Lavoriamo per far incontrare due città e il nostro impegno genera cambiamenti Il Mattino di Padova, 5 novembre 2012 Da sempre la cooperativa AltraCittà non separa l’inserimento lavorativo dall’inserimento sociale; da sempre lavoriamo per far incontrare le due città, il dentro e il fuori. Ci piace osservare che questo nostro cocciuto impegno genera cambiamenti, cambiamenti fuori nel modo di guardare al carcere, cambiamenti dentro nelle persone detenute, spesso stupite e spiazzate dall’ascolto e dall’umanità che incontrano. Sono cambiamenti “invisibili” dal punto di vista mediatico, ma a noi interessano davvero molto perché contribuiscono a dare ogni giorno senso al nostro lavoro. Con l’Auser (associazione di volontariato, impegnata nel favorire l’invecchiamento attivo degli anziani) del nord padovano è iniziata da alcuni anni la collaborazione. L’Auser di Piazzola sul Brenta ci ha invitato a portare i nostri prodotti di legatoria al mercato dell’antiquariato, famoso in tutt’Italia. Queste domeniche sono state occasione per farci conoscere per la qualità dei nostri prodotti e occasione per i detenuti che hanno partecipato in permesso premio per respirare un po’ di aria di libertà e per conoscere i soci Auser e familiarizzare con loro: gentilissimi, affettuosi, curiosi di conoscere. L’incontro “dentro”, preceduto da un incontro pubblico fuori di introduzione alla conoscenza del carcere, è stato una tappa di un percorso che continua con nuove idee e nuovi progetti. Rossella Favero Cooperativa sociale AltraCittà Giorno diverso da tutti gli altri Per me è stato un giorno diverso dagli altri. Perché per la prima volta da quando sono in carcere ho avuto un confronto anche personale con un gruppo di volontari esterni che visitavano l’istituto. Quelli dell’associazione Auser sono signori e signore saggi e maturi. Mi sono molto emozionato, ho ricevuto una sensazione di affetto e comprensione; sono stati molto gentili e sensibili, ci hanno rivolto delle domande molto toccanti. È stata la prima volta che ho parlato in pubblico. Mi ha molto colpito la loro reazione nei confronti delle nostre difficoltà nel dimostrare il progresso verso il cambiamento della nostra vita rispetto al passato. È stata una bellissima visita, grazie! Ben Hassen Ayari Un centimetro in meno di un muro troppo alto Lunedì 29 ottobre 2012, un giorno come tanti ma al tempo stesso molto diverso. Si è svolto un incontro tra noi detenuti e una delegazione dell’associazione Auser che ha voluto avere un’opportunità di conoscere il carcere per come in realtà è e non per quello che troppo spesso si legge sui giornali o si ascolta nei servizi televisivi. Due ore sono poche per ciò che si ha in mente di dire ma sono sufficienti per fare qualcosa che pochi hanno il coraggio o la voglia di fare: abbassare di un centimetro il muro che separa il mondo del carcere da quello della società. Ed è quello che è successo. Abbiamo risposto a domande, ci siamo raccontati e abbiamo ascoltato anche le opinioni di persone che ci hanno dato attenzione e, spero, capito quello che volevamo esprimere. Le strette di mano alla fine dell’incontro con queste persone mi hanno dato conferma di una sensazione che è maturata durante quelle due ore, che il muro è sempre molto alto ma lo si può abbassare. Stefano Carnoli, detenuto bibliotecario Realtà parallela fatta di persone Siamo entrati in carcere e abbiamo scoperto una realtà fatta di persone. La nostra associazione, in collaborazione con il Circolo Auser di Campo San Martino e Curtarolo, ha organizzato una visita alla Casa di reclusione di Padova per far conoscere alla popolazione di Piazzola sul Bren-laborazione della cooperativa AltraCittà. Dopo la visita siamo concordi nel dire che visitare il carcere è stata una delle esperienze più sentite e significative che come Auser abbiamo vissuto; ha cambiato i punti di vista e di riferimento di molti di noi riguardo a questo mondo. Come cittadini sentiamo il dovere di trasmettere a quanti possibile la nostra esperienza per una questione di civiltà, perché chi ha sbagliato deve pagare, siamo i detenuti è una nostra responsabilità, perché un giorno, dopo la pena, usciranno, e allora faremo i conti. Crediamo sia utile proseguire nella conoscenza di questo mondo e invitiamo tutte le associazioni come la nostra a visitare il carcere, per scoprire che spesso i mostri non sono dentro ma fuori. Associazione Auser di Piazzola sul Brenta Ho incontrato alcuni degli 890 detenuti del carcere Due Palazzi Ho incontrato alcuni degli 890 detenuti del carcere Due Palazzi di Padova, predisposto ad accoglierne circa 410. La mattina si è presentata fredda e nell’attesa di entrare ci siamo raggruppati cercando riparo da un vento particolarmente sgradevole. Una volta entrati, passati innumerevoli controlli e cancelli, che via via ci si chiudevano alle spalle, non senza procurarci la sensazione di sentire noi stessi prigionieri, siamo giunti alla biblioteca del carcere, dove una ventina di detenuti ci ha accolto e ho notato che diversi ragazzi indossavano maglioni dal collo alto con sopra felpe pesanti; il freddo all’interno del carcere non doveva essere di molto inferiore a quello fuori. Ci hanno raccontato la propria vita, hanno dato al mio tempo una diversa dimensione, hanno dato al mio benessere un valore nuovo, hanno creato dubbi e arginato la presunzione delle mie certezze. Sono ragazzi come i nostri figli, che sono scivolati fuori dal binario della legalità, forse soli, forse troppo amati o troppo poco, sono in galera e stanno pagando il conto alla società, non solo vedono negata la propria liberta, ma sentono ogni desiderio, pensiero e sogno imprigionato dalle stesse sbarre che come in un gioco di specchi si moltiplicano senza fine in una devastante realtà. Un ragazzo mi ha detto: “Dallo stesso momento in cui sono entrato, non sono stato più nessu-meno giovani, pagano il prezzo dei propri errori, ma non incontreranno alcuna mia sentenza. Hanno un volto umano, e forse sono gli “ultimi” che Cristo cita nel Vangelo. Annalisa, volontaria Auser e Caritas Attenzione massima per la mia storia Una delle domande che mi è stata posta mi ha dato la possibilità di chiarire che oggi il carcere accoglie anche autori di reati che non sono commessi da mostri. Il mio contributo è stato quello di raccontare a loro il peggio della mia vita, della mia azione mostruosa, non che ero un mostro, non lo sono mai stato, ma non lo dico per giustificarmi, perché in tutta sincerità io stesso non posso perdonarmi. Non è semplice raccontare che ho cercato di distruggere la mia famiglia e me stesso, e dentro di me rivedere quel film, ma ho sentito la necessità di spiegare un reato che secondo i media è originato da persone cattive, che hanno continuamente usato violenza anche con i loro cari, e invece non sempre è così, perché a volte la malattia, una depressione, una separazione possono veramente far perdere il controllo della propria vita. Ho percepito un’attenzione massima, forse perché il reato raccontato da chi l’ha commesso, ammettendo completamente la responsabilità della tragedia, ha dato a loro il modo di dichiarare come lo sono loro e hanno capito che in carcere ci possiamo entrare tutti. Ulderico Galassini Giustizia: il Piano carceri “snello” funziona, 5mila posti in più entro la primavera 2013 di Valeria Uva Il Sole 24 Ore, 5 novembre 2012 Il 2012 si chiuderà con 1.800 posti letto in più nelle super affollate carceri italiane. Nuovi posti che entro la primavera 2013 saliranno a 5mila. Se si troveranno le risorse per il personale. Non proprio una goccia nel mare del cronico sovraffollamento di istituti che scoppiano da anni. A giugno di quest’anno, infatti, i detenuti erano 66.883 (si veda anche l’articolo sotto) a fronte di 45.500 posti di capienza regolamentare, con un sovraccarico di oltre 2imila unità. I 5mila posti in arrivo, quindi, colmano il 23% delle immediate necessità. L’accelerata nelle consegne è arrivata anche in seguito ai tagli al piano decisi a gennaio 2012 dal Cipe: dai 675 milioni stanziati nel 2010, a inizio emergenza, si è passati ora a soli 447 disponibili (-33%), peraltro abbandonando la via, considerata impraticabile a breve, del ricorso a capitali privati. Ecco perché il ministro della Giustizia, Paola Severino, insieme con il Commissario straordinario per il piano carceri, il prefetto Angelo Sinesio, hanno ripensato alla filosofia stessa del piano: via sei nuovi istituti (Bari, Nola, Venezia, Mistretta, Sciacca e Marsala) troppo lunghi e costosi da realizzare, largo all’ampliamento e alla ristrutturazione dei padiglioni nelle realtà già esistenti. Il risultato è che il piano ora consiste in 16 nuovi padiglioni nei penitenziari già esistenti (tra cui Rebibbia a Roma, Milano Opera, Sulmona, Reggio Emilia e Secondigliano a Napoli) per un totale di 3.600 posti in più, in 17 ampliamenti di reparti già esistenti per 4.759 posti (tra gli altri Frosinone, Livorno, San Vittore a Milano, Cremona e Modena), una riconversione ormai pronta (la caserma di Arghillà a Reggio Calabria, 150 posti), due completamenti di nuove carceri (Cagliari e Sassari) e una struttura a Bolzano (a cura della Provincia). In questo modo, quando il piano sarà completato, a fine 2014, dietro le sbarre ci saranno, nonostante i tagli, 11.573 nuovi posti letto, il 26% in più rispetto alla più costosa versione originale, ottenuti appunto a colpi di ampliamenti e ristrutturazioni. Ma sempre la metà di quelli necessari. Ancora in ottica di risparmio, nonché di rieducazione dei detenuti attraverso il lavoro, la Giustizia ha scelto di non ricorrere a fornitori esterni per arredare i nuovi padiglioni, ma di affidarsi ai detenuti stessi. A Nolo e ad Augusta si realizzano gli speciali letti, armadi e comodini, a Massa la biancheria. Con un risparmio di 700mila euro sui 2,7 milioni previsti. Altri tagli sono stati fatti all’interno della struttura commissariale: tutti, a partire dal commissario, hanno rinunciato ai compensi extra, compreso l’incentivo del 2% previsto per i professionisti interni che hanno firmato i progetti. “A dicembre, a due anni dal varo, avremo attuato un po’ meno del 20% del piano - spiega Sinesio, un altro 30% sarà pronto nel 2013 e il resto fra due anni”. Se la tabella di marcia sarà rispettata, per far fronte all’emergenza sovraffollamento, nonostante i poteri straordinari anche per gli appalti, saranno comunque serviti quattro anni. La strada è ancora piena di ostacoli. Il primo è sui fondi: per far partire le prossime tre gare di appalto (Torino, Catania e Pordenone) nei tempi previsti occorre che i 122 milioni stanziati siano effettivamente trasferiti nella contabilità del Commissario. Il secondo ostacolo, più complesso, è quello del personale di polizia penitenziaria necessario a rendere effettivamente funzionanti i padiglioni. Lo ricorda anche la Corte dei conti nella Relazione sull’edilizia penitenziaria, dalla quale emerge che ben 3.870 agenti su 38.543 (oltre il 10%) non lavorano nelle carceri, ma negli uffici “anche grazie - si legge nelle conclusioni - a distacchi e comandi”. Troppe insomma sono le risorse distolte dalla vigilanza carceraria. Il presidente del Dipartimento di amministrazione penitenziaria, Giovanni Tamburino, ha già fatto sapere alla Corte di voler ridurre il numero del personale impiegato fuori dalle carceri. Ma, come avvertono i giudici, se comunque “le eventuali carenze di personale dovessero persistere, si tradurranno nella mancata utilizzazione delle strutture”. Insomma, carceri pronte, ma vuote. Giustizia: l’arredo delle nuove carceri? Ci penseranno i detenuti di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 5 novembre 2012 Scopini, spesini, portavitto, tabellieri, ma anche falegnami, carpentieri, sarti. Il carcere fa di necessità virtù e, costretto a risparmiare, offre ai detenuti lavori più qualificanti dei tradizionali “lavoretti” da galera. Non senza tornaconto. In cambio di una professionalità da spendere all’esterno, i prodotti di queste lavorazioni - letti, armadi, tavoli, sgabelli, lenzuola, cuscini, asciugamani - non sono destinati al “fuori” ma al “dentro”, per arredare i nuovi padiglioni che nel 2014 dovrebbero ospitare 11mila dei 21.800 detenuti in più rispetto ai posti regolamentari (45mila). Fatti due conti, il costo, fra stipendi e materiali, è di 2 milioni, 700mila euro meno del prezzo di una commessa all’esterno. Ma l’investimento vero è sul lavoro, che abbatte la recidiva. A guadagnarci, quindi, è anche la sicurezza collettiva. Perciò, sebbene i tagli abbiano quasi prosciugato il finanziamento del lavoro in carcere, il ministro Paola Severino ha deciso di dirottare le poche risorse disponibili in questa direzione. Il lavoro in carcere non è un privilegio, ma un diritto del detenuto e un obbligo dell’Amministrazione. Ed è anche la leva del reinserimento sociale e dell’abbattimento della recidiva. In Italia e in Europa sta crescendo questa consapevolezza, con quella di un maggior ricorso a misure alternative alla detenzione come strada maestra per non tornare a delinquere. La centralità del lavoro è confermata (seppure con riferimento a chi ha beneficiato dell’indulto) dai dati di “Italia lavoro”, agenzia del ministero del Lavoro: su 2.158 detenuti avviati a tirocini presso aziende, il tasso di recidiva è del 2,8%; negli altri casi, invece, il dato schizza all’11% entro i sei mesi dall’uscita dal carcere, per sfiorare il 27% dopo due anni. Purtroppo, il lavoro scarseggia anche in carcere. I finanziamenti della cosiddetta legge Smuraglia - che dal 2000 ha consentito a imprese e cooperative esterne di assumere detenuti grazie a incentivi fiscali (516 euro per ogni detenuto) e contributivi (80%) - si sono progressivamente ridotti, tant’è che su 66mila detenuti soltanto 2.257 sono inseriti in questo circuito, ma il numero è in diminuzione perché i fondi sono prosciugati. Eppure, grazie a questo apporto, dal carcere sono usciti prodotti “ricercati”: panettoni, borse, valigie, costumi per la Scala di Milano (prima che aprisse la sartoria interna), abiti da sposa, vino. C’è chi, scontata la pena, è tornato al proprio paese con i ferri del mestiere, chi è stato assunto da case di moda o da officine e chi dalle cooperative del carcere. Ecco perché Severino si è impegnata a far rimpinguare la Smuraglia, anche se il Parlamento latita. Non va meglio, peraltro, per i “lavoranti” alle dipendenze del carcere. “Dentro”, il lavoro è davvero un privilegio di pochi (13.765) e per brevi periodi a causa del sovraffollamento; le “mercedi” sono ferme al 1994 e bastano appena per sigarette e qualche sfizio. Eppure, resta un’opportunità straordinaria se l’obiettivo è trasmettere una cultura del lavoro e uno stile di vita diverso da quello criminale. Anche per questo sarebbe l’ora di cominciare a chiamare le cose con il loro nome: se chi lavora fuori è “un lavoratore” e guadagna uno “stipendio”, perché non cancellare dal lessico carcerario “lavorante” e “mercede”? Giustizia: il Dap ha spese per 2,8 miliardi l’anno, con misure alternative possibili risparmi di Rosalba Reggio Il Sole 24 Ore, 5 novembre 2012 “L’amministrazione penitenziaria si porta dietro, ogni anno, un debito di circa 100 milioni. Una cifra costante che letta alla luce di risorse in diminuzione, racconta lo sforzo fatto dal sistema per contenere i costi”. Lucio Bedetta, direttore generale del Bilancio e della contabilità del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, sintetizza così la lettura dei conti degli ultimi anni Se alcune voci di spesa risultano sottostimate nelle prime previsioni di bilancio, altre, invece, hanno registrato una diminuzione degli stanziamenti. “E il caso, per esempio, delle risorse destinate alla manutenzione ordinaria e straordinaria” spiega Bedetta. Al netto di correzioni di bilancio, per il 2012 il costo complessivo dell’amministrazione penitenziaria sarà di 2,8 miliardi di euro. Suddividendo la spesa per il numero dei giorni e dei detenuti si ottiene una cifra di 115 euro, che rappresenta il costo giornaliero di ogni detenuto. Un costo molto alto in un sistema ancora sbilanciato sulla detenzione rispetto agli altri Paesi europei. Se in Italia, infatti, l’82,6% delle persone in esecuzione di una condanna sta in carcere, in Francia la percentuale scende al 26% mentre la fetta maggiore, il 74%, sconta pene alternative. Insomma, se avessimo lo stesso rapporto dei francesi, invece di una popolazione carceraria di 66.833 persone, avremmo 21mila detenuti. Azzardando un conteggio molto sommario e moltiplicando il costo attuale a detenuto per il nuovo totale otterremmo un costo complessivo di circa 880 milioni, a fronte degli attuali 2,8 miliardi. Un conteggio puramente indicativo - perché gran parte dei costi del sistema penitenziario sono incomprimibili sul breve periodo - ma che potrebbe essere vicino alla verità se venissero attuate politiche virtuose di medio-lungo periodo. Per cominciare, come sostiene dal suo insediamento il ministro Severino, bisognerebbe vincere il pregiudizio tutto italiano verso le pene alternative e considerare la detenzione solo come extrema ratio. Una politica che avrebbe il vantaggio di ridurre la recidiva e gli alti costi che questa rappresenta per la società. Ad oggi, però, il nostro sistema registra un calo di queste misure alternative. I condannati che ne beneficiano sono meno di ventimila, tra affidamento in prova, semilibertà e detenzione domiciliare. Proprio per valutare l’incidenza delle pene alternative sulla recidiva e misurarne i benefici, Il Sole 24 Ore, il ministero della Giustizia, Eief e Creg hanno recentemente avviato una ricerca. “Il vero risparmio per il Paese - spiega Luigi Pagano, vice capo Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - sarà rappresentato dalla riduzione della recidiva. Se aumentiamo il numero di detenuti che scontano pene alternative al carcere, di fatto, trasferiamo i costi dalle strutture penitenziarie a quelle di assistenza sociale. Non abbiamo quindi alcun vantaggio diretto. Il vero beneficio è indiretto. Solo lavorando al reinserimento dei detenuti nella società e nel mondo del lavoro, infatti, creiamo un circolo virtuoso che riduce strutturalmente i costi - sociali e finanziari - della delinquenza”. Giustizia: Pagano; le carceri scoppiano, ma amnistia e indulto non sono le medicine giuste di Federico Colosimo Il Giornale d’Italia, 5 novembre 2012 Intervista a Luigi Pagano, vicecapo del Dap. Le carceri scoppiano. I Radicali invocano l’amnistia come unica soluzione. Possibile che non si trovi, anche per decreto legge, un’iniziativa parlamentare che non estingua il reato? O si dovrà far ricorso al solito indulto? Con quali limiti? Potrei cavarmela nel dire che sull’amnistia decide il Parlamento. Ma umanamente capisco che la si invochi. Scontare la pena nelle attuali condizioni di sovraffollamento comporta un surplus di sofferenza e non è giusto. In qualche maniera bisogna risolvere questo dramma. Dire poi che l’amnistia, come l’indulto, non risolve i problemi, è dire altra verità. Perché sarebbe come sollevare il tappo - temporaneamente - in una vasca da bagno dove il rubinetto perde continuamente. Alcune scelte legislative sul 4 bis (divieto di concessione dei benefici e accertamento della pericolosità sociale dei condannati per taluni delitti) e sull’ex Cirielli meriterebbero maggiore attenzione. Il carcere sconta una carenza di organizzazione, di risorse, di gravi problemi sociali su cui stiamo cercando, come Dap, di mettere mano, anche per gestire l’emergenza. Sono d’accordo, poi, con le misure alternative. Ma oltre che di impedimenti di natura giuridica, queste soffrono la non praticabilità per i detenuti. E ce ne sono tanti che non hanno quelle condizioni sociali, lavoro, famiglia, domicilio che le presuppongono. Non si possono concedere arresti o detenzione domiciliare a coloro che un domicilio non ce l’hanno. Il carcere, quindi, è diventato una concentrazione di problemi. E sconta il sovraffollamento. Ci vuole collaborazione con il mondo esterno. Gli enti locali, le Asl, il volontariato per creare quelle condizioni. Il rischio, ad oggi, è che il carcere peggiori e non recuperi affatto. Che fine ha fatto la famosa depenalizzazione? Sono pochi i reati che si possono depenalizzare, ma sicuramente non ogni illecito può ricadere nel penale, né tutte le fattispecie penali debbono essere punite con il carcere. Abbiamo bisogno non solo di misure alternative. Anche di pene alternative. Come la “Messa in prova”, proposta dall’attuale Ministro della Giustizia. Il carcere dovrebbe essere usato solo per situazioni e persone pericolose. In attesa dell’intervento delle Camere, cosa si può fare di concreto per bloccare la catena di suicidi nei penitenziari? Ben 742 negli ultimi 13 anni. Stiamo lavorando su diverse direttive. La conferenza Stato - Regioni, prevede interventi integrati tra i penitenziari e le Asl per intercettare il rischio suicidario. Noi dobbiamo rendere vivibile il carcere, migliorare l’attività trattamentale e coinvolgere il detenuto per ridargli la speranza di un futuro. A che punto sono i progetti per la costruzione delle nuove carceri? A breve avremo a disposizione diversi nuovi reparti: tre in Lombardia, quattro in Sardegna ed altri in Campania. Però ripeto, il carcere non può essere l’unica misura per fronteggiare la criminalità. Le misura cautelari e la pena detentiva devono essere extrema ratio e, quando applicate, propedeutiche al reinserimento sociale del detenuto. “Il 41 bis induce gli arrestati a pentirsi”. È d’accordo con quanto affermato dal procuratore capo della Dda di Catanzaro, Vincenzo Antonio Lombardo? Favorevole o contrario a questo discusso regime? Il Pm Lombardo dice il vero. Non dimentichiamo le stragi di Capaci e di Via d’Amelio. È uno strumento per la lotta alla criminalità e, con tutti i temperamenti costituzionalmente possibili, non credo che in questo momento si possa fare diversamente. Che ne pensa della carcerazione preventiva? Non sempre la condivido. I processi devono essere accelerati. La custodia cautelare dovrebbe tenere in conto che la persona imputata è costituzionalmente intesa come “non colpevole” e, come si diceva una volta, forse è meglio avere un colpevole fuori che un innocente dentro. Ha quindi ammesso che il carcere ad oggi non raggiunge effettivamente quanto si propone … I dati lo dicono apertamente. Tutti lo ammettono se le stime della recidiva sono così alte. Bisogna rivedere anche lo stesso ordinamento penitenziario. Dividere la gestione dell’imputato e quella del definitivo. La differenziazione delle pene, anche all’interno del penitenziario. A proposito dell’ex Cirielli … Perché a Tanzi non è stata applicata? E soprattutto, pur gravemente malato, perché è ancora in carcere? Non me lo spiego. Tanzi l’ho avuto a San Vittore, appena arrestato. Non le saprei dire il perché è ancora in galera. È chiaro che un motivo ci sarà. Ma con onestà le dico che nonostante di mestiere faccia “il carceriere”, non sono affezionato al carcere. L’impressione è che ci sia un accanimento di pena. Ripeto, ancora una volta. La prigione non è la migliore delle pene se ci poniamo determinati obiettivi. Da direttore di carcere per oltre 20 anni, quali sono stati i momenti più difficili? I suicidi. Tutto il resto fa parte della tua professionalità. Anche vederti ammazzare a pochi passi una persona. Davanti ai miei occhi venne ucciso Francis Turatello. Nel penitenziario di Badu e Carros, in Sardegna. L’evasione e le rivolte fanno parte del tuo rischio quotidiano, il suicidio no. Specie quando non hai capito cosa stava per succedere. Non scorderò mai la morte di Gabriele Cagliari, ex Presidente dell’Eni. Si suicidò nelle docce di San Vittore, soffocandosi con un sacchetto di plastica. Ci avevo parlato poche ore prima e ricordo ancora quello choc. Il suicidio ti dà il dolore per una vita che se ne va. Ma anche l’amaro senso di impotenza. È il momento più frustrante da affrontare nel tuo lavoro. Giustizia: carceri sovraffollate e risarcimento sociale di Don Virginio Colmegna www.cadoinpiedi.it, 5 novembre 2012 Il carcere non può essere il luogo dove si scaricano la vendetta e l’ira di una società arrabbiata. Mai come in questo momento c’è bisogno di andare controcorrente e parlare di recupero, riscatto e risarcimento. Quando si parla di carcere nel nostro Paese, la prima questione da affrontare è quella delle condizioni di vita nelle quali sono costretti a vivere i reclusi. Ancora la scorsa settimana l’associazione Antigone ha presentato delle proposte per risolvere con urgenza il problema del sovraffollamento e ha illustrato i tagli che il personale e l’intero sistema penitenziario subiranno con i provvedimenti previsti dal Governo. Di fronte a questa situazione, Franco Corleone, Coordinatore nazionale dei garanti dei detenuti, ha deciso di intraprendere uno sciopero della fame. Sono segnali che non si possono non ascoltare. Al tempo stesso, però, è necessaria anche una riflessione culturale. In una società lacerata come la nostra, la domanda di carcere si fa sempre più forte. Viene alimentata da alcuni casi di cronaca nera, così come dalle notizie sempre più frequenti di scandali e corruzione. Servirebbe, invece, in un momento così cupo, riscoprire il valore della pena come riscatto sociale, promuovendo con più decisione le misure alternative. Non si tratta di essere buonisti, si tratta di tenere conto sia delle responsabilità dei colpevoli, sia dei legami sociali. Il carcere non può essere il luogo dove si scaricano la vendetta e l’ira di una società arrabbiata. La reclusione deve essere considerata una soluzione estrema, un momento di chiusura necessario, ma non definitivo, che miri alla riapertura nei confronti della società. Mai come in questo momento c’è bisogno di andare controcorrente e parlare di recupero, riscatto e risarcimento. La concezione di pena come vendetta va superata, partendo col migliorare le condizioni disumane dei detenuti. È un tema che deve interrogarci tutti. Avere una giustizia efficiente che evidenzi le responsabilità e infligga le pene in maniera certa è un argomento che va affrontato. Ma, in questo dibattito, è importante inserire anche il tema del risarcimento sociale. Può sembrare una scorciatoia. In realtà è un percorso più impegnativo della semplice carcerazione, l’unico che consente alla nostra società di rimettere in gioco risorse importanti che altrimenti resterebbero chiuse all’interno dei nostri penitenziari. Giustizia: Pannella; su situazione delle carceri più fiducia nel Vaticano che nel Quirinale Ansa, 5 novembre 2012 “Nella battaglia che stiamo conducendo sulla situazione della giustizia e delle carceri italiane abbiamo più fiducia nel dialogo con il Vaticano che nel Quirinale”. Lo ha detto Marco Pannella in una conferenza stampa a margine del congresso dei Radicali Italiani. Il leader storico dei Radicali ha sottolineato come le “risposte di Napolitano su questi temi sono inaccettabili perché inspiegabilmente continua dirci che i tempi non sono maturi”. Lettere: il problema carcerario non è più rinviabile di Bruno Mardegan Il Giornale, 5 novembre 2012 Del grave problema dell’affollamento delle carceri si sta parlando da tanto tempo. Ancora prima dell’insediamento del governo tecnico. La ministra della giustizia ci piange sopra, ma finora su 65mila detenuti è riuscita a liberarne 3mila. I radicali protestano con proclamati scioperi della fame. Un noto penalista intervenuto alla rassegna stampa di Radio3 osserva che il governo tecnico dovrebbe essere facilitato nella normalizzazione della popolazione carceraria. Il penalista ha visitato il carcere di Poggioreale che ha una capienza di 1300 detenuti, e ne ospita più del doppio. Definisce incivili le condizioni in cui sono assiepati i prigionieri che ha visitato nelle loro celle. Notizie giunte da un carcere lombardo parlano anch’esse di peggioramento della situazione. In una cella in cui erano già stretti in quattro, ne è entrato un quinto. A questo punto serve un’iniziativa parlamentare incentrata, per poter passare, sul risparmio dei costi, a cui ora tutti sono sensibili, attraverso la riduzione di una quota consistente di carcerati. Padova: detenuto 26enne muore con il gas… suicidio o tentativo di sballo finito male di Cristina Genesin Il Mattino di Padova, 5 novembre 2012 Ancora una morte in carcere. Ieri è deceduto un tunisino di appena 26 anni, rinchiuso nel quarto blocco della casa di reclusione Due Palazzi, la struttura penitenziaria per chi è stato condannato in via definitiva. Aveva inalato il gas contenuto in una bomboletta del fornellino da campeggio utilizzato dai carcerati per preparare un caffè o qualche bevanda calda. Fino al 31 ottobre scorso sono stati 136 le morti complessive nelle carceri italiane, fra cui 51 suicidi (erano rispettivamente 142 e 46 nel 2008) secondo la fonte Ristretti Orizzonti. Forse il ventiseienne tunisino voleva morire. Oppure voleva solo andare in “sballo”, dimenticando tutto e tutti. Ma perdere i sensi è molto più facile di quel che sembra: basta superare quel confine e, quando si resta da soli in cella e si respira ancora il gas, è ormai quasi impossibile tornare indietro rispetto alla linea di confine che separa la vita dalla morte. Così è successo a quel ragazzo straniero che stava scontando una pena per detenzione di sostanze stupefacenti a scopo di spaccio. Si trovava in una cella da due ed era rimasto solo: il compagno era uscito per l’ora d’aria. Chi lo aveva incontrato sabato, giura che aveva l’aria tranquilla come sempre. Sono stati gli agenti di polizia penitenziaria a dare l’allarme e a sollecitare l’intervento dell’ambulanza: nel consueto “giro” di controllo, si sono accorti del giovane magrebino finito a terra, svenuto. Erano da poco passate le 12.30. In pochi minuti è stato caricato a bordo di un’ambulanza e trasferito nel pronto soccorso dell’Azienda ospedaliera. I medici hanno tentato l’impossibile per salvarlo ma, purtroppo, il ragazzo non ce l’ha fatta ed è spirato intorno alle 14,30. Spiega il direttore del Due Palazzi, il dottor Salvatore Pirruccio: “Sarà l’inchiesta della magistratura a fare luce su questa morte. Comunque sembra che la causa sia stata l’inalazione di gas: alcuni detenuti, essendo tossicodipendenti, cercano lo sballo anche con tale sostanza. Tuttavia basta perdere i sensi e si va oltre... Purtroppo il copione è sempre quello. Chi vuole uccidersi, in genere impiega sistemi diversi”. Resta il fatto che la vita nelle carceri è difficile: uno dei mali peggiori è il sovraffollamento. Conferma il direttore: “Siamo a quota 880 detenuti, praticamente il doppio della capienza”. “Ormai siamo alla pena di morte di fatto” denuncia Gianpietro Pegoraro, coordinatore padovano della Cgil Fp Polizia penitenziaria, “Ciò che mi preoccupa di più è che con la spending review si sono tagliati investimenti pure nel sistema carcerario, già sovraffollato, dove mancano gli spazi vitali. Intanto non si applicano misure alternative, nonostante la domanda non si offre lavoro perché c’è la crisi e così, a colpi di atti amministrativi, si sta modificando la nostra Costituzione. Come se non bastasse, nel settore carcere c’è il blocco delle assunzioni tanto per i direttori come per gli assistenti sociali. E non c’è turn over per quanto riguarda gli agenti di polizia penitenziaria”. Chi va in pensione, fatica a essere sostituito. Aggiunge Pegoraro: “A Padova ci sono anche 35 internati provenienti dalla casa di lavoro Saliceta S. Giuliano, nel Modenese, sgombrata dopo il terremoto: non dovrebbero essere in un carcere, ma stanno al Due Palazzi”. Padova: Sappe; purtroppo non siamo riusciti a salvarlo, a Lecco sventato altro suicidio 9Colonne, 5 novembre 2012 “Oggi come sempre, si conferma che la Polizia Penitenziaria continua a salvare vite, anche quando opera in condizione ben al di sotto dei livelli minimi di sicurezza. È accaduto anche nel carcere di Lecco dove, alla mezzanotte circa di qualche giorno fa, un detenuto poco più che ventenne ha tentato di suicidarsi inalando gas, ma grazie al tempestivo intervento di due agenti di Polizia Penitenziaria si è risolto l’evento critico, impedendo che la lunga scia di morte per suicidio in cella potesse allungarsi”. Lo dichiara Donato Capece, Segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, a commento dei gravi episodi accaduti nelle carceri italiane nelle ultime ore. E aggiunge: “Un detenuto è purtroppo morto suicida a Padova sabato. Anche in condizioni lavorative tragiche, dove ormai le scellerate politiche economiche di un Governo che ragiona solo in termini ragionieristici perdono di vista la centralità della sicurezza degli operatori di polizia e dei loro diritti, nonostante tutto, solo grazie all’impegno, alla dedizione, alla professionalità dei poliziotti penitenziari che si continuano a salvare vite umane e a garantire la sicurezza all’interno dei Penitenziari. A Lecco è stato scongiurato il suicidio di un detenuto, a Padova purtroppo i nostri Agenti non hanno fatto in tempo, ma domani potrebbe accadere nuovamente e se non si rivedono tempestivamente i criteri per garantire la sicurezza all’interno degli istituti penitenziari gli eventi critici potrebbero aumentare in modo esponenziale e non sempre la Polizia Penitenziaria riuscirà ad intervenire adeguatamente”. Napoli: un anno di attesa per ricoveri detenuti, vertice urgente con i manager delle Asl di Maria Pirro Il Mattino, 5 novembre 2012 Migliorare l’assistenza sanitaria in carcere: è fissato per l’8 novembre un incontro tra i vertici dell’Asl di Napoli 1 Centro e il direttore del centro penitenziario di Secondigliano. Dopo l’inchiesta del Mattino, sindacati e associazioni chiedono provvedimenti urgenti per tutti i detenuti a Napoli e in Campania. In 300 sono in lista per il ricovero al Cardarelli: aspettano anche un anno per l’intervento chirurgico, mentre le sale operatorie, negli istituti di Secondigliano e Poggioreale, restano chiuse. “Dietro queste cifre ci sono situazioni drammatiche. È la storia di un’attesa senza alternative”, sottolinea don Franco Esposito, coordinatore dei cappellani di Poggioreale. “Un giovane di 30 anni mi ha confidato che per un banale intervento urologico nessuno sa dire quando sarà ricoverato. Un altro detenuto, 50enne, è stato operato alla gamba, ma gli hanno rimosso i ferri chirurgici dopo quasi un anno dalla richiesta. Ha un’infezione in corso e difficoltà nella deambulazione”. Ancora: “Un anziano, con sospetto cancro, è stato trasferito in ospedale per una biopsia e poi riaccompagnato nel cenno clinico della struttura penitenziaria. Mancano strutture di lungodegenza, in momenti così delicati, per permettere il conforto dei propri familiari”. Il cappellano avvisa: “In carcere tutto viene sacrificato alla sicurezza, ma serve attenzione alla persona”. Con il sacerdote, l’Ufficio diocesano di pastorale carceraria sottolinea altre criticità. Nell’assistenza dei detenuti che danno in escandescenze: “Gli psicologi in servizio a Poggioreale si contano sulle dita della mano. La terapia farmacologica non può bastare anche per scongiurare tentativi di suicidio e autolesionismo”. Il rischio di contagio di malattie infettive: “È accentuato - aggiunge don Franco - dal sovraffollamento e dalla scarsa igiene soprattutto nelle celle, dove fornelli, stoviglie e quant’altro, si trovano proprio accanto al gabinetto”. Per promuovere la prevenzione, l’associazione Liberi di volare, con il sostegno economico della Curia, a Poggioreale punta a realizzare quest’anno un progetto con docenti della Federico II. Il sacerdote lancia un appello: “Questo è un problema di tutta la società, non solo dei detenuti”. “In merito all’articolo comparso sul Mattino - scrive in una nota Vittoriano L’Abbate, rappresentante nazionale specialisti Amapi (medici penitenziari) - codesto sindacato ribadisce con fermezza che l’immobilismo da parte delle istituzioni per quanto riguarda la riattivazione dei complessi operatori dei centri penitenziari di Secondigliano e Poggioreale (dove sono stati già spesi 100.000 euro) sta creando un’ulteriore penalizzazione nei confronti del detenuto-paziente che deve rimanere in attesa anche più di un anno per la risoluzione dei propri problemi chirurgici. Il disagio si aggiunge alle condizioni estremamente precarie che gli stessi detenuti vivono all’interno dei due istituti”. Interviene la Cgil, con Salvatore Sieste (Rsu del Cardarelli e dell’apparato regionale del sindacato): “Il problema delle liste d’attesa per i detenuti e le altre fasce deboli va affrontato in via prioritaria. Occorre ripartire dall’analisi dei bisogni per rilanciare l’assistenza sanitaria”. Oristano: Ugl; manca personale… e 70 carcerati di A.S. sono in arrivo da Macomer L’Unione Sarda, 5 novembre 2012 Salvatore Argiolas, segretario Ugl: “A breve potremmo ritrovarci con 400 carcerati. Con l’organico attuale non siamo in grado di garantire il controllo”. I picciotti e i signori della malavita organizzata sono in arrivo. Ma camorristi e mafiosi non sono gli unici “ospiti” ingombranti che presto avranno dimora a Massama. Le porte del nuovo carcere si apriranno anche per terroristi internazionali. Un mix di detenuti ad alta sicurezza che fa scattare l’allarme rosso. Finora niente di ufficiale, ma gli agenti di polizia penitenziaria sono già in allerta. E i sopralluoghi dei giorni scorsi da parte del Ministero della Giustizia e del provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria non fanno che accrescere gli interrogativi: è ormai imminente il trasferimento di detenuti pericolosi? L’arrivo degli jihadisti a Massama potrebbe essere legato alla chiusura del penitenziario di Macomer. Il decreto del Ministero sembra sia già pronto, mancherebbe soltanto la firma ma il destino del carcere del Marghine è scritto. “Se chiude Macomer i detenuti arriveranno a Massama - denuncia Salvatore Argiolas, segretario regionale dell’Ugl polizia penitenziaria - Si tratta di settanta carcerati di alta sicurezza, tra loro ci sono anche diversi terroristi”. Algerini, marocchini, tunisini e iracheni che al momento vivono in isolamento in un braccio del carcere di Macomer. Proprio per ragioni di sicurezza è meglio che non abbiano contatti con gli altri reclusi. “Noi siamo pronti a fare il nostro dovere - va avanti - ma se arrivano anche questi detenuti e non verrà potenziato il personale sarà un bel problema”. Dei rinforzi previsti finora ne sono arrivati soltanto 56. Oggi gli agenti sono 165, mentre i detenuti 118. “E il numero è destinato ad aumentare, in pochi mesi potremmo ritrovarci con 400 carcerati - va avanti - Ci ritroviamo in mezzo a questo gioco del Ministero, ma gli unici che rischiano di perderci siamo noi”. Le ispezioni. Prima la visita del provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria, poi quella degli ispettori del Ministero. I due sopralluoghi a distanza di poche ore l’uno dall’altro non sono passati inosservati. Top secret il motivo delle ispezioni. È certo che era necessario verificare da vicino la situazione dopo le infiltrazioni d’acqua nelle celle e l’avvistamento di topi nello spaccio. Ma pesa l’altra incognita: è l’ultima verifica prima del via libera per l’arrivo di mafiosi e terroristi? Nelle settimane scorse, si era parlato di un mese di tempo prima di altri trasferimenti ma non è da escludere che ci sia stata un’accelerata. La struttura. All’indomani della denuncia dell’Ugl sulle carenze della nuova struttura, qualcosa si è già mosso. Dalla Provincia sono arrivati gli operai per la derattizzazione, mentre si aspettano ancora gli interventi per risolvere gli altri problemi logistici e organizzativi. I primi giorni mancava la linea telefonica, c’erano difficoltà anche nelle cucine, in lavanderia e nei bagni. Non ha aiutato il maltempo: la pioggia che filtrava nelle celle e nei corridoi è stata un segnale preoccupante in una casa circondariale aperta da pochi giorni. “Abbiamo chiesto modifiche e integrazioni per queste lacune - ha rimarcato il vicesegretario dell’Ugl Adriano Sergi - ovviamente è indispensabile che la struttura venga adeguata e soprattutto che si risolva al più presto il problema del personale”. Al momento gli agenti sono costretti a notevoli carichi di lavoro. “La direzione penitenziaria non presta la dovuta attenzione ai diritti del personale con soppressione di ferie e riposi, continue richieste di straordinari, turni di otto ore non previsti dal contratto” aveva denunciato nei giorni scorsi l’Ugl. Bergamo: “Art. 21”… dieci anni fa sotto la Presolana partiva il primo progetto in Italia di Marta Todeschini L’Eco di Bergamo, 5 novembre 2012 Sta tutta in quel bicchiere d’acqua frizzante, la soddisfazione di Walter. Perché un conto è berselo d’un fiato in una cella tre metri per tre, un conto dal Gigi Rossi che gli sorride dal bancone del suo Edelweiss. Benvenuti a Castione della Presolana, dependance di via Gleno. All’ombra della Presolana, da dieci anni a questa parte il Comune dà lavoro ai carcerati, quelli che l’articolo 21 lascia uscire qualche ora al giorno dalla Casa Circondariale per darsi da fare all’esterno mentre scontano la loro pena. Come Vallanzasca. Ma qui per clamore e polemiche non c’è posto. Si lavora e basta, grazie al progetto promosso dal Comitato “Carcere e Territorio” che dal 2002 coinvolge i paesi dell’Unione Comuni della Presolana e il carcere di Bergamo. Fu il primo a partire in Italia e oggi, qui in alta Valle Seriana, sono cinque i detenuti impegnati a sistemare sentieri e parchi, ridipingere barriere e livellare tombini. Cinque meno due, fa parte degli imprevisti. “La maggior parte di chi è in carcere e ha la possibilità di uscire si comporta egregiamente” spiega il presidente dell’Unione dei Comuni della Presolana, Gianpietro Schiavi, sindaco di Onore. Ma il detenuto assegnato proprio a Onore qualche tempo fa è sparito. Si è costituito dopo tre giorni, perdendo comunque i benefici dell’articolo 21. E la seconda revoca è scattata qualche giorno fa per inosservanza delle prescrizioni da parte di un altro detenuto. A malincuore, ma andava fatto, e sul progetto non si fa - comunque - dietrofront. “Siamo ben felici di offrire questa possibilità - aggiunge Schiavi -, ma non transigiamo su una cosa: le regole vanno rispettate, qui non si viene in ferie”. Saliamo a Castione e sulla piazza del municipio sono al lavoro tre operai. “Mi dica chi è fra i tre”, butta lì Schiavi. Chi è il detenuto, “l’uomo nero”? Quello dal sorriso più aperto e convinto. Si presenta, è Walter Domenighini, ha 53 anni ed è di Costa Volpino. “Bancarotta, tre anni e otto mesi”, per arrivare al sodo. “Sono andato male col lavoro - spiega, avevo una carpenteria in ferro con una quarantina di dipendenti. Il declino è iniziato nel 2006, con alcuni clienti che non pagavano. Nel 2008 sono finito in mano agli usurai”. Racconta che la notte di Natale del 2009 arrivò pure un avvertimento: “Spararono contro la vetrina della ditta. Poi sono andati avanti a torturarmi e la legge ha fatto il suo corso”. Cosa ci sia stato di mezzo non lo dice, ma siamo qui per altro. In via Gleno è entrato l’8 settembre 2011, nella vita di Castione il 16 luglio scorso. “Sono fortunato perché qui la vita è molto diversa dal carcere, hai la possibilità di parlare, di confrontarti con persone che io definisco vere” aggiunge mentre guarda Franco Ferrari e Alberto Tomasoni, i colleghi che lui chiama “favolosi” della Set.co. “Qui tutti sanno chi sono. Ricorderò sempre il primo giorno di lavoro, era lunedì e il Comune era chiuso, ma la signora Adelaide dell’ufficio tecnico mi ha accolto veramente bene. Come tutti, qui. E il lavoro è bello”. Sulla bontà della cosa qui sono tutti d’accordo, “la cittadinanza sa e partecipa - spiega Doriana Scandella che coordina per conto dell’Unione il progetto, dicono “è giusto” e già a maggio cominciano a chiederci “ma non arrivano i ragazzi?”. Loro arrivano verso luglio, come questo cinquantenne che sistema i fiori sotto il monumento ai Caduti e guarda la statua delle Vittoria alata dal basso verso l’alto. “Adesso è tutta una rinascita” si lascia scappare. Il progetto per lui scade il prossimo 16 gennaio: “Sto aspettando che mi concedano l’affidamento, il che significa poter tornare a fare il mio lavoro sino a fine pena, un mio amico ha già chiesto di assumermi”. Intanto ogni mattina sale alla guida dell’auto messa a disposizione dai Comuni della Presolana, carica gli altri detenuti e li porta nei paesi assegnati, fino a raggiungere Castione. Il turno inizia alle 8, si lavora fino alle 12. Ricarica i “colleghi” in auto per raggiungere il ristorante dove si pranza e poi di nuovo al lavoro fino alle 16,30, in modo che entro le 18 si possa essere in via Gleno, code o non code. “È bello qui: non devo abbassare gli occhi”. Bergamo: intervista al Cappellano, Fausto Resmini “La nostra società è pronta a metà” L’Eco di Bergamo, 5 novembre 2012 Speranza e voce critica. Sono le due facce dell’articolo 21 secondo don Fausto Resmini, cappellano della casa circondariale di Bergamo. Che bilancio possiamo tracciare su questi 10 anni di articolo 21? “L’articolo 21 è uno dei benefici che apre al detenuto una speranza di inserimento nella società. È un investimento per il detenuto, che lo coinvolge direttamente nel lasciare al passato certi atteggiamenti di vita, ma soprattutto nel guardare al futuro come libero cittadino. Però la società è molto attenta e critica verso ogni proposta che vede il detenuto nella situazione di non avere completamente espiato la sua pena. Così l’articolo 21 diventa pure la voce critica che vede, valuta e mette in discussione il reinserimento nella società. È bastato un solo fallimento per vedere la società mettere in discussione il progetto”. Come di recente in Presolana, dove comunque non si fa dietrofront. “Certo, perché non possiamo dimenticare che quando c’è una misura alternativa, c’è pure una società e una vittima, ma anche il detenuto al quale va data una possibilità”. Cosa insegnano questi dieci anni di articolo 21? “Noto una trasformazione a due livelli. Ci sono le persone reinserite segnando il passo a fianco della società: sono le persone che hanno lavorato in cooperative e associazioni, con un rapporto diretto e di confronto. Ciò per dire che non ho visto ancor oggi una società che offre possibilità più ampie: il detenuto per reinserirsi deve percorrere strade conosciute, percorsi protetti. Altri reinserimenti sono andati a buon fine, ma percorrendo la strada dell’anonimato: la società non doveva sapere. L’abbiamo visto per situazioni molto grosse, come il caso Maso”. E il caso Vallanzasca, qui a Sarnico. “Dimostrano come la società ha tempi e percorsi molto più lunghi di rielaborazione”. Bologna: la Garante Laganà; U.V.a. P.Ass.a, un chicco di “capitale sociale” nella città Ristretti Orizzonti, 5 novembre 2012 Un piccolo chicco per una grande azione di solidarietà e speranza; un acronimo ad alto contenuto simbolico. Elisabetta Laganà, garante per i diritti delle persone private della libertà del Comune di Bologna, nell’ambito delle iniziative promosse dalla mobilitazione nazionale dei Garanti, ha incontrato i volontari di U.V.a. P.Ass.a., associazione di volontariato che svolge una straordinaria attività all’interno dell’Istituto Penale Minorenni del Pratello e nella annessa Comunità per stranieri non accompagnati, e che incentra la sua azione sui fondamenti di espressione di partecipazione, solidarietà e pluralismo a favore di soggetti prevalentemente derivati dal disagio minorile. Le azioni sostenute dall’associazione annoverano, tra i valori fondamentali, la promozione della responsabilità, l’etica della convivenza attraverso il dialogo, il confronto ed il rispetto reciproco, l’educazione alla legalità e alla differenza intesa come valore e non come discrimine. Il servizio donato si realizza come accompagnamento del minore verso un percorso di ridefinizione della propria identità sociale fondata sullo sviluppo del senso di competenza nell’essere persona e nelle azioni, da vivere come soggetto protagonista attivo della propria storia. L’azione di questa associazione di volontariato si configura come una importante testimonianza in termini di espressione del cosiddetto capitale sociale, anche in quanto elemento di connessione tra interno ed esterno delle mura: chiunque operi in questi ambiti sa che il passaggio dalla carcerazione al territorio, per chi non dispone di risorse relazionali e concrete, può rivelarsi persino più drammatico della detenzione stessa e, di fatto, può ricollocare la persona nelle precedenti condizioni di marginalità che hanno originato il reato. Una azione capace di riflettere, all’interno dell’istituzione, lo sguardo “esterno” : lo sguardo della comunità, della cittadinanza attiva senza la quale non è possibile un vero cambiamento. L’operato di U.V.a. P.Ass.a. realizza la promozione di interventi rivolti alla gestione dell’emotività, alla cura di sé, alla responsabilizzazione, alla costruzione di una rete di relazioni interpersonali, la promozione e l’organizzazione di attività educative, sportive, ricreative e per il tempo libero. Altro impegno fondamentale dell’associazione è quello della promozione e la realizzazione di azioni di sensibilizzazione alla cittadinanza, attraverso occasioni di incontro tra giovani del territorio e i ragazzi ospiti del carcere minorile. Organizza, inoltre, partite di calcio a squadre miste con il coinvolgimento di studenti universitari e sostiene l’ingresso, durante il periodo estivo, di campi scout per dare la possibilità a giovani maggiorenni di conoscere la realtà del carcere minorile. Costruire un vero sostegno, ricostruire una storia, dare strumenti e possibilità alternativi a quelli precedenti, può restituire alla dimensione del tempo passato in carcere un tempo di riabilitazione che è sempre, se è vera, processo di riabilitazione anche del carcere, dei suoi luoghi, dei suoi rituali e organizzazioni. Nel novembre 2007 U.V.a. P.Ass.a. ha inaugurato la mostra-mercato dei ragazzi del Pratello, un piccolo locale limitrofo all’IPM , dal nome Lavorare stanca. In questo negozio vengono raccolte offerte per gli oggetti prodotti dai ragazzi del carcere minorile. La funzione di questa attività permette di poter contribuire al sostegno economico dei giovani detenuti attraverso i manufatti prodotti all’interno, ed inoltre di costituire un elemento di visibilità esterna della realtà dell’istituto. Tra i compiti dell’associazione, infatti, figura anche quello di sensibilizzazione alla cittadinanza sulle tematiche della detenzione minorile e di raccordo con le istituzioni. Azione, anch’essa di primaria importanza, perché di fronte ai problemi della penalità è necessario coinvolgere, oltre agli addetti ai lavori, anche la cittadinanza, per riflettere su quale sia l’idea del carcere e dell’esecuzione penale, e se il carcere così com’è costituisca un valore in termini di tutela della sicurezza, come sembra sostenere il senso comune dominante; ed è, invece, fondamentale trasmettere il concetto che sia nell’interesse di tutti dare istituzioni migliori alla polis, compreso il carcere, perché la salvaguardia dei diritti dei soggetti deboli è il metro di giudizio dell’effettiva salvaguardia dei diritti di ciascuno. A tal fine, l’Ufficio del Garante di Bologna auspica una sempre più costante attiva e reciproca collaborazione con l’associazione. U.V.a. P.Ass.a. è presente tutti i sabati e le domeniche con attività strutturate imperniate sul dialogo, il confronto, il gioco e lo sviluppo della creatività attraverso l’esercizio delle arti espressive. Sono realizzati anche laboratori di musica, video e arte, attraverso la collaborazione di esperti nei vari settori. Tra le ultime iniziative si riporta il progetto fotografia svolto all’interno del carcere minorile al quale l’associazione collabora assieme alla docente Anna Rosati. Il progetto è:”RI-prendere” (la fotografia come processo ludico-educativo, rivolta alla miglior conoscenza di sé e al rispetto degli altri). La mostra fotografica si svolgerà in sala Borsa, dal 7 dicembre. Milano: Irma, volontaria del Servizio Civile che colora i giorni dei bimbi dei detenuti di Laura Arnoldi L’Eco di Bergamo, 5 novembre 2012 Da marzo, ogni pomeriggio entra in carcere. A Bollate, San Vittore o Opera. Dopo la laurea in Sociologia conseguita all’università Bicocca di Milano in Diritti umani, per Irma Ongaro è stato quasi naturale decidere di dedicare un anno al servizio di volontariato civile. “Non è stato un ripiego in attesa di trovare lavoro, ma una scelta consapevole. Fin da piccola mi sono sentita paladina dei più deboli”. La ventisettenne albinese ha avvertito che un luogo dove i diritti devono essere maggiormente tutelati è il carcere. Per questo sta collaborando con l’associazione Bambinisenza-sbarre, una Onlus con sede a Milano impegnata a sostegno della genitorialità in carcere e a favore dei bambini che vivono l’esperienza di un genitore detenuto. “Il mio compito è stare con i bambini che attendono di incontrare il proprio papà detenuto, cercando di far vivere quel tempo nel modo più normale possibile. Per loro è un’esperienza molto difficile. Il mio primo impatto con questo mondo è stato piuttosto duro”. Uno spazio tutto giallo L’associazione sta portando avanti il progetto denominato “Spazio giallo”, avviato nel 2007 a San Vittore, nel 2010 a Bollate e ora anche ad Opera: “Si tratta di uno spazio socio-educativo adatto ai bambini ai quali si propongono attività per rendere meno pesante l’attesa”. Ad Opera, carcere di massima sicurezza in cui sono detenute 1.350 persone, lo stanzone grigio dei colloqui è diventato molto colorato, dipinto dagli stessi ospiti e da artisti coinvolti dall’associazione. “Quotidianamente - continua Irma, che ora vive a Saronno - incontro 30-40 bambini, ma il sabato nello Spazio giallo ce ne sono anche 60. A San Vittore, che ospita persone in attesa di giudizio, c’è più confusione e i tempi di attesa per i colloqui possono essere molto lunghi. Quello che mi colpisce è come i più grandicelli capiscano l’anomalia della propria condizione familiare e non si lascino ingannare: difficilmente credono che il padre sia via perché lavora in quel luogo. Sono bugie che non vale la pena raccontare. È più giusto dire che il padre si trova lì perché ha sbagliato”. La giovane segue anche l’attività della Onlus per quanto riguarda la promozioni della formazione con corsi rivolti agli agenti della polizia penitenziaria: “Gli agenti esprimono la volontà di avere maggiori strumenti per sapere gestire le situazioni che vedono coinvolti i minori”. La raccolta firme Sono più di 100 mila in Italia e quasi 1 milione in Europa i minori che ogni anno entrano in carcere per visitare un loro genitore detenuto. Una raccolta firme, di cui Bambinisenzasbarre è stata promotrice in Italia, ed indirizzata al Parlamento europeo si è chiusa a giugno in tutta Europa. Si chiede che siano migliorate le condizioni di visita in carcere, aumentando le ore di incontro per assicurare un regolare e diretto contatto col genitore detenuto, e incrementare la consapevolezza e la formazione degli operatori penitenziari. “In Italia si corre anche il rischio - aggiunge la volontaria - che senza il decreto attuativo della legge 62/11 i bambini rischino di rimanere in carcere con la propria mamma fino a sei anni”. Irma già pensa al futuro, dopo l’anno di volontariato che si concluderà a febbraio: “Sono già dispiaciuta che l’esperienza finisca. Certo mi piacerebbe rimanere in questo ambito. In ogni caso l’esperienza mi ha molto arricchito. Con i bambini e le loro famiglie si creano legami molto forti”. Padova: panettoni prodotti dai detenuti; il Papa ne prenota 300, oltre 60 mila le richieste di Felice Paduano Il Mattino di Padova, 5 novembre 2012 Il Papa Benedetto XVI ne ha già ordinato trecento. Sono i panettoni speciali, che nel periodo pre-natalizio, vengono prodotti, confezionati e spediti ormai in mezzo mondo dai detenuti del carcere Due Palazzi, che lavorano all’interno della Cooperativa “I Dolci di Giotto”, che a sua volta, fa parte del Consorzio Sociale Giotto, guidato da Nicola Boscoletto. Quest’anno i detenuti, che saranno impegnati nella preparazione dei panettoni made in Padova, sono circa quaranta, dei quali venti sono impegnati direttamente nel laboratorio della pasticceria, coordinato da Lorenzo Chillon, ex chef del ristorante del Caffè Pedrocchi. L’anno scorso dal carcere furono sfornati 63.000 panettoni. Ben 23.000 in più rispetto ai 40.000 del 2010. Un boom eccezionale che ha avuto un netto rapporto con la prima e capillare pubblicizzazione che, in effetti, fu divulgata dai mass media nazionali soltanto un anno fa, anche se la pasticceria affidata ai detenuti opera nella struttura di via Due Palazzi già dal 2005. La produzione dei panettoni riprenderà proprio questa mattina ed andrà avanti sino alla vigilia di Natale. Il “panettone del carcere” sarà spedito anche negli Stati Uniti, in Russia ed anche in alcuni Paesi asiatici. Uno in formato gigante, sarà inviato al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che lo gradirà senz’altro visto che il Capo dello Stato, originario di Comiziano di Nola, in provincia di Napoli, si è diplomato al nostro liceo classico Tito Livio nel 1942. La produzione 2012 sarà ancora più squisita rispetto agli anni passati perché da oggi, oltre ai formati Classico, Simposio, Trappista, Equador, Eden ed Arabico, i detenuti pasticcieri, tra i quali ci sono anche alcuni condannati al massimo della pena e vari stranieri, cominceranno a preparare anche l’ultimo nato in famiglia. Ossia il panettone al kabir, il pregiato moscato classico di Pantelleria, prodotto dall’azienda vinicola Donnafugata. Un super panettone che ha già vinto un primo premio al concorso dolciario Taste, organizzato da Pitti Immagine ed in particolare dal gastronauta Davide Paolini, alla Stazione Leopolda, a Firenze. Non a caso, il 10 e l’11 novembre prossimi una delegazione della cooperativa “I Dolci di Giotto” sarà in Sicilia per partecipare alla Festa di San Martino organizzata proprio dall’azienda Donnafugata anche per festeggiare l’abbinamento tra il suo ottimo vino liquoroso ed il panettone di Padova. “Il lavoro come pasticciere per i carcerati è un ottimo strumento di riabilitazione dalla pena” sottolinea Nicola Boscoletto “Quando i detenuti lavoratori usciranno dai Due Palazzi si ritroveranno subito un mestiere, che diventerà essenziale per inserirsi nella società civile e potranno usufruire già di un gruzzoletto in banca dal momento che attualmente guadagnano, al mese, tra gli 800 ed i 900 euro”. Un panettone costa 25 euro, dei quali due euro vengono devoluti all’associazione “Cena di Santa Lucia” per adottare20 bambini a distanza. Cosenza: denuncia figlio tossicodipendente sperando in Comunità, invece finisce in carcere Gazzetta del Sud, 5 novembre 2012 Ha denunciato il figlio tossicodipendente per tentato omicidio, sperando che fosse mandato in una Comunità di recupero, ma la giustizia, invece, ha fatto il suo corso e l’ha condannato ad otto anni di reclusione per tentato omicidio disponendone la custodia in carcere dove, peraltro, l’uomo ha tentato di suicidarsi. Ha denunciato il figlio tossicodipendente per tentato omicidio, sperando che fosse mandato in una comunità di recupero, ma la giustizia, invece, ha fatto il suo corso e l’ha condannato ad otto anni di reclusione per tentato omicidio disponendone la custodia in carcere dove, peraltro, l’uomo ha tentato di suicidarsi. E fino ad ora, tutti i tentativi messi in atto dalla donna e dagli avvocati del figlio per convincere i giudici che quel tentato omicidio non c’é mai stato, ma si è trattato solo di una lieve aggressione, sono andati a vuoto. Protagonista della vicenda è Antonio La Banca, di 29 anni, di Cassano allo Ionio. Il 9 gennaio scorso, dopo una serie di scenate in famiglia, la Banca aggredì la madre tirandole i capelli. La donna, esasperata, però, lo denunciò dicendo che aveva tentato di strangolarla. E per questo l’uomo è stato arrestato pochi giorni dopo. Il caso è arrivato al Tribunale di Castrovillari che nei giorni scorsi l’ha condannato ad otto anni di reclusione per tentato omicidio, respingendo anche l’istanza della difesa di concedere i domiciliari in una struttura di recupero. Il giorno successivo alla condanna, l’uomo si è tagliato le vene nel carcere di Rossano ed è stato salvato dall’intervento di altri detenuti e della polizia penitenziaria. Adesso è nuovamente in carcere. “I giudici - ha detto l’avv. Mario Rosa che insieme a Riccardo Rosa difende La Banca - hanno ritenuto di non credere a quanto detto in aula dalla madre che ha spiegato che il figlio l’aveva solo strattonata per i capelli e che la denuncia l’aveva fatta per farlo andare in una struttura di recupero, pensando forse che si trattasse di un gesto di difesa di una madre verso il figlio. Ma la realtà è quella. C’é una perizia fatta fare da noi ad un esperto che dimostra che La Banca aveva problemi di droga e di alcool sin da prima dell’arresto. Sulla base di questo certificato abbiamo chiesto l’affido in un centro di recupero. Avevamo già la disponibilità della struttura e del Sert ed al tribunale abbiamo presentato anche il programma di disintossicazione ma non è servito a nulla ed il processo si è concluso con una condanna che appelleremo senz’altro”. La difesa di La Banca ha anche fatto ricorso contro il rigetto dell’istanza per la concessione dei domiciliari in una comunità di recupero, “ma il tribunale di Catanzaro che deve decidere in sede di appello - ha detto l’avv. Rosa - non ha ancora fissato l’udienza”. Firenze: raccolta fondi per la rivista dell’Opg, a rischio chiusura per taglio finanziamenti Ristretti Orizzonti, 5 novembre 2012 Sabato 10 novembre una cena presso il circolo il Progresso. La rivista “Spiragli” da 15 anni da voce ai detenuti dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario e ora rischia di chiudere. “Si tratta dell’esperienza più longeva di pubblicazioni realizzate all’interno di un carcere” - racconta Riccardo Gatteschi. “La redazione è composta tutta da detenuti, circa 15 persone, che producono i testi; poi penso io ad impaginazione e stampa. Ovviamente negli anni abbiamo ricevuto anche articoli da parte di esterni”. La rivista fino al 2011 era sovvenzionata da un contributo statale che consentiva la realizzazione e la stampa di quattro numeri all’anno. Dal 2012 il contributo non viene più erogato ed è stata avviata una campagna di raccolta fondi per portare avanti il progetto. Sabato 10 novembre a partire dalle ore 18.00 presso il circolo Arci il Progresso sarà organizzata una merenda cena, al presso fisso di 15 euro. Alla serata parteciperanno anche alcuni detenuti che parleranno della loro esperienza all’interno della redazione di “Spiragli”. L’iniziativa è promossa dall’associazione di volontariato penitenziario e dall’ospedale psichiatrico giudiziario, con il patrocinio del comune di Montelupo Fiorentino. Per informazioni e prenotazioni chiamare Riccardo al numero 3404793673. Firenze: nuovo progetto di formazione professionale rivolto ai giovani detenuti di Stefano Di Puccio (Consigliere comunale) Ristretti Orizzonti, 5 novembre 2012 Ho accolto con soddisfazione la notizia dell’iniziativa delle Assessore Biti e Saccardi di attuare il nuovo progetto di formazione professionale rivolto ai giovani detenuti del Centro di Giustizia Minorile, che ne permetterà il reinserimento nella società una volta finito il periodo di reclusione. Un progetto finanziato dalla Provincia, per la formazione di tecnici in agricoltura biodinamica, giardinaggio e piccole manutenzioni. Proprio ieri dopo l’audizione del Garante dei Detenuti On. Franco Corleone in sede di commissione congiunta Urbanistica, Sanità e Pace, ho accettato di rinviare la votazione della mia mozione nella quale si chiedeva al Comune di attivarsi per trovare una sede appropriata (nel centro della città) per i detenuti in regime di semilibertà, coloro cioè che devono rientrare in carcere dopo il lavoro, e che attualmente sono alloggiati nell’Istituto Mario Gozzini. La mozione voleva proprio riportare l’attenzione sul Carcere di Sollicciano e stimolare il Comune di Firenze ad agire e dare un segnale concreto e di reale interessamento al sempre sottovalutato problema del sovraffollamento, che, con le recentissime morti per suicidio, a Prato e a Sollicciano è ritornato prepotentemente agli onori della cronaca. Il sovraffollamento delle carceri è la punta dell’iceberg di una problematica assai complessa, frutto di una politica del sistema giudiziario e penitenziario ottuso e che ha ridotto i luoghi di detenzione a vere e proprie discariche sociali, privandoli così della loro funzione rieducativa e di reinserimento nella società. Ho ritenuto giusto dunque rinviare la discussione della mozione per arricchirla di contenuti e, con le tre commissioni di pertinenza, stilare una piattaforma di richieste precise, e per favorire un coordinamento dei lavori che faccia dialogare tutte le Istituzioni ad uno stesso tavolo, così come auspicato dal Garante Corleone. Va bene il rinvio dunque purché alle parole seguano i fatti. Sono stanco di vedere approvare mozioni e ordini del giorno senza che poi avvenga sostanzialmente niente. Ho aderito allo sciopero della fame a staffetta e ho fatto il mio giorno di digiuno, ma sono pronto a ricominciare a oltranza, come già feci tempo fa, se il Comune non dà un chiaro segnale di interessamento al problema. Ben vengano dunque iniziative come quella attuata dalle nostre Assessore, che vedono interagire Provincia e Comune, ma anche la Regione, più direttamente coinvolta nelle decisioni del Governo. Sarebbe auspicabile anche il coinvolgimento delle fasce imprenditoriali al fine di facilitare effettivamente il reinserimento nel vivo del tessuto sociale cittadino, perché il carcere torni a essere di nuovo in qualche modo dentro la realtà urbana e non più il recinto delle belve lontano dagli occhi di tutti. Bologna: è morto Pier Cesare Bori, addio al filosofo che aveva insegnato ai detenuti Dire, 5 novembre 2012 Addio a Pier Cesare Bori, il filosofo che aveva insegnato ai detenuti. Nominato da pochi giorni titolare della cattedra Unesco per il pluralismo religioso e la pace, Bori è scomparso ieri all’età di 75 anni. Arrivato a Bologna nel 1970, Bori è entrato quasi subito all’Alma Mater dove è stato per molti anni docente di Storia del Cristianesimo e delle chiese alla Facoltà di Scienze politiche. Attualmente insegnava Filosofia morale e Diritti umani nella globalizzazione. è stato anche direttore, insieme a Gustavo Gozzi, del Master in diritti umani e intervento umanitario. Bori è ricordato per il suo impegno per la pace e in difesa dei più deboli, tra cui anche i detenuti. Insieme a un gruppo di studenti, infatti, si era occupato di insegnamento in carcere, in particolare ai detenuti magrebini e ai detenuti iscritti all’università, esperienza poi raccolta in “Lampada a se stessi. Letture tra università e carcere” (Marietti, 2008). Il 7 novembre alle 14 si terrà la cerimonia funebre accademica in Cappella Bulgari. Nato a Casale Monferrato (Alessandria) nel 1937, Bori aveva studiato giurisprudenza, teologia, scienze bibliche. Si è occupato di etica interculturale, un tema su cui ha pubblicato due libri, “Per un consenso etico tra culture” (Marietti, 1995) e “Per un percorso etico tra culture” (Nuova Italia, 1996). I suoi saggi più recenti sono stati raccolti in “Universalismo come pluralità delle vie” (Marietti, 2004). Bori è stato anche visiting professor negli Stati Uniti, in Tunisia e in Giappone. Ha collaborato con il Master en religions et civilisations comparèes della Facoltà di Lettere della Manouba (Tunisia). Nuoro: Sdr; Badu e Carros è una Casa circondariale… non può ospitare ergastolani Ristretti Orizzonti, 5 novembre 2012 “Nella Casa Circondariale di Nuoro non sono garantite le condizioni di vita e di sicurezza ai “fine pena mai”. Il cittadino condannato all’ergastolo assegnato all’Alta Sicurezza 1 deve scontare la pena in una Casa di Reclusione, deve poter disporre prevalentemente di una cella singola in quanto pericoloso e non può avere in alcun modo contatti con ristretti ascritti ad altri circuiti di media sicurezza”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, con riferimento ad alcuni provvedimenti assunti dal Magistrato di Sorveglianza di Nuoro in accoglimento di reclami presentati da ergastolani e disattesi dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. “Il problema non è nella gestione della Casa Circondariale di Badu e Carros - sottolinea Caligaris - ma nella tipologia di Istituto che, in base alle circolari del Dap, non è idoneo alla pena perpetua in quanto non dispone delle caratteristiche strutturali. Nonostante infatti il Dipartimento sostenga che a Nuoro è stata istituita una sezione di casa di reclusione e quindi in condizioni di accogliere detenuti in alta sicurezza ciò vale in deroga esclusivamente per pene temporanee. Risulta invece inadeguata per gli ergastolani in particolare per quelli con pena ostativa cioè destinati a morire dentro una cella”. “L’assegnazione dei detenuti - evidenzia la presidente di SdR - non può insomma avvenire secondo criteri e principi fuori dai dispositivi regolamentari e con motivazioni di carattere oggettivo come il numero eccessivo di ristretti o lavori di ristrutturazione. Esistono dei diritti, come quello alla salute, che non può essere negato neanche a un ergastolano. Convivere 24 ore al giorno in una cella con altre tre, quattro o cinque persone, significa sottoporre il detenuto a una forma di tortura psicologica e creare delle precondizioni di scarsa sicurezza. Mancano inoltre opportunità che invece sono offerte e garantite nelle sezioni idonee”. “Anche se hanno commesso reati gravi, per i quali hanno perso per sempre la libertà, gli ergastolani - ricorda ancora Caligaris - devono poter incontrare i familiari e quindi stare il più possibile vicini al luogo di residenza dei parenti più stretti in modo da poter svolgere regolari colloqui. Ciò comporta anche il rispetto del diritto alla difesa. Le contraddizioni nel comportamento del Dap nell’assegnazione dei detenuti si evidenzia in particolare con i cittadini sardi che il più delle volte sono tenuti lontani dall’isola sulla base di valutazioni delle Forze dell’Ordine - conclude - relative al momento della carcerazione e non aggiornate dopo 20/30 anni di detenzione a cui fa riferimento la Dda che a sua volta esprime parere negativo per i trasferimenti”. Brescia: Sentenza Tar; malattia cardiaca agente penitenziario causata da stress lavorativo www.quibrescia.it, 5 novembre 2012 La malattia cardiovascolare dipende dalla sua attività lavorativa nell’Ufficio Matricola del carcere di Brescia. Questo quanto stabilito dalla prima sezione del Tar di Brescia (presidente Giuseppe Petruzzelli, giudice relatore Francesco Gambato Spisani) sul ricorso presentato da un Assistente Capo del Corpo di Polizia Penitenziaria in servizio a Canton Mombello. Lo stress psicofisico accusato dal poliziotto penitenziario è legato al superlavoro e alle condizioni ambientali. Una situazione che, secondo i giudici di via Zima, ha causato la malattia di A.O., per quindici anni addetto all’Ufficio matricola del carcere cittadino. Annullato dunque il decreto del Dap che aveva invece escluso che la patologia potesse essere conseguenza dell’attività svolta in carcere. Secondo il Tribunale amministrativo, le condizioni in cui l’Assistente Capo ha svolto le sue mansioni, sulla base anche della relazione stesa dal direttore del Dipartimento di scienze mediche e chirurgiche dell’Università di Brescia, sarebbero state determinanti nel generare la condizione di stress che lo ha poi fatto ammalare, provocandogli l’episodio di crisi cardiovascolare. Il Tar ha dunque annullato il decreto ministeriale ostativo al riconoscimento dell’infermità per causa di servizio, e concesso i benefici di legge di cui l’agente gode. Il tribunale ha anche condannato il Ministero di Giustizia al pagamento delle spese, 2mila euro. Parma: On. Alfonso Papa visita carcere “Tanzi pesa 48 kg, non riesce nemmeno a parlare” di Maria Teresa Improta Parma Today, 5 novembre 2012 Papa definisce la struttura di Parma “una felice eccezione”, ma si dice preoccupato per Tanzi. Negato l’accesso all’associazione di detenuti Papillon che denuncia “i carceri italiani sono latrine sociali, non c’è recupero”. Alfonso Papa l’onorevole del Pdl ha visitato stamane la casa circondariale di via Burla. Detenuto nel carcere di Poggioreale nel 2011 con l’accusa di concussione e rivelazione di segreto d’ufficio l’ex magistrato parla di Parma come “una felice eccezione dove esiste ancora un minimo di dignità umana. I carceri sono strutture in cui si soffre e si muore ignorate dalla politica sia di destra sia di sinistra. Gli unici a preoccuparsene sono Pannella che porta avanti la battaglia per l’amnistia e Berlusconi che ha lavorato per la riforma del sistema giudiziario”. “Devo denunciare il diniego ricevuto dall’associazione di detenuti Papillon a visitare il carcere - tuona Papa - non è giusto che questo avvenga, anzi si dovrebbero incentivare le iniziative nei penitenziari non limitarle”. “In Italia i carceri sono latrine sociali - afferma Claudio Marcantoni dell’associazione di detenuti Papillon - discariche del sottoproletariato sia per i detenuti che per il personale penitenziario. Esiste un amnistia bianca che permette ai potenti di evitare le sbarre, mentre la povera gente muore in cella”. Oltre a Papillon ai cancelli di via Burla erano presenti anche City Angels rigorosamente in divisa rossoblù. Tra i detenuti incontrati da Alfonso Papa, accompagnato nel tour tra le celle da commissario ed ispettore, anche Callisto Tanzi. “Vederlo mi ha turbato, - ha dichiarato il deputato Pdl - pesa 48 chili non riesce neanche a parlare, non è affatto lucido, dice di non capire cosa gli stia succedendo. Durante il colloquio si è accasciato sul letto dolorante. È un uomo anziano, uno dei tanti malati che agonizzano nei penitenziari italiani”. Per quanto riguarda la vicenda personale e il processo in corso a suo carico per le vicende legata alla P4 Papa afferma la propria “fiducia nella magistratura giudicante”. Lodi: “La pena tra comunicazione e informazione”, stasera convegno in sala Granata Il Cittadino, 5 novembre 2012 “La pena tra comunicazione e informazione”. È questo il titolo dell’incontro che si terrà questa sera, alle ore 21, presso la sala Granata, con ingresso dalla Biblioteca ragazzi, in via Solferino. Ad intervenire saranno Ornella Favero, direttore di Ristretti orizzonti, giornale del carcere di Padova, e Carla Chiappini, direttore di Sosta forzata, giornale del carcere di Piacenza. Si tratta dell’evento di apertura di un percorso più lungo, intitolato “La via d’uscita” e pensato dall’associazione Los Carcere. Per dare una mano a oltre 169 persone del Lodigiano a rifarsi una vita. Si tratta dei detenuti a domicilio e in pena alternativa che hanno bisogno di trovare lavoro per reinserirsi nella società. Garantendo, allo stesso tempo, più sicurezza sociale per tutti. Secondo i dati dell’amministrazione penitenziaria, infatti, tra coloro che scontano la pena intera in carcere, la recidiva è del 70 per cento; tra chi è in pena alternativa o a domicilio, invece, la recidiva scende sotto il 30. Senza parlare poi dei costi. Un detenuto dietro le sbarre costa allo Stato anche 150 euro al giorno. L’incontro di questa sera è sostenuto, oltre che da Los Carcere, anche dalla comunità Il Gabbiano, dall’Associazione Lodi per Mostar, da Progetto insieme e dal Bando volontariato Lausvol. Prato: concegnati ai detenuti gli attestato del Corso per Arbitri, presente Gianni Rivera Adnkronos, 5 novembre 2012 Sono stati consegnati questa mattina gli attestati di frequenza del corso per arbitri di calcio destinato ai detenuti del carcere della Dogaia di Prato. Per firmare e consegnare gli attestati è venuta a Prato una delle glorie del calcio italiano di ogni tempo, Gianni Rivera, attuale presidente del Settore Giovanile e Scolastico della Figc ed eroe di Italia-Germania 4-3 del 1970: con lui l'assessore allo Sport del Comune di Prato Matteo Grazzini, il presidente della sezione pratese dell'Associazione Italiana Arbitri Tommaso di Massa e Andrea Becheroni, presidente dell'Associazione 'Riccardo Becheroni' promotrice del corso all'interno di un programma che prevede anche un lavoro di prevenzione sul diabete e sulle malattie vascolari da svolgere sempre all'interno del carcere Pratese. La delegazione sportiva, ricevuta dal direttore del penitenziario Vincenzo Tedeschi, ha incontrato i detenuti che hanno partecipato al corso in una delle sale laboratorio della struttura, dove hanno trovato posto anche altri giovani reclusi interessati alle questioni calcistiche. Undici i diplomi consegnati, con altri tre neo arbitri che invece riceveranno la pergamena a casa visto che nel frattempo sono stati scarcerati: ad ogni partecipante è stato anche consegnato il kit completo da arbitro e il taccuino con i cartellini. Di fatto si è trattato di un corso 'internazionalè, visto che, oltre a due italiani, la qualifica di arbitro è andata a dodici stranieri, tra africani, sudamericani ed europei dell'est. Non sono mancate le domande, soprattutto indirizzate a Rivera, sulle polemiche che riguardano gli arbitri di serie A e sulle difficolta' ad arbitrare partite importanti. "L'arbitro è una figura necessaria e importantissima - ha detto l'assessore Matteo Grazzini - perchè senza di lui non giocheremmo le gare, da quelle di serie A alle tante che si disputano tra amatori su campetti sterrati in ogni provincia d'Italia. Ha il compito difficile di dover far rispettare le regole e quindi questo corso è stato utile per far capire che le leggi del mondo dello sport valgono anche nella vita di tutti i giorni perchè al di la' del regolamento tecnico c'è anche quello morale e sociale che rende l'arbitro umanamente importante". Un concetto ripreso anche da Gianni Rivera, che si è augurato di poter tornare a Prato per iniziative simili: "Chi non ha rispettato le regole e sta pagando con la detenzione - ha detto Rivera - ha avuto modo di apprendere ulteriori regole di vita e le potra' applicare una volta uscito. Per l'eta' ormai avanzata questi ragazzi non possono aspirare a chissa' quale carriera nel mondo arbitrale ma gia' l'aver ottenuto il diploma è una grande soddisfazione". Pisa: “Musica dentro”, nasce coro detenuti Don Bosco con l’Associazione “Il Mosaico” www.gonews.it, 5 novembre 2012 Il direttore della Casa circondariale Fabio Prestopino: “Il nostro obiettivo è riuscire a seguire le orme del teatro-carcere di Volterra”. Un coro di detenuti e detenute dentro il carcere Don Bosco di Pisa. È l’idea dell’associazione culturale Il Mosaico, che ha ottenuto in finanziamenti necessari dalla Fondazione Pisa (la fondazione della locale Cassa di risparmio) per poter avviare il progetto che si articolerà da novembre a giugno e coinvolgerà almeno 30 cantanti. “È un’iniziativa importante - ha detto il direttore della casa circondariale Fabio Prestopino - e il nostro obiettivo è riuscire a seguire le orme del teatro-carcere di Volterra”. Con un investimento di quasi 6 mila euro, sarà possibile., spiega il presidente de Il Mosaico, Riccardo Buscemi, “realizzare questa iniziativa denominata Musica Dentro e suddivisa in due parti: la prima rivolta ai detenuti di educazione musicale e preparazione vocale, svolto in collaborazione con la Compagnia di San Ranieri, associazione cattolica di fedeli laici riconosciuta dall’arcivescovo di Pisa, la seconda con l’esecuzione nella cappella del carcere, in occasione della Settimana Santa, dello Stabat Mater di Pergolesi, concerto con musicisti professionisti”. L’obiettivo di costituire un coro a voci miste in grado di svolgere piccola attività concertistica dentro il carcere ed, eventualmente, fuori, “è una sfida non da poco per l’istituzione penitenziaria - ha concluso Prestopino - ma è un’idea accolta con grande entusiasmo dai reclusi visto che le domande fin qui pervenute superano di gran lunga il tetto delle 30 unità previste nel coro”. Infine, Buscemi, ringraziando la società della salute pisana che suporta il progetto, ha sottolineato che “l’attività musicale diventa non il fine ma il mezzo per favorire il principio di rieducazione della pena, fornendo un’occasione di una sana socializzazione e sviluppando le capacità di relazione e di autocontrollo dei detenuti, agevolandone, per quanto possibile, il reinserimento nella società civile al termine del periodo della pena”. Libri: “Pro Patria”, di Ascanio Celestini… i detenuti e la loro umanità oltre le barriere www.libreriamo.it, 5 novembre 2012 “Questa è la storia di un erbivoro. Un detenuto condannato alla reclusione fino al giorno 99 del mese 99 dell’anno 9999. “Fine pena mai”, come una ghigliottina al rallentatore.” Ascanio Celestini arriva a Terni in occasione della manifestazione letteraria Umbria Libri per presentare al pubblico “Pro Patria” (Einaudi), il suo ultimo libro che vede come protagonista un detenuto dei giorni nostri che nella solitudine del carcere, sceglie di evadere, anche solo mentalmente, grazie alle parole di Pisacane, Cattaneo, Mazzini, Mameli, protagonisti dei pochi libri che l’istituzione carceraria gli permette di consultare. “Prima che cada anche la sua testa, l’erbivoro si affaccia alla finestra della Storia per scrivere un discorso: le parole dei primi eroi del Risorgimento, entrate di soppiatto tra i muri della cella, ne hanno spalancato le porte al vento.” Ascanio Celestini rilegge così la storia dell’Unità d’Italia in chiave anarchica e rivoluzionaria, conducendo il lettore in un viaggio vertiginoso dove i martiri e gli eroi non hanno neanche trent’anni, e pagano con la vita la capacità di sognare. La scelta alla base del libro è quella di andare alla ricerca di personaggi “umanamente interessanti”, e i detenuti, a cui sono state annullate (estirpate, stracciate) tutte le barriere, hanno una umanità particolarmente esposta. L’idea di Celestini è dunque di concentrarsi su situazioni in cui l’uomo è “visibile” e non nascosto da protezioni e barriere costruite dalla società che ne rendono difficile, se non impossibile, scoprirne la “vera umanità”. “Quand’è che il furto di una mela diventa un reato? C’è un limite? C’entra con la qualità della mela? La statua della giustizia davanti al tribunale ha una bilancia in mano, ma entrambi i piatti sono vuoti. Non è una bilancia per pesare la frutta”. Il libro è tratto dall’omonimo spettacolo teatrale “Pro Patria”, andato in scena nel corso della stagione 2011/2012 e prodotto dal Teatro Stabile dell’Umbria. Un racconto teatrale nel quale Celestini cerca di ricucire i fili della storia del nostro Paese, ritrovando quella scintilla intellettuale e politica che ha dato vita a un’esperienza lunga e dolorosa, un percorso che ha coinvolto uomini e donne uniti da un grande ideale: fare l’Italia. Una narrazione che colloquia tra presente e passato, in cui rivivono anche storie minori, quelle dimenticate dai libri, storie che raccontano della brutalità della guerra, piena di giovani vittime incoscienti e della brutalità della detenzione, specie per chi viene discriminato. Immigrazione: la vergogna “Centri di identificazione ed espulsione”… di Piero Innocenti Il Mattino di Padova, 5 novembre 2012 Nel 2012 le rivolte e le proteste, talvolta culminate anche con gravi episodi di violenza, nei tredici Centri di identificazione ed espulsione distribuiti sul territorio nazionale per “ospitare” gli stranieri “irregolari” si sono susseguite. Con maggiore frequenza rispetto al 2011, anno in cui, pure, erano stati numerosi i momenti di tensione. All’inizio della scorsa estate, a Trapani, nel nuovo complesso di contrada Milo, una trentina di migranti sono riusciti a “fuggire” e altri, pochi giorni dopo, hanno tentato una rivolta e la fuga, al grido di “Libertà, libertà”. Lo stesso grido lanciato dai tunisini trattenuti nel Centro di prima accoglienza di Pozzallo, che ai primi di settembre si sono rivoltati, scontrandosi con le forze di polizia (cinque agenti e carabinieri rimasti feriti).Che qualcosa non vada in queste strutture è sotto gli occhi di tutti, ma si continua a fare finta di niente. E intanto anche in questi giorni continuano gli sbarchi lungo le coste del Sud Italia e nel Canale di Sicilia si continua a morire. In questi luoghi di “detenzione” (specificata, nelle circolari ministeriali e dalle autorità, con l’ipocrita aggettivo di “amministrativa”), alla data del 18 settembre scorso erano trattenuti 901 stranieri “irregolari”, di cui 800 uomini e 101 donne. Questa “carcerazione” (è il termine più appropriato), che può arrivare sino a diciotto mesi (grazie a una legge del 2011cheharecepito, tra l’altro, una direttiva comunitaria del 2008), si è rivelata, oltretutto, uno strumento irrilevante e poco efficace - contrariamente a quanto sostenuto in passato dall’ex ministro leghista Maroni - nel contrasto all’immigrazione irregolare. Basti pensare che nel 2011 su 7.735 migranti (6.832 uomini e 903 donne) transitati nei Cie, solo la metà (3.880) sono stati effettivamente rimpatriati nei paesi di origine. Nel 2010, la percentuale di trattenuti/rimpatriati era stata del 48%. È aumentato, peraltro, il numero dei migranti che si sono allontanati “arbitrariamente” dai Cie: 787 nel 2011 contro i 321 dell’anno prima. Quest’anno su 5.642 stranieri transitati nei Cie, sono stati ben 733 quelli che hanno deciso di andarsene (nottetempo). A questo numero, già ragguardevole, vanno aggiunte le persone dimesse per la scadenza dei termini di trattenimento (277), quelle nei cui confronti il giudice di pace non ha convalidato il provvedimento amministrativo di accompagnamento (687) e quelle dimesse per vari motivi (895). Insomma, un totale di ben 2.592 persone. Le denunce sulle pessime condizioni in cui si trovano gli stranieri nei centri vanno avanti da anni senza che la classe politica abbia mai avuto il coraggio di affrontare seriamente i problemi connessi alle condizioni socio-sanitarie di tali strutture, alle modalità di gestione, al rispetto dei diritti degli immigrati. Otto anni fa, Medici senza frontiere (Msf) in un rapporto dal titolo “Cpta: anatomia di un fallimento”, stilato dopo diverse visite fatte ai centri, non lasciava alcun dubbio sul loro pessimo funzionamento, sul profondo malessere delle persone “ospiti”, con gravi episodi di risse, rivolte, autolesionismi, somministrazione ripetuta di sedativi. Nel 2007 toccò alla Commissione De Mistura (dal nome dell’ambasciatore che la presiedette), sottolineare, invano, la precarietà e l’inidoneità dei centri di accoglienza e di trattenimento (così si chiamavano allora), formulando alcune raccomandazioni (per lo più inascoltate) che avrebbero potuto consentire di affrontare il “problema della irregolarità” degli stranieri in maniera “più creativa ed efficace “. Nel 2010 ancora Msf, con un corposo rapporto-denuncia, riportava all’attenzione dell’opinione pubblica e delle autorità, la penosa situazione dei Cie. Anche questa volta il governo è rimasto sordo. Cinque mesi fa, dopo un lungo lavoro, la Commissione straordinaria senatoriale per la tutela e la promozione dei diritti umani, ha approvato, all’unanimità, il “Rapporto sullo stato dei diritti umani negli istituti penitenziari e nei centri di accoglienza e trattenimento per migranti in Italia” e lo ha presentato al ministro della Giustizia, Paola Severino. I senatori scrivono che “...le condizioni nelle quali sono detenuti molti migranti irregolari nei Cie (…) sono molto spesso peggiori di quelle delle carceri”. Nessuna iniziativa è stata ancora presa per rendere meno drammatica e meno vergognosa per il nostro Paese questa situazione di “accoglienza” dei migranti che, intanto, continuano ad approdare, numerosi, sulle coste del Sud Italia (8.581 sempre alla data del 18 settembre). Lo spread, l’andamento delle Borse, la disoccupazione giovanile, la crescita, l’anticorruzione, la trattativa Stato-mafia, le intercettazioni, la nuova legge elettorale, sono certamente tutti temi importanti, “vitali” per il nostro Paese. Ma la vita delle migliaia di persone che fuggono da guerre, da carestie e cercano un riparo da noi, non dovrebbe avere un po’ più di attenzione da parte dei “tecnici” al governo? Immigrazione: inchiesta sul Cie di Torino; costi elevati, scarsa utilità e diritti negati di Federica Cravero La Repubblica, 5 novembre 2012 “I would like that centre to disappear. That’s it”. Inizia così, con questa citazione dell’intervista numero 17, lo studio sul Cie di Torino effettuato da sei ricercatori dell’International University College of Turin, prestigiosa associazione di studi giuridici, che per un anno e mezzo hanno fatto ciò che sui Centri di identificazione ed espulsione non si era mai visto, ovvero hanno dato voce ai reclusi. Ventinove interviste raccolte dal gennaio 2011 al giugno di quest’anno tracciano un quadro critico sulla struttura di corso Brunelleschi e sull’opportunità di una misura di detenzione che ha costi decisamente elevati per le casse pubbliche ma di fatto non affronta che un’esigua parte dell’immigrazione irregolare. Per ogni “ospite” si spendono 4045 euro al giorno, oltre 1.200 al mese, quasi ottomila a semestre, escluse le spese per la sorveglianza delle forze dell’ordine, quelle di gestione della struttura e quelle per costruirla: l’ampliamento di due anni fa è costato 14 milioni, 78 mila euro a posto letto. Cifre già di per sé alte, che diventa enormi se si pensa che nella metà dei casi la detenzione è inutile visto che nel 2011è stato rimpatriato il 57 percento degli stranieri, 650 su 1.100 circa trattenuti. Per l’altra metà dei detenuti le porte dei Cie vengono riaperte: dopo aver fatto tutti i tentativi possibili per identificarli, tornano in libertà. I costi sono anche in proporzione ai tempi di detenzione. Se fino a qualche anno fa i rimpatri erano rapidi, in media 9 giorni, ora ci vuole oltre un mese e mezzo, con la punta record di un senegalese che è stato dentro 8 mesi perché non riuscivano a identificarlo con sicurezza. In questo le ambasciate e i consolati dei paesi d’origine giocano una parte fondamentale: molti funzionari non collaborano oppure, in assenza di documenti, non garantiscono non solo l’identità ma nemmeno la nazionalità di uno straniero. “Betwixt and Between: Turin’s Cie” è il frutto della Human Rights and Migration Law Clinic, un programma condotto dall’Iuc di Torino con l’Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione (Asgi) e le facoltà di Giurisprudenza di Torino e dell’Università del Piemonte Orientale. “A dare impulso alla ricerca - spiega Maurizio Veglio, supervisore e avvocato specializzato in diritto dell’immigrazione - è stato il fatto che diverse istituzioni e organizzazioni, locali e internazionali, si fossero interessate alla condizione del Cie di Torino e spesso lo avessero bacchettato. E soprattutto, mentre si trovano diversi rapporti di medici o giuristi sui Cie, mancava uno studio sugli stranieri stessi”. Il risultato è una miscellanea di racconti dolorosi, che saranno presentati il7 dicembre al Torino Study Abroad di via Santa Teresa 20. Si legge la storia di due tunisini, marito e moglie, rimasti per sei mesi in aree separate: alla sera lo staff li faceva incontrare perché parlassero un po’, poi sono stati entrambi rimpatriati. Drammatica la storia di una donna tenuta per sei mesi, mentre i suoi 4 figli erano a Reggio Calabria, visto che per i minori il Cie non è previsto. “Voglio morire perché la mia famiglia mi manca troppo”, dice un’altra mamma: la figlia di 9 anni sta Roma, troppo distante per venirla a trovare. Un ventisettenne dalla Costa d’Avorio, arrivato in Italia da bambino, ha tentato disperatamente di non farsi espatriare: “Non ho nessuno là, tutta la mia vitaè qua. Il giorno che mi mettono su quell’aereo sarò morto”. “Si tratta di persone fortemente sotto stress per la condizione in cui vivono, private della libertà. Questo può essere un limite della ricerca perché possono esasperare certe situazioni, ma a noi interessava mostrare la loro visione”, spiega Ulrich Stege dell’Iuc. Il rapporto scende anche in dettagli solo apparentemente minori: la mancanza di uno spazio di culto, la convivenza non facile tra etnie, il fatto che venga rotta la telecamera del cellulare perché nei Cie si può telefonare ma non filmare, fino ai prezzi esorbitanti del mercatino interno: 3 euro e mezzo per una bibita, 2 euro il sapone, 4-5 euro lo shampoo, quando ogni trattenuto riceve 20 euro a settimana. “Circa il 30% delle persone che entrano al Cie sono detenuti che hanno scontato la loro pena e non capiscono questa seconda detenzione in attesa di essere espulsi - spiega l’avvocato Veglio - Paradossalmente in carcere diritti e doveri sono ben regolamentati e c’è maggiore libertà, mentre nei Cie regna l’incertezza. Per esempio le visite dei familiari spesso vengono annullate all’ultimo, dopo ore di attesa, perché c’è un’unica sala di colloqui e viene data la precedenza ad avvocati e delegazioni diplomatiche. La privacy non sempre è garantita perché sta al singolo operatore decidere se chiudere la porta della stanza o stare a guardare. Poi in carcere ci sono attività strutturate, si lavora e si studia, mentre al Cie il tempo non passa mai e l’intrattenimento è spesso affidato a preti e suore che portano un filmo un mazzo di carte”. Non è una gran consolazione che una recente visita di alcune organizzazioni come Save The Children e Oim abbia trovato il Cie di corso Brunelleschi in condizioni migliori rispetto agli altri centri italiani. Il giudizio degli stranieri è anche positivo riguardo al cibo (e al rispetto dei problemi dietetici e dei dettami religiosi), all’assistenza medica (anche se lenta per la troppa burocrazia) alla recente introduzione degli psicologi dopo i 156 episodi di autolesionismo nel 2011. Ma gli sforzi della prefettura, della questura e della Croce Rossa che lo gestisce nulla possono rispetto al quadro giuridico. In Italia, infatti, la norma europea che prevede due forme di espulsione, quella volontaria che dà allo straniero un tempo massimo entro cui superare la frontiera e quella coatta, è stata recepita in modo da far prevalere la seconda opzione, con la conseguenza che i Cie hanno assunto un ruolo chiave. A maggior ragione dopo che l’Ue ha portato a 18 mesi il tempo massimo di reclusione in attesa di identificazione: probabilmente troppo per parlare di una misura temporanea. Droghe: i tossicodipendenti in carcere e le “belle intenzioni” del ministro Riccardi di Roberto Spagnoli Notizie Radicali, 5 novembre 2012 “La vita dei tossicodipendenti in carcere è un inferno ed è difficile avviarli verso un percorso di guarigione”. Lo ha detto il ministro Andrea Riccardi intervenendo ad un incontro internazionale sulle strategie di prevenzione dell’uso di droghe che si è svolto alla Scuola superiore di Polizia, a Roma, all’inizio di ottobre. In quella occasione il ministro ha sollecitato a “fare di più per trovare percorsi alternativi ai tossicodipendenti detenuti per reati legati alla droga” invitando ad “una riflessione più coraggiosa sull’intera questione carceraria, incluso il problema del sovraffollamento”. Pochi giorni fa, in occasione di una visita alla comunità di San Patrignano, Riccardi è tornato sull’argomento dicendo che l’alto numero di tossicodipendenti presenti nelle carceri italiane è un problema che conosce e di cui ha già parlato con il ministro della Giustizia Paola Severino. “È una situazione difficile, ma da risolvere al più presto”, ha detto il ministro, perché “tenere un tossicodipendente in carcere è un’azione grave e non va nella direzione del recupero”. Rassicura sapere che il ministro Riccardi conosce il problema dei tossicodipendenti in carcere e ne abbia parlato con la sua collega Severino, perché i provvedimenti adottati dal governo non hanno fino ad ora prodotto nulla. I detenuti erano 66.800 al 31 dicembre del 2011, prima cioè avesse effetto il cosiddetto decreto “salva-carceri”, ed erano 66.600 il 30 settembre del 2012: in pratica la situazione è rimasta invariata. Dunque, se la situazione va risolta al più presto, come ha dichiarato il ministro occorre che il governo prenda modifichi le due leggi che più di altre hanno contribuito a provocare il disastro delle carceri italiane: la legge sull’immigrazione e quella sulle droghe. Immigrazione e droghe sono proprio due competenze affidate al ministro Riccardi. E per capire quali siano gli effetti della legge sulle droghe sulla carcerazione basta guardare i numeri: nel 2011 le denunce per fatti di droga sono state 33.686, con condanne da 6 a 20 anni di carcere, il 41% delle quali per droghe leggere. I detenuti per fatti di droga sono il 32% del totale e il 40% di questi sono detenuti per fatti di lieve entità. Secondo l’associazione Antigone con le misure alternative, abbassando le pene per i fatti di lieve entità ed eliminando gli effetti delle norme sulla recidiva si potrebbe far uscire dal carcere 10 mila tossicodipendenti e di evitare l’ingresso di 10 mila detentori, arrivando così quasi al pareggio tra il numero di detenuti a quello dei posti regolamentari disponibili. Sul piano più generale della lotta e della prevenzione delle dipendenze Riccardi è convinto che occorra creare sinergie a livello internazionale, “dove ognuno possa contribuire con le proprie esperienze e far tesoro delle esperienze altrui”. Andare da soli è perdente. Gli sforzi dei singoli Stati non sono sufficienti a fronteggiare la sfida. “Alla globalizzazione del traffico e dello spaccio - ha dichiarato Riccardi all’incontro internazionale che citavamo all’inizio - occorre opporre la globalizzazione delle strategie di prevenzione e di contrasto che veda impegnati tutti gli Stati”. “Con il patrimonio di esperienze e conoscenze reso disponibile - ha proseguito il ministro - si potrà creare un vero e proprio ‘Consorzio di solidarietà, una serie di percorsi che metteranno in contatto i policy makers dei diversi Paesi e consentiranno loro di implementare i sistemi di prevenzione nazionale”. “Nella lotta alle dipendenze c’ è un aspetto normativo, repressivo, ma c’è soprattutto - secondo il ministro - la scelta per una battaglia di tipo culturale, e professionale”. Peccato, però, che non sia stato coerente con le sue dichiarazioni di principio decidendo di non organizzare la Sesta conferenza nazionale sulle droghe che avrebbe permesso di rendere disponibile e mettere in comune, in una sede istituzionale almeno nel nostro Paese, le esperienze e le conoscenze di scienziati, studiosi e operatori. E nel frattempo il governo ha deciso dare vita anche in Italia a “coalizioni antidroga” rafforzando la partnership con il governo degli Usa, cioè del Paese che resta il più strenuo difensore del proibizionismo nonostante mezzo secolo di fallimenti sempre più evidenti e drammatici. India: il ministro Di Paola ai marò; vi siamo vicini, fiducia vostro rientro a breve Ansa, 5 novembre 2012 Il ministro della Difesa, Giampaolo Di Paola, in occasione della festa dell’Unità nazionale e delle Forze Armate, si rivolge ai marò italiani porgendo sostegno e vicinanza. “Ciao Massimiliano e Salvatore, un saluto affettuoso a voi, che siete ingiustamente trattenuti in India. Vi siamo vicini, fino alla giusta risoluzione del vostro caso. Sono fiducioso della soluzione della Corte suprema indiana”, che riconoscerà “il vostro diritto ad essere giudicati in Italia”: ha detto il ministro in un collegamento audio-video con l’India, non previsto nella scaletta dei messaggi che ha rivolto al personale militare italiano impegnato nei teatri operativi all’estero. Massimiliano La Torre e Salvatore Girone, detenuti a Kochi, nello Stato di Kerala, in India, da oltre otto mesi, hanno a loro volta ringraziato il sostegno e l’appoggio dell’Italia, ringraziando “non solo Di Paola - ha sottolineato Girone - ma anche per il ministro degli Esteri, Giulio Terzi e l’intero governo per il sostegno che da oltre otto mesi abbiamo e per l’importante impegno che l’Italia ci sta mettendo per la soluzione della vicenda”. Anche La Torre ha voluto ringraziare “il popolo italiano per il sostegno che ci da”. Il ministro Di Paola è nuovamente intervenuto sottolineando “voi non dovete ringraziare, il nostro dovere è esservi al fianco. Siamo noi che vi ringraziamo per la dignità e per l’onore con cui state vivendo questo momento difficile e prolungato. Un sincero in bocca al lupo e sono fiducioso che possiate riabbracciare i vostri cari non solo lì, come avviene ora, ma anche in Italia, e questo ha un altro sapore” . Napolitano: ogni tenace sforzo per riportarli a casa “Continueremo a compiere ogni tenace sforzo per riportare a casa” i due Marò detenuti in India. Lo ha detto il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, durante la cerimonia di consegna delle decorazioni dell’Ordine Militare d’Italia che si è svolta al Quirinale in occasione della festa del 4 novembre. Il capo dello Stato ha manifestato la propria “vicinanza” e “gratitudine” verso tutti i militari e sottolineato il “particolare affetto e ansietà per quelli tra loro che si vedono ancora privati della libertà - parlo dei nostri Marò detenuti in India - a causa di un’insufficiente garanzia di tutela dell’impegno esplicato nella missione internazionale contro la pirateria nell’Oceano Indiano”. Turchia: il premier Erdogan lancia avvertimento a detenuti curdi in sciopero della fame Tm News, 5 novembre 2012 Il premier turco Recep Tayyp Erdogan ha avvertito oggi le centinaia di detenuti che da 53 giorni conducono uno sciopero della fame in sostegno del leader dei ribelli curdi, Abdullah Ocalan, di non trasformare la loro protesta in una “estorsione”. “Non trasformate questo sciopero in una estorsione”, ha detto Erdogan, parlando al congresso annuale del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo, che celebra il decennale del suo arrivo al potere. Nel frattempo la polizia ha utilizzato i gas lacrimogeni e gli idranti per disperdere i manifestanti curdi che lanciavano pietre e bombe Molotov durante una manifestazione nella città di Diyarbakir in favore dello sciopero dei detenuti, nel sudest del paese. Almeno 20 manifestanti sono stati arrestati durante gli scontri. I detenuti chiedono il rilascio di Ocalan, che sta scontando dal 1999 una condanna all’ergastolo. Erdogan: cittadini turchi vogliono la pena di morte per Ocalan I cittadini turchi vogliono la reintroduzione della pena di morte per il fondatore del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), Abdullah Ocalan. Lo ha dichiarato il premier di Ankara, Recep Tayyip Erdogan, intervenuto ieri all’assemblea annuale del Partito per la giustizia e lo sviluppo (Akp), da lui guidato. Secondo quanto riferito oggi dai media turchi, il premier ha inoltre dichiarato che non si far ricattare dagli oltre 600 detenuti che in tutto il paese stanno conducendo uno sciopero della fame per chiedere la fine dell’isolamento dell’ex leader curdo. “Il nostro paese ha abolito da anni la pena di morte, ma la maggior parte dei nostri cittadini vuole che venga ripristinata dal momento che troppe persone hanno sofferto per la morte dei loro cari”, ha detto Erdogan. La scorsa settimana le autorità turche hanno concesso ai familiari di Ocalan di visitare il loro congiunto in prigione nella speranza di porre fine allo sciopero della fame dei 682 detenuti che in tutto il paese chiedono il rilascio dell’ex leader del Pkk. Ocalan rinchiuso nella prigione di Imrali dal 1999, quando fu condannato a morte per attività terroristiche. Tre anni più tardi, nel 2002, la Turchia abolì la pena di morte e la sua condanna fu convertita in ergastolo. Nel 2005, tuttavia, la Corte di giustizia europea ha stabilito che il processo nei confronti del leader separatista stato “ingiusto”. Nella sentenza si sostiene che il “ricorrente” non stato giudicato da un tribunale indipendente e imparziale. Georgia: contro "carcere crudele" almeno 15 detenuti si cuciono la bocca Tm News, 5 novembre 2012 Almeno 15 carcerati georgiani si sono cuciti la bocca - letteralmente, con ago e filo - per denunciare maltrattamenti e abusi dei loro diritti da parte dell'amministrazione penitenziaria. Accade nella prigione di Ksani, nel centro della Georgia, dove la protesta dei detenuti, riporta in auge il problema delle condizioni carcerarie, particolarmente scottante in questa fase per il Paese caucasico, dato che uno scandalo su maltrattamenti di prigionieri ha in fin dei conti portato un mese fa alla sconfitta del partito governativo e all'arrivo al potere dell'attuale governo guidato da Bidzina Ivanishvili. A Ksani, l'iniziativa dei carcerati è appoggiata dall'esterno dai familiari che, a decine, picchettano la prigione, riferisce Gazeta.ru. Ieri hanno tentato di entrare nel carcere, ma sono stati respinti dalle guardie: una di loro è finita in ospedale con serie contusioni. A un attivista della difesa dei diritti fondamentali, Georgy Lordkipanidze, è stato permesso l'ingresso nella prigione della protesta e, dopo il sopralluogo, ha riferito che i detenuti chiedono che venga cambiata l'amministrazione del carcere, poiché quella attuale "è troppo crudele". Una simile protesta nella città di Rustavi, nel Sud-est, solo una settimana fa è finita proprio con il siluramento dei dirigenti del carcere. L'argomento è particolarmente delicato per i dirigenti georgiani, dopo il caso del video che mostra terribili abusi su detenuti georgiani, diffuso alla vigilia delle elezioni del primo ottobre. La vicenda ha scatenato un'ondata di proteste e sfiducia nei confronti del governo, portando al ribaltamento dell'esito delle elezioni del primo ottobre rispetto alle generali previsioni. Il leader dell'opposizione catapultata al potere, il miliardario Bidzina Ivanishvili, ha promesso di occuparsi del problema e di garantire i diritti dei detenuti. Russia: caso Magnitsky; la foto della sua cella finisce in rete e si riaprono le polemiche Corriere della Sera, 5 novembre 2012 Il Daily Mail pubblica un’immagine del carcere dove morì l’avvocato che denunciò la corruzione dentro Gazprom. Un articolo. E soprattutto una foto. Che riportano a galla una storie più brutte del regime di Putin e che scatenano il dibattito in rete. Succede in Gran Bretagna, dove il magnate Bill Browder scrive sul Daily Mail un articolo in cui ripercorre l’atroce vicenda di Sergei Magnitsky, 37 anni, avvocato della Hermitage Capital Managment, finito in carcere in Russia con l’accusa di frode fiscale, subito dopo aver denunciato il sistema di corruzione all’interno di Gazprom, il colosso energetico. Magnitsky è morto nel 2009 in carcere, ufficialmente per arresto cardiaco, ma si sospetta che sia stato torturato a morte. A sostegno della testimonianza di Browder, il Daily Mail pubblica una foto terribile, che potrebbe essere stata scattata dallo stesso Magnitsky durante la sua prigionia nel carcere moscovita di Matrosskaya Tishima. Sembra un lager nazista. E invece è una cella della Russia di oggi, in cui sono rinchiuse decine di uomini, tutti seminudi, malnutriti, circondati dalla sporcizia e dai topi. Secondo le informazioni raccolte da Browder, Magnitsky sarebbe stato costretto a mangiare cibo andato a male, con le larve di scarafaggio dentro la scodella di metallo. Poi le botte e le torture. Magnitsky lavorava per Browder, che ha raccolto un dossier sulla sua storia spedito all’Osce, dopo essersi trasferito da Mosca a Londra. Ora il dipartimento dell’inchiesta del Ministero degli Affari Interni della Russia ha concluso le indagini dell’affare riguardante il giurista del Fondo Hermitage Capital. I rappresentanti del fondo hanno dichiarato che nei prossimi giorni il Ministero degli Affari Interni della Russia ha intenzione di passare la causa Magnitsky al procuratore per firmare l’atto d’accusa. Ma ciò che ha smosso di più le coscienze, almeno in rete, è quell’immagine della cella. Immediatamente la foto è stata postata su Facebook e Twitter. Varie associazioni - tra cui i gruppi di sostegno alle Pussy Riot e alle tre componenti del collettivo punk ora in carcere per aver cantato contro lo zar Putin - hanno ricominciato a parlare del caso Magnitsky. E non solo. Ha ripreso a circolare anche una petizione indirizzata al presidente degli Stati Uniti che chiede all’America di applicare sanzioni contro la Russia finché non verranno condannati i colpevoli e di bloccare i conti dei responsabili. Ad oggi, infatti, l’unico imputato per la morte dell’avvocato è il direttore del carcere. Il tutto mentre dal Cremlino Putin si guarda bene dal replicare. E mentre le organizzazioni non governative sostengono che più di 100 mila uomini di affari sono in cella, accusati di reati economici, colpevoli in realtà di aver pestato i piedi allo zar.