978. Da allora 13 condannati sono stati uccisi. L’ultimo fu Ray Allen, di origine cherokeee, il 17 gennaio 2006: aveva 76 anni, era malato e non tutti erano convinti della sua colpevolezza. Marco Cinque, musicista e scrittore, gli ha dedicato un libro: “Ray Allen, parola di Vecchio Orso”, come ricordava pochi giorni fa a Sassari in un laboratorio contro la pena di morte con studenti della città. Sono rimaste 58 le nazioni che nel mondo contemplano la pena di morte, fra loro ben poche le democrazie. Il 12 aprile il Connecticut l’ha abolita ma negli Usa restano 33 gli Stati che la prevedono. Russia: carceri, gulag e bufale di Francesco Lo Piccolo (direttore di “Voci di dentro”) www.huffingtonpost.it, 6 novembre 2012 Sto guardando una foto pubblicata dal corriere.it che a sua volta l'ha presa dal Daily Mail. è la foto di una cella di un carcere russo. Sia il corriere.it che il Daily Mail scrivono che lo scatto è stato fatto nel carcere moscovita di Matrosskaya Tishima dove era detenuto e dove trovò la morte nel 2009, ufficialmente per arresto cardiaco, Sergei Magnitsky, l'avvocato della Hermitage Capital Managment, incarcerato con l'accusa di frode fiscale dopo aver denunciato un vero e proprio sistema di corruzione all'interno del colosso energetico Gazprom. E' una foto terribile; ma con Sergei Magnitsky non c'entra nulla. Insomma un errore o qualcos'altro. Me l'ha fatto notare Francesco Morelli di Ristretti Orizzonti e mi ha anche inviato i link dove la foto è stata presa. La foto, in realtà, è stata esposta nel 1999 (quindi 10 anni prima del caso Magnitsky) al Museo Politecnico di Mosca e faceva parte della mostra "L'uomo e la prigione": esposizione di lettere, diari di prigionieri, libri sui campi di prigionia russi. Tutto per denunciare che nelle prigioni dell'ex impero sovietico i detenuti sono lasciati senza medicine, senza vestiti, senza sapone, con 67 centesimi al giorno per il cibo. Col risultato che ogni anno, prima del 2000, si contavano circa 10 mila morti all'anno per fame, tubercolosi, Aids. Un inferno ma che con l'avvocato della Hermitage Capital Managment non ha nulla a che fare. Un inferno che tuttavia mi ha fatto venire alla mente un carcere che, con Voci di dentro, ho visitato questa estate a Siauliai, in Lithuania, nell'ambito di un progetto Grundtvig. La mia guida, il sergente Remigius, non mi ha fatto vedere le celle con i detenuti, però mi accompagnato a vederne una vuota e non più in uso perché non ancora ristrutturata. Ricordo bene: era un camerone di circa sei metri di lunghezza e tre di larghezza, ricordo i letti in ferro - a dire il vero non sono tanto diversi dai letti che ci sono nelle carceri italiane - e disposti ai lati lunghi del rettangolo, due file da quattro letti ciascuna per un totale di otto letti. Dunque cella da otto. "Un passo in avanti - mi aveva detto Remigius - rispetto a 12 anni fa quando c'erano celle da trenta persone". Ricordo che in fondo c'era la finestra con la grata, e all'inizio il gabinetto alla turca. Alle pareti classiche scritte di carcere, una grande falce e martello con stella. Ambienti disumani per contenere ristretti degli umani che non sono visti come umani e perciò spogliati di tutti i loro diritti, obbligati in segrete, con poca luce, in totale promiscuità, vista perenne su inferriate e filo spinato, nelle orecchie rumori assordanti, latrati di cani alle catene. "Ma questa cella non è più in uso - ha insistito Remigius - assicurandomi che le altre sono state ristrutturate". Ho cercato di immaginare la ristrutturazione, il risultato non mi è sembrato migliore. Perché, al di là del numero dei detenuti per cella, in una "segreta" come quella che ho visto a Siauliai la vita è come una tortura: i detenuti devono stare richiusi in cella 23 ore al giorno su 24, murati dentro perché la porta della cella non è con le sbarre, ma è il classico blindo tutto di ferro con un piccolo spioncino all'altezza degli occhi. Dicevo 23 sui 24 ore, perché una volta al giorno hanno diritto all'ora d'aria. Beh, ho visto il locale adibito all'ora d'aria: è una cella in tutto e per tutto identica a quella dove i detenuti vivono le altre 23 ore: è all'ultimo piano dell'edificio e non ha il tetto che è sostituito con una inferriata. In gergo è detta la fossa dei leoni. E qui, in questa cella senza tetto, e in celle identiche ci vengono i detenuti di ciascuna cella. E questo per mesi, anni, anche fino a tre anni e più, perché anche qui in Lithuania, in questo carcere per detenuti in attesa di giudizio, i tempi della giustizia sono quelli che sono: lunghi, estenuanti, terribili. Ritorno a guardare la foto del carcere moscovita, la foto della mostra-esposizione del 1999 e spacciata per attuale, e penso all'oggi e mi interrogo sulla vita che stanno conducendo le Pussy Riot... e ancora mi ritorna alla mente la stanza della perquisizione che ho visto sempre durante il mio giro nel carcere di Siauliai: ricordo un locale interrato al quale si arrivava calpestando vecchi gradini consumati da migliaia e migliaia di scarpe. Era senza finestre, luce artificiale, all'interno una macchina tipo quelle che si trovano in aeroporto per il controllo dei bagagli e che viene usata per fare lo screening agli indumenti del detenuto. Tutti gli indumenti, mutande comprese, perché l'uomo, nudo, aspetta dentro una cabina doccia in muratura senza porta. Il resto, il tipo di controllo che viene fatto sulle persone, lo si può intuire. Insomma il carcere come punizione fine a se stessa, come Guantanamo che a dispetto delle promesse di Obama (alle quali credo ancora, anzi spero ancora) è sempre lì in funzione, con i suoi uomini in tuta arancione imprigionati e senza diritti. Disumanizzati. Ha scritto John Dower: la "disumanizzazione dell'altro" è il primo passo che porta al senso di distacco...e conseguentemente rende tutto più facile, dal segregare degli uomini in buchi di galera... fino alle uccisioni". Che è quello che hanno potuto fare i nazisti con ebrei, zingari, oppositori, omosessuali. Australia: 300 profughi in sciopero della fame in Centro di detenzione sull’isola di Nauru Ansa, 6 novembre 2012 Entra nel sesto giorno lo sciopero della fame dei richiedenti asilo nel piccolo Stato-isola di Nauru, nel Pacifico, poche settimane dopo che l’Australia vi ha riaperto un centro di detenzione. Secondo il Collettivo di azione per i profughi, circa 300 persone rifiutano cibo e acqua su un totale di 337 in detenzione nell’isola, protestando per le condizioni nel campo e chiedendo informazioni sui tempi di valutazione delle domande di asilo. Sulla loro pagina di Facebook, i detenuti si dicono preparati a continuare lo sciopero della fame fino alla morte, se il centro di Nauru non sarà chiuso e le loro domande di asilo non saranno esaminate in Australia. Il dipartimento di Immigrazione conferma che ‘un piccolo numerò ha ricevuto cure mediche per disidratazione e colpi di calore, ma non conferma il numero di profughi in sciopero della fame. Come deterrente all’arrivo dei barconi di profughi, il governo laburista ha riesumato la Pacific Solution del passato governo conservatore, trasferendo i boat people che raggiungono acque australiane a Nauru e nell’isola di Manus in Papua Nuova Guinea. E applicando il principio del “no advantage”, secondo cui le domande di asilo non saranno esaminate prima di quelle dei profughi in attesa nella regione Asia-Pacifico. Il deterrente, pubblicizzato anche con filmati multilingue su YouTube, non sembra però funzionare. Da quando il piano è stato annunciato in agosto, hanno raggiunto le acque australiane oltre 100 barconi con circa 6.000 profughi, molti di più della capienza dei due centri quando saranno completati. Tunisia: salafiti manifestano davanti a ministero giustizia per liberazione detenuti islamici Nova, 6 novembre 2012 Alcune centinaia di estremisti islamici salafiti stanno manifestando in questi minuti davanti alla sede del ministero della Giustizia a Tunisi per chiedere la scarcerazione dei loro compagni, arrestati dopo l’attacco all’ambasciata degli Stati Uniti nella capitale del paese lo scorso settembre. Secondo quanto riferisce l’inviato dell’emittente araba “al Jazeera”, i manifestanti chiedono anche che venga abolita la legge sulla lotta al terrorismo che, a loro avviso, colpisce il movimento salafita e criticano con forza i giornalisti e i media del paese per il modo con il quale descrivono le attività del gruppo islamico. I salafiti tunisini sono stati protagonisti negli ultimi mesi di una serie di episodi di violenza. Solo pochi giorni fa il nuovo imam della moschea salafita al Nour di Tunisi, Nasreddine Aloui, ha lanciato un appello al “Jihad contro il governo tunisino” guidato dal partito islamico di Ennahda. Parlando nel corso di una trasmissione dell’emittente “al Tunisia”, l’ex muezzin della moschea al Nour, che ha preso il posto dell’imam Aymen Amdouni, rimasto ucciso il 31 ottobre nell’assalto ad una caserma della Guardia nazionale di Tunisi, ha proclamato “il Jihad contro i miscredenti che vogliono prendere voti alle prossime elezioni ed eliminare i salafiti”. Turchia: da governo concessioni a detenuti in sciopero fame, oltre 100 in gravi condizioni Tm News, 6 novembre 2012 Prime concessioni ai detenuti curdi in sciopero della fame dal governo turco, che ha aperto alla possibilità di usare la lingua curda nelle aule dei processi. La richiesta di poter utilizzare la propria lingua madre per difendersi faceva parte del pacchetto di richieste avanzate da centinaia di detenuti curdi, che da metà settembre hanno avviato uno sciopero della fame che comincia a preoccupare il governo di Ankara. La protesta riguarda, secondo gli ultimi dati del ministero della Giustizia, 682 prigionieri in 37 carceri in tutta la Turchia. 114 di loro sarebbero in gravi condizioni. Tra le rivendicazioni anche un miglioramento delle condizioni carcerarie loro e di Abdullal Ocalan, fondatore del Pkk, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, braccio armato della ribellione curda. Ieri sera al termine del consiglio dei ministri il vicepremier e portavoce del governo, Bulent Arinc, ha spiegato che il premier Recep Tayyip Erdogan ha dato mandato al ministro della Giustizia Sadullah Ergin di studiare l’abolizione della normativa che non permette agli imputati di difendersi nella propria lingua madre. “Un individuo potrà difendersi in ogni lingua reputi migliore per descrivere se stesso” ha detto Arinc. Il vicepremier ha poi sottolineato che il governo del partito islamico-moderato per la Giustizia e lo Sviluppo (Akp) cambierà la normativa per una questione umanitaria e non in risposta alle richieste del Pkk. Arinc si è rivolto direttamente detenuti che in questo momento sono ancora in sciopero. “Mi voglio rivolgere ai nostri cittadini che continuano nello sciopero della fame - ha detto. La Turchia conosce bene le richieste che avete fatto. Il governo e il Parlamento sono i luoghi dove queste richieste vanno indirizzate. Ci aspettiamo che non turbiate ulteriormente le vostre famiglie o noi. La nostra aspettativa è che interrompiate lo sciopero della fame”. Se nei fatti il governo agita un ramoscello d’ulivo, a parole il premier Erdogan è ancora una volta durissimo. Durante il suo tradizionale discorso del martedì al gruppo parlamentare dell’Akp, Erdogan ha attaccato il Bdp, il Partito curdo per la democrazia e la pace che siede in parlamento, accusandolo di aver spinto i detenuti allo sciopero della fame insieme al Pkk. “Sostengono la necrofilia. Forzare le persone che stanno già pagando un prezzo, a praticare lo sciopero della fame è proprio un’ingiustizia”. Erdogan ha poi aggiunto che il partito dovrebbe chiedere ai detenuti di interrompere lo sciopero, per non entrare “nei giochi di sangue” della formazione politica curda. La dirigenza del Bdp non commenta l’apertura del governo all’uso del curdo in tribunale. L’unica reazione fino a questo momento è arrivata da Ahmet Turk, ex segretario del vecchio Dtp, il Partito curdo per la società democratica, chiuso dalla magistratura nel 2008, che ha definito “preziose” le parole di Arinc e ha detto di attendersi ora passi concreti.