Giustizia: pene alternative per reati fino a 4 anni; la Camera approva prima parte del Ddl di Claudia Fusani L’Unità, 30 novembre 2012 Il Ministro Severino al Pdl: “Nessuna amnistia”. Contro il sovraffollamento una legge sulle punizioni alternative, da varare prima di Natale. A suo modo è una rivoluzione. Per la prima volta nel sistema complesso e delicato delle pene, che misura il livello di civiltà di un paese, entra per legge una punizione che non prevede come prima opzione il carcere. Come seconda opzione viene prevista anche la richiesta, da parte dell’imputato, con il consenso della vittima e dopo la decisione del giudice, la cosiddetta “messa alla prova”, che si traduce nella trasformazione della detenzione in lavori socialmente utili. Non retribuiti. In questo scorcio di fine legislatura, teso e ostaggio dei rapporti di forza dei partiti, ieri l’aula di Montecitorio ha approvato la prima parte del disegno di legge “in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova, pene detentive non carcerarie e sospensione del provvedimento nei confronti degli irreperibili”. Il voto finale è previsto la prossima settimana. L’obiettivo è che farlo approvare dal Senato anche prima di Natale. Che dopo diventa tutto molto più a rischio. È un argomento che certo non ha l’appeal dello scontro nel centrosinistra tra Renzi e Bersani né il fascino perverso del destino ancora indefinito del centro destra. Ma è politica, vera, quella che assume decisioni e decide i cambiamenti del patto di cittadinanza. Il provvedimento è la terza gamba del piano di governo del ministro Guardasigilli Paola Severino e che prevedeva lotta alla corruzione, riforma dei distretti giudiziari e miglioramento delle condizioni dei detenuti nelle carceri. Dopo lo “svuota carceri” (ai domiciliari gli ultimi 18 mesi di detenzione; stop alle detenzioni due poche ore, il fenomeno delle porte girevoli) è il provvedimento che interviene a monte del fenomeno del sovraffollamento dei penitenziari. “Mi pare che non ci sia nulla di più distante da un’amnistia” ha tuonato ieri mattina in aula il ministro Severino difendendo con le unghie e con i denti il suo disegno di legge dagli attacchi, prevedibili, di Lega, Idv, gli ex An e un pezzo di Pdl. “L’amnistia estingue reati e pene. Qui invece c’è un giudice che, caso per caso, per reati non pericolosi socialmente e in ogni caso puniti con pene non superiori ai quattro anni, può decidere di far scontare la pena non in carcere ma agli detenzione domiciliare”. Sempre agguerrita il ministro Severino. Ma poche volte, in questo anno intenso per il dicastero della Giustizia, lo è stata come in questi due giorni (tra mercoledì e giovedì) in cui la Camera ha cominciato la votazione del provvedimento. “Il catastrofismo che ho ascoltato nel dibattito in aula sulle pene alternative al carcere è francamente un deja vu. Sono gli stessi allarmi ascoltati in questa aula ai tempi dello svuota-carceri. Ma i numeri ci dicono che quel provvedimento è stato utile visto che i detenuti sono diminuiti di quasi duemila unità (68.047 nel dicembre 2011; 66.687 nell’ottobre 2012, ndr), si contano sulle mani le recidive e non c’è stato alcun allarme sociale di quelli annunciati con tanta dovizia di particolari in questa aula”. Paure figlie di pregiudizi e di un populismo facile. Il provvedimento che sarà licenziato la prossima settimana prevede che per i reati non gravi, puniti in via definitiva fino a 4 anni, il giudice può di volta in volta valutare di far scontare la pena agli detenzione domiciliare. Una volta valutate le condizioni oggettive del domicilio. E ascoltato il parere della vittima. Il testo prevede anche la sospensione del processo con messa alla prova dell’imputato. Deve essere l’imputato, cioè, “non oltre l’apertura del procedimento di primo grado” a chiedere la sospensione definitiva del processo e di essere ammesso ai lavori socialmente utili. Obiettivo del disegno di legge è alleggerire il peso sulle carceri e sulle aule di giustizia. In questo senso va la terza parte del provvedimento, quella che sospende i processi per gli irreperibili. “Una manna per spacciatori, clandestini e stranieri colpevoli di reato” è stata la replica di una parte dell’aula. Giustizia: Ddl Severino; partiti divisi su nuove misure mentre continuano proteste detenuti Adnkronos, 30 novembre 2012 Divide i partiti il disegno di legge contenente misure alternative alla detenzione in carcere, in discussione alla Camera. E mentre in Parlamento si discute, la situazione carceraria è sempre più drammatica, tra suicidi e scioperi della fame dei detenuti. ‘Mi pare che non ci sia nulla di più distante da un’amnistia”, ha precisato il ministro della Giustizia, Paola Severino, riferendosi al ddl elaborato dal governo. L’amnistia, ha ricordato il ministro arrivando al Salone della Giustizia, in corso a Roma, “è un provvedimento che riguarda tutti i reati, invece il ddl dà facoltà al giudice di applicare la misura domiciliare, quindi fa sì che continui la detenzione, riguarda inoltre singole persone, viene sempre valutata la pericolosità del soggetto e serve il consenso della persona offesa”. “In questo senso - ha concluso il ministro - io tengo in massima considerazione l’interesse delle vittime”. “Un grave errore, un’altra amnistia mascherata, dopo il decreto Severino che, di fatto, ha eliminato il carcere per i reati tipici della microcriminalità”, è invece l’opinione del presidente della commissione Difesa della Camera dei deputati Edmondo Cirielli. “L’impianto complessivo della norma - ha spiegato - priva il cittadino di ogni tutela e la persona offesa del reato, scaricando su di essi l’inefficienza dello Stato. Si dà un nuovo colpo alla certezza della pena, con la conseguenza di diffondere un messaggio di sostanziale impunità per chi delinque e commette reati di grave allarme sociale”. “Il governo dei tecnici di fronte a un problema molto serio ha preferito trovare una soluzione facile piuttosto che una efficace. Non è con l’amnistia mascherata che l’Italia risolve il problema del sovraffollamento delle carceri, semmai le svuota con grandi rischi per la sicurezza”, rincara la dose Pietro Laffranco, vicepresidente dei deputati del Pdl, puntando il dito contro il disegno di legge sulle misure alternative al carcere. Per l’esponente Pdl “rimane irrisolto il gravissimo problema dell’uso eccessivo della carcerazione preventiva, quello della presenza degli extracomunitari che dovrebbero scontare le pene detentive nei loro Paesi d’origine”. Il disegno di Legge sulle pene detentive alternative - prosegue Laffranco - così com’è impostato è solo l’ennesimo colpo alla certezza della pena, che fa aleggiare un segnale d’impunità. Mentre resta del tutto irrisolto il tema della rieducazione dei detenuti, che dovrebbe avvenire in istituti strutturati in modo molto diverso dalle attuali carceri e che è il vero punto della questione”. “Dispiace che sulla necessaria riforma delle pene alternative al carcere, che darebbe risposte alle istanze del presidente Napolitano e del Papa, chi si era sperticato in rassicurazioni oggi parli d’altro”, afferma invece il senatore del Partito Democratico Roberto Di Giovan Paolo, presidente del Forum per la Sanità Penitenziaria. Di Giovan Paolo si augura che “si approvino finalmente queste misure, che non significano rimettere in libertà frotte di detenuti ma garantire una pena più umana e possibilità di recupero”. “Il governo potrebbe valutare il ricorso a un decreto che raccolga alcune proposte contenute nel rapporto redatto dalla Commissione mista per affrontare il drammatico problema dell’emergenza carceri”, è l’invito rivolto dal consigliere del Csm, Glauco Giostra, presidente della Commissione mista per lo studio dei problemi della magistratura di sorveglianza, che ha redatto un dossier, con alcune indicazioni per intervenire sul sovraffollamento delle carceri, presentato oggi al Salone della Giustizia. In particolare, lo studio evidenzia alcuni interventi normativi che, modificando le modalità di intervento sulle misure alternative potrebbero produrre una riduzione della presenza dei detenuti quantificati, come ha riferito lo stesso Giostra in un numero che va 5 a 10 mila in un anno e un mancato ingresso tra le 15 e le 20 mila unità. Il dibattito alla Camera sul ddl che prevede misure alternative al carcere dimostra “sussulti di fine legislatura, su un tema importante che diventa terreno di scontro politico e di propaganda”, ha detto il vicepresidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, Anna Canepa. Canepa ha poi espresso l’auspicio che il provvedimento vada avanti , e si è detta contraria a provvedimenti come l’amnistia, che “non risolvono i problemi strutturali”. Il dibattito in Aula alla Camera sul ddl misure alternative al carcere “è uno spettacolo di forcaioli che cercano consenso elettorale”, ha rilevato Valerio Spigarelli, presidente dell’Unione Camere penali, intervenuto a un dibattito al Salone della Giustizia. Altro tema “caldo” è quello del braccialetto elettronico per il controllo dei detenuti ai domiciliari, uno strumento “che va utilizzato se ha determinate caratteristiche tecniche”, ha detto il ministro della Giustizia, Paola Severino. Il dibattito in corso con il ministero dell’Interno, ha ricordato il Guardasigilli “verte su questo. Se le caratteristiche tecniche sono migliorabili, allora lo strumento non è del tutto efficace”. Nessuna preclusione da parte dei magistrati all’uso dei braccialetti elettronici per il controllo dei detenuti in detenzione domiciliare. Lo ha detto la stessa vicepresidente dell’Anm, Anna Canepa”. Se funzionano si devono usare - ha detto Canepa a margine di un convegno al Salone della Giustizia - tutti gli strumenti che servono a deflazionare il carcere sono i benvenuti”. Nel frattempo, nelle carceri italiane si continua a morire. Oggi altri due suicidi in cella: un giovane detenuto si è tolto la vita a Piacenza e un altro a Taranto. Per il segretario generale aggiunto del sindacato autonomo di polizia penitenziaria, Giovanni Battista Durante, “è l’ennesima tragedia nelle sovraffollate carceri italiane dove ormai è un vero e proprio bollettino di guerra”. Nel primo semestre del 2012 “ci sono stati 3.617 gesti di autolesionismo, 637 tentativi di suicidio, 25 suicidi, 51 decessi per cause naturali, 541 ferimenti e 2.322 colluttazioni. Dal primo gennaio del 1992 al 30 giugno del 2012 - conclude il segretario generale aggiunto del Sappe - ci sono stati 112.844 atti di autolesionismo, 16.388 tentativi di suicidio, 1.097 suicidi e 1.924 decessi per cause naturali”. Sono 43.400 i detenuti che da cento carceri italiane hanno aderito ai quattro giorni di sciopero della fame e di “battitura” promossi dai Radicali, dal 19 al 22 novembre, per la tutela del diritto al voto riconosciuto dalla legge anche a chi è recluso e per i diritti della polizia penitenziaria. Lo rende noto Riccardo Arena che cura la rubrica Radio Carcere in onda su Radio Radicale. “Questa ennesima lotta non violenta - precisa Arena - è solo una tappa della lunga e difficile mobilitazione per l’amnistia e per la riforma della Giustizia. Lotta, non compresa dalla maggior parte dei parlamentari, ma ben chiara a chi oggi è detenuto, finalizzata al ripristino dello Stato di diritto nel nostro Paese”. Giustizia: la “vigilanza dinamica” ultima idea del Dap per far fronte all’emergenza carceri di Andrea Managò e Chiara Organtini Il Punto, 30 novembre 2012 Si chiama “vigilanza dinamica” l’ultima tentazione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria per cercare di migliorare la qualità della vita nelle disastrate carceri italiane. Sovraffollati come non mai, gli istituti di pena hanno goduto di ben poche attenzioni da parte del governo di Mario Monti. A settembre scorso la Corte dei Conti ha ribadito che i dossier più critici rimangono ancora irrisolti: in primis la dispersione di risorse, seguita dalla carenza di personale di Polizia Penitenziaria. Un deficit che ha reso impossibile la riapertura di alcune case mandamentali, a fronte di un numero elevato di agenti distaccati in mansioni molto diverse da quelle proprie del corpo. Ad aprile il commissario delegato per l’emergenza carceraria Angelo Sinesio ha varato una rimodulazione del piano carceri: un programma a lungo termine con risultati tutti da verificare. Difficilmente a migliorare la situazione basteranno i primi 2.500 nuovi posti pronti ad essere consegnati ad inizio 2013. Con un sovraffollamento prossimo alle 22mila unità e le attività formative che stentano a decollare, il 28 maggio il capo del Dap, Giovanni Tamburino, ha scritto ai suoi dipartimenti: “Il quadro che oggi presentano molte strutture detentive è quello di un ambiente gravemente insalubre, concausa dell’aumento di episodi di autolesionismo e dell’esasperarsi di tensioni interne”. Ad aggravare la situazione esplosiva, la mancanza del lavoro per i ristretti in attività di pubblica utilità: nonostante un protocollo firmato in primavera con l’Anci, le proposte dei Comuni latitano. Ecco allora la “vigilanza dinamica”: una soluzione per l’immediato, una piccola ma significativa rivoluzione, a detta dello stesso Dap. Ma in cosa consiste? Il protocollo, in applicazione di una direttiva europea del 2006, prevede misure di sicurezza al “minimo necessario per garantire la custodia”. Traduzione: alcune categorie di detenuti, a partire da quelli con pene inferiori a 18 mesi, passeranno meno tempo in cella, dedicandosi ad attività formative, lavoro e sport dentro l’istituto. In alcune sezioni potrebbe scattare anche il regime di “celle aperte”. “Se la cella diventa solo luogo di pernottamento i detenuti sono più controllati e si può lavorare meglio al loro reinserimento sociale” spiega Lugi Pagano, vicecapo del Dap. Il sistema attuale prevede almeno un’agente a presidio di ogni sezione, con la vigilanza dinamica invece si introdurrebbero postazioni di video sorveglianza da cui controllare più sezioni contemporaneamente. Entro fine anno inoltre sono attesi i primi progetti dei provveditorati per creare circuiti detentivi su scala regionale, in grado di ospitare in ogni territorio dai 41 bis alle custodie attenuate. Progetti, in alcuni casi finanziati con fondi correnti, in altri tramite la Cassa delle Ammende. Una vecchia idea in applicazione di una legge del 2000. In questo contesto, prosegue Pagano, “è possibile l’introduzione della vigilanza dinamica e ne potrebbero usufruire tra i 10 e i 15mila detenuti”. Un programma ambizioso, ma proprio la creazione dei circuiti regionali genera i primi problemi: difficile dotare di ausili tecnologici gli istituti più datati, senza contare i deficit strutturali cronici di regioni come Lombardia, Campania e Calabria. Non è l’unica difficoltà da affrontare per il nuovo sistema di controllo, che nasce con l’intento non dichiarato di tamponare la carenza di agenti penitenziari, in sotto organico di quasi 7mila unità. Con le celle maggiormente aperte e i detenuti concentrati in varie attività, sarebbe possibile razionalizzarne l’utilizzo. Peccato però che nel frattempo 3.870 poliziotti, il 10% della forza complessiva, non prestino servizio esclusivamente negli istituti. La Corte dei Conti censisce addirittura 220 unità sparse tra Palazzo Chigi, Parlamento, ministero della Giustizia ed enti locali, mentre altri 2.050 operano tra sedi del Dap, reparti operativi e scuole di formazione. Reale necessità di servizio o abuso di una pratica che consente agli agenti di “evadere” dal carcere? Un risposta la forniscono gli stessi giudici contabili: “È ovvio dubitare che risponda a criteri di efficienza la sottrazione dai compiti negli istituti penitenziari di un così elevato numero di agenti”. Ed a rendere l’operazione ancora più ardua ci hanno pensato anche i sindacati di Polizia Penitenziaria. A metà ottobre le otto sigle di categoria hanno scritto unitariamente al ministro della Giustizia Paola Severino chiedendo un confronto che eviti “fughe in avanti” sulla questione della vigilanza dinamica. Sostengono che la tecnologia porterà in dono l’aumento del numero di detenuti in carico ai singoli agenti, per questo chiedono la revisione della “colpa del custode” (art. 387 del Codice Penale), che li sanziona in caso di evasioni. Una riforma presentata all’ufficio legislativo del ministero della Giustizia da tempo e sostenuta persino dallo stesso presidente Tamburino, ma che ancora non ha avuto riscontro dall’esecutivo. Con i pochi mesi di vita che attendono il governo Monti, sarà difficile credere anche alle piccole rivoluzioni. Giustizia: sono contro l’ergastolo… rappresenta la resa dello Stato di Roberto Saviano L’Espresso, 30 novembre 2012 Il gemello” (di Vincenzo Marra) è un documentario ambientato nel carcere di Secondigliano. Una telecamera segue Raffaele, detenuto di 29 anni, in carcere da quando ne aveva 15 per una rapina. Raffaele parla con Niko, capo delle guardie carcerarie. Colloqui che a noi sembrano confessioni che aprono spiragli di comprensione su un mondo nel quale difficilmente avremmo voglia di entrare. Raffaele dice di essere favorevole alla pena di morte perché la vita in carcere non è vita. Non è rieducazione. Non è volontà di reinserimento. Seguendo Raffaele, osservando la sua cella, osservandolo lavorare, nei rapporti con gli altri detenuti, ci rendiamo conto che lì tutto è affidato alla volontà del singolo, anche la rieducazione, ovvero l’essenza stessa della detenzione. È di qualche giorno fa l’annuncio di una campagna promossa dal professor Umberto Veronesi per l’abolizione dell’ergastolo, quel “fine pena mai” che riguarda molti detenuti italiani. La riflessione di Veronesi prende le mosse dalla Costituzione, dal principio che postula la rieducazione del condannato attraverso la pena, per arrivare a una conclusione scientifica. L’ergastolo sarebbe fisiologicamente un nonsense perché il nostro cervello muta nel corso degli anni, alla luce delle esperienze che si accumulano nell’arco della nostra vita. Dunque anche i riferimenti morali di un soggetto che ha commesso un reato cambiano a distanza di tanti anni dal fatto delittuoso. Per questo, sostiene Veronesi, l’ergastolo oltre a essere incostituzionale è antiscientifico. E, aggiungo io, è segno di una resa incondizionata dello Stato a una logica di sola deterrenza del tutto estranea all’idea di pena come rieducazione e reinserimento nella società. La realtà ci offre un’immediata controprova. L’anno scorso, il 22 luglio 2011, in Norvegia si e consumata una strage premeditata che ha spento le vite di decine di giovani innocenti. L’autore, Anders Breivik, è stato subito individuato e arrestato. A distanza di poco tempo è stato processato. Il 24 agosto del 2012 il mondo ha assistito incredulo alla lettura del verdetto: il Tribunale lo ha condannato a ventuno anni di carcere, pena massima prevista dalla legge norvegese. Ho immediatamente associato questo fatto alle parole di Veronesi e la mia conclusione è che lo Stato norvegese ha dimostrato una forza assoluta rispetto all’orrore che era capitato. Con quella sentenza si è affermata la possibilità, in un tempo determinato per quanto lungo, di riuscire a rieducare un soggetto con una personalità criminale eclatante, tanto da consentirgli, quando la pena sarà stata completamente espiata, di tornare a far parte della società. L’ergastolo, il “fine pena mai”, non deve essere una pena di morte camuffata. Non deve essere la resa dello Stato, che ammette di non essere in grado di reinserire nella società l’autore di un reato. Il paradosso dell’ordinamento italiano è nella sua ipocrisia, che getta una luce di coerenza (per quanto inaccettabile) sulla pena di morte in vigore in alcuni Stati americani. Lì la pena ha una mera finalità deterrente, non c’è interesse al recupero del condannato e la sua espulsione dalla società è immediata. Non è dunque un caso che in Italia molti condannati all’ergastolo chiedano l’introduzione della pena di morte. Non è una provocazione, ma un richiamo alla coerenza rivolto a uno Stato incapace di realizzare il reinserimento di Caino nella società. Gli ergastolani ci dicono: se non volete rieducarci, allora ammazzateci, ma assumetevene la responsabilità morale. Già immagino l’obiezione: “Saviano, proprio tu che ti occupi di mafie, proprio tu che hai denunciato cosa i clan campani hanno fatto alla tua terra d’origine, proprio tu che vivi sotto protezione da sei anni per le minacce di chi ha ammazzato innocenti, come fai a pensare che ci possa essere rieducazione?”. Ecco, è qui il perno del mio discorso: credo che lo Stato debba mostrarsi forte, e per esserlo non può gettare la spugna, non può non tentare il tutto per tutto per recuperare chiunque. Anche chi in questo momento sta rendendo la mia vita un inferno. Giustizia: sono a favore dell’ergastolo… senza carcere a vita la mafia ringrazia di Marco Travaglio L’Espresso, 30 novembre 2012 L’oncologo Umberto Veronesi ha riunito alla Bocconi un gran parterre di premi Nobel, intellettuali, scienziati e star dello spettacolo per lanciare una raccolta di firme da consegnare al prossimo Parlamento affinché abolisca l’ergastolo. Che, a suo dire, sarebbe “incostituzionale e antiscientifico”. Incostituzionale perché “la pena deve rieducare”. Antiscientifico perché, “20 anni dopo il reato, il carcerato può essere una persona diversa”. La seconda affermazione porta addirittura a cancellare un principio giuridico universale: l’omicidio (e tanto più la strage) non si prescrive mai, dunque si può essere chiamati a risponderne anche dopo decenni, come per le stragi naziste o terroristiche. La prima invece è smentita dalla Corte costituzionale, che ha già stabilito la costituzionalità dell’ergastolo proprio perché in Italia è sostanzialmente finto: i benefici della legge penitenziaria (la famosa “Gozzini”) consentono alla gran parte degli ergastolani di uscire dopo meno di 30 anni. Il vero “fine pena mai” è limitato all’“ergastolo ostativo”, che non ammette sconti né benefici, introdotto nel 1992 dopo le stragi per assicurare che almeno i criminali più efferati non tornino in libertà. A meno che, si capisce, non collaborino con la giustizia a sgominare le proprie organizzazioni. Il che dimostra che anche per l’ergastolo ostativo c’è una via d’uscita: basta dire la verità, ammettere le proprie colpe, abbandonare la cosca e schierarsi con lo Stato. Proprio per questo l’ergastolo è la bestia nera dei mafiosi. Non a caso Riina lo inserì ai primi posti del suo “papello” consegnato nell’estate 1992 agli uomini della trattativa, insieme con l’annullamento del 41bis, gli detenzione domiciliare per gli ultrasettantenni, la chiusura delle supercarceri e la riforma dei pentiti: il combinato disposto ergastolo-carcere duro, ideato da Falcone, cominciava a produrre gli effetti sperati. Molti mafiosi scelsero di collaborare e consentirono la cattura di centinaia di latitanti e la scoperta dei colpevoli di migliaia di stragi e delitti eccellenti. “Possiamo obiettivamente affermare - domanda Veronesi a proposito dell’ergastolo ostativo - di avere così ridotto il potere delle mafie? Io credo di no”. E invece sì. Gli italiani poi si sono già pronunciati nel referendum del 1981: il 77,4 percento disse sì all’ergastolo. E nessun paese d’Europa, esclusi Portogallo e Spagna, s’è mai sognato di abrogarlo. Lo fece nel 1990, in nome del solito garantismo astratto e irenico, il centrosinistra con la legge del “giudice unico”: estese il giudizio abbreviato a tutti i delitti, stragi comprese, così lo sconto di un terzo della pena trasformava l’ergastolo in 30 anni. Che diventavano 20 con gli sconti-Gozzini. I boss arrestati all’indomani delle stragi avrebbero potuto uscire in permesso nel giro di pochi anni. Infatti il 23 ottobre 2000 Riina, Graviano e altri 15 boss condannati in primo grado all’ergastolo per le stragi del 1993 si alzarono nelle gabbie del processo d’appello a Firenze e chiesero l’abbreviato. Solo allora, dopo le proteste di magistrati e parenti delle vittime, il governo Amato s’affrettò a ripristinare l’ergastolo almeno per i delitti più orrendi, aggiungendo alla pena detentiva l’isolamento diurno ai condannati per delitti di sangue che rispondono anche di altri reati (tipo l’associazione mafiosa): così lo sconto per l’abbreviato abbuona l’isolamento senza toccare la pena. Ora Veronesi & C. citano Cesare Beccaria. Ma, se l’avessero letto, saprebbero che in “Dei delitti e delle pene” scriveva: “Non è il terribile ma passeggero spettacolo della morte di uno scellerato, ma il lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà, che, divenuto bestia di servigio, ricompensa con le sue fatiche quella società che ha offesa, che è il freno più forte contro i delitti”. E se consultassero un qualsiasi giudice antimafia, saprebbero quanti boss e killer tornerebbero in libertà il giorno dopo l’approvazione della loro demenziale proposta. La giustizia è certamente affare troppo serio per lasciarlo in mano ai politici e ai tecnici. Ma anche gli scienziati non scherzano. Giustizia: Forum Giovani; il 60% ignorano drammatica situazione in cui versano le carceri Adnkronos, 30 novembre 2012 Il 60% dei giovani italiani ignora la situazione drammatica in cui versano le carceri. È quanto emerge da una ricerca presentata oggi al Salone della Giustizia, presso la Nuova Fiera di Roma, dal Forum nazionale dei Giovani. Il Rapporto di Ricerca “I Giovani pensano il carcere: fra informazione e rieducazione”, realizzato in collaborazione con Gpf, istituto di ricerca e consulenza strategica sul cambiamento sociale, i consumi e la comunicazione. L’indagine condotta dal Forum, spiega una nota, ha avuto come obiettivo “fotografare la realtà del carcere italiano attraverso gli occhi delle giovani generazioni, soffermandosi, in particolare, sulla conoscenza dei ragazzi della complessità del sistema carcerario e indagando sulla rappresentazione che hanno del sistema penitenziario e sulla sua funzione sociale”. “I dati rilevati dalla nostra ricerca mostrano una scarsa conoscenza del sistema carcerario italiano da parte dei 1.000 giovani intervistati, mentre l’84,3% ritiene necessario intervenire per migliorare le condizioni di vita dei detenuti attraverso maggiori investimenti - commenta Giuseppe Failla, portavoce del Forum nazionale dei Giovani. Inoltre, solo il 12,6% assumerebbe un ex detenuto, mentre il 70,7% lo assumerebbe sono dopo aver verificato il tipo di reato”. Giustizia: nessun taglio in vista per il personale dell’amministrazione penitenziaria Public Policy, 30 novembre 2012 Nessun taglio all’organico dell’amministrazione penitenziaria. Lo ha ribadito in Commissione Giustizia alla Camera il sottosegretario al ministero di via Arenula, Antonino Gullo, rispondendo a un’interrogazione di Roberto Rao (Udc). L’organico dell’amministrazione penitenziaria, si legge nella risposta di Gullo, “È ad oggi composto da 381 dirigenti penitenziari, 35 dirigenti di Area e 6.660 unità appartenenti al comparto ministeri. Al 1° luglio 2012, il personale effettivamente presente è costituito da 363 dirigenti penitenziari, 33 dirigenti di area I e 6.174 unità del comparto ministeri”. “È evidente che un’ulteriore riduzione, anche in considerazione delle note sofferenze del settore, finirebbe per ingenerare problematiche, tali da incidere in modo negativo sull’attuale equilibrio. Il ministro della Giustizia - si legge ancora - ha già preso posizione in merito all’applicazione, anche al settore penitenziario, di un’ulteriore riduzione di organico”. Angelo Sinesio nominato Commissario straordinario infrastrutture Il Consiglio dei ministri ha nominato, su proposta del Presidente del Consiglio, il prefetto Angelo Sinesio Commissario straordinario del governo per le infrastrutture carcerarie, a decorrere dal 1° gennaio 2013 Giustizia: ancora nessuna soluzione per 35 “sfollati” dall’ex Casa Lavoro di Saliceta Redattore Sociale, 30 novembre 2012 Dopo il sisma 35 internati sono stati “sistemati” al Due Palazzi. Nelle Case Lavoro finiscono individui dichiarati socialmente pericolosi dopo una condanna penale. Scontata la quale, scatta un periodo di internamento che di fatto è un supplemento di pena. Confinati in un limbo giudiziario dal terremoto che a maggio ha colpito l’Emilia. E che ha reso ancor più difficile definire lo status giuridico di 35 internati dell’ex Casa Lavoro di Saliceta (Modena). Che, evacuati subito dopo il sisma, sono stati “sistemati” nel carcere Due Palazzi di Padova. I funzionari del Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) non vogliono che li si chiami detenuti. Ma, già prima del sisma, per volontari e associazioni erano “carcerati all’ergastolo bianco”. Quel che è certo è che in una Casa lavoro si finisce perché dichiarati socialmente pericolosi in seguito a una condanna penale. Scontata la quale, scatta un periodo di internamento della durata minima di un anno: di fatto, un supplemento di pena a tempo indeterminato, che finisce solo quando il giudice riscontri la cessata pericolosità del soggetto. Fatto, però, che raramente si verifica. Perché nelle Case lavoro il lavoro, semplicemente, non c’è. E gli internati - per lo più emarginati, senzatetto o anziani - vivono in stato di abbandono. Come denuncia chiunque sia riuscito a entrare in una delle quattro strutture ancora presenti in Italia. Da questo quadro giuridico, già in partenza sfumato, prende le mosse la vicenda degli internati di Saliceta. Subito dopo il sisma, che danneggia gravemente l’edificio, trenta di loro vengono trasferiti d’urgenza nel carcere di Parma. I restanti 35 finiscono invece al Due palazzi di Padova. Desi Bruno, garante dei detenuti in Emilia Romagna, denuncia subito la situazione come un paradosso giudiziario. “La legge - spiega - dice chiaramente che questi uomini non dovrebbero trovarsi in carcere. Sono sottoposti a misura di sicurezza e dovrebbero svolgere un percorso di reinserimento che, già allo stato delle cose, è praticamente inesistente”. Grazie alle sue pressioni, a fine agosto gli sfollati di Parma vengono di nuovo trasferiti in un’altra Casa Lavoro, quella di Castelfranco Emilia. Degli altri 35, però, tutt’ora reclusi a Padova, l’amministrazione penitenziaria sembra essersi dimenticata. “Di fatto - continua Bruno - sono stati retrocessi allo status di detenuti. Tutto ciò che ho potuto fare è stato raccogliere informazioni: so che si trovano nel braccio della semilibertà, dove le celle sono aperte, come previsto anche per gli internati. Ormai, però, sono usciti dalla mia giurisdizione. E in Veneto la figura del garante non è mai stata istituita”. Ma la querelle sulle Case Lavoro è iniziata ben prima dello scorso maggio. Dal 2010 ad oggi, tre proposte di legge per l’abolizione di queste strutture sono state depositate alla Camera dei deputati. La prima, partita nel gennaio 2010 dall’assemblea regionale dell’Emilia-Romagna, è rimasta per quasi tre anni a raccogliere polvere nei cassetti di Montecitorio. Finché, il mese scorso, l’assemblea ha deciso di inoltrarne una identica. “Finora - spiega Gianguido Naldi, consigliere regionale Sel in Emilia - ogni richiesta è caduta nel vuoto. Abbiamo deciso di riprovarci perché il ministro Severino ha dimostrato una certa sensibilità sul tema. La casa di Saliceta l’ho visitata l’anno scorso, e all’interno non c’era alcun percorso riabilitativo: sono rimasto colpito soprattutto dall’età avanzata di alcuni internati, che stride parecchio con la loro presunta pericolosità”. Istituite nel 1929, in pieno ventennio fascista, le Case Lavoro rientrano tra le misure amministrative di sicurezza, come la libertà vigilata e l’obbligo di firma. A leggere l’articolo che ne regola l’esistenza (il 216 del cosiddetto Codice Rocco) viene in mente un’Italia che ormai non c’è più. “La stessa pericolosità dei soggetti - spiega Bruno - è stilata in base a una classificazione dal sapore lombrosiano”. In “graduatoria”, in effetti, spiccano figure come il delinquente “abituale” e “professionale”, i cui periodi minimi di internamento vanno da due a tre anni. Fino al “delinquente per tendenza”, che deve aspettare almeno quattro anni prima che una commissione ne riesamini il caso. Ma il più delle volte, dietro queste definizioni ci sono solo piccoli criminali che hanno reiterato nel tempo gli stessi reati: rapine, furtarelli, piccolo spaccio. “Si tratta ormai - conclude la Bruno - di una misura anacronistica, superata dai fatti e dai tempi. Che continua però ad essere applicata per una questione di comodo: i giudici, consapevoli dello scarso valore riabilitativo di queste strutture, le utilizzano come parcheggi per togliere dalla circolazione elementi di disturbo. Trattandosi perlopiù di piccoli delinquenti, spesso l’internamento scatta dopo condanne relativamente brevi: si scontano magari cinque mesi per furto e dopo qualche settimana ci si ritrova reclusi per almeno tre anni. Nel frattempo si perdono i contatti con la famiglia, che nella maggior parte dei casi si trova a centinaia di chilometri di distanza. E quindi, quando anche il giudice concede la cosiddetta “licenza d’esperimento”, l’internato, dopo anni di reclusione, non riesce più a inserirsi in un tessuto sociale diverso dal suo. Si verifica così un processo di istituzionalizzazione del soggetto, che non riesce più a immaginarsi fuori dal carcere. In questo modo il magistrato e i periti, non riscontrandone mai l’avvenuto recupero, continuano di anno in anno a confermare la misura di sicurezza. Un meccanismo che, anziché ricondurre gli individui alla società civile, finisce per alienarli totalmente”. Giustizia: Sallusti rifiuta la detenzione domiciliare “i Carabinieri vengano a prendermi” di Andrea Indini Il Giornale, 30 novembre 2012 Accolta la richiesta di detenzione domiciliare. Nelle prossime ore scatterà l’obbligo di non abbandonare il domicilio: a Sallusti viene di fatto impedito di proseguire il suo lavoro. Ma il direttore del Giornale in conferenza stampa fa sapere che rifiuta la detenzione domiciliare: “Mandi carabinieri a prendermi, altrimenti sarà responsabile del reato di evasione”. La vergogna è compiuta. Definitivamente. Il giudice di sorveglianza di Milano Guido Brambilla ha accolto l’istanza di detenzione domiciliare avanzata dal procuratore Edmondo Bruti Liberati per il direttore del Giornale Alessandro Sallusti che, però, ha rigettato la decisione e in conferenza stampa alla sede di via Negri ha fatto sapere che andrà avanti a lavorare. Perché il direttore del Giornale ha deciso che non andrà mai agli detenzione domiciliare: “Se la Severino fosse il ministro degli italiani e non dei magistrati, avrebbe già da tempo mandato un’ispezione per verificare quanto è successo”. Da quanto risulta dal provvedimento firmato dal Giudice della sorveglianza, al direttore sono stati assegnati i “classici” detenzione domiciliare. Insomma, il tribunale di Milano non gli permetterà di lavorare. “Sono stato condannato con una sentenza a 14 mesi - ha spiegato il direttore - una sentenza ingiusta e basata su dei falsi”. Durante la conferenza stampa in via Negri, il direttore ha ripercorso tutto l’iter giudiziario che ha portato alla condanna di 14 mesi di reclusione e poi agli detenzione domiciliare elencando tutte le falsità che sono state perpetrate nelle ultime settimane: “Nessuno mi ha mai chiesto di rettificare la notizia e non si può tantomeno parlare di campagna stampa per la pubblicazione di due articoli”. Proprio per verificare tutte queste falsità e spiegare perché la sentenza è passata da una condanna a una multa di 5mila euro a una condanna a 14 mesi di reclusione, Sallusti ha invitato il ministro della Giustizia Paola Severino di avviare un’ispezione: “È stata una mascolzonata senza pari, ma il ministro non ha voluto fare una verifica dei fatti”. Nei giorni scorsi il procuratore di Milano, cha ha avocato a sé il fascicolo inizialmente affidato al pm dell’esecuzione Chiara de Iorio, aveva concesso una seconda sospensione dell’ordine di esecuzione della condanna definitiva a 14 mesi di reclusione e aveva chiesto per il direttore del Giornale la detenzione domiciliare in base alla legge “svuota carceri”. Nell’istanza di Bruti Liberati, accolta oggi dal magistrato di sorveglianza, si sosteneva che la posizione di Sallusti potesse soddisfare i requisiti richiesti in quanto la pena che deve scontare è inferiore ai 18 mesi, non sussiste pericolo di fuga e il domicilio scelto, cioè la casa dove vive con la compagna Daniela Santanché, è idonea. Quando la condanna era divenuta definitiva, il direttore del Giornale avrebbe potuto chiedere una misura alternativa alla detenzione, ma non l’ha fatto. “Farsi rieducare è da regime di Pol Pot”, ha ribattuto Sallusti più volte. Nei giorni scorsi, tuttavia, la richiesta formulata dal procuratore ha creato una spaccatura con il pool dei sostituti dell’esecuzione. Taranto: muore suicida detenuto di 34 anni, tra pochi mesi avrebbe terminato la pena Ansa, 30 novembre 2012 Un detenuto di 34 anni, Vincenzo Scarcia, si è impiccato nel pomeriggio nel carcere di Taranto legando la corda del suo accappatoio alle inferriate della finestra del bagno. Ne dà notizia il sindacato di polizia penitenziaria Sappe in una nota nella quale sottolinea che l’uomo scontava una pena definitiva per droga fino al 2013. A nulla sono valsi i soccorsi “sia del personale di Polizia Penitenziaria e del personale sanitario presente in Istituto”, prosegue Pilagatti. “Ormai ne abbiamo piene le tasche di protocolli, di convegni, di ordini del giorno del consiglio regionale, di garanti, di monitoraggi… sul sistema carcerario pugliese. L’ultimo protocollo firmato qualche settimana fa - ricorda Pilagatti - addirittura si prefiggeva lo scopo di ‘prevenire il rischio autolesivo e suicidario dei detenuti”. “Il presidente della Regione, ed cosa ancora più grave, i responsabili dell’amministrazione penitenziaria regionale - dice - vengono da un altro pianeta se si legge quanto concordano, poiché sembrano ignorare o non conoscere quello che accade giornalmente nelle carceri pugliesi”. Pilagatti ricorda che le carceri regionali “sono piene di malati con gravi disturbi mentali, o con patologie molto gravi, ed a questi spesso non vengono garantiti né medicinali né assistenza specializzata, lasciando da soli a fronteggiare tali situazioni, un numero irrisorio di personale sanitario e poliziotti penitenziari”. Pilagatti si chiede come mai “la situazione della sanità nelle carceri, uno dei nodi più drammatici, oltre al sovraffollamento ed alla fatiscenza delle strutture, non ha trovato nemmeno in minima parte soluzione, nonostante un altro pomposo protocollo firmato tempo fa che doveva recepire una legge dello stato che demandava la responsabilità della sanità penitenziaria alle regioni? Perché invece di parole roboanti e spesso incomprensibili non ci si preoccupa dell’ordinario assicurando una assistenza sanitaria e psicologica decente? Perché il Governatore che ne ha facoltà, non interviene direttamente su queste questioni considerato che si è assunto impegni molto precisi che nei fatti hanno creato disorganizzazione, ulteriore lavoro per la polizia penitenziaria, minore sicurezza dei cittadini, considerate le centinaia di detenuti che ogni giorno escono dalle carcere per recarsi presso le strutture sanitarie. Da anni - ricorda Pilagatti - chiediamo interventi, ma la politica regionale maggioranza ed opposizione predicano bene e razzolano male”. Il Sappe nelle scorse settimane ha scritto a tutti i capi gruppi regionali compreso il presidente del consiglio, chiedendo un incontro e rappresentando che alcune problematiche di competenza della Regione, potevano trovare una rapida soluzione se affrontate in maniera seria. “Anche in questo caso il nulla più assoluto, l’assordante silenzio sulla questione proveniente da via Capruzzi fa pensare che il problema delle carceri entra in agenda del consiglio regionale o della giunta esclusivamente per strumentalizzare il dolore e la tragedia che si vive nelle carceri pugliesi le più affollate di d’Italia (440 a fronte di 2.350 posti) come denunciato da mesi dal Sappe e di cui ora sembra essersi accorto, bontà sua, anche il presidente della Regione”, conclude. Vicenza: Rita Bernardini; in carcere situazione gravissima, da governo risposte inadeguate di Monica Gasbarri www.clandestinoweb.com, 30 novembre 2012 “Ho fatto almeno duecento visite in questa legislatura nelle carceri italiane e devo dire che questa, forse, è stata quella più sconvolgente perché, per la prima volta, alcuni detenuti della terza sezione hanno fatto presente, anzi, hanno avuto il coraggio di denunciare che in quell’istituto vengono sottoposti a veri e propri pestaggi”. Rita Bernardini inizia così giovedì alla Camera l’interpellanza parlamentare urgente con la quale intendeva chiarire la situazione riscontrata domenica 18 ottobre nel carcere di Vicenza dove la deputata del partito radicale ha effettuato una visita ispettiva che lei stessa ha definito sconvolgente. In una struttura che potrebbe ospitare 146 detenuti se ne trovano 358, più del doppio; proprio la ristrettezza degli spazi porta alla convivenza nelle stesse celle sia di detenuti in attesa di giudizio che condannati in via definitiva; cento sono i tossicodipendenti. Intervistata da Clandestinoweb, Rita Bernardini ha sottolineato la gravità della situazione esistente nel carcere vicentino e l’inadeguatezza della risposta del governo. On. Bernardini, lei è reduce da una ispezione al carcere di Vicenza, dove si è recata lo scorso 18 ottobre. Qual è la situazione? Si tratta di una situazione gravissima. Nella terza sezione, in quasi tutte le celle, meno di 9 metri quadrati, sono ristretti almeno tre detenuti e solo raramente due; i termosifoni sono accesi un’ora la mattina e un’ora il pomeriggio e i detenuti che possono si coprono con un maglione sopra l’altro, ma ho visto con i miei occhi la gente che non aveva nemmeno di che vestirsi. Sono stati tagliati tutti gli spazi adibiti alla socialità: nelle tre ore d’aria messe a disposizione non è più possibile per i detenuti andare nel campo sportivo e la palestra non è agibile. Anche il cibo è assolutamente insufficiente: parliamo di giovani che hanno fra i venti e i trent’anni, soprattutto, e quella domenica - il carrello era passato per l’ora di pranzo - i detenuti avevano per cena due uova sode. Per di più dall’amministrazione penitenziaria viene fornita ai detenuti solamente una saponetta ogni due mesi e raramente i detersivi per pulire la cella. Anche il personale ci ha manifestato la sua preoccupazione di contrarre malattie infettive. Lei nella sua interpellanza ha parlato di negligenza da parte della direzione del penitenziario… Un fatto gravissimo e contrario all’ordinamento penitenziario: questi detenuti non sanno a chi presentare i loro reclami. Molti di loro hanno conosciuto il direttore per la prima volta perché si è precipitato quella domenica in istituto dopo che sono stati denunciati i pestaggi che si verificano in quel carcere. Quello che è certo è che, né il direttore, né il comandante, né il magistrato di sorveglianza hanno mai visitato quelle celle per verificare quali siano le condizioni di trattamento dei detenuti. Qual è stata la risposta del Governo? Il governo, nella persona del sottosegretario Gullo, ha risposto che a loro non risultano episodi di pestaggio attuati dalla polizia penitenziaria. Ma sono pronta a scommettere che sono state chieste informazioni al direttore, cioè alla persona che in questa interpellanza urgente è denunciata perché non va mai a visitare le celle di detenzione. Per quel che riguarda lo stato di degrado in cui è abbandonata la struttura, avete avuto qualche risposta? Di fronte alla situazione del carcere di Vicenza, il governo non ha potuto che confermare lo stato di illegalità e i trattamenti inumani e degradanti. Riuscite a immaginare che cosa voglia dire stare in una cella di 9 metri quadrati in tre, con due letti a castello, un altro letto messo di traverso, il tavolino, gli sgabelli, gli armadietti, per 21 ore al giorno? Lei è ormai da 38 giorni in sciopero della fame… Non nascondo che spesso ho pensato se vale la pena vivere in un Paese dove c’è una classe politica che non si rende conto, e non vuole rendersi conto, di quanto sia importante la giustizia, che non sa che dalle condizioni delle carceri si vede la civiltà di un Paese. Vicenza: ho descritto i soprusi e i colpevoli silenzi, sono stato denunciato per diffamazione di Claudio Bottan Tempi, 30 novembre 2012 Pubblichiamo la lettera di un detenuto della Casa Circondariale di Vicenza che, tramite il nostro giornale, ha potuto raccontare la situazione del penitenziario. Una storia di cui si sono occupati anche i Radicali e il deputato Pdl Renato Farina.. “Caro direttore… domenica 18 novembre Rita Bernardini ha visitato il carcere di Vicenza e ha potuto raccogliere denunce circostanziate dai detenuti della terza sezione, tanto da farle dichiarare “non ho mai visto un simile orrore”. Evidentemente i fatti di cui ti avevo scritto un paio di mesi fa - a cui poi era seguita la pronta visita di Renato Farina - erano veri, fondati. Anzi, sottostimati. Sono state descritte puntualmente le percosse (il detenuto è ancora in coma), le vessazioni, i soprusi, le violazioni e i colpevoli silenzi che hanno contribuito a erigere un muro di omertà intorno alla struttura di Vicenza. Rita Bernardini ha presentato un esposto alla Procura della Repubblica e interrogazione parlamentare che potete leggere sul sito del Partito Radicale. Quando, in una lettera al Giornale di Vicenza, ho denunciato l’illegalità di quell’istituto ho ricevuto una denuncia per diffamazione per aver leso “l’immagine e la reputazione dell’amministrazione penitenziaria”. La stessa che ha consentito che le persone venissero trattate da animali. E allora grazie per avermi ascoltato, grazie a Renato Farina per essersi precipitato a verificare e grazie a te per esserti fidato delle mie parole. Avete dato un senso a tanti mesi durante i quali ho temuto di impazzire perché continuavo a scontrarmi contro il muro di gomma”. Piacenza: il Sindaco su detenuto suicida; dobbiamo costruire un “carcere della speranza” Adnkronos, 30 novembre 2012 Il suicidio nel carcere di Piacenza di un ragazzo di 22 anni “ci richiama alla necessità di fare della questione carceri un tema centrale per tutti, ed in particolare per le istituzioni”. È quanto afferma il sindaco piacentino Paolo Dosi, rimarcando che i dati relativi ai suicidi nelle carceri italiane (circa 3.600 tentativi di autolesionismo e 21 suicidi nel primo semestre del 2012) “sono allarmanti, e non possono essere spiegati unicamente con il sovraffollamento, che pure continua ad essere un’emergenza da risolvere”. “Ognuno per la propria parte di competenza deve compiere uno sforzo ulteriore per far sì che la detenzione sia coerente con il dettato costituzionale” prosegue il primo cittadino, convinto che sia il momento in cui la comunità piacentina deve essere attenta e partecipe nella costruzione di un carcere della speranza, offrendo attraverso una maggiore sensibilità, la possibilità di riscatto e opportunità concrete di recupero e di risocializzazione”. Colosimo: chi si fa portavoce del disagio dei detenuti? “L’ennesimo episodio, l’ennesimo gesto estremo compiuto da un detenuto, il chiaro segnale di una situazione che sta letteralmente degenerando all’interno delle carceri italiane”. È il commento di Marco Colosimo, consigliere comunale Piacenza Viva alla notizia del 22enne detenuto che si è tolto la vita all’interno del carcere delle Novate. “Sono rimasto sconcertato - spiega Colosimo - alla lettura della notizia il mio pensiero è volato subito a questo ragazzo, che non importa non aver mai conosciuto, che non importa per quale crimine fosse imputato, ma che era un ragazzo della mia età, bisognoso d’aiuto, che aveva sbagliato si, ma aveva tempo e modi per rifarsi, per ritrovare la giusta strada dopo qualche incidente. Non è andata cosi, probabilmente lo sconforto ha prevalso sulla voglia di rifarsi e vivere”. “Interroghiamoci sul perché, chiediamoci per quale motivo un ragazzo di 22 anni ha compiuto un gesto cosi estremo. La casa circondariale piacentina è in una situazione di degrado ormai lampante, gli addetti alla sicurezza manifestano il loro malumore ormai da tempo, ma chi si fa portavoce del malumore dei detenuti? La vita del carcere è dura, la legge che vige è quella del vivi e sopravvivi, senza se, senza ma. Costretti a vivere in una cella sovraffollata 20 ore su 24, non avendo a disposizione nessuna attività alternativa in condizioni igienico-sanitarie quanto mai precarie e aggiungerei anche pericolose. Mancanza di lavoro, magari solo per pochi, offerte formative e/o culturali pari a zero, la rieducazione non avviene, entri e viene abbandonato a te stesso, chi è forte, volenteroso, con alle spalle un forte aiuto familiare riuscirà a ricostruirsi, chi è meno forte e solo dovrà combattere ogni giorno con la monotonia, con il cemento che lo circonda, con il rumore delle celle che si chiudono, cercando di salvarsi guardando oltre i confini, si, anche qui vale la legge del più forte, se sei forte ci riesci, se sei solo ti rassegni”. “Basta, non voglio più aprire nessun quotidiano e dover leggere queste notizie, voglio aprirlo e leggere che le aziende entreranno dentro il carcere, che porteranno lavoro cosi come avviene in altre case circondariali italiane, voglio leggere che il Comune attiverà corsi di formazione e culturali per i detenuti, che il garante dei diritti dei detenuti alzi la voce. Oggi, un giovane di 22 anni si è tolto la vita, aveva sbagliato, ma davanti a se aveva un’intera vita per riscattarsi”. Novara: la tipografia del carcere ha riaperto i battenti dopo 12 anni di inattività di Elena Ferrara www.tribunanovarese.it, 30 novembre 2012 L’inaugurazione ufficiale, con le autorità cittadine al completo, si è tenuta mercoledì 28 novembre. Per la seconda volta da quando svolgo questo lavoro ho avuto l’opportunità di entrare in carcere. E per la prima volta ho avuto occasione di parlare “faccia a faccia” con un detenuto, al termine dell’inaugurazione: “È una bellissima esperienza, ogni giorno imparo qualcosa di nuovo e spero possa diventare un bagaglio utile da portarmi fuori di qui”, mi ha detto. Non ho idea del motivo per cui quell’uomo si trovi rinchiuso in via Sforzesca, ma sono certa che le sue parole fossero estremamente sincere. E credo che per chi sta in carcere, al di là delle singole responsabilità, la questione quotidiana sia quella di far passare il tempo, che diventi come una sorta di “nemico” per queste persone. Dar loro un’opportunità professionalizzante può rappresentare davvero “la svolta”. Anche e soprattutto per il “dopo carcere”, vera prova del nove che in effetti molti non riescono a superare, ricadendo in errore a discapito di tutti. Prova che peraltro diventerà sempre più difficile, visto lo stato di salute dell’occupazione in Italia e nel Novarese. A Novara esistono già altri esempi positivi, oltre alla tipografia digitale riavviata dalla cooperativa “La terra promessa”: la cooperativa sociale Multidea e il progetto di collaborazione con Assa, che periodicamente si avvale di alcuni detenuti per interventi di pulizia straordinaria. Attività come quest’ultima, oltre a lasciare impressioni positive nei carcerati che si sentono “utili per la società”, sono anche apprezzate dall’opinione pubblica. Il 22 novembre scorso i penalisti hanno incrociato le braccia per protestare contro il sovraffollamento delle carceri. In Italia sono detenute 66.568 persone, su una capienza regolamentare di 45.558 unità. I suicidi dietro le sbarre sono stati 53 dall’inizio del 2012. Nel carcere di Novara sono rinchiuse 197 persone (74,2% di nazionalità italiana, 70 i 41bis) a fronte di una capienza regolamentare di 179. La speranza è che le iniziative di reinserimento sociale si possano moltiplicare in futuro, con l’intervento di istituzioni, associazioni e persone motivate, supportate economicamente da fondazioni apposite che già operano sul nostro territorio. È difficile stare dalla parte di Caino, ma è meglio fare in modo che la detenzione non sia solo fine a se stessa. Perché non torni a camminare per strada dopo avere imparato soltanto che il “caffè pure in carcere ò sanno fa”. Lecce: parla la fondatrice di “Officina Creativa”, cooperativa carceraria che crea moda di Lucia Esther Maruzzelli www.leiweb.it, 30 novembre 2012 Top manager in banca, super stipendio, mondanità. Poi, un giorno, Luciana Delle Donne ha deciso di cambiare vita. E di entrare in carcere. Per dare lavoro e dignità a molte donne. E per ritrovare se stessa. “Tutti i sogni nel cassetto fanno la muffa: l’ho letto su Facebook e mi è piaciuto da morire. Perché i miei sogni, per quanto io abbia potuto, ho sempre cercato di realizzarli”. Tra i pregi di Luciana Delle Donne, 51enne signora degli eco manufatti Made in Carcere amati da stilisti (Ennio Capasa), attori (Lella Costa) e cantanti (Biagio Antonacci), c’è il talento di trasformare le idee in progetti e i progetti in realtà. A Lecce, dove è nata e tornata a vivere otto anni fa, ha fondato la cooperativa carceraria Officina Creativa, che produce e distribuisce borse, accessori e, a breve, capi di abbigliamento: “In fondo mi sento una stilista: la prima cosa che ho sognato di fare è stato un colletto di camicia, l’ho brevettato, ma solo ora sono pronta a confezionarlo in serie”. Tutti gli articoli sono realizzati con materiale di riciclo, “scarti di tessuto e stock di rimanenze che mi arrivano da varie aziende tessili gratuitamente o a poco prezzo”. Poi tocca a una ventina di ragazze dislocate nei due laboratori delle carceri di Lecce e Trani, fra i 30 e i 60 anni, senza esperienza. Lavorano sei ore al giorno e percepiscono uno stipendio che va dai 450 ai 600 euro al mese: molte riescono a mantenere la famiglia, a crescere i figli, a farli studiare, così non sono un peso e hanno la forza e la dignità per dire: “I libri ai ragazzi li pago io”. Nel 2006, Luciana contatta l’allora direttrice del carcere di Lecce Anna Rosaria Piccinni chiedendole la possibilità di aprire un laboratorio di produzione. “Accetta, e per quattro mesi facciamo formazione a un gruppo di detenute, poi una mattina escono tutte per l’indulto. Ho visto il mio progetto sfumare, ma non mi sono arresa. Decido di ripartire producendo shopping bag di tessuto per convegni. Il primo acquisto lo fa la Regione Puglia”. Oggi la Onlus lavora con la grande distribuzione, è presente allo shop di Eataly a New York e vorrebbe aumentare la capacità produttiva coinvolgendo altre 40 donne del carcere di Bari. “Il piano è ambizioso, lo so. Ma bisogna sempre pensare in grande e agire in piccolo”. Un esempio sono gli accessori per Mac (iPhone, iPad, iBook) realizzati per la società VaVeliero, i Second chance box, scatole di cartone ovviamente riciclato, da acquistare per beneficenza, e l’innovativo distributore della solidarietà, dislocato in aeroporti, stazioni e luoghi di grande aggregazione dove comprare tutti i prodotti Made in Carcere confezionati come fossero merendine. “Lì dentro ci puoi mettere di tutto, anche i taralli prodotti nel penitenziario di Trani”. Per pensare a un grande network, che raggruppi tutte le realtà produttive carcerarie, ci vuole passione ma anche capacità d’impresa. Perché di nuovi modelli di business si tratta. E Luciana Delle Donne è un’imprenditrice nel profondo del suo animo. Anche quando, nella sua prima vita, lavorava come manager nel sistema bancario: “Ho contribuito a progettare Banca 121, la prima virtuale italiana, che ha avuto Sharon Stone come testimonial”. Si trasferisce a Milano, come responsabile dello Sviluppo dei canali innovativi dell’allora Sanpaolo Imi. E poi? “Sentivo un disagio interiore crescente. Non è stata un’illuminazione improvvisa, ci sono arrivata piano piano: la casa in centro, lo stipendio da top manager, i viaggi, la bella vita milanese mi allontanavano sempre più dalla vita reale. E così ho deciso di cambiare”. Molte persone se ne accorgono, ma poi stanno ferme. “È vero. Fare in modo che le cose succedano per davvero è difficile. Ci vogliono umiltà, pazienza, incoscienza. Saper accettare la delusione dell’errore, perché una nuova idea è tutta da sperimentare”. Ed entusiasmo, “come diceva Gandhi, dobbiamo diventare il cambiamento che vogliamo vedere. Io avevo bisogno di ricominciare a vedere il mondo da un punto di vista etico. Così, dopo 22 anni di onorata carriera ho svoltato”. In realtà c’era anche un grande amore da seguire, un compagno che poi non è diventato il padre dei suoi figli come lei desiderava. “Adoro i bambini, e questa mancata maternità è uno dei miei grandi rimorsi. Sono stata rancorosa e rabbiosa con il mio ex, ma adesso è un caro amico”. Mentre chiacchieriamo in un baretto nel centro di Lecce, dove assaggio il celebre pasticciotto ipercalorico, il suo telefono squilla in continuazione. L’ultima chiamata è di un’ex detenuta, tornata a casa in Sardegna. Luciana l’ha messa in contatto con una persona che la può far lavorare come sarta. “Quando escono, queste ragazze vengono prese da una depressione devastante. Pensano di potere fare un sacco di cose, ma non riescono più nemmeno a misurarsi con lo spazio che hanno intorno: quando, per cinque o sei anni, stai in una gabbia di tre metri per due, le sensazioni motorie si trasformano. Non sono più abituate a fare lunghi tragitti o a guardare oltre 100 metri. Escono e hanno paura”. Come le sceglie? “Prendo le più tremende, quelle che quando le vedi sai già che ti creeranno problemi. Non voglio sapere il reato per cui sono dentro. Poi magari, dopo anni sono loro stesse a dirmelo, ma a quel punto ho conosciuto prima la persona, l’essere umano. E anche le più difficili piano piano si ammorbidiscono. È un progetto di inclusione sociale, non una passeggiata”. Suona di nuovo il telefono: è la responsabile del laboratorio di Trani, ha problemi con una lavorante. In modo perentorio Luciana le dice di farla riportare in cella. È dura, quando occorre. “Non amano essere controllate, ma devono anche imparare le regole del lavoro”. Lei percepisce uno stipendio? “Ho deciso di non essere pagata. Per mettere in piedi la società ho investito parte della mia liquidazione. Gli uffici sono in un appartamento di mia proprietà. I soci, tutti volontari come me, fanno parte della mia famiglia. Poi, per alcune consulenze strategiche, mi aiutano ex colleghi”. Sembra tutto molto radical chic. “Ma no! Non sono una crocerossina, non demando le responsabilità, non mi occupo solo di cene e di eventi per fare fund raising. Questa mattina mi sono alzata presto per andare a ritirare 200 capi tagliati male da un’azienda che ci dà gli scarti di tessuto e li ho portati alle ragazze. Stia certa che i radical chic queste cose le fanno fare a qualcun altro”. E allora perché lo fa? “Vengo da una famiglia borghese, mio padre lavorava in banca ed è morto in un incidente stradale quando avevo sei anni. Mia madre, con cinque figli, ha preso il suo posto e da allora io ho vissuto da adulta. Sento forte il peso di dovermi occupare di tutto, di risolvere i problemi di tutti. Second chance, il mio nuovo progetto focalizzato sulla comunicazione sociale, parte proprio dalla seconda possibilità. Tutti abbiamo il diritto di aggiustare il tiro. Come ogni tanto mi dice scherzando qualcuno, avrei potuto farmi suora, il problema è che mi piace il sesso. Anche se poi nessuno mi vuole perché sono troppo complicata… dicono… E poi gli uomini hanno paura delle donne forti”. Firenze: Idv; per i detenuti che necessitano di cure più “camere di sicurezza” in ospedali Adnkronos, 30 novembre 2012 “Creare nuove camere di sicurezza nei nosocomi fiorentini che possano accogliere i detenuti che necessitano di cure è troppo costoso e impossibile in tempi di contenimento della spesa pubblica”. Questo il commento di Maria Luisa Chincarini, consigliere regionale dell’Idv, in seguito alla risposta, data dall’assessore alla sanità Luigi Marroni, all’interrogazione di cui è prima firmataria, che chiede alla Giunta regionale se intenda o meno aprire tali camere di sicurezza e creare percorsi di accesso per i detenuti inviati in via d’urgenza al pronto soccorso. “In una situazione generale che vede le nostre carceri al collasso, vere e proprie macellerie sociali vittime dei tagli indiscriminati del Governo, è paradossale - sottolinea Chincarini - indire opinabili concorsi per creare nuovi posti dirigenziali. La polizia penitenziaria denuncia l’odissea di chi, bisognoso di cure, si trova a dover essere spostato per la Toscana in un viaggio che costa non solo economicamente. Il personale penitenziario è infatti costretto suo malgrado a turni improbabili per garantire il servizio con tutto ciò che ciò comporta in termini di stress”. “La priorità della sanità dovrebbe essere la tutela della salute del cittadino così come del detenuto garantendo la sicurezza e l’ordine pubblico. Un obiettivo questo che il nostro sistema sanitario sta perdendo di vista. A causa del contenimento della spesa non si possono creare altre camere di sicurezza all’interno dei nosocomi (almeno una per capoluogo di provincia). Si considerano troppo costose dieci griglie e dieci porte blindate per una regione che però continua a bandire concorsi per dirigenti e burocrati”, concludere la consigliera regionale Idv. Terni: progetto “In carcere... l’igiene”, consegnati ai detenuti 100 kit per pulizia personale Ansa, 30 novembre 2012 Bagnoschiuma, saponi, detersivi, carta igienica: è parte di quanto contengono i circa 100 kit consegnati ad altrettanti detenuti del carcere di Terni nell’ambito del progetto “In carcere... l’igiene”, gestito dall’associazione di volontariato San Martino e dalla Caritas diocesana, con il contributo finanziario della Fondazione Carit, proprio per promuovere la pulizia all’interno delle celle e degli spazi comuni. L’iniziativa è stata presentata stamani in una conferenza stampa alla quale hanno partecipato, tra gli altri, il vicedirettore della casa circondariale, Chiara Pellegrini, il presidente della San Martino, Francesco Venturini, e il direttore della Caritas, Claudio Daminato, oltre a un gruppo di detenuti. “Questo progetto - ha spiegato la Pellegrini - nasce da un’esigenza precisa: del carcere non bisogna parlare solo in termini di numeri, noi ci occupiamo di persone. È importante quindi aumentare il livello di igiene all’interno di spazi piuttosto angusti rispetto al numero delle persone che vi abitano, come succede in questa struttura, che ospita circa 350 detenuti e ora si appresta a ospitarne altri 70. All’interno delle celle l’esperienza è durissima, ma purtroppo dobbiamo fare i conti con problemi economici che riguardano non solo i detenuti stessi ma anche l’amministrazione penitenziaria, che non riesce più a pagare i prodotti per l’igiene”. La merce consegnata ai detenuti indigenti è stata acquistata, grazie a un finanziamento di 20 mila euro della Fondazione Carit, all’Ipercoop, che ha fornito uno sconto del 20% sul prezzo. Nell’ambito del progetto, l’associazione San Martino ha inoltre attivato un corso - tenuto dalla dottoressa Antonella Grimani - per insegnare ad un gruppo di detenuti (uno per ogni sezione) come si utilizzano i prodotti e come si puliscono e si mantengono puliti gli ambienti. “Il corso - ha spiegato ancora il vice-direttore del carcere - si è sviluppato su una parte teorica e una parte di tirocinio. In questo ultimo caso i detenuti si sono occupati anche della pulizia del nuovo padiglione che dovrà aprire a giorni, pulizia per la quale verranno anche retribuiti”. Ai detenuti che hanno partecipato al corso è stato consegnato stamani un encomio. Venturini ha inoltre ricordato che l’associazione San Martino e la Caritas collaborano già da almeno due anni con il carcere attraverso un centro di ascolto nel quale lavorano cinque volontari per “rispondere ai bisogni primari delle persone più povere e fornire i prodotti necessari”. “In questi anni - ha continuato - abbiamo fornito a oltre 900 detenuti 553 bagnoschiuma, 383 magliette, 250 paia di scarpe, 275 slip, investendo circa 10 mila euro”. Modena: allestita una mostra interattiva, per sperimentare la vita in carcere di Laura Solieri www.volontariamo.com, 30 novembre 2012 Farsi fotografare, lasciare le impronte digitali, depositare le borse all’ingresso per sperimentare concretamente l’esperienza detentiva: questo ed altro sarà possibile dal 7 al 9 dicembre a Modena partecipando alla mostra interattiva sul carcere “Extrema Ratio” ospitata in città da Porta Aperta. Il Centro di accoglienza Porta Aperta, in collaborazione con la Caritas modenese, il Csi Modena e il Csi Volontariato, dal 7 al 9 dicembre 2012 ospita a Modena nella chiesa di San Giovanni Battista (via Emilia Centro vicino a Piazza Matteotti) la mostra interattiva “Extrema Ratio”, ideata dalla Caritas Ambrosiana e dedicata al tema del carcere. La mostra, a ingresso libero, osserverà il seguente orario di apertura: tutti i giorni dalle 10.00 alle 12.00 e dalle 16.00 alle 20.00. Si tratta di un allestimento composto da una ricostruzione di una cella penitenziaria e da un percorso che permette ai visitatori dello stand, invitati a seguire delle indicazioni (farsi fotografare, lasciare le impronte digitali, depositare le borse), di fare l’esperienza di detenzione volontaria nella cella, sottoponendosi ad una ritualità, pur non strettamente fedele al reale, che comunichi una modalità di fruizione di ciò che li attenderebbe in quella eventualità. Il corridoio in cui i visitatori cammineranno in fila indiana sarà a tratti illuminato dall’esterno con luci abbaglianti, per irrobustire la percezione di isolamento. Al termine dei cinque minuti, alcuni operatori offriranno, a chi lo desidera, letture del breve percorso ed informazioni sulla situazione attuale delle prigioni italiane e dei loro auspici a riguardo. L’intenzione è quella di fornire un’occasione alle persone per fermarsi e riflettere su una condizione carceraria nazionale che presenta ormai tratti di preoccupante gravità per suggerire e approfondire insieme la possibilità di una diversa concezione della pena, denunciando quindi il sovraffollamento nelle carceri e individuando e sostenendo percorsi di umanizzazione e di sostegno ad attività di recupero che tengano al centro la dignità della persona. L’apertura della mostra è resa possibile grazie al prezioso contributo volontario delle tante persone che hanno offerto la loro disponibilità. Termoli (Cb): si è svolto il convegno “Carcere: rigore della pena, certezza del recupero” www.primonumero.it, 30 novembre 2012 Pochi minuti per raccontare uno squarcio di realtà sulle carceri italiane, attraverso i volti, gli sguardi le storie degli stessi detenuti: si è aperto in questo modo, con la proiezione del cortometraggio “On/Off”, realizzato da Valentina Fauzia e Simone D’Angelo nel corso del progetto voluto e finanziato dal Ctp nella casa circondariale di Larino, il convegno - dibattito organizzato dalla Fidapa giovedì 29 novembre. Nella sala del cinema “Oddo”, dopo i saluti di Titti Lezzoche, presidente della sezione di Termoli dell’Associazione, i relatori hanno guidato con i propri interventi le riflessioni del pubblico che, a conclusione del convegno, ha alimentato il dibattito sulla carcerazione e recupero degli ex detenuti. “Carcere: rigore della pena, certezza del recupero” il titolo dell’incontro. A relazionarsi sul tema, sono stati don Benito Giorgetta, parroco della chiesa di San Timoteo, la direttrice della Casa Circondariale di Larino, Rosa La Ginestra, e il comandante della Polizia Penitenziaria di Chieti, Valentino De Bartolomeo. “Il carcere non è quello della filmografia americana, non c’è tutta quella violenza. Nel cortometraggio proiettato si fornisce uno squarcio di vita di quella che è la realtà delle carceri italiano - ha spiegato nel suo intervento la direttrice del carcere di Larino Rosa La Ginestra - da noi arrivano ragazzi giovanissimi che spesso non sanno scrivere. Dunque, che possibilità si inserimento hanno nel mercato? Se non hanno una qualifica il mondo del lavoro non li prende, ma la malavita, al contrario, li prende lo stesso”. Da qui la necessità di creare delle alternative per far sì che queste persone, una volta fuori, abbiano delle possibilità di rifarsi una vita perché, “chi esce con la “qualifica” di detenuto - ha proseguito riagganciandosi al discorso di don Benito Giorgetta - che fa? Si può fare tanto per stimolare e far capire alle persone che hanno delle risorse diverse, spendibili nella società. La sicurezza è costruirsi la sicurezza, dando loro possibilità di costruirsi un’alternativa perché prima o poi escono. Incontrarsi come persone fa la differenza. Quello che posso dire è che noi non abbiamo la certezza del recupero, ma possiamo costruire delle ipotesi”. Il detenuto è quindi un individuo, ha una sua dignità, come ha evidenziato don Benito “siamo tutti unici e irripetibili e preziosi” anche se spesso si tende a cancellare l’identità della persona per far posto all’errore. “Sant’Agostino - ha proseguito - condanna però il peccato, ma ama il peccatore. Più che rigore della pena si dovrebbe parlare di certezza in favore del recupero”. Il convegno rientra nelle iniziative dedicate al tema nazionale “Partecipazione e dibattito”. Livorno: presentato oggi il progetto “Stile di vita in carcere”, promosso dall’Asl 6 Ansa, 30 novembre 2012 “Liberi di cambiare lo stile di vita”, così Domenico Tiso, responsabile della sanità carceraria dall’Asl 6 di Livorno ha riassunto il significato di un’iniziativa che è stata presentata stamani nel carcere di Livorno per migliorare lo stile di vita dei detenuti. È questo infatti lo scopo del nuovo progetto “Stile di vita in carcere” promosso dall’Asl 6 di Livorno. Il progetto è rivolto in primo luogo al miglioramento delle condizioni dei detenuti: “Adozione di stile di vita corretto, alimentazione e possibilità di movimento - ha spiegato il direttore sanitario dell’Asl 6, Luca Lavazza - possono prevenire molte malattie, e il mondo carcerario, dove sia detenuti che agenti sono vincolati in una struttura che non facilita questi stili di vita, non può non essere interessato da azioni di prevenzione di queste malattie. Verrà prodotta una shopper da distribuire ai detenuti, con un kit di spazzolini da denti e materiale informativo per iniziare a mantenere un corretto stile di vita”. Lo slogan “Liberi di cambiare” - sottolinea Daniela Becherini, responsabile del progetto - porta con sé il significato del passaggio delle vecchie abitudine alle nuove buone pratiche. Borse della spesa in tela, realizzate dai detenuti con collaborazione di Arci Solidarietà, con materiale informativo e la carta dei servizi, verranno consegnate ad ogni detenuto fin dal momento dell’ingresso in carcere. Un ringraziamento particolare devo farlo alla Farmacia Farneti che ha regalato ai detenuti i kit per la prevenzione dentaria”. Anche il Garante dei detenuti di Livorno, Marco Solimano, ha apprezzato l’iniziativa. “Sono contento che ci sia attenzione per la salute - ha spiegato Solimano - in un ambiente come quello del carcere che considero patogeno. Così come apprezzo l’inserimento lavorativo dei detenuti. Con 11 di loro realizzeremo un docu film per raccontare la vita all’interno del carcere”. Padova: i panettoni dei detenuti richiesti dal Vaticano, dal Cremlino e dalla Casa Bianca di Riccardo Colao news.supermoney.eu, 30 novembre 2012 Incredibile export di una cooperativa veneta dove quaranta carcerati contribuiscono alla produzione di un prodotto che riceve ordini anche dal Vaticano. Dal panettone realizzato artigianalmente in casa si è passati direttamente a quello prodotto in carcere. L’idea, tutta made in Italy, è venuta in testa ai dirigenti di una cooperativa padovana denominata “I dolci di Giotto” nella quale trovano lavoro ben quaranta detenuti della casa circondariale Due Palazzi del capoluogo di provincia veneto. La lista delle prenotazioni è incredibilmente lunga e corposa: solo il Vaticano ha ordinato ben trecento esemplari di questo panettone che tra le altre cose pare sia realizzato con prodotti genuini ed abbia un sapore veramente squisito. Tra gi altri clienti si segnalano ordinativi provenienti dal Cremlino (Russia) e dalla Casa Bianca (Usa), oltre che da istituzioni e privati cittadini. L’attività di questa cooperativa che non è nuova ad iniziative del genere associa la vendita del prodotto con la rimessa di due dei venticinque euro di costo a favore dell’Associazione Cene di Santa Lucia che sta portando avanti un progetto di adozione a distanza di venti bambini residenti n Africa. La specialità, anzi la novità del Natale 2012 è il panettone Kabir, realizzato con uvetta passa e il superlativo Vino Moscato di Pantelleria Dop. Chi volesse emulare la generosità dei già tanti acquisitori che hanno prenotato e ritrovarsi un dolce che sicuramente non mancherà sulle mense dei potenti del mondo potrà farlo ancora prima che le scorte in preparazione vadano esaurite magari interpellando I dolci di Giotto sul proprio sito internet, Sarà un modo per essere solidali oltre che con l’adozione a distanza dei bimbi africani, anche col difficile mondo carcerario e col recupero sociale di chi ha sbagliato e si sta redimendo col sudore del proprio onesto lavoro. Pescara: servizio Cgil-Inca per l’assistenza previdenziale ai detenuti che lavorano Il Centro, 30 novembre 2012 Cgil-Inca e Casa Circondariale di Pescara insieme per l’assistenza previdenziale ai detenuti che lavorano. Il protocollo d’intesa tra il carcere pescarese e il patronato è stato sottoscritto ieri mattina, ma già da alcuni mesi la Cgil svolge volontariamente il servizio per i detenuti, dando loro la possibilità di non vedere compressi i propri diritti previdenziali e sociali. I detenuti del carcere di Pescara sono circa 230. Di questi, circa il 40 per cento lavora all’interno della stessa casa circondariale, come ha spiegato il direttore Franco Pettinelli. La casa circondariale di Pescara ha una capienza regolamentare di 180 unità, con l’apertura del padiglione penale la capienza andrà oltre i 490 detenuti. Alcuni, magari in virtù di una qualifica posseduta, lavorano continuativamente. Altri svolgono lavori a rotazione. La convenzione firmata prevede che, gratuitamente, Cgil Inca presti la propria consulenza e si impegni al disbrigo pratiche relative a contributi, pensioni, invalidità civile, assegni familiari, infortuni e altri casi generalmente curati dal patronato. Soddisfazione è stata espressa da Nicola Primavera, direttore del patronato Cgil Inca, e dal direttore del carcere: “Si tratta di un servizio importante”, ha commentato Pettinelli, “il carcere limita la libertà personale di chi si trova recluso, una parte dei loro diritti è compressa. Inoltre, spesso il detenuto è un soggetto indigente, senza reddito, il servizio fino ad ora volontario oggi diventa concreto. Il detenuto avverte solidarietà dall’esterno, è una funzione sociale importante”. Inoltre, ha proseguito, va perseguito l’obiettivo di inclusione sociale, ed è in questa direzione che si sta lavorando. La casa circondariale è protagonista di più progetti relativi all’inclusione sociale, collabora con Enti pubblici e organismi di formazione. Per il servizio offerto dalla Cgil, i colloqui potranno essere richiesti dai detenuti attraverso un apposito modulo, e si svolgeranno in uno o più giorni mensili. A curare la consulenza sarà Angela Valente, funzionaria Inca di Pescara. Alla firma del protocollo d’intesa ieri erano presenti anche il segretario provinciale Cgil Paolo Castellucci, e il segretario generale Fp Cgil di Pescara Massimo Petrini. “Sono contento”, ha detto Castellucci, “perché quando i media parlano di carcere spesso lo fanno in maniera negativa, mi riferisco ad esempio alla questione del sovraffollamento. Il detenuto non deve perdere la propria condizione di persona, e questa iniziativa mi sembra vada proprio in quella direzione”. Larino (Cb): il cinema in carcere, applausi per i detenuti attori di Sabrina Varriano www.primapaginamolise.com, 30 novembre 2012 “Modello cinema”. Modello anteprima assoluta. In ogni dettaglio. La sala, la proiezione, il pubblico scelto, gli attori seduti e confusi tra il pubblico. Il regista e lo staff. La stampa. Il carcere di Larino per una giornata è una vera e autentica sala cinematografica. Con l’emozione di tutti, con le lacrime della direttrice del penitenziario, Rosa La Ginestra. Girato negli scorsi mesi di giugno e luglio, il cortometraggio “L’ultima sera d’estate” è ora un piccolo film che vede la luce. Bello, bellissimo, toccante. Ruvido e duro. Senza filtri, senza pose, senza dizione. Ma con impegno da professionisti dietro. Una storia che entra dentro, dritta al cuore, per dire quello che forse non si vuole più sentire: che anche dietro la delinquenza spesso ci sono sentimenti profondi. C’è l’unanimità disperata che sbaglia, deraglia, cade e colpisce, ma resta umanità piena anche nella sua disperata solitudine. Sullo schermo così scorrono 22 minuti di immagini, dialoghi, scene, che per protagonisti hanno 16 uomini oggi ancora rinchiusi a Larino a scontare tutti una pena propria per reati che non si cancellano, ma che forse si possono gettare alle spalle per un’esistenza migliore. E allora può servire anche fare un film, impegnarsi su un set, come si sono impegnati questi giovani - padri, fratelli e figli - che hanno partecipato al laboratorio voluto e tenuto da Simone Vaio, Riccardo Ricciardi e Terry Gisi. Gli applausi per il loro piccolo e importante film, mentre la pellicola va, sono uno scroscio continuo. Del resto, il pubblico selezionato è un pubblico speciale: niente etichette, nessun privilegio a figure sempre privilegiate. Le prime file sono per le moglie, le madri, i fratelli, i papà di questi attori esordienti al loro debutto sul grande schermo. Giovani donne che si presentano a Larino dalla Campania o dalla Puglia con la loro gioia più grande stretta per mano: i bambini. I figli dei detenuti. Sono elettrici, questi bimbi, all’idea di assistere alla proiezione del cortometraggio. Entrano in sala e saltano subito in braccio a quei papà ogni giorno lontani, ogni giorno solo un pensiero da amare. E perciò quegli applausi, gli applausi di quelle piccole mani, danno calore e fanno commuovere. A ogni volto che compare nel film c’è chi sorride e ride: eccolo, è papà. Quel papà, che loro sanno in carcere, e che invece oggi è anche sullo schermo della sala buia. Papà detenuti che si sentono oggi “disarmati da quell’ambiente che sa di modello cinema”. Si ride per la spontaneità dello stupore che dà “la fama” improvvisa. L’iniziativa interamente finanziata dall’Associazione Ultrà Antirazzista di Campobasso, prodotta dalla Bag produzioni, ha centrato lo scopo: provare a rendere il carcere un luogo di recupero, di nuova socialità, non solo un posto punitivo. Per questo, l’appello di tutti a non fermarsi qui. “Al quarto d’ora di celebrità”. Il cui significato immenso lo leggi negli occhi di chi ha creduto a quel progetto, senza sapere cosa potesse diventare quel progetto: Catello, il protagonista, eppoi Ciro, Alessandro, Fabio, Luciano, Giovanni, Vincenzo, Andrea, Michele, Alexander, Paolo, Raffaele, Luigi, Michele e ancora Giovanni, un altro. Loro hanno creduto agli artisti che hanno colorato e riempito giornate diverse sotto il sole cocentissimo dell’estate passata. Il loro grazie va ad Eva Sabelli, scenografa, a Nicoletta Maroncelli, factotum di produzione di una generosità esemplare. A Giulio Maroncelli, attore che presta il volto per una comparsata. A Diego Florio, icona oggi del teatro molisano. Antonio D’Aquila che firma il montaggio, per finire ad Angelo Caliendo direttore della fotografia. E al loro regista, Riccardo Ricciardi, che con Simone Vaio ha portato il cinema nel cuore del carcere di Larino. Per un’avventura destinata, chissà, a qualcosa di ancora più grande. “L’ultima sera d’estate” sarà presentato ai festival del cinema d’autore: la scommessa c’è già. Perché un lavoro così non può rimanere un semplice “quarto d’ora di celebrità”. Davvero no. Roma: a Rebibbia il 14 dicembre concerto live aperto anche al pubblico Adnkronos, 30 novembre 2012 Il carcere più grande d’Europa apre i cancelli al pubblico, alla cultura e alla musica live. Per la prima volta, venerdì 14 dicembre alle 16, la Casa Circondariale di Rebibbia abbatte le barriere e consente alla musica e alla cultura di arrivare ai detenuti con un evento musicale gratuito aperto anche al pubblico. L’evento è organizzato dal Traffic Live, locale famoso per i suoi eventi e concerti dal vivo che, situato nel cuore di Tor Tre Teste, prova a coinvolgere e creare aggregazioni culturali per i cittadini del VII Municipio. Un’iniziativa, quindi, senza alcun patrocinio o finanziamento ma nato dalla libera volontà di artisti e organizzatori. Un evento al quale faranno seguito altri concerti. E come primo appuntamento, assolutamente in linea con le intenzioni e con il senso dell’iniziativa, si esibirà ‘Il muro del cantò, gruppo folk rock cantato in romanesco che, attraverso la rivisitazione dell’immaginario pasoliniano, descrive una Roma in bianco e nero, romantica e decadente. Lo spettacolo sarà gratuito e aperto al pubblico nella disponibilità di 100 posti che dovranno essere prenotati entro domani mandando una mail a info@trafficlive.org, fornendo i dati anagrafici e gli estremi del documento di identità e indicando nell’oggetto della mail: “muro del canto@rebibbia”. Il gruppo di musicisti romani che ha dato vita a questo incredibile progetto è composto da: voce e testi Daniele Coccia, alle percussioni e alla voce narrante Alessandro Pieravanti. Alla chitarra elettrica Giancarlo Barbati. Ludovico Lamarra e Eric Caldironi, rispettivamente basso e chitarra acustica. A trascinare il tutto con struggente melodia è la fisarmonica di Alessandro Marinelli. Il Muro del Canto è una voce senza tempo, una voce di popolo, è l’inno alla terra, è il disincanto e la serenata . È un canto accorato di lavoro, è la ninna nanna antica. Matera: protesta dei Sindacati di Polizia penitenziaria, delegazione incontra il Prefetto Ansa, 30 novembre 2012 Modifica della pianta organica, rispetto delle ore previste dal contratto di lavoro, condizioni di lavoro dignitose e ripresa del confronto con la Direzione dell’Amministrazione penitenziaria sulle diverse problematiche segnalate in passato sono le richieste ribadite oggi, a Matera, durante la protesta degli agenti della casa circondariale, rappresentati da Ugl-Polizia penitenziaria, Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria (Osapp), Funzione Pubblica-Cgil, Fns-Cisl e Sinappe. Una delegazione di agenti ha incontrato funzionari della prefettura per esporre la situazione di disagio della categoria e per sollecitare gli interventi del caso. Tra le questioni segnalate vi sono la contrarietà a effettuare otto ore lavorative rispetto alle sei contrattuali, le carenze di organico, con il pensionamento di sei agenti entro l’anno sugli attuali 107, e con la progressiva scomparsa dei sottufficiali tanto da non consentire i servizi per il nuovo reparto: “Tutto questo - hanno detto i sindacalisti - si ripercuote negativamente sulla sicurezza e sulla copertura del servizio. Chiediamo che il provveditore regionale riprenda il confronto e affronti in concreto le effettive esigenze della casa circondariale di Matera”. Milano: l’ex cappellano di San Vittore confessa gli abusi commessi sui detenuti Il Giorno, 30 novembre 2012 Si fa sempre più difficile la posizione di Don Alberto Barin, il cappellano del carcere di San Vittore rinchiuso a Bollate già da qualche giorno, che ha confessato gli abusi commessi nei confronti di alcuni detenuti, ma nel frattempo sono aumentate anche le denunce nei suoi confronti. Cresce sempre di più lo sconcerto nei confronti di Don Alberto Barin, il sacerdote che per diversi anni è stato il cappellano nel carcere di San Vittore dove però non svolgeva solo il compito di confidente e di persona in grado di aiutare i detenuti nel loro percorso di recupero psicologico, ma ormai sempre più spesso negli ultimi anni arrivava a commettere abusi nei confronti di alcuni di loro. La posizione del sacerdote era comunque già di per sé difficile visto che dopo i primi allarmi lanciati da alcuni detenuti le forze dell’ordine avevano deciso di posizionare all’interno del suo ufficio alcune telecamere e questo è bastato a confermare una situazione davvero sconcertante che andava avanti ormai da quattro anni in cui il prete cercava di approfittare della sua posizione per mettere in atto le molestie promettendo in cambio beni materiali come dentifrici e sigarette o addirittura sostenendo che avrebbe messo una buona parola per rendere meno pesante la detenzione. Per la prima volta, però, nel corso dell’interrogatorio è arrivata anche l’ammissione del religioso, anche se ora da verificare saranno anche altre denunce che nel frattempo sono arrivate, tutte da parte di ragazzi giovanissimi che sembra abbiano trovato il coraggio di manifestare apertamente quanto stavano subendo dopo che lo scandalo è venuto alla luce. Secondo quanto emerso sembra che anche nel periodo successivo alla detenzione Don Barin avesse invitato alcuni dei ragazzi ad andare in montagna con lui o a raggiungerlo a casa sua e gli avrebbe poi spedito alcune cartoline da Lourdes in segno di ringraziamento. Sembra però a questo punto davvero difficile per Don Alberto, ora che è arrivata anche la confessione, riuscire a sfuggire da una condanna grave, proprio perché il quadro delineato dal gip dopo l’interrogatorio sembra essere ancora più drastico: “L’indagato, nell’arco dei pochi mesi in cui è stato sottoposto ad indagine, ha collezionato una serie impressionante di approcci a sfondo sessuale ed è apparso, francamente, in preda ad un totale sbandamento morale e umano, incapace di reagire ai suoi istinti, dimentico dei doveri della sua vocazione e letteralmente in preda ad una totale incapacità di contenersi ben sapendo, oltretutto, che sarebbe incappato prima o poi in una denuncia, visto che le persone con cui entrava in contatto erano sostanzialmente degli estranei, conosciuti da pochissimo tempo”. Imperia: donna arrestata mentre stava cercando di portare dell’hashish al figlio in carcere di Giorgio Bracco Secolo XIX, 30 novembre 2012 Stava cercando di portare dell’hashish al giovane figlio, rinchiuso in carcere proprio per reati legati alla droga. Ma le è andata male. Dopo essere passata indenne al primo, sommario controllo subito dopo l’ingresso della casa circondariale , la donna, una savonese di 51 anni, Giovanna Ziranu, è stata avvicinata da un cane dell’unità cinofila della polizia penitenziaria che l’ha di fatto smascherata. Dalla perquisizione degli agenti, in effetti, sono saltati fuori 13 grammi di hashish, accuratamente nascosti sotto un’ascella. Erano destinati al giovane figlio di 22 anni, detenuto a Imperia da poco tempo per una storia di droga. Sono stati gli agenti del nucleo mobile di Asti a far scattare le manette ai polsi della mamma. La donna è stata subito trasferita nel carcere di Pontedecimo, in attesa dell’udienza di convalida prevista per stamane. Toccherà al pm della procura imperiese, Lorenzo Fornace, ascoltare il racconto della mamma. Secondo quanto è stato possibile sapere sulla vicenda, su cui gli inquirenti hanno mantenuto uno stretto riserbo, gli agenti già nutrivano più di un sospetto. Pare addirittura che nelle urine del giovane, ultimamente sottoposto a specifiche analisi cliniche, fossero state ritrovate tracce di hashish. Qualcuno, evidentemente, aveva già rifornito di droga il detenuto. Per vederci più chiaro, i vertici della casa circondariale hanno così chiesto aiuto agli agenti di Asti e ai cani antidroga dell’unità cinofila piemontese. Il fiuto di questi ultimi è stato decisivo e ha fatto emergere la triste e drammatica vicenda di una madre che non ha saputo, forse, resistere alle richieste del figlio, finendo lei stessa nei guai. La storia di Imperia, per quanto inquietante, non è certo unica nel suo genere. Anche se, va detto, mai era capitato, almeno nel passato più recente, che un genitore venisse arrestato per aver portato della droga al figlio in carcere. “Ci sono stati casi di fidanzate, mogli o anche amici - conferma il direttore delle carceri di Imperia e Sanremo, Francesco Frontirré - ma mai di mamme con il proprio figlio. Resta il fatto che i nostri controlli sono costanti e sistematici e qualche volta, anche se su questo tipo di vicende si preferisce mantenere un certo riserbo, qualcuno viene effettivamente sorpreso con della droga addosso. Il supporto dei cani, in quest’occasione ma anche in altre, resta comunque molto importante se non determinante. La mamma, infatti, ha cominciato ad agitarsi proprio quando l’animale le si è avvicinato per fiutarla. Da lì i nostri sospetti, dopo i necessari controlli, sono diventati realtà”. “L’attenzione, lo scrupolo e la professionalità dei poliziotti di Imperia, in collaborazione con il nucleo cinofili della Polizia Penitenziaria - ha dichiarato il segretario generale del Sappe, Roberto Martinelli, commentando la vicenda - sono da elogiare e premiare, tanto più se si considerano le endemiche carenze di organico della struttura di via Agnesi. Ma è evidente che si deve incrementare l’utilizzo del ricorso alle misure alternative alla carcerazione delle persone tossicodipendenti. Svizzera: solo il 7,6% delle persone condannate per crimini violenti è stato incarcerato Reuters, 30 novembre 2012 In Svizzera, nel 2010, solo il 7,6% delle persone condannate per crimini violenti è stato incarcerato, stando all’ufficio federale di statistica. Cifra diminuita di tre volte dopo l’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, nel 2007. Che mirava a sospendere tutte le pene detentive inferiori a due anni per decongestionare le carceri. Il dato, se comparato alla media europea (37%), evidenzia come nessun altro paese del Vecchio continente mandi in prigione così pochi criminali violenti. A riprova di come gli elvetici credano che le sentenze di prigione non servano a granché: il tempo trascorso in cella non riduce il rischio di recidiva. Non più di altre pene meno drastiche, come quelle pecuniarie, la concessione di libertà condizionata o il ricorso ai braccialetti elettronici. Iraq: Commissione Diritti Umani “torture e stupri sulle detenute”, è rissa in Parlamento Ansa, 30 novembre 2012 Una nuova contesa contribuisce negli ultimi giorni alle tensioni politiche in Iraq: le denunce di episodi di tortura e anche di stupri di detenute, che ha portato ad un teso confronto tra governo e opposizione, fino ad una rissa avvenuta in Parlamento. Un deputato dello schieramento di opposizione Al Iraqiya, Haider al Mulla, ha affermato di essere stato colpito con un pugno da un sostenitore del primo ministro sciita Nuri al Maliki durante un acceso dibattito tenuto ieri in aula sull’argomento. Alcuni membri della coalizione di governo, ha aggiunto al Mulla, hanno interrotto i lavori e hanno accusato i parlamentari dell’opposizione di essere dei “terroristi”. La disputa è nata domenica scorsa, quando la commissione Diritti umani del Parlamento ha presentato un rapporto con accuse di torture e stupri subiti da donne rinchiuse in centri di detenzione gestiti dai ministeri dell’Interno e della Difesa e ha invitato le donne che hanno subito violenza a presentare denuncia. Il portavoce della coalizione di governo, Sherwan al Wailli, ha risposto affermando che, se casi del genere si sono verificati, si è trattato di “episodi individuali” i cui responsabili vanno puniti. Ma ha accusato l’opposizione di usare la vicenda per “distorcere l’immagine del nuovo Iraq e dei suoi servizi di sicurezza”. Nella città settentrionale di Mosul, tuttavia, una cinquantina di capi tribali e attivisti locali si sono radunati davanti al palazzo del governatorato della provincia di Ninive per denunciare le torture e chiedere il rilascio di tutte le detenute. I manifestanti sono stati ricevuti dal governatore, Athil al Nujaify. Egitto: morto Gamal Abdel Aziz, segretario di Mubarak, era detenuto nel carcere di Tora Aki, 30 novembre 2012 Gamal Abdel Aziz, segretario dell’ex presidente egiziano Hosni Mubarak, è morto all’ospedale militare Maadi del Cairo. Lo riferisce l’agenzia Mena, precisando che Abdel Aziz è deceduto in seguito all’operazione di un tumore che avrebbe determinato un netto peggioramento dell’attività di circolatoria. Le autorità del carcere di Tora, dove Abdel Aziz era rinchiuso, avevano fatto trasferire l’ex segretario in ospedale il 13 novembre, a causa del netto declino delle sue condizioni psico-fisiche. Abdel Aziz era in prigione per i reati di appropriazione indebita, corruzione e abuso di potere. Gli inquirenti avevano scoperto che la ricchezza di Abdel Aziz e di sua moglie era aumentata in modo incoerente ed eccessivo rispetto all’ammontare dei loro introiti legali. Alcuni commentatori hanno sostenuto che Abdel Aziz esercitava su Mubarak un’influenza maggiore rispetto al capo dell’Intelligence Omar Suleiman.